“ti mando in coma”

 

Capo rom contro C. Stasolla’, presidente della 21 Luglio: “Se parli ancora della Barbuta ti mando in coma”

Minacce dal boss del ‘villaggio’ durante la presentazione del dossier Campo Nomadi Spa, nell’aula consiliare del VII Municipio
Carlo Stasolla: “A preoccuparmi è più il silenzio delle istituzioni”


“Non parli più del campo, se continua lo mando in coma”

così il rom del campo ‘la Barbuta’ si è rivolto pubblicamente, durante la presentazione del dossier ‘campo nomadi spa’, al presidente Carlo Stasolla dell’ ‘Associazione 21 luglio’ la onlus che si batte per la chiusura dei campi nomadi, e in questa  presentazione lo fa mostrando, cifre alle mano, quanto il Comune spende per un campo, e quali sono i risultati in termini di inclusione sociale dei rom 
di seguito la ricostruzione della presentazione del dossier e della minaccia di Sartana Halilovic così come resocontato dalla stampa e un breve scambio di idee che Marcello Palagi e Agostino R. Martir hanno avuto tra di loro e che non può non condividere chiunque  non si limiti ad osservare la realtà dei campi nomadi dal di fuori, per così dire, facendo progetti sulle teste dei rom, ma,  conoscendo la realtà dall’interno, costata da sempre che certi cosiddetti ‘beni rari’ suscitino l’interesse e l’appetito non solo di qualche ‘capo’ o ‘rappresentante’ autopromosso del popolo rom ,ma anche di organizzazioni che finiscono per sostituirsi, con altri metodi – ovviamente – a quelli, ma non proprio e sempre per il vero interesse dei rom nel rispetto delle loro modalità di organizzare la vita familiare e comunitaria e dei bisogni di ciascuno:
Parola del ‘boss’ de La Barbuta, Sartana Halilovic. Minacce alla luce del sole che irrompono tra un intervento e l’altro, gelando la platea che, giorni fa, ha riempito la sala consiliare del VII Municipio, per la presentazione del dossier Campo Nomadi Spa
IL “SISTEMA CAMPI” 
Le intimidazioni di Sartana, che nel ‘villaggio attrezzato’ di Ciampino sembra dettare legge, sono rivolte a Carlo Stasolla, rappresentante dell’associazione 21 Luglio. Da sempre schierata nella difesa dei diritti rom, la onlus si batte per la chiusura dei campi nomadi, e stavolta lo fa mostrando, cifre alle mano, quanto il Comune spende per un campo, e quali sono i risultati in termini di inclusione sociale dei rom. 
Per la gestione dei ‘villaggi attrezzati’, il Campidoglio avrebbe speso nel solo anno 2013 ben 24 milioni di euro. Troppe risorse, ma soprattutto gestite male, secondo l’associazione, perché destinate in minimissima parte, l’1%, a politiche di inserimento della comunità. Insomma, dalle cifre sciorinate durante la presentazione, emergono costi stellari per mantenere in vita la “spa”,  e progetti di inserimento abitativo, già sperimentati con successo in altre città, che invece se abbracciati consentirebbero di abbattere le spese con maggiori tutele e diritti per i destinatari. 
Ma non sono tanto i dati generici a innervosire il boss Sartana, che comunque si schiera in difesa dei campi. Il balzo dalla sedia e l’intervento choc arrivano con l’accenno a un altro studio che riguarda nello specifico La Barbuta e che verrà illustrato nel dettaglio dall’associazione in autunno.
UN NUOVO CAMPO A LA BARBUTA
“C’è in piedi un progetto tra il Comune, l’associazione Capodarco e la Leroy Merlin che prevede la costruzione di un nuovo campo in un’area vicina a quella attuale – spiega Stasolla – dove sorgerà invece un capannone industriale dell’azienda. Stiamo ancora studiando il progetto, ma il silenzio sulla questione è preoccupante”. Silenzio che è rimbombato anche in aula, e che allarma più delle minacce il presidente dell’associazione. 
“LA RESISTENZA DEI POTERI FORTI” 
 “Nessun rappresentante delle istituzioni presente ha aperto bocca, neanche una parola di solidarietà”. Ma non è un fulmine a ciel sereno. “Che ci siano molte resistenze da parte di forze politiche, sedicenti rappresentanti dei rom e associazioni lo sappiamo. Sono poteri forti, che hanno tutto l’interesse economico a far sì che la situazione resti com’è”.  

 

Il boss che ha minacciato di “mandarlo in coma”, ne sarebbe un esponente. “Siamo certi che non parli a nome della comunità rom, si definisce un ‘rappresentante’, ma in un sistema democratico qualunque, per parlare di rappresentanza, serve una votazione, una legittimazione da parte della comunità, che di fatto non c’è”. 

 

 

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Il 24/lug/2014 12:25 “Ecoapuano” <eco.apuano@virgilio.it> ha scritto:

 

Marcello

 

 

 

Succede, quando si decide per i rom, sulla loro testa. Allora,se serve, si  “scopre” e sputtana anche che esistono i boss del campo e si addossa loro la colpa del fallimento dei nostri progetti. I rom sono sempre buoni se si adeguano a noi, ritornano ad essere brutti, sporchi e  cattivi se invece vogliono fare di testa loro. Questo è il volontariato che si inventa il mestiere del protettore. E che si inventa anche una nuova democrazia, assumendosi la rappresentanza dei rom con le istituzioni e altre associazioni di gagé “per i rom” . Nessuno di loro è stato eletto dai rom a loro rappresentante, ma accusano e sputtanano i rom di avere dei boss non eletti: Ma loro , questi volontari, cos’altro sono se non nuovi, veri boss che sanno quale deve essere il bene dei rom e aspirano al potere di decidere per loro? Tanto più potenti, quanto più legati e dialoganti con le istituzioni. Devono invece essere i rom a organizzarsi, quando lo vorranno e ci riusciranno, e a decidere di se stessi, se stare nei campi o se andare nelle case popolari o altro ancora. Il fatto che Stasolla riduca il problema a una questione di soldi – Il comune, risparmierebbe se mettesse i rom nelle case popolari – chiarisce da che parte stia. Sono i soldi che decidono, non i diritti, la propria cultura, il proprio gruppo, l’identità a cui ciascuno tiene. Il cosidetto boss, vuole solo difendere il suo sacrosanto diritto di stare in un campo e di non farsi omologare da volontari e antropologi che hanno deciso che i rom non sono “nomadi” e che il comune deve risparmiare, perchè loro vogliono mettere i rom nelle case popolari… Sempre peggio.

Il giorno 24/lug/2014, alle ore 10.47, Agostino Rota Martir ha scritto:

http://m.romatoday.it/politica/minacce-carlo-stasolla-21-luglio-rom.html

p. agostino

Caro Marcello e’ proprio quello che penso anch’io. Volevo commentare anch’io, ma da una settimana faccio il “carrozziere”, sto lavorando sul camper in vista della revisione (tra  5 giorni), e con tutti qs temporali mi ritardano tanto.
Quando qs mattina ho trovato qs notizia, pubblicata solo su Roma..e qs. gia la dice lunga: 21 luglio divulga sul territorio nazionale solo i suoi “successi”.. dando per scontato di essere portavoce e depositario unico dei Rom. 

I  cosidetti “Boss” dentro i campi, che sempre ci sono stati e con i quali le amministrazioni hanno  dialogato in svariate occasioni, allora li chiamavano “portavoce” del campo. Li usavano anche per far fare a loro i lavori “sporchi” (controllo, allontanamento, spie..), poi quando non servivano piu’, perche’ subentravano associazioni gage’ ben piu’ affidabili, ecco che i portavoce rom diventano boss, pericolosi e un inciampo.

Che nei campi ci siano dei cosidetti ” boss” e’ vero, ma con caratteristiche e stili completamente diversi dal nostro immaginario usuale.

Ciao ago

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razzismo a Mantova, ma solo a Mantova!

Forni crematori e saponi: il razzismo 2.0 verso i sinti di Mantova

mercoledì, 9 luglio 2014

I sinti che vivevano in un campo alla periferia di Mantova dovranno andare via entro il 20 agosto. La giunta di centrodestra guidata dal sindaco di Forza Italia Nicola Sodano ha deciso ormai da tempo di espropriare questi terreni, ma l’esecuzione di questa misura ha incontrato molte proteste da parte della comunità sinta. Nella giornata di lunedì i sinti mantovani hanno messo in atto una protesta che si è conclusa con un incontro con il primo cittadino. La notizia è stata riportata sul profilo Facebook del più importante quotidiano locale, “Gazzetta di Mantova”, e, come si vede da questo foto ripresa dal sito del Fatto Quotidiano, sulla bacheca del giornale sono arrivati numerosi commenti razzisti.

