il sinodo scrive al popolo di Dio

la lettera al popolo di Dio:

«la chiesa ha bisogno di ascoltare tutti»


Gianni Cardinale

nel testo i partecipanti al Sinodo, la cui prima fase termina domenica, sottolineano l’importanza di lasciarsi interpellare da tutti, a partire dai più poveri e dalle vittime di abusi nella Chiesa

Un momento dei lavori sinodali

La Chiesa deve ascoltare tutti. In particolare i più poveri, le vittime del razzismo e, soprattutto, quelle degli abusi commessi da membri del corpo ecclesiale. È questo uno dei messaggi che i membri del Sinodo sulla sinodalità in corso in Vaticano hanno voluto inviare a tutto il Popolo di Dio in forma di Lettera.

L’Assemblea, in questa particolare missiva il cui originale è scritto in francese (segno che l’autore materiale è un francofono), riconosce che quella in corso «per molti versi, è stata un’esperienza senza precedenti». Infatti «per la prima volta, su invito di Papa Francesco, uomini e donne sono stati invitati, in virtù del loro Battesimo, a sedersi allo stesso tavolo per prendere parte non solo alle discussioni ma anche alle votazioni di questa Assemblea del Sinodo dei vescovi». La Lettera riconosce che l’Assemblea «si è svolta nel contesto di un mondo in crisi, le cui ferite e scandalose disuguaglianze hanno risuonato dolorosamente nei nostri cuori e hanno dato ai nostri lavori una peculiare gravità, tanto più che alcuni di noi venivano da paesi dove la guerra infuria». Di qui la preghiera «per le vittime della violenza omicida, senza dimenticare tutti coloro che la miseria e la corruzione hanno gettato sulle strade pericolose della migrazione». Di qui la solidarietà e l’impegno «a fianco delle donne e degli uomini che in ogni luogo del mondo si adoperano come artigiani di giustizia e di pace».

Ora i lavori di questa sessione sinodale stanno finendo. E la Lettera esprime l’’auspicio che i mesi che ci separano dalla seconda, nell’ottobre 2024, «permettano a ognuno di partecipare concretamente al dinamismo della comunione missionaria indicata dalla parola “Sinodo”». Avvertendo che «non si tratta di un’ideologia ma di un’esperienza radicata nella Tradizione apostolica». Le sfide sono “molteplici” e le domande “numerose”. La relazione di sintesi della prima sessione, che verrà approvata sabato, «chiarirà i punti di accordo raggiunti, evidenzierà le questioni aperte e indicherà come proseguire il lavoro».

Ma per progredire nel suo discernimento, sottolinea la Lettera, la Chiesa ha assolutamente bisogno di ascoltare tutti, a cominciare dai più poveri. Si tratta in pratica «di ascoltare coloro che non hanno diritto di parola nella società o che si sentono esclusi, anche dalla Chiesa». Di ascoltare «le persone vittime del razzismo in tutte le sue forme, in particolare, in alcune regioni, dei popoli indigeni le cui culture sono state schernite». E «soprattutto, la Chiesa del nostro tempo ha il dovere di ascoltare, in spirito di conversione, coloro che sono stati vittime di abusi commessi da membri del corpo ecclesiale, e di impegnarsi concretamente e strutturalmente affinché ciò non accada più».

La Chiesa ha anche bisogno di ascoltare i laici, donne e uomini, «tutti chiamati alla santità in virtù della loro vocazione battesimale». Di ascoltare i catechisti, i bambini, i giovani, gli anziani. Poi le famiglie, e le voci «di coloro che desiderano essere coinvolti in ministeri laicali o in organismi partecipativi di discernimento e di decisione». La Chiesa ha poi particolarmente bisogno, di ascoltare i sacerdoti, i diaconi, e la voce della vita consacrata. E deve ascoltare anche la voce di coloro che «non condividono la sua fede ma cercano la verità, e nei quali è presente e attivo lo Spirito».

Hamas e Netanyahu si nutrono a vicenda

quando l’odio ha bisogno di un nemico

di Tonio Dell’Olio in “www.mosaicodipace.it” del 10 ottobre 2023

La verità è che Hamas e Netanyahu si nutrono a vicenda. Per esistere hanno bisogno l’uno dell’altro. L’odio, per esistere e rafforzarsi, ha sempre necessità di un nemico capace di odiare almeno quanto lui. Le politiche oppressive dei governi israeliani contro la prigione a cielo aperto di Gaza costituiscono il carburante per il reclutamento massiccio di terroristi e le azioni di questi sono il tesoretto del pacchetto elettorale di Netanyahu. E in queste condizioni è inutile esercizio puerile chiedersi chi ha cominciato per primo, puntare il dito, distribuire patenti di carnefici. Sembra che ciascuno non vedesse l’ora. Tragico è che tanto Hamas quanto Netanyahu rendono il peggiore dei propri servizi ai rispettivi popoli. Riescono a garantire solo paura, sofferenza, lutti e distruzioni. E sia ben chiaro che queste considerazioni non sono dettate dall’opportunità diplomatica politicamente corretta di equidistanza, quanto da una vicinanza assoluta alle popolazioni israeliana e palestinese. Per quanto possa sembrare tragico, in questi giorni si sta seminando la brutalità che si consumerà domani. La speranza è sempre che qualcuno riesca a trovare il coraggio di rinunciare alla violenza della rappresaglia, della vendetta, della violenza sorprendendo il suo dirimpettaio e sparigliando le carte.

il ricordo di Gianni Vattimo

Gianni Vattimo e la forza debole del cristianesimo
di Francesco Tomatis

Cristianesimo ed ermeneutica, kénosis e interpretazione, libertà, amore ed emancipazione compongono la costellazione che orienta il cammino di pensiero di Gianni Vattimo, scomparso nella notte scorsa. Quando nel 1959 si laurea a Torino ‒ dove nacque il 4 gennaio 1936 da una sarta pinerolese e un poliziotto calabrese, per morire a Rivoli il 19 settembre scorso ‒ con una tesi dedicata a Il concetto di fare in Aristotele e seguito da Luigi Pareyson, il giovane filosofo ha già alle spalle una militanza in Gioventù studentesca di Azione cattolica, ispirato dal comunitarismo cattolico di Maritain e Mounier e da Bernanos, nonché l’esperienza di giornalista e conduttore televisivo nella neonata RAI di Filiberto Guala. Nel frattempo alimenta anche l’interesse per l’alpinismo, in particolare in cordata con Alberto Risso, con cui realizza diverse scalate sul Monte Bianco e le Grandes Jorasses, e per un periodo accompagna Walter Bonatti ad allenarsi a Rocca Sbarua. Passerà poi un’estate al rifugio del colle del Teodulo, alternando scalate e studio di Nietzsche, di cui diventerà fra i più autorevoli interpreti in volumi come Ipotesi su Nietzsche (1967), Il soggetto e la maschera (1974), Introduzione a Nietzsche (1985), Dialogo con Nietzsche (2000). Una bella testimonianza della passione per la vita fra ghiacci e alte cime sarà il volume Magnificat (2011).