Alcuni, firmati, erano particolarmente pesanti, con tanto di invito alla riapertura dei forni crematori e al trasformare i sinti in sapone. La foto è stata diffusa dall’associazione Sucar Drom, che si è chiesta perché le autorità non intervengano di fronte a così evidenti casi di razzismo.

 

Carlo Berini, segretario di “Sucar Drom”, l’istituto di cultura Sinta di Mantova, ha rimarcato al “Fatto” come gran parte di questi commenti razzisti e xenofobi, a dir poco ora sono spariti, ma io li ho salvati e pubblicati sulla nostra pagina Facebook. Chiedo l’immediato intervento della Digos e della Procura della Repubblica, poiché chi ha scritto quelle frasi si è firmato e non deve passarla liscia. Non si può permettere che chi alimenta istigazione all’odio razziale rimanga impunito”. La tensione sul tema è piuttosto elevata, tanto che un consigliere della Lega Nord, il partito che più si è speso contro la presenza dei rom a Mantova, è stato accompagnato dalla Digos al consiglio comunale poi caratterizzato dalla protesta dei sinti locali. Il sindaco Sodano ha promesso un intervento, anche se ha rimarcato come l’esproprio dei terreni lottizzate abusivamente non possa essere ritirato.

ancora sulle donne che amano preti

donna

LE CONSEGUENZE DELL’AMORE

PARLA UNA DELLE DONNE CHE HA SCRITTO AL PAPA
dal prezioso sito ‘finesettimana’ ricavo queste riflessioni come importante contributo alla riflessione sulle problematiche legate al celibato del clero in conseguenza anche della lettera di 26 donne che hanno scritto al papa perché in rapporto affettivo e di amore con altrettanti sacerdoti:

prete

 

 

 

 

 È successo ogni volta che il tema si è presentato alla ribalta dell’opinione pubblica che giornali e televisioni gli dessero grande rilevanza. Stavolta però, vuoi per il pontificato considerato di “rottura”, vuoi per un’opinione pubblica attenta ad ogni segnale di novità o di “svolta”, vuoi per un episcopato, quello italiano, in fase di transizione (e che quindi rende i media maggiormente “intraprendenti” su temi tradizionalmente considerati “scomodi”), anche nel nostro Paese la lettera di 26 donne che amano preti ha prodotto enorme clamore e dibattito.

Nel testo, rivelato da Vatican insider, ma pubblicato integralmente sulla homepage del nostro sito internet (www.adista.it), le firmatarie, che hanno voluto restare anonime (anche se nella raccomandata inviata in Vaticano hanno lasciato le loro generalità e recapiti telefonici), hanno detto a Francesco di essere «un piccolo campione» che parla a nome di tante che «vivono nel silenzio» e che chiede la revisione del celibato ecclesiastico.

«Vogliamo, con umiltà, porre ai tuoi piedi la nostra sofferenza affinché qualcosa possa cambiare non solo per noi, ma per il bene di tutta la Chiesa», scrivono. «Noi amiamo questi uomini, loro amano noi, e il più delle volte non si riesce pur con tutta la volontà possibile, a recidere un legame così solido e bello, che porta con sé purtroppo tutto il dolore del “non pienamente vissuto”. Una continua altalena di “tira e molla” che dilaniano l’anima».

«E allora ci chiediamo e ti chiediamo se è davvero giusto sacrificare l’Amore in virtù di un bene più alto e grande che è quello del servizio totale a Gesù e alla comunità, che a nostro avviso sarebbe svolto con maggiore slancio da un sacerdote che non ha dovuto rinunciare alla sua vocazione all’amore coniugale, unitamente a quella sacerdotale, e che sarebbe anche supportato dalla moglie e dai figli. Probabilmente gioverebbe all’intera comunità, si respirerebbe aria di famiglia, di libertà e accoglienza». Per discutere di tutto questo, chiedono un’udienza privata al papa: «Per portare davanti a te umilmente le nostre storie e le nostre esperienze, sperando di poter attivamente aiutare la Chiesa, che tanto amiamo, verso una possibile strada da intraprendere con prudenza e giudizio».

La lettera delle 26 non è la prima inviata ad un pontefice da donne che amano preti. Nel 2010 un’analoga iniziativa all’indirizzo di Benedetto XVI fu presa da un gruppo di donne che partecipano ad un blog all’interno del sito della rivista Il dialogo (di Monteforte Irpino) dedicato proprio al celibato ecclesiastico ed alle donne che hanno o hanno avuto relazioni con sacerdoti.

Sulle questioni sollevate dall’iniziativa delle 26 donne Adista ha interpellato sia una delle firmatarie, di cui tuteliamo la volontà di restare anonima, sia Stefania Salomone, che da anni si occupa di animare il blog sul sito del dialogo.org e che è stata tra le promotrici della missiva del 2010. (valerio gigante)

«Maturi i tempi per la svolta»

Intervista a una delle firmatarie

Nella vostra lettera chiedete al papa di riconsiderare il tema del celibato ecclesiastico, ma ancora di più, chiedete a lui un aiuto affinché il tema delle relazioni sentimentali che coinvolgono donne e preti esca dal clima di rimozione e clandestinità in cui oggi la Chiesa istituzionale lo relega. Cosa vi fa pensare che i tempi siano maturi per una svolta in questo senso?

I tempi per affrontare il tema del celibato obbligatorio sono maturi ormai da tempo. Ogni periodo storico ha delle sue peculiarità. Guardiamo al passato. Chi avrebbe pensato, anni addietro, di sollevare questo dibattito? Eppure anche anni fa i sacerdoti avevano storie con alcune donne. Nell’attuale contesto storico si è più propensi a chiedere il confronto sulle tematiche che si ritengono importanti. Culturalmente si è più preparati ad affrontare un tema spinoso come quello sollevato da noi donne. Se non si prova a cambiare, il cambiamento non arriverà mai. Dobbiamo essere pronti a far sentire la nostra voce. Crediamo che questo papa, presentatosi come il papa dell’ascolto e della misericordia, più dei suoi predecessori non possa fingere che questo problema non esista e che in cuor suo sappia che un sacerdote può essere tale anche se sposato.

Quanto è diffuso, per la percezione ed il confronto che avete tra di voi, il fenomeno di relazioni stabili tra preti e donne?

Dal confronto avuto in questi anni con numerose donne, il fenomeno è molto diffuso: da brevi relazioni passando a relazioni che durano anni, con immenso dolore per donne e sacerdoti (nella più facile delle ipotesi). Queste esperienze si sommano ad altre vissute più da vicino. Personalmente ho visto, nell’arco di appena quattro anni, un sacerdote che ha chiesto e ottenuto la dispensa (e che in passato mi risulta avesse anche sentito un’altra donna); il travaglio del sacerdote che è stato il mio compagno; il tormento di un altro sacerdote per la vicinanza di una donna e per il chiacchierare della gente.

È proprio vero che ci si rende conto di qualcosa solo quando la si vive sulla propria pelle: mi fidai di quel sacerdote perché, un po’ come tutti, ho ingenuamente pensato che lui non potesse avere un interesse particolare verso di me. Era un pensiero che non mi aveva mai sfiorato. Invece quando sperimenti l’amore per un prete capisci che niente è impossibile, che tutto può capitare a tutti; quindi che non si deve mai giudicare o pensare “nella mia vita questo non accadrà mai”. Entrare in contatto con donne che hanno avuto la mia stessa esperienza mi ha aperto un mondo: siamo tantissime donne e tantissimi sacerdoti. Il fenomeno è più esteso di quanto si pensi. Tutte le barriere crollano, e scopri l’unica realtà: quella umana. Fatta di limiti e fragilità. Quando un sacerdote ama realmente una donna (e non è sempre così scontato) i due vivono i segni di in amore concreto. Vivono la relazione. La bellezza della relazione. Fatta di affettività e sessualità.

Finora, a vostro giudizio, cos’è che ha realmente impedito alla Chiesa istituzionale di affrontare, addirittura di parlare di questo argomento?

A nostro giudizio vi sono diversi aspetti che non consentono alla Chiesa di affrontare l’argomento. Di base, la paura generalizzata di un vero cambiamento che presume un’inversione di rotta, un rimettere tutto in discussione. Insomma, cambiamenti vasti e conseguenze complesse. Forse la posizione più comoda per la Chiesa è lasciare tutto com’è. Mi chiedo se, a lungo termine, sarà un bene fingere che il celibato obbligatorio (istituito per tutelare i beni della Chiesa) sia una legge divina! La Chiesa DEVE affrontare queste tematiche, rimettendo i figli di Dio al centro dell’attenzione. Come si può accettare la sofferenza dei figli di Dio? Mi auguro che papa Francesco ci dia una risposta. Mi auguro che altre donne e sacerdoti facciano sentire con coraggio la loro voce e la loro sofferenza.

«Ancora molta la strada da fare»

Intervista a Stefania Salomone

La lettera delle 26 ha suscitato enorme clamore, in Italia ed all’estero. Come giudichi i contenuti della missiva, e come mai a tuo giudizio i temi sottoposti da questo gruppo di donne al papa hanno prodotto un’eco così vasta?

Non poteva che essere così. La stessa cosa è accaduta quattro anni fa, quando, assieme ad altre nove donne, ho scritto la prima lettera aperta delle “donne dei preti” italiane al papa. L’interesse della stampa, specie quella estera, fu talmente grande da costringermi a spegnere il telefono perché non riuscivo a dare seguito a tutte le richieste. È un tema che suscita enorme curiosità nell’opinione pubblica. Si sa che i preti hanno storie sentimentali e/o sessuali, ma ci si limita a ridacchiarne o magari le si liquida con frettolose valutazioni moralistiche.

Difficilmente ci si interroga sul perché ad esempio una donna possa innamorarsi ed incominciare una storia già in partenza complicatissima, come quella con un prete o religioso. Semplice masochismo? Forse. Ma andrei un minimo più a fondo, considerando innanzitutto la valenza che “il senso del sacro” ha ancora oggi nella nostra cultura, specie nell’immaginario femminile.

Personalmente, apprezzo le intenzioni e considero in genere positivo ogni tentativo che viene fatto per rendere note problematiche scomode, a qualsiasi livello. Ho apprezzato meno, invece, sia il tono che le scarse argomentazioni contenute nella missiva. Mi è parso più una sorta di piagnisteo che una reale rivendicazione di un diritto, quale a mio avviso una comunicazione di questo tipo avrebbe potuto e dovuto rappresentare. Parlare unicamente del dolore, dell’emotività, di quanto noi donne saremmo brave ad “accompagnare” il prete nel suo ministero, francamente mi sembra limitativo e controproducente. Non parliamo poi del concetto di “porre le sofferenze ai piedi del papa”, che proprio mi fa orrore.

Il lavoro che da sette anni svolgo con le donne che mi contattano sul blog mira proprio ad aiutarle a liberarsi dalla cappa della religiosità, incominciando ad immaginare un prete meno sacro ed intoccabile, nonché un ruolo femminile meno legato al ricordo della perpetua, o a colei che deve avere pazienza ed aspettare che lui si renda disponibile ad un fugace incontro.
Le firmatarie della lettera hanno voluto mantenere il più stretto anonimato. Per quale ragione c’è ancora tanto timore ad uscire allo scoperto?

Le ragioni dell’anonimato sono diverse. Prima di tutto solitamente il prete non gradisce che lei si esponga, anche senza rivelare dettagli della storia. Il timore è principalmente quello del prete, e la donna in genere lo asseconda. In secondo luogo queste storie nascono come storie clandestine e il senso di segretezza è insito nel loro dna. Nei casi in cui una relazione diviene pubblica, le donne vengono spesso stigmatizzate dai parrocchiani, dagli amici, dai familiari, che sono generalmente molto “progressisti” solo se si parla di situazioni che riguardano persone sconosciute.

Infine, esiste a mio avviso l’assioma donna-tentazione che la dottrina cattolica ha instillato nelle menti dei credenti e non, e che stenta ad abbandonarci. Mi è capitato spesso di parlare con donne che hanno relazioni con i preti e sentirle affermare “le sue sacre mani mi hanno toccato”, oppure di confrontarmi con qualcuno che non fosse coinvolto nella problematica e che mi dicesse: “Sì d’accordo, ma lui è un prete, perché andate a dargli fastidio?”. Quindi può capitare anche che una donna provi vergogna per la sua condizione. Magari la prova senza ammetterlo.
Ritieni che sotto questo pontificato possa essere maturo il tempo per una riconsiderazione del celibato ecclesiastico e, ancor di più, della questione (che pare riguardi circa un terzo del clero) delle relazioni amorose che coinvolgono i preti?

Stando alla mia esperienza, una percentuale molto alta del clero ha intrattenuto o intrattiene relazioni amorose/sessuali con uomini o donne. O, per lo meno, ha attraversato il momento della crisi, dell’innamoramento che ha magari gestito, soffocato o sublimato, come comunemente si usa dire. Comunque ben più di un terzo. In ogni caso ritengo che sia ben difficile che un pontefice qualsiasi, anche l’attuale, possa riconsiderare la disciplina del celibato ecclesiastico tout-court. Se particolarmente illuminato – ma personalmente credo che possa accadere unicamente per problemi legati allo scarso numero dei chierici attualmente in esercizio – questo papa potrebbe valutare la possibilità di ordinare uomini sposati.

E non sarebbe la stessa cosa. Si arriverebbe ad una situazione simile a quella degli ortodossi che possono sposarsi prima dell’ordinazione, ma non successivamente, e i membri della gerarchia vengono scelti tra i celibi. Quindi ci sarebbero preti di serie a e di serie b. E guarda caso fanalino di coda sarebbero proprio gli sposati che “hanno ceduto alla tentazione e piuttosto che ardere …”. (v. g.)

elogio del sorriso sulle labbra del credente

il riso abbonda sulle labbra di chi crede

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un bell’articolo sull’importanza del ‘sorriso’ nella persona credente apparso sul quotidiano ‘l’Avvenire’ a firma del vescovo teologo B. Forte

peccato che sia macchiato del tipico peccato ‘cattolico’ quale quello di voler monopolizzare le cose belle e buone, magari dopo averle screditate o sottovalutate per secoli, o di volere sempre distinguersi e prendere le distanze separandosi (per autoaffermarsi) sia da chi ‘pretende di cambiare il mondo’ sia da chi assume un ‘pensiero debole’ per meglio dialogare e fare spazio ad altre verità in un cammino comune, magari, verso la Verità …