Neolaureato, vince la prestigiosa borsa von Humboldt e per due anni (1962-1963) lavora all’Università di Heidelberg presso Hans-Georg Gadamer, pubblicando quindi queste ricerche nel libro Essere, storia, linguaggio in Heidegger (1963). Con gli studi su Heidegger, di cui sarà fra i massimi interpreti e prosecutori, e poi su Schleiermacher filosofo dell’interpretazione (1968), influenza il proprio stesso maestro Pareyson, che nel 1971 pubblica Verità e interpretazione, in parte prendendo le distanze dall’ontologia negativa heideggeriana, ma proprio in senso vattimiano, apprezzandone la concezione della verità come apertura inesauribile di senso, evento da interpretarsi personalmente. Così, si parva licet, nel 1996 Vattimo incentrerà sulla concezione cristiana di kénosis, svuotamento o abbassamento di Dio nell’incarnarsi, il proprio libro-confessione Credere di credere, dopo l’uscita nel 1994 del mio Kénosis del logos, lettura della filosofia dell’ultimo Schelling che evidenzia le kenoticità del cristianesimo e della stessa ragione umana nella sua autonomia, peraltro sulle orme dell’interpretazione pareysoniana del grande pensatore svevo.

Altre opere successive come Dopo la cristianità (2002) e Nichilismo ed emancipazione (2003) svilupperanno significativamente questo ritorno di Vattimo al cristianesimo, dopo una parentesi (almeno apparentemente) di mancanza di trattazione di esso nei suoi scritti: Le avventure della differenza (1980), Al di là del soggetto (1981), La fine della modernità (1985), La società trasparente (1989), Etica dell’interpretazione (1989). Invero Vattimo interpreta la post-modernità, soprattutto nei suoi aspetti più positivi, come frutto del cristianesimo, inteso come esso stesso secolarizzante una religiosità sacrale e vittimaria in una fede emancipatoria, interpretante, caritatevole, poiché, come chiarirà in seguito, appunto kenotica. La concezione cristiana dell’incarnazione è essa stessa secolarizzante, mostrando come un rapporto con Dio sia possibile solo interpretativamente, incarnandone storicamente e sempre in prima persona il messaggio, la parola, la verità.

Il punto di passaggio a questa ultima concezione di Vattimo è il pensiero debole, formula di grande successo benché assai ambigua e tutto sommato non emblematica della filosofia di Vattimo. Come ebbe egli stesso a precisare ‒ in particolare in Oltre l’interpretazione (1994) ‒, pensiero debole significa pensiero antifondazionalista, post-metafisico, ma non in senso relativista, cosa che comporterebbe un nuovo assolutismo, a rovescio, bensì inteso in modo ermeneutico e di un’ermeneutica che non si riduce a interpretazione di interpretazione di interpretazione, in una serialità infinita e svilente, ma espone se stessa alla medesima interpretatività proclamata, essendo storico e interpretativo anche lo stesso personale orizzonte interpretante, lasciando sempre aperta un’ulteriorità di senso, anche di possibile religiosità. Quindi, dirà Vattimo, il pensiero debole più che un pensiero relativizzato e relativizzante è un pensiero per i deboli e che pensa alla debolezza dell’essere. L’essere si dà sempre indirettamente, come storicità, evento, svuotamento, mancanza, non come piena presenza e oggettività fondante, base giustificativa perentoria di ogni pensiero omologante e azione violenta. Quindi alla kénosis o svuotamento o debolezza dell’essere corrisponde una maggiore valorizzazione dei deboli, delle singole persone nella loro debolezza, comprensibile ed emancipabile solo attraverso la caritas, l’amore conseguente a una concezione interpretativa della realtà, nonviolenta, dialogica.

Siamo alle ultime opere pubblicate dal filosofo: Addio alla verità (2009), Della realtà (2012), Essere e dintorni (2018), Scritti filosofici e politici (2021). L’attenzione per i deboli della storia e della società si evince anche dall’impegno di Vattimo, come cristiano e dichiarato omosessuale, a lungo nel Partito radicale, poi in varie formazioni politiche, che lo portano per due legislature al Parlamento europeo (1999-2004 e 2009-2014). Frutto anche di queste esperienze i volumi: Il socialismo ossia l’Europa (2004), La vita dell’altro (2006) e Ecce comu (2007). Ma quello di Vattimo è un incarnare personalmente la debolezza, aiutando in silenzio il prossimo, gli umili, i piccoli, gli ultimi, sino a svuotarsi di sé e dei propri possessi, soffrendo anche diverse perdite di familiari e compagni di cammino, come il padre a un anno di età, la sorella ancora giovane, il primo e il secondo compagno della sua vita per gravi malattie.

Sicuramente Vattimo è il filosofo italiano più noto all’estero, avendo tenuto corsi e conferenze in tutto il mondo, in particolare negli Stati Uniti e in America latina, oltre naturalmente che in Europa, ed essendo tradotte in più lingue quasi tutte le sue opere. Il prezioso suo archivio personale di scritti e appunti è ora conservato presso l’Università Pompeu Fabra di Barcellona, non avendo trovato posto in quella di Torino, dove ha insegnato dal 1964 estetica e poi dal 1982 al 2008 filosofia teoretica, preside anche della facoltà di Lettere e filosofia.

Fra i maggiori esponenti dell’ermeneutica filosofica contemporanea, Vattimo ha rivendicato la vocazione ontologica dell’ermeneutica, intendendo l’essere come evento, apertura veritativa nella storia, trasmissione interpretativa. In tal modo ha salvaguardato l’ermeneutica dal relativismo storicista e prassista, evidenziando le derive assolutiste, dogmatiche, totalizzanti sia del razionalismo moderno, del giusnaturalismo, del colonialismo, sia dei loro detrattori globalisti, tecnocrati, relativisti, che omologano ogni differenza, sia fra persone diverse, sia fra finito e infinito. Rifacendosi all’autentico spirito evangelico, che intende la kénosis come incarnazione storica, ricerca personale di una verità impossedibile, eppure interpretabile nelle più umili fattezze umane, mortali, il pensiero e l’esempio di Vattimo restano una preziosa voce, tenace nella sua debolezza, a difendere ciascuna differente creatura da violenze totalitarie, imposizioni tecnocratiche, riduzionismi culturali che permeano, oggi ancora, ogni tipo di società.

i lager a cielo aperto dei nostri tempi con l’avallo dell’Europa

TUNISI

Seduto in prima fila in uno degli scranni dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo, il ministro degli Interni tunisino Kamel Feki ha il volto sereno ed è pronto a rispondere alle domande del parlamento sulla situazione migratoria nel Paese. È il 27 luglio scorso e al centro dell’attenzione ci sono le immagini provenienti dal confine con la Libia e l’Algeria, dove da quasi un mese si registrano deportazioni di massa nei confronti della popolazione subsahariana e del Sudan. Persone che vengono arrestate a Sfax, seconda città della Tunisia e uno dei punti principali delle partenze lungo il Mediterraneo, e lasciate a loro stesse senza acqua e cibo in zone militari e inaccessibili dopo essere state picchiate o avere subito violenze di ogni tipo da parte delle forze di sicurezza locali. Le ricostruzioni più recenti parlano di 1200 persone espulse verso la frontiera algerina e libica

Soprannominato Stalin in patria solo per una netta somiglianza fisica con l’ex Segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica, le parole del ministro sono precise e puntuali: «Quelle immagini sono false. Lo dico e lo ripeto perché abbiamo le prove. È stato tutto fabbricato a monte e gli autori di quelle foto sono sorvegliati con audio e video».

Tuttavia sono parole che oggi possono essere smentite facilmente. In collaborazione con PlaceMarks, un progetto specializzato in ricerca e analisi di immagini satellitari, La Stampa ha ricostruito quanto sta avvenendo al confine con la Libia grazie a una serie di foto risalenti al 14 luglio. Due giorni prima della firma del memorandum d’intesa da un miliardo di euro tra Tunisia e Unione europea alla presenza della Commissaria Ue Ursula von der Leyen, la premier Giorgia Meloni e il primo ministro olandese Mark Rutte. Nelle stesse ore in cui in vista della visita del 16 luglio a Tunisi la portavoce di Bruxelles Dana Spinant affermava che «la gestione dei migranti deve essere sempre svolta nel rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani».

Le immagini parlano chiaro. Si vedono almeno tre accampamenti di fortuna, di cui uno sembra essere costruito con una gabbia di ferro per gli allevamenti ittici, e un grande assembramento di persone, almeno 300, controllate a vista da alcuni mezzi militari tunisini e libici. A poche centinaia di metri di distanza si possono notare altri quattro mezzi della guardia di frontiera tunisina. Posizionati lungo un fossato costruito fra il 2014 e il 2018 per delimitare in maniera ancora più netta il confine, uno di questi è dotato di un mitragliatore o un cannone. «Da un’analisi storica dell’area si può affermare che lo scenario al confine tra Tunisia e Libia è qualcosa di completamente nuovo. Gli assembramenti e gli accampamenti prima non esistevano, mentre la presenza di militari in assetto di pattugliamento non è mai stata registrata in nessuna delle immagini disponibili, dal 2006 a marzo 2023», spiega Federico Monica di Placemarks.

Da queste istantanee prendono ancora più forza le testimonianze di chi in quella terra di nessuno ha vissuto per giorni senza acqua e cibo. Un limbo accessibile solo alla Croce rossa tunisina, impegnata in questi giorni a prelevare le persone per portarle in altri luoghi della Tunisia. Altri salvataggi sono stati compiuti dalle cosiddette autorità libiche, interessate a mostrare il volto più accogliente al netto di numerose denunce internazionali sul mancato rispetto dei diritti umani.

Sono testimonianze che raccontano di migranti, studenti, lavoratori, donne incinte, bambini e neonati che si sono visti privare tutto con la violenza; picchiati dalle autorità con mazze di ferro e bastoni, caricati su dei pullman e gettati senza risposte verso la Libia e l’Algeria. Per chi tentava di rientrare in Tunisia, ad attenderlo c’erano gas lacrimogeni e proiettili.Se l’Oim e l’Unhcr hanno emanato un comunicato per sollecitare un intervento a tutela di queste persone, Bruxelles sembra più concentrata sui numeri dei migranti in arrivo dal piccolo Stato nordafricano.

uomini, donne, bambini abbandonati nel deserto, gli accordi cinici europei

“sdegno e dolore davanti ai corpi nel deserto, domani saranno dimenticati”

parla padre Camillo Ripamonti

il presidente Centro Astalli

«Diritti umani garantiti? Nulla di più falso. L’Europa non chiede alcuna garanzia, in questi memorandum si parla di intervenire sulle cause dei fenomeni ma in realtà interessa solo bloccare le persone.»

“Sdegno e dolore davanti ai corpi nel deserto, domani saranno dimenticati”, parla padre Camillo Ripamonti

Il suo è un j’accuse possente: “Tutti hanno giustamente e prontamente denunciato l’azione della Russia di sottrarsi all’accordo sul grano come mossa “cinica, crudele e disumana”, che avrà come conseguenza il rischio di affamare l’Africa e di far alzare notevolmente i prezzi dei cereali. Eppure la stessa lucidità di giudizio non sembra aver caratterizzato l’UE e l’Italia in occasione della firma del memorandum con la Tunisia, che nella parte che riguarda i migranti di fatto consegna migliaia di uomini, donne e bambini a uno Stato terzo, senza nessuna garanzia sui diritti umani, anzi pur avendo evidenza del loro mancato rispetto all’interno del Paese.  Una storia che ormai si ripete: dal memorandum con la Libia all’accordo con la Turchia, hanno avuto come effetto cinico, crudele e disumano di bloccare, rendere più pericolosi e spesso tragici i viaggi di decine di migliaia di persone. Non è vera la giustificazione data per la realizzazione di tali accordi, cioè l’azione dissuasiva e regolatoria dei flussi migratori. È vero invece che quello che vediamo con chiarezza nel comportamento di altri Stati dovrebbe definire anche tali accordi per quello che in realtà sono: interessati, cinici e spesso disumani”. A sostenerlo è padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i rifugiati.

Padre Ripamonti le immagini dei civili, donne, uomini, bambini, morti di stenti nel deserto tra la Tunisia e la Libia chiamano in causa le responsabilità dei governi e dell’Europa. L’Unità ne ha fatto una mission editoriale.
È meritorio non chiudere gli occhi o relegare ai margini dell’informazione tragedie umanitarie di questa portata e ricorrenza. Di fronte a queste immagini c’è solo sdegno che riguarda anche i governi europei. Non vedo altri termini più idonei nel valutare scelte come quella compiuta dall’Unione Europea di dar vita a un memorandum come quello con la Tunisia, addirittura preso a modello da replicare in altri possibili accordi in Africa. Accordi che non vengono minimamente vincolati al rispetto dei diritti umani. Queste immagini strazianti dimostrano tragicamente che i diritti umani vengono calpestati, negati, e che la centralità della persona non è garantita, anche se a parole si dice che questi diritti sono garantiti. Nulla di più falso. Per tornare a quelle immagini agghiaccianti: si tratta di persone di origine sub-sahariana espulse dalle autorità tunisine. Abbandonati senza acqua, cibo o riparo a temperature che superano i 50 gradi, hanno camminato per chilometri prima di soccombere per lo stremo. Ennesima tragedia dovuta all’accordo di esternalizzazione firmato dall’Unione Europea con la Tunisia. Si susseguono le immagini di uomini, donne, bambini abbandonati nel deserto. Prima una mamma abbracciata alla figlia di sei anni, poi un padre stretto al figlio. Salvare vite umane è un imperativo inderogabile degli Stati. Le politiche di chiusura dei confini non possono essere considerate politiche di gestione dei flussi migratori perché in questi anni sono state strumenti di morte per troppi esseri umani. Sdegno, dolore e anche un’amara consapevolezza…  

Quale, padre Ripamonti?
Abbiamo già visto in passato che certe immagini colpiscono al momento ma non rimangono indelebili nella nostra memoria e non ci spingono a un cambio di orizzonte e di prospettiva. Anzi, l’Unione Europea facendo i propri interessi cerca di bloccare le persone in Paesi terzi che non rispettano i diritti umani.

L’Europa-fortezza, l’Europa che esclude. L’Europa mossa da un’ossessione che si fa politica: esternalizzare le frontiere.
La conferenza che c’è stata domenica scorsa a Roma ha messo in evidenza che la questione migratoria è questione molto più complessa. Però poi alla fine quello che risulta essere immediato e necessario, una sorta di imperativo categorico, è bloccare le persone. Al di là di prese di posizione in cui si afferma che i processi sono lunghi, che s’investirà anche sulle cause dei fenomeni, alla fine ci si concentra sull’esternalizzazione dei confini che poi è quello che interessa davvero. Non fare arrivare le persone in Europa. Resta questo il vero obiettivo dell’Unione Europea. Si dice: non farle arrivare in modo illegale affidandole ai trafficanti, ma in realtà quello che s’intende è non farle arrivare comunque, cercando in qualche modo di regolamentare invece i flussi legati al lavoro. Bloccare alcune persone e farne arrivare delle altre, selezionandole.