L’importanza del sorriso

Alla luce della fede biblica la domanda se Dio possa ridere o, almeno, sorridere, non è così ingenua come potrebbe sembrare, quasi fosse voce di un’indebita proiezione della nostra leggerezza sull’indicibile. In realtà, riso e sorriso riferiti a Dio sono temi tutt’altro che assenti nella Sacra Scrittura, come nell’intera tradizione ebraico-cristiana.
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L’ebraismo può, dunque, essere considerato la religione del riso e del sorriso? Scholem Aleichem, scrittore ebreo autore di deliziosi racconti dove il pianto si mescola delicatamente al riso, non esita a rispondere affermativamente: «L’identità ebraica è uno scoppio di risa». E una delle feste più care alla coscienza collettiva d’Israele è quella di purim, festa della gioia per il dono della salvezza ricevuta da Dio per mano di una donna, Ester, festa dello scampato pericolo e del rivolgimento delle sorti, dove il cattivo Aman muore sul palo cui voleva appendere il giusto Mardocheo. 
Purim è, perciò, festa dello scambio dei destini, rappresentato mediante le maschere in cui ciascuno deve rappresentarsi nel segno del suo contrario (con fine auto-ironia, il professore serioso si vestirà da pagliaccio, il ricco avaro da mendicante prodigo, il poveraccio da gran signore, da donna giovane e bella chi obiettivamente non lo è…). 
Moni Ovadia offre una gustosissima raccolta di esempi di questa sapienza del riso e del sorriso, che sa dare consigli anche all’Altissimo. Così il povero ebreo, cui è capitato veramente di tutto, sussurra timidamente all’Eterno: «Noi ti ringraziamo, Signore del cielo e della terra, d’averci scelto e prediletto fra tutti i popoli. Ma, ascolta: un’altra volta non potresti scegliere qualcun altro?».
Anche il cristianesimo, fedele alla sua radice ebraica, è religione che conosce il riso e il sorriso: in esso è perfino la Verità in persona ad ammiccare un sorriso… Che la Verità sorrida, potrebbe apparire perfino imbarazzante a chi pensasse la stessa Verità nei termini dell’ideologia moderna, per la quale il Vero è il campo di dominio di una ragione “forte”, che non conosce debolezze e non tollera differenze, neanche quelle sottolineate dalla levità di un sorriso. 
Al contrario, per il cosiddetto «pensiero debole» la Verità non sorride, ma sghignazza: essa è solo una maschera, che si fa gioco di chi ancora creda che esista una verità. Il sorriso della Verità è, dunque, lontano tanto da chi pretende di cambiare il mondo e la vita con le sole forze della ragione umana, quanto da chi nega semplicemente ogni fondamento forte all’impegno dell’uomo sulla Terra.
Chi dunque può amare il sorriso della Verità? Chi crede nell’Onnipotente che per amore si fa debole, nel Signore crocifisso, in cui riconosce la follia dell’amore divino per gli uomini. La debolezza di Dio è il sorriso della Verità, che non ha nulla dell’assolutezza astratta! Né questo scorgere il sorriso della Verità ne diminuisce la forza e l’attraente bellezza: ciò che conta è corrispondervi, prendendo sul serio la fedeltà del Dio, fattosi debole e vicino per amore, e non prendendoci troppo sul serio. 
In realtà, la Verità sorridente ci invita a sorridere di noi, nell’atto di abbandonarci umilmente nelle braccia di quel Dio, che è venuto a sorriderci nel volto di un Bambino. Da allora sappiamo che – fin quando ci sarà spazio per il sorriso della Verità – il mondo potrà ancora avere una speranza più forte del dolore e della morte, che troppo spesso sembrano averla vinta…
Lo aveva ben compreso Francesco, «giullare di Dio» in tempi non certo tranquilli come furono i suoi. Lo esprimeva nel Medio Evo europeo la diffusa tradizione del risus paschalis, che prevedeva il racconto del maggior numero di barzellette durante la notte di Pasqua (non tutte proprio edificanti…), affinché dappertutto esplodesse la gioia, unico sentimento ritenuto consono alla vittoria pasquale della vita. 
Forse anche per questo san Filippo Neri, detto «Pippo il buono», non riusciva a vedere altra via per l’annuncio e la sequela di Gesù che quella di un amore lieto, capace di vivere e dare gioia, di ridere e sorridere davanti al mondo e alla vita.
Se ci si chiede perché ebraismo e cristianesimo siano religioni del riso e del sorriso, la risposta risiede forse nel fatto che riso e sorriso possono nascere solo nello spazio che sta tra la prossimità e la lontananza. Se vivi solo la prossimità, ne resti schiacciato, non riuscendo a respirare e a guardare oltre le sfide e i problemi. Se vivi solo la lontananza, rischi di costruirti un mondo ideale, evadendo dalla realtà. 
Se vuoi aprirti alla verità della vita, devi stare tra la prossimità e la lontananza: allora sorriderai. È la condizione del popolo ebraico, totalmente radicato tra gli altri popoli, e tuttavia popolo eletto. È lo scandalo del Cristo, Uomo tra gli uomini, appeso alla croce e tuttavia Figlio di Dio. Questi paradossi creano lo spazio del riso e del sorriso.
In realtà, ad aver paura del riso non è la fede, che per sua natura è umile e aperta alle sorprese di Dio, terrena nella sua povertà e celeste nei suoi orizzonti e nella grazia che la pervade, ma il potere di questo mondo, che – proprio perché umano, troppo umano – teme di esser colto in contraddizione nello scontro fra le sue pretese e la sua limitatezza. 
Chi è libero da sé, sa ridere e far ridere con gioia. Perciò i paradossi dell’amore sono quelli del riso e del sorriso: l’amore incapace di gioia non può esistere; i suoi eccessi e le tristezze sono gli stessi del sorriso e del pianto, dell’amarezza e del riso. 
E qui emerge una differenza non di poco conto tra la tradizione ebraico-cristiana e l’islàm, religione che insiste sul dualismo fra Dio e il mondo, piuttosto che sul gioco amoroso della lontananza e della prossimità: nell’islàm più radicale il sorriso rischia di essere escluso. Dove non c’è sorriso in questo mondo, può esserci anche più facilmente una deriva fondamentalista.
Bruno Forte
 

I muri della discriminazione, dell’isolamento e dell’esclusione del popolo rom e sinto

 

 

 

 

Il C.C.I.T. 2014 al Cavallino di Venezia

 

Si è svolto nei giorni scorsi, dal 4 al 6 aprile, al Cavallino di Venezia il Comitato Cattolico Internazionale per la pastorale del popolo Zingaro (C.C.I.T.), in luogo stupendo, a trenta metri dal mare, in una bella temperatura primaverile, soprattutto ricca di spunti di riflessione e ricchezza umana condivisa da rappresentanti di circa dieci paesi europei (circa 200 presenze) che, a dispetto della difficoltà rappresentata dalla ‘barriera’ e dal ‘muro’ delle lingue, hanno messo in comune esperienze, analisi e riflessioni sui ‘muri della discriminazione’ e dei molteplici pregiudizi che separano duramente ancora i nostri percorsi da quelli di un popolo, quello rom, che continuiamo a tenere ancora lontano e guardiamo con diffidenza, paura, anche disprezzo, e questo non solo nell’ambito della nostra convivenza sociale, ma anche in ambito ecclesiale.

Per questo l’incontro è iniziato con un bel momento di preghiera comunitaria (Liturgia di Accoglienza) preparata per noi da Agostino Rota Martir, incentrata sulla figura di ‘Maria che abbatte i muri’ della violenza, della paura, dell’indifferenza tra le persone e le nazioni.

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Il presidente p. Claude Dumas e i membri del comitato sono stati esplicitamente salutati dal Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti che ha indicato nella figuta di Gesù colui che “portando la buona notizia agli uomini, si è fatto anche carico delle loro condizioni. Ha aperto le porte, ha abbattuto le mura di divisione e di inimicizia”. “Gli zingari Hanno bisogno dell’umanità delle società in cui vivono per sentirsi membri della famiglia umana, usufruendo dei diritti di cui godono gli altri membri della comunità, nel rispetto della loro dignità e della loro identità”.

Il presidente Claude Dumas rivolge un ‘saluto ai partecipanti’ con un commento molto opportuno della pagina evangelica del cieco Bartimeo, immagine della sfida a cui è chiamata la chiesa stessa: “Oggi i muri di separazione sono fatti di vergogna, di pregiudizi, di odio, di concorrenza, di timore, d’ignoranza, di pregiudizi teologici e incomprensione culturale. La chiesa è chiamata  ad essere una comunità inclusiva, a abbattere tutti quei muri di separazione”

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La romni  Suzana  Jovanovic (che ha conseguito la laurea in storia discutendo la tesi     dal titolo estremamente significativo : “come restare zingari nel mondo dei gagé”), ha svolto la più significativa relazione dell’incontro prendendo le mosse dalla propria esperienza personale: “Ho abbandonato la mia gente quando avevo 18 anni: la prima cosa che mi hanno insegnato i gagé è quella di vergognarmi di essere zingara. E questo l’ho assorbito così bene che l’ho subito messo in pratica. L’essere zingari è un peccato originale. Le persona che mi sono vicine mi stimano moltissimo e io – ovviamente – ne sono contenta. Ma nel tempo ho capito che la loro stima – paradossalmente – deriva da un pregiudizio formatosi  nei secoli: la convinzione che gli zingari sono dei ritardati mentali, degli incapaci, degli sfaticati, dei nullafacenti, dei non evoluti, delle sopravvivenze di qualche stadio precedente dell’evoluzione umana”. Suzzana ha articolato una fine e approfondita analisi della discriminazione da sempre in atto a partire da quella che gli antropologi chiamano l’ “immagine rovesciata del sé” attraverso la quale si inventa un’umanità il cui stile di vita è assolutamente da scartare e che nel nostro caso si materializza nello zingaro: progressivamente si costruisce un’umanità inquinata, poi la si trasforma in umanità inquinante; e questo, mutatis mutandis, sia ieri come oggi. “la prima operazione ideologico/propagandistica nella costruzione di un’ideologia negativa verso un gruppo, ieri come oggi, è quella di legittimare la propria azione facendola percepire come assolutamente necessaria”. La paura dell’altro forse è umana e tollerabile, ma “usarla a scopo strumantale per alterare la percezione del pericolo della ‘propria’ comunità umana nei confronti di un’altra comunità umana disumanizzando quest’ultima e trasformandola in parassita pericoloso per la propria società non solo non è tollerabile, ma è assolutamente da condannare”.

La sinta Pamela Adami delinea un’analisi o una ‘lettura socio-culturale’ della presenza dei sinti e dei rom in Italia. Pur evidenziando le difficoltà obiettive nell’individuare i ‘numeri’ precisi perché l’ultimo censimento, per esempio, “è stato compiuto in Italia in regime di presunta emergenza e ha avuto anche tratti intimidatori”. Pamela delinea la situazione dal punto di vista:

  • delle denominazioni
  • delle appartenenze religiose
  • della cittadinanza
  • delle tipologie abitative
  • dell’emergere di associazioni politiche e culturali rom

     p. agostino

Agostino  Rota Martir racconta l’attenzione pastorale verso i rom e i sinti in Italia (‘quadro pastorale’) come “un cammino lungo, articolato e complesso, dove non sono mancati strappi e divergenze”. Nella necessità di sintetizzare il rapporto attuale della chiesa in Italia con i rom e i sinti Agostino elenca “tre tipi di linee fondamentali”, “tre presenze” che “a volte  si intrecciano, dialogano, ma anche si scontrano tra loro:

1.la chiesa dei ‘progetti’ per l’integrazione

2.la chiesa che evangelizza

3.la chiesa “con l’odore delle pecore”

Sembra talmente obiettiva questa pluriformità di difficile composizione e dialogo che anche in sede di C.C.I.T. ha suscitato subito delle reazioni critiche alla relazione accusandola ingiustamente di settarismo, ideologismo, volontà di divisione della chiesa: la pressoché generale convinta approvazione di essa rende ragione del settarismo, invece, di queste critiche.