Decine di rapporti Onu e delle più importanti associazioni che monitorano il rispetto dei diritti umani, centinaia di testimonianze di sopravvissuti, non hanno smosso il ministro dell’Interno Piantedosi dalla sua convinzione, ribadita in una recentissima intervista, che la Tunisia rispetta i diritti umani.
Alla prova dei fatti abbiamo visto che queste persone muoiono perché respinte ai confini desertici tra Tunisia e Libia. Queste immagini agghiaccianti contraddicono questa assunzione a parole del rispetto dei diritti umani. Ma sapevamo già prima di queste immagini che la Tunisia aveva respinto centinaia se non migliaia di migranti verso la Libia, nel deserto, lasciandoli in balia di se stessi. Lo stesso era successo con la Libia. Si firmano accordi, li si reiterano nel tempo, senza esigere immediatamente garanzie sui diritti, e nei mesi e anni successivi si ha evidenza continua di questo mancato rispetto dei diritti umani. Questo è accaduto con la Libia, questo sta accadendo ora con la Tunisia. Il perseverare è diabolico, verrebbe da dire. Così come è già successo con la Turchia di Erdogan e con la Libia delle milizie, l’UE, per cercare di contenere gli arrivi sulle coste italiane e d’Europa, finanzia un regime che ha cancellato le garanzie democratiche al proprio interno. E lo fa senza porre alcuna concreta condizionalità sul rispetto dei diritti umani fondamentali, come dimostrano i recenti fatti che hanno visto accadere nel Paese una vera e propria caccia allo straniero nei confronti dei migranti sub-sahariani, e deportare illegalmente ai confini con la Libia e con l’Algeria centinaia di persone in transito verso l’Europa, causando la morte di molte di loro, incluse donne e bambini, e violando quel diritto internazionale che lo stesso Memorandum richiama.

Resta al fondo l’idea, la visione dei migranti come minaccia e non come ricchezza per le nostre società.
Per tanto tempo i migranti sono stati strumentalizzati a fini politici per ottenere dei vantaggi elettorali. In questo momento siamo in una situazione in cui emerge la necessità concreta a livello europeo della presenza di migranti che vadano a rinfoltire le fila per il lavoro. Però non si vuole contraddire quello che si è detto fino a ieri sui migranti. Quindi si crea questo cortocircuito in cui i migranti sarebbero utili a noi però non quelli che arrivano in modo irregolare. Ma sotto sotto si nasconde questa visione del migrante non nella sua dignità, come persona, si può farlo arrivare solo se è simile a noi, se ci può essere utile. Questo uso strumentale delle persone è del tutto inaccettabile.

Che fare allora?
Bisogna assolutamente uscire da questa prospettiva e considerare i migranti come persone, come risorse per le nostre società, non soltanto in una accezione utilitaristica, per il lavoro che potrebbero svolgere, ma per la ricchezza della loro appartenenza culturale, appartenenza religiosa, che può arricchire le nostre società. Dobbiamo cambiare la prospettiva. Non prendere quelli che vogliamo, come vogliamo, quasi fossimo in una sorta di grande supermercato umano planetario, ma pensare a un futuro condiviso, nel quale queste persone si siedono al tavolo con noi nelle nostre società e immaginano con noi il futuro.

In un suo bel libro, lei ha messo un accento allarmato sulla “globalizzazione dell’indifferenza”.
Dieci anni fa, in occasione del suo primo viaggio a Lampedusa, papa Francesco usò questa espressione, la “globalizzazione dell’indifferenza”. A distanza di dieci anni, non possiamo che raccogliere i frutti, purtroppo tristi, amari, dolorosi, di questa indifferenza. Siamo ancora a piangere delle persone morte nel deserto, respinte brutalmente, perché non si vuole riconoscerle come esseri umani. Se questa non è “globalizzazione dell’indifferenza”, allora ditemi di cosa si tratta.

Si insiste sul concetto di sicurezza, quasi sempre in termini “securitari”, e quasi mai sui concetti di legalità e inclusione. Perché, padre Ripamonti?
Credo perché nel corso degli anni abbiamo vincolato il discorso migratorio a un discorso politico funzionale al consenso elettorale. Bisognava identificare un nemico, fomentare nelle persone la paura e l’odio verso questo nemico, il migrante. Un bersaglio di comodo per quella politica che sull’odio e la paura cercava voti. Io identifico chi è il nemico. E il nemico è il migrante, magari islamico e alimento la paura verso questa persona. E così costruisco retoricamente il mio discorso politico per finalità elettorali intorno a questo nemico. Uscire da questo discorso diventa sempre più difficile. Sono più di venti-trent’anni che si alimenta questa narrazione distorta, tanto da essere entrata nell’immaginario collettivo. Bisognerebbe smontare dal punto di vista culturale questa costruzione e riprendere il discorso da una visione del migrante come una persona che viene da un altro luogo e porta delle novità rispetto al contesto nel quale andrà a collocarsi, e questa novità può essere di giovamento anche per le nostre società. La diversità va intesa come ricchezza, come fondamento dell’inclusione. L’umanitarismo è la nostra àncora di salvezza.

la morte di Bettazzi impoverisce la chiesa e il mondo

Bettazzi

vescovo sui passi del Concilio voleva una Chiesa «serva e povera»


di Filippo Rizzi 
Di Treviso ma figlio della Chiesa di Bologna, fu uomo di fiducia di Lercaro e coltivò una particolare amicizia “teologica” con il cardinale Giacomo Biffi: «Pur diversi, ci volevamo bene»

Monsignor Luigi Bettazzi in una foto d'archivio

 Un padre conciliare che ha sempre visto nel Vaticano II «più pastorale che dogmatico», il compimento di molti dei suoi “sogni” giovanili e il migliore strumento di annuncio della fede ai lontani. Ma anche un’assemblea che per i suoi contenuti e intenti programmatici ha ancora molto da dire con il suo «già e non ancora» al futuro della Chiesa.  

Si può condensare in questa immagine il rapporto con il Concilio del vescovo emerito di Ivrea, Luigi Bettazzi, morto alla soglia dei 100 anni (era nato il 23 novembre 1923) la scorsa domenica mattina ad Albiano di Ivrea. Con Bettazzi, come è stato scritto in questi giorni, scompare l’ultimo padre conciliare italiano (era il vescovo ausiliare del carismatico cardinale di Bologna Giacomo Lercaro): partecipò a 40 anni alla seconda sessione nel 1963 e solo il 4 ottobre di quello stesso anno fu consacrato presule nella Basilica di San Petronio a Bologna.

Gli ultimi superstiti tra i pastori di quella storica assise (composte da circa 2.500 vescovi) voluta da Giovanni XXIII e conclusa da Paolo VI sono oramai solo quattro: il messicano José de Jesús Sahagún de la Parra, 101 anni (1° gennaio 1922) e ultimo testimone della sessione di apertura nell’11 ottobre 1962; Victorinus Youn Kong-hi, della Corea del Sud, 98 anni (8 novembre 1924); l’indiano Alphonsus Matthias, 95 anni (22 giugno 1928); e il cardinale nigeriano Francis Arinze, 90 anni (1° novembre 1932).

Ma Bettazzi è stato, fino a domenica scorsa, soprattutto l’ultimo testimone della firma del “Patto delle Catacombe” il 16 novembre 1965, pochi giorni prima della conclusione del Vaticano II, l’8 dicembre dello stesso anno. A quello storico incontro avvenuto alle Catacombe di Domitilla a Roma, dopo una solenne celebrazione eucaristica, erano presenti figure carismatiche come Hélder Pessoa Câmara e José Maria Pires.  

Successivamente, al Patto aderirono molti altri padri conciliari dei diversi continenti che condividevano la sfida di una «vita di povertà» e il desiderio di una Chiesa «serva e povera», come aveva suggerito Giovanni XXIII.

«L’impegno, denominato “il Patto delle Catacombe”, fu poi firmato da centinaia di vescovi e fu affidato a Lercaro, che lo portò a Paolo VI – ha raccontato lo stesso Bettazzi alcuni anni fa – insieme al risultato delle sue consultazioni che, fra l’altro, suggerivano la soppressione dell’esercito pontificio e un distacco dai legami tradizionali con l’aristocrazia romana, mentre indicavano, come primo indice di povertà, nel mondo attuale, la trasparenza dei bilanci».

È significativo ancora oggi tornare con la mente al primo intervento di Bettazzi sulla «collegialità episcopale» nell’Aula di San Pietro durante la seconda sessione del Vaticano II nel 1963. L’intervento di Bettazzi fu salutato con stima e vivo apprezzamento e per questo annotato nei suoi diari (Quaderni del Concilio, Jaca Book, 2009) da un teologo del rango di Henri de Lubac.

E fu lo stesso giovane ausiliare di Lercaro a rievocare il senso del suo contributo: «Preparato dal centro bolognese di don Giuseppe Dossetti e dal professor Giuseppe Alberigo, voleva dimostrare che la collegialità era nella prassi della Chiesa romana; il cardinale Giacomo Lercaro, per cui era stato preparato, per vari motivi, non era stato in grado di farlo. Lo rielaborai e lo esposi in assemblea concludendo che la parola “collegio” contestata da alcuni, perché presso i romani indicava un’assemblea di uguali, era invece usata nella liturgia di san Mattia, inserito nel “collegio degli apostoli”».  

Bettazzi ha lasciato la sua “impronta” indiretta su testi conciliari come il documento sui laici Apostolicam Actuositatem e la Costituzione pastorale sul mondo contemporaneo la Gaudium et spes. Quest’ultimo testo rappresentò per il giovane presule un’autentica bussola di orientamento per la sua futura vita di pastore nel post-Concilio soprattutto durante il suo lungo governo della diocesi di Ivrea dal 1966 al 1999 e per i suoi 17 anni alla guida di Pax Christi (1968-1985).

È giusto ricordare che Bettazzi fu uno dei motori, a conclusione del Concilio Vaticano II nel 1965, per l’avvio della causa di canonizzazione del “suo” papa Giovanni XXIII. A testimoniarlo sono le annotazioni del grande teologo domenicano francese Yves Marie Congar nel volume da poco ripubblicato dalla San Paolo Diari del Concilio, 1960-1966.

Come certamente singolare è stata la sua amicizia intrattenuta con il venerabile il vescovo don Tonino Bello. «Lo indicai – raccontò a chi scrive – come mio successore per la sua attenzione ai poveri e agli ultimi alla guida di Pax Christi al cardinale presidente della Cei di allora, Anastasio Alberto Ballestrero. E la proposta fu accettata».

Un rapporto di stima e di confronto soprattutto teologico fu quello che Bettazzi intrattenne con il cardinale Giacomo Biffi, conosciuto a Parigi nel lontano 1951, di cui rammentava spesso l’«esemplare omelia» tenuta ai funerali di don Giuseppe Dossetti a Bologna nel 1996. «Pur nelle diversità di vedute ecclesiali – confidava – ci siamo voluti bene e gradì molto la mia ultima visita prima della sua morte nel 2015. Ci salutammo e benedicemmo da amici».  

Un ultimo spezzone significativo e originale della lunga vita di Bettazzi, originario di Treviso, ma da sempre figlio della Chiesa di Bologna, era il poter presiedere, ogni anno, finché le forze l’hanno sostenuto, la Messa ogni 4 agosto («Quasi sempre la prima Eucaristia mattutina», raccontano i frati predicatori) nella Basilica patriarcale di San Domenico.

Qui infatti venne ordinato prete il 4 agosto 1946 dall’allora cardinale di Bologna, Giovanni Battista Rocca di Corneliano. E qui tornò per i suoi 75 anni di Messa nel 2021 con l’attuale cardinale arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi. «Il mio essere qui a Bologna ogni anno – amava ripetere – è per ringraziare il Signore di essere sacerdote per sempre».

se don Milani fosse vivo oggi …

ho fatto finta di essere Don Milani e ho scritto al presidente della repubblica …