La suora croata Karolina Miljak delinea dei “tentativi pastorali per l’abbattimento del muro dei pregiudizi e  delle discriminazioni” a partire dalla figura di Gesù Dio-uomo che abbatte i muri dei pregiudizi sperimentando la discriminazione e combattendo le discriminazioni. Ne deriva un’immagine dell’operatore pastorale che sa immedesimarsi con l’escluso e che sa andare verso l’ ‘altro’-

Thérèse Poisson descrive la storia di Marianna che assomiglia sicuramente a quella di molte altre storie plasmate da tanta lotta e piene di energia.

I ‘gruppi di studio’, tentando di superare le barriere segnate dal multilinguismo, hanno rappresentato come sempre una bella occasione di incontro ravvicinato delle persone, dei loro ‘racconti’ e delle loro proposte per superare i muri più resistenti, nelle società civili e nelle chiese, che impediscono un incontro libero e aperto tra rom e gagé.

Come sempre ricca di umanità, di vivande condivise (le migliori, non occorre dirlo, sempre quelle italiane!), di festa e di danza la serata del sabato che esprime i segni del superamento di ogni barriera nazionale e della comunione in atto tra sinti e rom e amici gagé operatori della pastorale di ‘comunione’.

video 2

https://www.youtube.com/watch?v=MF8ZSIMUn68

https://www.youtube.com/watch?v=XIFT_legAMk

https://www.youtube.com/watch?v=Zrno3US2g_I

https://www.youtube.com/watch?v=QmgcKhQve7I

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Un bel giro su Venezia ci ha permesso anche di fruire delle bellezze della natura e della cultura.   

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Il tutto non avrebbe avuto una riuscita così felice senza la dedizione, il servizio e la gentilezza del gruppo dei  ‘giovanissimi’ e la capacità e l’esperienza di Cristina Simonelli

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maggi

QUARESIMA Istruzioni d’uso Alberto MAGGI
Con il mercoledì delle ceneri inizia la quaresima. Per comprendere il significato di questo periodo occorre esaminare la diversa liturgia pre e post-conciliare. Prima della riforma liturgica, l’imposizione delle ceneri era accompagnata dalle parole “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai”, secondo la maledizione del Signore all’uomo peccatore c…ontenuta nel Libro della Genesi (Gen 3,19). E con questo lugubre monito iniziava un periodo caratterizzato dalle penitenze, dai sacrifici e dalle mortificazioni. Oggi l’imposizione delle ceneri è accompagnata dall’invito evangelico “Convertiti e credi al vangelo”, secondo le prime parole pronunciate da Gesù nel Vangelo di Marco (Mc 1,15). Un invito al cambiamento di vita, orientando la propria esistenza al bene dell’altro e a dare adesione alla buona notizia di Gesù. L’uomo non è polvere e non tornerà polvere, ma è figlio di Dio, e per questo ha una vita di una qualità tale che è eterna, cioè indistruttibile, e per questo capace di superare la morte.
In queste due diverse impostazioni teologiche sta il significato della quaresima. Mai Gesù nel suo insegnamento a invitato a fare penitenza, a mortificarsi, e tanto meno a fare sacrifici. Anzi, ha detto il contrario: “Misericordia io voglio e non sacrifici” (Mt 12,7). I sacrifici centrano l’uomo su se stesso, sulla propria perfezione spirituale, la misericordia orienta l’uomo al bene del fratello. Sacrifici, penitenze, mortificazioni infatti non fanno che centrare l’uomo su se stesso, e nulla può essere più pericoloso e letale di questo atteggiamento. Paolo di Tarso, che in quanto fanatico fariseo era un convinto assertore di queste pratiche, una volta conosciuto Gesù, arriverà a scrivere nella Lettera ai Colossesi: “Nessuno dunque vi condanni in fatto di cibo o di bevanda, o per feste, noviluni e sabati… Se siete morti con Cristo agli elementi del mondo, perché come se viveste ancora nel mondo, lasciarvi imporre precetti quali: Non prendere, non gustare, non toccare? Sono tutte cose destinate a scomparire con l’uso, prescrizioni e insegnamenti umani,che hanno una parvenza di sapienza con la loro falsa religiosità e umiltà e mortificazione del corpo, ma in realtà non hanno alcun valore se non quello di soddisfare la carne” (Col 2,16.20-23). Paolo aveva compreso molto bene che queste pratiche centrano l’uomo su se stesso, nel miraggio di una impossibile perfezione spirituale, tanto lontana e irraggiungibile quantogrande è la propria ambizione. Per questo Gesù invita invece al dono di sé, immediato e concreto, tanto quanto è grande la propria capacità di amare.
La quaresima non è orientata al venerdì santo, ma alla Pasqua di risurrezione. Per questo non è tempo di mortificazioni, ma di vivificazioni.
Si tratta di scoprire forme nuove, originali, inedite, di perdono, di generosità e di servizio, che innalzano la qualità del proprio amore per metterlo in sintonia con quello del Vivente, e così sperimentare la Pasqua come pienezza della vita del Cristo e propria. Per questo oggi c’è l’imposizione delle ceneri. Pratica che si rifà all’uso agricolo dei contadini che conservavano tutto l’inverno le ceneri del camino, per poi,verso la fine dell’inverno, spargerle sul terreno, come fattore vitalizzante per dare nuova energia alla terra. Ed è questo il significato delle ceneri: l’accoglienza della buona notizia di Gesù (“Convertiti e credi al vangelo”), è l’elemento vitale che vivifica la nostra esistenza, fa scoprire forme nuove originali di amore, e fa fiorire tutte quelle capacità di dono che sono latenti e che attendevano solo il momento propizio per emergere.

p. Maggi e p. Pagola commentano il vangelo

p. Maggi

così p. Maggi commenta il vangelo della terza domenica del tempo ordinario (26 gennaio 2014):

VENNE A CAFARNAO PERCHE’ SI COMPISSE CIO’ CHE ERA STATO DETTO PER MEZZO DEL PROFETA ISAIA

Mt 4,12-23

Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nàzaret andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaìa: «Terra di Zàbulon e terra di Nèftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta». Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, rché il regno dei cieli è vicino». Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, eAndrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre,  aravano le loro reti, e li chiamò. Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono.

Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo.

L’evangelista Matteo presenta in questo brano l’inizio dell’attività di Gesù. Una volta venuto a sapere che Giovanni è stato arrestato e quindi l’aria si fa pesante e difficile in Giudea, Gesù sale al nord, nella Galilea, nella regione che vedremo abbastanza disprezzata ,“lascia Nazareth, il suo paese natale, e va ad abitare a Cafarnao”. E’ interessante il fatto che né Nazareth né Cafarnao vengono mai nominate nell’Antico Testamento, comunque Cafarnao era una città di frontiera, importante posto di dogana. L’evangelista scrive poi “sulla riva del mare”, ma in realtà è un lago. Perché l’evangelista parla di mare? Perché con questo sotterfugio, sostituendo lago con mare, l’evangelista vuol dare un’indicazione teologica; il mare era quello che separava Israele dai pagani, ma soprattutto il mare era quello che il popolo di Israele aveva attraversato per fuggire dalla schiavitù egiziana. Quindi indicava la piena liberazione. Tutta la tematica dell’evangelista è in chiave di Esodo e Gesù è il nuovo Mosè che viene a liberare il suo popolo. E qui l’evangelista vede, nell’attività di Gesù, nella scelta di Gesù di salire in Galilea, la realizzazione della promessa di liberazione messianica da una situazione di oppressione a una di salvezza, di un territorio che era stato devastato dagli Assiri e cita il profeta Isaia al capitolo 8, versetto 23, dove si parla di Galilea delle genti. Mentre la Giudea deve il suo nome a Giuda, uno dei patriarchi più importanti, questa regione al nord era talmente disprezzata – era una regione abitata da poveri, da bifolchi, da gente violenta – era talmente disgustata la popolazione della Giudea da quelli del nord, che lo stesso Isaia non sa come definire questa regione e usa un termine dispregiativo, la chiama ‘la provincia o il distretto dei non ebrei’. Il distretto in ebraico è Gelil da cui il termine Galilea, quindi mentre Giudea deriva da Giuda, Galilea deriva da questo termine dispregiativo col quale il profeta indica questa regione al nord. Ebbene proprio questa regione disprezzata a nord, dove il popolo abita nelle tenebre, proprio lì è sorta la luce. E qui l’evangelista anticipa quella che poi l’azione di Gesù, luce del mondo, di comunicare ai suoi stessi discepoli la possibilità di essere luce del mondo. E Gesù inizia la sua attività. 

“Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi …»”. Il verbo ‘convertire’ nel testo greco dei vangeli si trova in due maniere, una che indica un ritorno religioso a Dio, l’altra, che è quella che adopera l’evangelista, significa un cambio di mentalità che indice sul comportamento. Gli evangelisti, Matteo in particolare, evitano il primo termine, quello che indica il ritorno religioso a Dio. Con Gesù, il Dio con noi, non c’è più da tornare verso Dio, ma accogliere questo e con lui e come lui andare verso gli altri, per cui la conversione significa orientare diversamente la propria esistenza. Se fino ad adesso si è vissuto per sé, da ora in poi si vive per gli altri. Questa conversione è  finalizzata al fatto che “ «il regno dei cieli è vicino»”. Non è ancora realtà perché il regno dei cieli si realizzerà con l’accoglienza delle beatitudini. La prima beatitudine permetterà la realizzazione del regno dei cieli. Ma cosa si intende per ‘regno dei cieli’? Gesù non parla di un regno nei cieli, cioè l’aldilà. Regno dei cieli, espressione che troviamo soltanto nel vangelo di Matteo, indica il regno di Dio. Matteo, che scrive per una comunità di ebrei, evita di usare il termine ‘Dio’ tutte le volte che gli è possibile, per non offendere la sensibilità dei suoi lettori e, quando gli è possibile, usa dei sostituti. Uno di questi era ‘cieli’, quindi regno dei cieli non significa l’aldilà, ma il regno di Dio, cioè Dio  che diventa il re del popolo, si permette a Dio di governare il suo popolo. Allora la conversione, il cambiamento della propria esistenza, è per permettere questa realizzazione del regno, che diventerà realtà con l’accoglienza della prima beatitudine. Il regno dei cieli, il regno di Dio, non cade dall’alto ma richiede la collaborazione dell’uomo. Ebbene, “mentre camminava lungo il mare ”, di nuovo torna questo termine mare, l’evangelista scrive che Gesù vide Simone e Andrea. Questi due personaggi hanno nomi greci, quindi significa che provengono da una famiglia abbastanza aperta. Simone in particolare è conosciuto per la sua testardaggine, infatti ha un suo soprannome ‘pietra’ che significa la sua caparbietà, la durezza, che poi verrà scoperta lungo tutto il vangelo. “Gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori”. Il richiamo dell’evangelista è alla profezia contenuta nel libro di Ezechiele, capitolo 47, versetto 10, dove  “il tempo del messia sarà un tempo di abbondanza per i pescatori”. Ebbene “Gesù disse loro: «Venite dietro a me»”. E’ interessante, Gesù per iniziare la sua comunità, il gruppo con il quale inaugurare questo regno di Dio, non va in cerca di monaci – c’erano gli esseni – non chiama le persone pie, i farisei, non chiama neanche gli appartenenti al clero, i sacerdoti, neanche le persone potenti, i benestanti, quelli erano i sadducei, né tanto meno i teologi, gli scribi, ma chiama gente normale, dei pescatori. Dice, «Vi farò pescatori di uomini»”. E’ interessante che questo titolo, la missione alla quale Gesù chiama i suoi poi verrà abbandonato presto dalla chiesa. Preferiranno farsi chiamare pastori, titolo che Gesù non ha dato a nessuna persona – lui è l’unico pastore – anziché pescatori di uomini, che è quello che Gesù chiede ai suoi di fare. Che significa pescatori di uomini? Mentre pescare il pesce significa tirar fuori il pesce dal suo habitat naturale per dargli la morte, pescare gli uomini significa tirarli fuori dall’acqua, simbolo del male, imbolo della morte, per salvarli, per dare loro vita. Quindi la proposta di Gesù è di andare dietro di lui per comunicare vita a tutta l’umanità. “Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono”. C’è poi la chiamata di altri due fratelli, Giacomo e Giovanni, questi hanno nomi giudaici, nomi ebrei, e si vedrà poi nel corso del vangelo il loro atteggiamento che rispecchia il loro nome e qui sottolinea l’evangelista che c’è la presenza del padre, Zebedeo. Gesù li chiama, “Essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono”. Per seguire Gesù bisogna abbandonare il padre. Il padre indica l’autorità e per seguire Gesù bisogna abbandonare il padre, perché l’unico Padre che c’è all’interno della comunità dei credenti è il Padre che è nei cieli, che non governa gli uomini emanando leggi che questi devono osservare, ma comunicando loro la sua stessa capacità d’amore. “Gesù percorreva tutta la Galilea”, quindi questa regione disprezzata, “insegnando nelle loro sinagoghe e annunziando il vangelo del Regno”. L’evangelista adopera due verbi differenti per l’azione di Gesù. Nelle sinagoghe insegna, e insegnare significa prendere dal patrimonio dell’Antico Testamento per poi proporlo. Quindi nelle sinagoghe Gesù prende quella che è la ricchezza del popolo, contenuta nell’Antico Testamento, e gliela propone. ma, per annunziare la buona notizia del Regno, Gesù non insegna, ma annunzia o predica. Quindi sono due verbi differenti. Quando si rivolge agli ebrei Gesù insegna, quando si rivolge a persone miscredenti o fuori della legge, non ebrei, Gesù annunzia o predica. E questo significa cogliere il nuovo senza il bisogno di andare a ripescare l’antico. E, per la prima volta in questo vangelo appare il termine ‘vangelo’ che significa ‘buona notizia’. E qual è la buona notizia? La buona notizia è quella del Regno. E infatti Gesù non si limita a parlare, ma agisce. Come? “Guarendo ogni sorta di malattie e infermità nel popolo”. Notate che non sono ‘del popolo’, ma ‘nel popolo’, cioè Gesù libera da quegli impedimenti che ostacolano l’accoglienza del suo messaggio di pienezza di vita nel popolo, e quindi inizia così a dilagare l’attività di Gesù e inizia il nuovo, inarrestabile esodo.

 

QUALCOSA DI NUOVO E BUONO

Il primo scrittore che raccolse l’attuazione ed il messaggio di Gesù lo riassunse tutto dicendo che Gesù proclamava la “Buona Notizia di Dio”. più tardi, gli altri evangelisti utilizzeranno lo stesso termine greco (euanggelion) per esprimere la stessa convinzione: nel Dio annunciato da Gesù le genti trovavano qualcosa di “nuovo” e “buono.”   C’è ancora in questo Vangelo… qualcosa che possa essere letto, in mezzo alla nostra società indifferente e miscredente, come qualcosa di nuovo e buono per l’uomo e la donna dei nostri giorni? Qualcosa che possa trovarsi nel Dio annunciato da Gesù e che non proporziona facilmente la scienza, la tecnica o il progresso? Come è possibile vivere la fede in Dio nei nostri giorni?   Nel Vangelo di Gesù noi credenti ci troviamo con un Dio dal quale possiamo sentire e vivere la vita come un regalo che ha la sua origine nel mistero ultimo della realtà che è Amore. Per me è buono non sentirmi solo e perso nell’esistenza, né nelle mani del destino o nelle mani del caso. Ho Qualcuno al quale posso dire grazie per la vita.   Nel Vangelo di Gesù ci troviamo con un Dio che, nonostante le nostre goffaggini, ci dà forza per difendere la nostra libertà senza finire schiavi di qualunque idolo; per non vivere sempre a metà né essere dei “vitelloni”; per andare imparando forme nuove e più umane di lavorare e di gioire, di soffrire e di amare. Per me è buono poter contare sulla forza della mia piccola fede in quel Dio.   Nel Vangelo di Gesù ci troviamo con un Dio che sveglia la nostra responsabilità affinché noi non ci disinteressiamo degli altri. Non potremo fare grandi cose, ma sappiamo che dobbiamo contribuire ad una vita più degna e più felice per tutti pensando soprattutto ai più necessitati e ai più indifesi. Per me è buono credere in un Dio che mi domanda con   frequenza che faccio per i miei fratelli.   Nel Vangelo di Gesù ci troviamo con un Dio che c’aiuta ad intravedere che c’è male nell’ingiustizia, e che la morte non ha l’ultima parola. Un giorno tutto quello che non è potuto qui essere, quello che è rimasto a metà, i nostri aneliti più grandi ed i nostri desideri più intimi raggiungeranno in Dio la loro pienezza. A me  fa bene vivere ed aspettare la mia morte con questa fiducia.   Certamente, ognuno di noi deve decidere come vuole vivere e come vuole morire. Ognuno deve ascoltare la sua propria verità. Per me non è la stessa cosa credere in Dio che non credere. A me fa bene poter fare il mio percorso in questo mondo sentendomi accolto,  sentendomi fortificato, perdonato e salvato dal Dio rivelato in Gesù.   Annuncia la Buona Notizia di Dio.
José Antonio Pagola