Onorevole Mattarella,
vengo a sapere che il 27 maggio, giorno corrispondente al centenario della mia nascita sulla terra, verrà a visitare il “mio paese” e la mia tomba.
Un passo importante e significativo , verso un uomo e sacerdote assolto dall’accusa di “ apologia e incitamento alla diserzione e alla disobbedienza civile” solo in quanto morto, mentre il mio coimputato per gli stessi reati è stato condannato.
Non presumo che con questo gesto Lei abbia deciso di comunicare al mondo che condivide al 100% le mie opinioni ed i miei scritti. Ma forse Lei vuole esternare la sua adesione ai principi più importanti tra quelli che volevo insegnare ai miei ragazzi: o a quelli che più direttamente riguardano la carica che lei ricopre, la più importante della Repubblica.
Forse però ha mutato alcune delle sue opinioni; e forse intende prendere le distanze da alcuni gesti suoi e delle istituzione che lei rappresenta. Forse oggi lei intende comunicare che condivide la mia affermazione “Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa.. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto”? A maggior ragione, aggiungo oggi, chi occupa la massima carica dello Stato.
La scuola, come lei sa, è stata tutta la mia vita. Ho criticato duramente, con la durezza che mi imponeva il Vangelo, la scuola del mio tempo. Una scuola che respingeva i ragazzi, come un inutile ospedale che “cura i sani e respinge i malati”. La scuola di oggi respinge ancora : ‘ISTAT ci informa che 13,1% sono 18-24enni che hanno abbandonato precocemente il sistema di istruzione e formazione. Tra i giovani senza cittadinanza italiana è al 35,4%, all’11,0% tra gli italiani. Oggi come ieri “voi dite d’aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio non fa questi dispetti ai poveri. E’ più facile che i dispettosi siate voi.”. Lo scrivevano i miei ragazzi nella Lettera a una professoressa. Conta forse, signor presidente, di mandare un autorevole richiamo alla scuola di oggi? Che si autodenomina, sciaguratamente, “del merito”; bollando come “non meritevoli “ analfabeti, poveri e stranieri? Tra quanti abbandonano precocemente la scuola, quanti sono i figli delle classi agiate? Quanti di loro potrebbero permettersi di passare ad un “diplomificio” per procurarsi l’agognato “pezzo di cata”?
Dal Il 31 gennaio 2015 i Lei ricopre la carica di presidente della Repubblica. Quindi “supremo garante della Costituzione e capo supremo delle Forze Armate”.
Ha assunto la presidenza mentre era in corso la partecipazione italiana alla guerra in Afghanistan, scatenata dagli USA con il pretesto della “caccia a Bin Laden”, successivamente catturato e linciato dai marines statunitensi in Pakistan, mai processato né condannato da nessun tribunale statunitense o internazionale. Lei non ha interrotto immediatamente la partecipazione italiana a quella guerra, palesemente incostituzionale. Anche il pretesto dei vincoli NATO, come lei sa, era inconsistente: né l’Afghanistan, né alcun altro paese hanno mai aggredito gli Stati Uniti.
La guerra è finita “da sola” lasciando la popolazione afghana, ed in particolare le donne, in una condizione inaccettabile. Ritiene ancora che la decisione italiana i parteciparvi fosse giusta? Fosse compatibile con i principi della Costituzione che “ripudia la guerra”, all’articolo 11?
Oggi l’Italia partecipa, attraverso un massiccio invio di armi, alla guerra in Ucraina. Partecipazione alla quale non siamo formalmente obbligati , e che ci esclude automaticamente, come parte in causa, da qualunque possibilità di farci attivi promotori di pace. L’Italia persegue una pace giusta o la vittoria sul campo delle forze armate ucraine?
Che cosa aspetta, a prendere posizione contro l’invio di armi, presidente? Che dalla terza guerra mondiale “a pezzi” si passi a quella intera? Che si torni alla coscrizione obbligatoria? Che si metta mano all’arsenale nucleare che, sia detto per inciso, custodiamo in basi militari solo formalmente italiane, ma di fatto di proprietà statunitense? Che senso da oggi lei alla partecipazione italiana al trattato di non proliferazione nucleare?
Che cosa aspetta a sostenere i diritti degli obiettori di coscienza russi ed ucraini? Eppure l’Italia ha riconosciuto, sia pure tardivamente e a prezzo di anni di carcere per i suoi profeti-obiettori il diritto all’obiezione, sia in tempo di guerra, sia in tempo di pace. Russi ed ucraini obiettori hanno forse meno diritti dei nostri concittadini?
E non venga a sostenere proprio a Barbiana che l’invio di armi all’Ucraina è l’unica posizione degna di uno stato “etico”. Non solo perché centinaia di altri stati non le inviano, sarebbe una ben misera argomentazione; ma soprattutto perché uno stato che partecipa da decenni a guerre per il mondo in violazione dell’articolo 11 della propria costituzione, che ha consegnato Ocalan e Abu Omar ai loro aguzzini, che discrimina bambini e ragazzi perché nati altrove, che respinge i richiedenti asilo, che ha graziato i piloti del Cermis, che accetta senza battere ciglio che mille persone l’anno perdano la vita sul lavoro, che spende miliardi in armi mentre il suo territorio affonda nel fango, che ha centinaia di aerei da combattimento ma solo 19 canadair per spegnere gli incendi, che impone alle navi che soccorrono i naufraghi di girare mezzo Mediterraneo prima di farli sbarcare, non ha diritto a definirsi “stato etico”
Lei ha avallato la decisione governativa di portare al 2% del PIL la spesa militare italiana. Una decisione formalmente legittima, ma che fa gridare di indignazione chiunque incontri un povero, subisca o veda il dissesto idrogeologico del nostro paese, tocchi con mano il cattivo stato di manutenzione delle nostre scuole, le classi sovraffollate, la carenza di insegnanti di sostegno. Come cristiano, lei avrebbe avuto il dovere di “gridare dai tetti” che questa è una grave ingiustizia. Ma non ha neppure ritenuto opportuno rinviare il provvedimento alle Camere.
L’Italia finanzia la guardia costiera libica, un’organizzazione criminale che riacciuffa i migranti e li riconsegna ai lager. Con il contributo italiano. Non uso la parola “lager” per “dare più forza al discorso”, come talvolta sceglievo di fare con i miei scritti. La uso perché l’ha usata il papa. Che ha dichiarato che si potrebbe paragonare l’azione della guardia costiera libica a quella di un ipotetico individuo che vedesse un ebreo fuggire dal lager e richiamasse l’attenzione dei nazisti.
Tra pochi giorni, tornando da Barbiana, la sua agenda prevederà la partecipazione alla tradizionale parata militare del 2 giugno; un’inutile ostentazione di forza e prepotenza che sarei tentato di paragonare al gorilla che si batte il petto o al gatto che gonfia il pelo. Vi parteciperà ancora una volta, Presidente? E troverà il coraggio di pronunciare parole di pace, di fronte ad ordigni micidiali ( che fanno “vedove ed orfani, come ho scritto nella “lettera ai cappellani militari” e che sottraggono risorse ai poveri? Ai poveri italiani e ai poveri di tutto il mondo?)
“Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri”. Lei ed io apparteniamo alla stessa Patria, presidente Mattarella?
Se invece l’omaggio che ha voluto rivolgermi è semplicemente un atto esteriore e formale, e non avrà alcuna ripercussione futura sul rispetto della carta costituzionale, cui lei è tenuto come cittadino, come supremo magistrato e come cristiano, allora la saluto e la invito a riprendere al più presto la strada, ora un po’ meno dissestata, che ho percorso nel 1954, e che la riporterà rapidamente a Roma.
Con il dovuto rispetto (e solo quello davvero dovuto)
Lorenzo Milani, sacerdote della Chiesa Cattolica.

i non pochi nemici di papa Francesco …

gli oppositori alla chiesa di Francesco

di Víctor Codina

Victor Codina, autore di questo articolo, è originario della Spagna. Nel 1948 entrò nella Compagnia di Gesù; compì gli studi in filosofia e teologia a Barcellona, Innsbruck, Roma e Parigi. Dopo aver insegnato per qualche tempo teologia a Barcellona, a partire dai primi anni Settanta vive in America Latina. Dal 1982 risiede in Bolivia, dove ha insegnato all’Università cattolica boliva. È autore di numerose opere di carattere teologico tradotte anche in italiano. Il seguente articolo è stato pubblicato su Iglesia viva (1° agosto 2019) redeamazonica.

Introduzione storica

Non è la prima volta né è strano che nella Chiesa ci siano gruppi dissenzienti e oppositori, a partire da Paolo che affrontò Cefa ad Antiochia (Gal 2,14) fino ai giorni nostri.

Ci furono dai primi concili e fino agli ultimi due. Nel concilio Vaticano I (1870) un gruppo di vescovi e teologi furono contrari alla definizione dell’infallibilità pontificia. Alcuni non accettarono il concilio e si separarono da Roma dando origine ai cosiddetti Vetero-cattolici. Altri, senza abbandonare la Chiesa, non vollero partecipare né assistere all’ultima votazione conciliare sull’infallibilità e qualcuno di essi fu così indispettito da gettare tutti i documenti conciliari nel Tevere.

Un secolo dopo (1970) emerse nuovamente la problematica sull’infallibilità, con dispute teologiche tra la voce critica di Hans Küng, da un lato, e Karl Rahner, Walter Kasper e altri teologi tedeschi più concilianti, dall’altro. La controversia proseguì tra storici critici del Vaticano I, come A.B. Hasler discepolo di Küng, e altri storici più ponderati come Yves Congar, Hoffman e Walter Kasper. Küng fu rimosso dall’insegnamento teologico.

Al tempo di Pio XII, quando, nel 1950, pubblicò l’enciclica Humani generis contro la cosiddetta Nouvelle théologie, furono destituiti dalle loro cattedre alcuni teologi gesuiti di Fourvière-Lyon come Henri de Lubac e Jean Daniélou e alcuni teologi domenicani di Le Saulchoir-Paris, come Yves Congar e Dominique Chénu. Più tardi alcuni di costoro divennero gli “esperti” al concilio Vaticano II convocato da papa Giovanni XXIII.

Durante il Vaticano II si sviluppò una forte opposizione guidata dal vescovo francese Marcel Lefèbvre che respinse il concilio Vaticano II perché lo riteneva neo-modernista e neo-protestante e finì per essere scomunicato da Giovanni Paolo II nel 1988, quando iniziò a ordinare vescovi al di fuori di Roma per la sua Fraternità San Pio X.

Paolo VI, in seguito alla sua enciclica Humanae vitae del 1968 sul controllo delle nascite, fu rispettosamente contestato da numerose conferenze episcopali che, senza negare i valori del suo contenuto, chiedevano una maggiore integrazione e puntualizzazione.

Durante i pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, più di 100 teologi furono indagati, ammoniti, messi a tacere, alcuni rimossi dalle loro cattedre e uno addirittura scomunicato.

Questo preambolo storico serve a non meravigliarsi se anche oggi, davanti alla nuova immagine di Chiesa che Francesco propone, sono sorte delle voci discordi e critiche fortemente contrarie al suo pontificato.

Opposizione a Francesco

Attraverso l’andirivieni della storia si desume che il tipo e l’orientamento dell’opposizione dipendono sempre dal momento storico che si vive: si tratta di voci progressiste e profetiche nei momenti della classica cristianità o neo-cristianità e di voci reazionarie, fondamentaliste e conservatrici nei momenti di una riforma ecclesiale che vuole tornare alle fonti evangeliche e allo stile di Gesù.

Critiche a Francesco

Attualmente esiste un forte gruppo di opposizione contro la Chiesa di Francesco: laici, teologi, vescovi e cardinali che vorrebbero le sue dimissioni o la sua rapida scomparsa e aspettano un nuovo conclave per cambiare il corso della Chiesa attuale.

Non vogliamo qui fare un’indagine socio-storica, e nemmeno uno show mediatico, tipo western, tra buoni e cattivi, perciò preferiamo non citare i nomi e i cognomi degli oppositori che oggi stanno “spellando vivo” Francesco, quanto piuttosto rilevare quali sono le linee di fondo teologiche che soggiacciono a questa sistematica opposizione a Francesco, e sapere qual è il motivo della polemica.

Le critiche a Francesco hanno due dimensioni, una teologica e un’altra piuttosto sociopolitica, anche se, come vedremo più avanti, molte volte entrambe le linee convergono tra loro.

Critica teologica

La critica teologica parte dalla convinzione che Francesco non è un teologo, ma uno che viene dal Sud, dalla fine del mondo, e che questa mancanza di professionalità teologica spiega le sue inesattezze e persino i suoi errori dottrinali.

Questa mancanza di professionalità teologica di Francesco viene messa a confronto con la competenza accademica di Giovanni Paolo II e naturalmente di Josef Ratzinger-Benedetto XVI.

opposizione a FrancescoLa mancanza di teologia di Francesco spiegherebbe le sue pericolose affermazioni sulla misericordia di Dio in Misericordiae vultus (MV), la sua tendenza filocomunista verso i poveri e i movimenti popolari e la pietà popolare come luogo teologico in Evangelii gaudium (EG 197-201); la sua mancanza di teologia morale nell’aprire la porta ai sacramenti della penitenza e dell’eucaristia e, in alcuni casi, previo discernimento personale ed ecclesiale, alle coppie cattoliche separate e risposate, come appare in una nota del capitolo ottavo di Amoris laetitia (AL 305, nota 351); la sua scarsa competenza scientifica ed ecologica si manifesterebbe nella sua enciclica sulla cura della casa comune (Laudato si’); e scandalizza la sua eccessiva enfasi sulla misericordia divina (Misericordiae vultus), che riduce a buon prezzo la grazia e la croce di Gesù.

Davanti a queste accuse, vorrei ricordare un’affermazione classica di Tommaso d’Aquino che distingue tra la cattedra magisteriale, propria dei teologi professori delle università, e la cattedra pastorale che corrisponde ai vescovi e ai pastori della Chiesa. Newman riprende questa tradizione affermando che, sebbene a volte tra le due cattedre ci possa essere tensione, alla fine c’è convergenza tra di esse.

Questa distinzione viene applicata a Francesco il quale, sebbene come gesuita padre Jorge Mario Bergoglio abbia studiato e insegnato teologia pastorale a San Miguel de Buenos Aires, ora i suoi pronunciamenti appartengono alla cattedra pastorale del vescovo di Roma. Non presume di sedersi su questa cattedra come teologo, ma come pastore. Come è stato detto con un certo umorismo, dobbiamo passare dal Bergoglio della storia al Francesco della fede.

Ciò che, in fondo, indispone i suoi detrattori è il fatto che la sua teologia parta dalla realtà, dalla realtà dell’ingiustizia, della povertà e della distruzione della natura e dalla realtà del clericalismo ecclesiale.

Non disturba il fatto che abbracci i bambini e i malati, ma indispone che vada a visitare Lampedusa e i campi profughi e migranti come a Lesbo, indispettisce che dica che non si devono costruire muri contro i rifugiati ma ponti di dialogo e di ospitalità; dà fastidio che, al seguito di Giovanni XXIII, affermi che la Chiesa dev’essere povera e dei poveri, che i pastori devono sentire l’odore della pecora, che la Chiesa dev’essere una Chiesa in uscita che va alle periferie e che i poveri sono un luogo teologico.

Disturba che dica che il clericalismo è la lebbra della Chiesa ed enumeri le 14 tentazioni della curia vaticana che vanno dal sentirsi essenziali e necessari alla smania di ricchezza, alla doppia vita e all’Alzheimer spirituale.

Infastidisce che aggiunga che queste sono anche tentazioni delle diocesi, delle parrocchie e delle comunità religiose.

Importuna che dica che la Chiesa deve essere una piramide rovesciata, con i laici in alto e il papa e i vescovi in basso e che dica anche che la Chiesa è poliedrica e soprattutto sinodale, e che facciamo tutti insieme lo stesso cammino, che dobbiamo ascoltarci e dialogare; dà fastidio che in Episcopalis communio si parli di Chiesa sinodale e della necessità di ascoltarsi reciprocamente.

Irrita i gruppi conservatori che Francesco abbia ringraziato Gustavo Gutiérrez, Leonardo Boff, Jon Sobrino, José María Castillo per i loro contributi teologici e abbia annullato le sospensioni a divinis a Miguel d’Escoto e a Ernesto Cardenal; sorprende che a Küng, che scrisse a Francesco sulla necessità di ripensare l’infallibilità, abbia risposto chiamandolo “caro confratello” (Lieber Mitbruder) e che avrebbe preso in considerazione le sue osservazioni, disposto a dialogare sull’infallibilità.

E infastidisce molti che Francesco abbia canonizzato Romero, il vescovo martire salvadoregno, tacciato da molti come comunista e utile idiota della sinistra, la cui causa era rimasta bloccata per anni.

Infastidisce che dica che non spetta a lui giudicare gli omosessuali, che affermi che la Chiesa è femminile e che, se le donne non vengono ascoltate, la Chiesa resterà impoverita e parziale.