 

internet violento?

odio

L’ODIO SUL WEB

 l’web, specie nei ‘social’, sembra diventare ogni giorno di più un luogo franco perché spesso anonimo, comunque poco normato, dove molti sfogano liberamente la propria generica o specifica rabbia

De Rita ha parlato di ‘rabbia contro la casta’ dei politici, senonché sembra un fenomeno non solo legato a problematiche politiche, anzi sembra più un modo per esprimere finalmente quegli istinti più inconfessabili che ognuno porta dentro nel suo più profondo, controllato solo dalla ‘civilizzazione’ cui siamo stati ‘educati’, che per molti però non regge più, non è più sufficiente,  e l’espressione dell’odio e della violenza diventa il modo ‘liberante’ per reprimere, cancellare, uccidere ciò che ci dà noia, ciò che è diverso da noi, chi pensa diversamente, l’ ‘altro’ comunque non riconducibile ai nostri criteri di pensiero e di vita

S. Bartezzaghi così descrive il quadro dell’uso dell’ web da parte di molti e in modo sempre più frequente:

social web

Quantcast

Finalmente una bella notizia». La notizia è l’ictus che ha colpito Pierluigi Bersani e questo è il più soave e frequente fra i commenti malevoli che la notizia stessa ha ricevuto in rete ancora prima che l’ex segretario Pd fosse sotto i ferri, per un intervento chirurgico dagli esiti oltremodo incerti. Ad Angela Merkel, vittima di un incidente sciistico non gravissimo, è ancora andata bene: ma qualcuno ha rimpianto che non le sia toccata la sorte di Michael Schumacher. Per l’ischemia di Bersani si sono invece registrati messaggi di esultanza, insulti, auguri di morte lenta, incitamenti al male pari a quelli al Vesuvio e all’Etna quando minacciano eruzioni. Commenti apparsi dappertutto, sul blog di Beppe Grillo, sulla pagina Facebook del Fatto quotidiano, ma anche su quelle di altri giornali, fra cui Repubblica: atrocità.

Dopo l’esperimento che fece Radio Radicale mandando in onda i messaggi ricevuti nella sua segreteria telefonica (nel 1986 e poi nel 1993) ogni sgomento su quanto un cittadino possa dire, quando sente di poter parlare liberamente e avere ascolto, risulterebbe se non ipocrita almeno di maniera. Le interpretazioni possibili sono variegate: volontà di sfregio, goliardia, satira, occasione di dirla grossa, sfogo di «vera rabbia » (da comprendere, se non giustificare), fino all’ovvio «colpa di Internet».

Ma il problema non è Internet, per quanto la rete dia visibilità immediata e a fare notizia sia ovviamente solo la categoria dei messaggi estremi (in verità molti altri grillini hanno contestato gli sciacalli, e ieri mattina anche Beppe Grillo ha scritto un post di auguri). La rete è semplicemente sempre aperta e sempre visibile, i controlli e la moderazione non sono facili e a volte sembrano maliziosamente tardivi.

Il vero salto di qualità, però, consiste nel coro di invocazioni di morte su un avversario, nel momento in cui egli rischia effettivamente la vita. Lì siamo arrivati, qualche gradino sopra ai «devi morire» per il centravanti che mugola in area falciato da un difensore, o ai cappi sventolati in Parlamento. Oggi siamo alla morte augurata a chi la sta effettivamente rischiando, e il fatto è che il caso di Bersani non è neppure il primo. Di poco lo ha preceduto, ed è forse ancora più impressionante, quello di Caterina Simonsen, la giovane studentessa di veterinaria che una settimana fa ha difeso le ragioni di una corretta sperimentazione animale (a cui, malata, deve personalmente svariati anni di vita) e di conseguenza ha ricevuto insulti e soprattutto schiette dichiarazioni il cui senso era: meglio che morissi tu, piuttosto che innocenti cavie di laboratorio. In questo caso opera un rancore puro e impersonale. Questo significa che oggi, in Italia, l’augurio di morte può saettare, e da un numero significativo di tastiere, in maniera paradossalmente spassionata.

Siamo puri nomi, o nomignoli. Molti di questi commenti sono tranquillamente firmati: non ci curiamo di nasconderci dietro all’anonimato perché non vediamo più la persona, la carne e la vita, dietro ad alcun nome proprio. Non l’altrui ma neppure il nostro. Bersani, anzi “Gargamella”: una parola. Angela Merkel, due parole. Schumacher, un brand. Il nostro nome-e-cognome, un account. Inventare la battuta più efficace, o l’insulto, vale al massimo come sfogo, non ci si preoccupa neppure delle conseguenze penali che possono derivarne. Nell’epoca che magnifica l’empatia come suprema qualità umana, cosa davvero sia il dolore a cui alludono con precisione le parole di una diagnosi, o quelle di una maledizione (comunque, di una condanna), non pare interessante né pertinente.

In un immaginario spaventosamente monocorde siamo tutti vittime di soprusi, il potente che cade ha finalmente avuto il fatto suo. «Anche mio nonno è stato in ospedale ma nessuno se n’è fregato», ha scritto un tizio a proposito di Bersani. Nel suo pauroso candore, la protesta indica la soglia che si è varcata, anno 2014. La nostra morte sarebbe indifferente a chiunque e quindi la morte di chiunque ci è indifferente, anzi ben venga. Questo è il limite che abbiamo raggiunto oggi. Il prossimo?

Stefano Bartezzaghi

 

‘anticapitalista’? va punito!

Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

Papa “marxista”, a rischio i dollari dei filantropi Usa

 

non solo M. Novak o qualche personaggio della destra americana liberista e anticlericale: ora anche la destra liberista  ‘cattolica’ reagisce duramente contro papa Francesco per le sue posizioni anticapitaliste

alcuni grandi finanziatori degli Stati Uniti stanno riconsiderando le donazioni alla Chiesa, e questo mette a rischio le sue attività in tutto il mondo:

Ricchi cattolici allarmati dalla linea di Francesco. Problemi per il restauro della cattedrale di St. Patrick  

Finché si trattava di Rush Limbaugh, l’eccentrico commentatore radiofonico conservatore americano, oppure del Tea Party, magari influenzato da un antico pregiudizio anticattolico, si poteva anche passarci sopra. Ora però, se è vero quello che il fondatore di Home Depot Ken Langone ha detto alla tv Cnbc, le posizioni di Papa Francesco sull’economia stanno creando un problema un po’ più serio da risolvere.

Alcuni grandi finanziatori degli Stati Uniti stanno riconsiderando le donazioni alla Chiesa, e questo mette a rischio le sue attività in tutto il mondo. Nell’esortazione Evangelii Gaudium, il pontefice aveva messo in guardia dagli eccessi del capitalismo. I conservatori americani avevano reagito male, e Limbaugh lo aveva accusato di usare un linguaggio marxista. Nella sua intervista ad Andrea Tornielli della «Stampa», Francesco aveva risposto che il marxismo è un’ideologia sbagliata, «ma io ho conosciuto diversi marxisti che erano brave persone, e quindi quell’aggettivo non mi offende».

La disputa con Limbaugh e il Tea Party si era chiusa là, ma ora se ne starebbe aprendo un’altra più pericolosa. Ken Langone è un cattolico molto devoto, ed è anche il fondatore della grande catena di negozi per la casa Home Depot. Ha sempre fatto donazioni consistenti alla Chiesa, e il cardinale di New York Timothy Dolan lo ha coinvolto nella raccolta di circa 180 milioni di dollari necessari per restaurare St. Patrick, la cattedrale sul Fifth Avenue costruita nel 1878.

«Un potenziale donatore a sette cifre – ha detto Langone al canale economico Cnbc – mi ha detto che è riluttante a partecipare, perché è preoccupato dalle critiche del Papa verso il capitalismo. Le considera un elemento di esclusione».

Il donatore era rimasto particolarmente colpito dalle parole secondo cui «la cultura della prosperità ha reso i ricchi incapaci di provare compassione per i poveri». Langone ha detto di aver sollevato il problema proprio con Dolan: «Eminenza, questo è un ostacolo ulteriore di cui non abbiamo bisogno. Gli americani sono tra i più generosi filantropi del mondo, ma devono essere approcciati nella maniera giusta. Si ottiene di più col miele, che con l’aceto».

Secondo il fondatore di Home Depot, Dolan lo ha tranquillizzato, spiegandogli che il donatore incerto ha frainteso le parole di Francesco: «Il Papa ama tanto i poveri, quanto i ricchi. Quando questo donatore capirà bene il suo messaggio, non avrà problemi a contribuire». Langone ha risposto che gliene parlerà, ma non ha voluto rivelare il nome della persone o gli effetti della sua ambasciata.

Il problema, se fosse più diffuso di una semplice defezione, potrebbe diventare complicato per il Vaticano, andando oltre le difficoltà per raccogliere i fondi necessari a restaurare St. Patrick. Stati Uniti e Germania, infatti, sono i Paesi che contribuiscono di più alle attività della Chiesa in tutto il mondo: se i rubinetti dei filantropi cattolici americani si chiudessero, rimpiazzarli sarebbe molto difficile, proprio per finanziare le attività mirate ad aiutare i poveri come Catholic Charities.

Naturalmente può darsi che abbia ragione Dolan: un dubbio non basta a creare un fenomeno, e una migliore comprensione delle posizioni di Francesco può risolvere la questione. E’ curioso poi che proprio su queste posizioni economiche e sociali la Casa Bianca spera di ricostruire il suo rapporto col Vaticano, dopo le difficoltà del passato legate alle differenze sull’aborto e i temi della vita.

P. Mastrolilli

 

 

il saluto di D. Tutu a Mandela

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“Il mio Madiba non c’è più”

il vescovo Desmon Tutu dà il suo caloroso e affettuoso e commosso saluto all’amico e costruttore, con lui, del nuovo’ Sud Africa:

Non riesco a crederci, eppure è così. Madiba, che ha dato così tanto a noi e al mondo, non c’è più. Sembrava che sarebbe stato sempre con noi. Diventò un gigante per il mondo solo dopo il 1994, quando divenne presidente del Sudafrica.

Ma la sua figura aveva cominciato a ingigantirsi quando era a Robben Island. Già allora veniva descritto in termini che lo facevano sembrare più grande dei comuni mortali. Si vociferava che qualcuno nell’Anc temesse che si sarebbe scoperto che il colosso aveva i piedi d’argilla e quindi volesse “eliminarlo” prima che il mondo rimanesse deluso. Non aveva ragione di aver paura.

Mandela superò le aspettative.

Incontrai Madiba una volta, di sfuggita, all’inizio degli Anni ’50. Studiavo per diventare insegnante al Bantu Normal College, vicino Pretoria, e lui era giudice nella gara di dibattito tra la nostra scuola e la Jan Hofmeyr. Era alto, distinto, affascinante. Incredibilmente, non lo avrei più rivisto fino a quarant’anni dopo, il febbraio del 1990, quando lui e Winnie trascorsero la loro prima notte di libertà in casa nostra, a Bishopscourt, un sobborgo di Città del Capo. In quei 40 anni erano successi eventi memorabili: la campagna per la resistenza passiva, l’adozione del Freedom Charter e il massacro di Sharpeville del 21 marzo 1960. Quella strage ci disse che anche se protestavamo pacificamente ci avrebbero sterminati come insetti e che la vita di un nero contava poco. Il Sudafrica era un Paese dove c’erano cartelli che annunciavano senza vergogna «Vietato l’ingresso agli indigeni e ai cani». Le nostre organizzazioni politiche erano proibite; molti membri erano in clandestinità, carcere o esilio. Abbandonarono la non violenza: non avevano altra scelta che passare alla lotta armata. Fu così che l’Anc creò l’Umkhonto we Sizwe, con Nelson a capo. Mandela aveva capito che la libertà per gli oppressi non sarebbe arrivata come una manna dal cielo e che gli oppressori non avrebbero rinunciato spontaneamente ai loro privilegi. Essere associati a quelle organizzazioni fuorilegge diventò un reato di sedizione: e questo ci porta al capitolo successivo, il processo di Rivonia.

Temevano che Mandela e gli altri imputati sarebbero stati condannati a morte, come chiedeva la pubblica accusa. All’epoca studiavo a Londra: organizzammo veglie di preghiera a Saint Paul per scongiurarlo. I difensori cercarono di convincere Mandela a moderare i toni della sua dichiarazione dal banco degli imputati, temendo che il giudice potesse prenderla come una provocazione. Ma lui insistette che voleva parlare degli ideali per cui aveva lottato, per cui aveva vissuto e per cui, se necessario, era pronto a morire. Tirammo tutti un enorme sospiro di sollievo quando fu condannato ai lavori forzati, anche se significava un lavoro massacrante nella cava di Robben Island.

Qualcuno ha detto che i 27 anni che Mandela ha trascorso in prigione sono stati uno spreco, che se fosse stato rilasciato prima avrebbe avuto più tempo per tessere il suo incantesimo di perdono e riconciliazione. Mi permetto di dissentire. Quando Mandela entrò in carcere era un giovane uomo arrabbiato, esasperato da quella parodia di giustizia che era stato il processo di Rivonia. Non era un pacificatore. Dopo tutto era stato comandante dell’Umkhonto we Sizwe e il suo intento era rovesciare l’apartheid con la forza. Quei 27 anni furono cruciali per il suo sviluppo spirituale. La sofferenza fu il crogiolo che rimosse una gran quantità di scorie, regalandogli empatia verso i suoi avversari. Contribuì a nobilitarlo, permeandolo di una magnanimità che difficilmente avrebbe ottenuto in altro modo. Gli diede un’autorità e una credibilità che altrimenti avrebbe faticato a conquistare. Nessuno poteva contestare le sue credenziali. Quello che aveva passato aveva dimostrato la sua dedizione e la sua abnegazione. Aveva l’autorità e la forza d’attrazione di chi soffre in nome di altri: come Gandhi, Madre Teresa e il Dalai Lama.

Eravamo tutti incantati l’11 febbraio 1990, quando il mondo si fermò per vederlo emergere dalla prigione. Che meraviglia è stato essere vivi, poter provare quel momento! Ci sentivamo orgogliosi di essere umani grazie a quell’uomo straordinario. Per un attimo tutti abbiamo creduto che essere buoni è possibile. Abbiamo pensato che i nemici potevano diventare amici e abbiamo seguito Madiba lungo il percorso di perdono e riconciliazione, esemplificato dalla Commissione per la verità, da un inno nazionale poliglotta e da un governo di unità nazionale in cui l’ultimo presidente dell’apartheid poteva essere il vicepresidente e un “terrorista” il capo dello Stato.

Madiba ha vissuto quello che ha predicato. Non ha forse invitato il suo ex carceriere bianco come ospite d’onore alla cerimonia d’inaugurazione della sua presidenza? Non è forse andato a pranzo con il procuratore del processo di Rivonia? Non è forse volato a Orania, l’ultimo avamposto afrikaner, per prendere un tè con Betsy Verwoerd, la vedova del sommo sacerdote dell’ideologia dell’apartheid? Era straordinario. Chi può dimenticare quando si spese per conservare l’emblema degli Springboks per la nazionale di rugby, odiatissima dai neri? E quando, nel 1995, scese sul campo di gioco all’Ellis Park con una maglia degli Springboks per consegnare nelle mani del capitano Pienaar la coppa del mondo di rugby con la folla, composta soprattutto da bianchi afrikaner, che scandiva «Nelson, Nelson»?

Madiba è stato un dono straordinario per noi e per il mondo. Credeva ferventemente che un leader è lì per guidare, non per esaltare se stesso. In tutto il mondo era un simbolo indiscusso di perdono e riconciliazione, e tutti volevano un po’ di lui. Noi sudafricani ci crogiolavamo nella sua gloria riflessa.

Ha pagato un prezzo pesante per tutto questo. Dopo i suoi 27 anni di prigionia è arrivata la perdita di Winnie. Quanto adorava sua moglie! Per tutto il tempo che sono stati in casa nostra, seguiva ogni suo movimento come un cucciolo adorante. Il loro divorzio fu per lui un colpo durissimo. Graça Machel è stata un dono del cielo.

Madiba si preoccupava davvero per le persone. Un giorno ero a pranzo con lui nella sua casa di Houghton. Quando finimmo di mangiare, mi accompagnò alla porta e chiamò l’autista. Gli dissi che ero venuto da Soweto con la mia auto. Pochi giorni dopo mi telefonò: «Mpilo, ero preoccupato per il fatto che guidi e ho chiesto ai miei amici imprenditori. Uno di loro si è offerto di spedirti 5.000 rand al mese per assumere un autista!». Spesso sapeva essere spiritoso. Quando lo criticai per le sue camice pacchiane mi rispose: «E lo dice uno che gira con la sottana!». Mostrò grande umiltà quando lo criticai pubblicamente perché viveva con Graça senza essere sposato. Alcuni capi di Stato mi avrebbero attaccato, lui mi invitò al suo matrimonio.

Il nostro mondo è un posto migliore per aver avuto una persona come Nelson Mandela e noi in Sudafrica siamo un po’ migliori. Come sarebbe bello se i suoi successori lo emulassero e se noi dessimo il suo giusto valore al grande dono della libertà che ha conquistato per noi a prezzo di tanta sofferenza. Ringraziamo Dio per te, Madiba. Che tu possa riposare in pace e crescere in gloria.

 

in “la Repubblica” del 7 dicembre 2013

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