La sua invocazione alla misericordia, una misericordia che è al centro della rivelazione biblica, non gli impedisce di parlare di tolleranza zero contro gli abusi di membri significativi della Chiesa verso i minori e le donne, un crimine mostruoso, del quale si deve chiedere perdono a Dio e alle vittime, riconoscere il silenzio complice e colpevole della gerarchia, cercare di riparare, proteggere i giovani e i bambini impedendo che accada di nuovo. E non gli trema la mano quando degrada e destituisce dai suoi incarichi il colpevole, sia esso cardinale, nunzio, vescovo o presbitero.

È chiaro che egli non è un teologo, ma che la sua teologia è pastorale: Francesco passa dal dogma al kerigma, dai principi teorici al discernimento pastorale e alla mistagogia. E la sua teologia non è coloniale, ma del Sud e questo disturba il Nord.

Critica socio-politica

Di fronte a coloro che accusano Francesco di essere terzomondista e comunista, occorre affermare che i suoi messaggi sono in perfetta continuità con la tradizione profetica, biblica e con la dottrina sociale della Chiesa.

Ciò che infastidisce è la sua chiaroveggenza profetica: no a un’economia di esclusione e di disuguaglianza, no a un’economia che uccide, no a un’economia senza volto umano, no a un sistema sociale ed economico ingiusto che si cristallizza in strutture sociali ingiuste, no a una globalizzazione dell’indifferenza, no all’idolatria del denaro, no a un denaro che governa anziché servire, no a una disuguaglianza che genera violenza, e al fatto che nessuno deve strumentalizzare Dio per giustificare la violenza, no all’insensibilità sociale che ci anestetizza di fronte alla sofferenza altrui, no agli armamenti e all’industria della guerra, no al traffico di esseri umani e a qualsiasi forma di morte provocata (EG 52-75).

Francesco non fa altro che aggiornare il comandamento di non uccidere e difende il valore della vita umana, dall’inizio sino alla fine e ripete a noi oggi la domanda di YHWH a Caino: «Dov’è tuo fratello?».

Inoltre, disturba la critica al paradigma antropocentrico e tecnocratico che distrugge la natura, inquina l’ambiente, attacca la biodiversità ed esclude i poveri e gli indigeni da una vita umana dignitosa (LS 20-52).

opposizione a Francesco

Tim Busch

Disturba le multinazionali che egli critichi le imprese forestali, petrolifere, le compagnie idroelettriche e minerarie che distruggono l’ambiente, danneggiano gli indigeni di quel territorio e minacciano il futuro della nostra casa comune. Infastidisce la sua critica ai leader politici incapaci di prendere risoluzioni coraggiose (LS 53-59).

E comincia a infastidire l’annuncio del prossimo sinodo di ottobre 2019 sull’Amazzonia, che è un esempio concreto della necessità di proteggere l’ambiente e salvare i gruppi amazzonici indigeni dal genocidio. Alcuni alti dignitari della Chiesa hanno affermato che l’Instrumentum laboris o Documento preparatorio del sinodo è eretico, panteista e nega la necessità della salvezza in Cristo.

Altri commentatori si sono concentrati esclusivamente sulla proposta di ordinare uomini sposati indigeni per poter celebrare l’eucaristia in luoghi remoti dell’Amazzonia, ma hanno completamente ignorato la denuncia profetica che questo Documento preparatorio fa contro la distruzione estrattiva perpetrata in Amazzonia, che è causa di povertà e di esclusione delle popolazioni indigene, probabilmente mai tanto minacciate come oggi.

A modo di conclusione

Senza dubbio c’è una convergenza tra la critica teologica e la critica sociale nei riguardi di Francesco, i gruppi reazionari ecclesiali si allineano con i potenti gruppi economici e politici, specialmente del Nord. Possiamo anche chiederci se questa recente esplosione di abusi sessuali che colpisce direttamente la figura di Francesco, che è allo stesso tempo pastore riformista ecclesiale e leader mondiale, sia stata una pura casualità e una semplice coincidenza.

opposizione a FrancescoIn definitiva, l’opposizione a Francesco è un’opposizione al concilio Vaticano II e alla riforma evangelica della Chiesa che Giovanni XXIII intendeva promuovere. Francesco si pone sulla linea di tutti i profeti che volevano riformare la Chiesa, insieme a Francesco di Assisi, Ignazio di Loyola, Caterina da Siena e Teresa di Gesù, Angelo Roncalli, Helder Cámara, Dorothy Stang, Pedro Arrupe, Ignazio Ellacuría e il nonagenario vescovo Casaldáliga.

Francesco ha ancora molti argomenti in sospeso per una riforma evangelica della Chiesa. Non sappiamo quale e come sarà la sua traiettoria futura, né cosa accadrà nel prossimo conclave.

I papi passano, ma il Signore Gesù continua ad essere presente e a sostenere la Chiesa fino alla fine dei secoli, quel Gesù che era considerato un mangione e un beone, un amico dei peccatori e delle prostitute, un indemoniato, fuori di sé, sedizioso e blasfemo. E crediamo che lo Spirito del Signore che discese sulla Chiesa primitiva nella Pentecoste non l’abbandonerà mai e non permetterà che il peccato, alla fine, trionfi sulla santità.

E intanto, come chiede sempre Francesco fin dalla sua prima apparizione sul balcone di San Pietro in Vaticano come vescovo di Roma e ancor oggi, preghiamo il Signore per lui, affinché la sua speranza non venga meno e confermi la fede dei suoi fratelli. E se non possiamo pregare o non siamo credenti, auguriamogli almeno che sia in buon forma.

la pace viene derisa, troppi vogliono la guerra

“catastrofe nucleare vicina, troppi vogliono la guerra”

intervista a Carlo Rovelli,

a cura di Cristina Benenati

L’uomo del giorno, dal palco del Primo Maggio, aveva previsto quasi tutto: «Ogni volta che provo a dire qualcosa di politica, qualcosa che riguarda l’interesse di tutti noi, c’è subito qualcuno che mi grida: “Taci Rovelli, occupati della tua scienza, lascia perdere la politica!”». È andata esattamente così e adesso, racconta il fisico al telefono, «sono subissato di messaggi». Colpa di quelle parole pronunciate al concertone dal divulgatore scientifico che la rivista Foreign Policy ha inserito tra i
cento migliori pensatori globali:

«È ragionevole che in Italia il ministro della Difesa sia stato per anni legato a una delle più grandi fabbriche di armi del mondo, Leonardo? E sia stato presidente della Federazione dei costruttori di armi? Il ministero della Difesa serve per difenderci dalla guerra o per aiutare i piazzisti di strumenti di morte?». Risposta, neppure troppo gelida, di Crosetto: «Quando avrà tempo lo inviterò a pranzo così gli faccio conoscere la persona, e dorme tranquillo.
Ne approfitterò per farmi spiegare la fisica di cui sono un grande appassionato».

Professor Rovelli, immaginava si scatenasse un finimondo del genere?

«Sono arrivati centinaia di messaggi, sono stato subissato. Insieme a tantissimi messaggi positivi, anche qualche insulto, pure forte, come è ovvio che sia. Ma quello che è importante è che la politica ascolti, che stia a sentire queste parole: questo è quello che conta. Invece di usare le nostre risorse per fare ospedali, scuole, musica, lavoro, le cose buone del mondo, le usiamo per fare armi per ammazzarci l’un l’altro. Si può essere più stupidi di così?».

Accetterà l’invito del ministro Crosetto?

«Ho apprezzato molto i modi eleganti e signorili del ministro. Però non si tratta di una questione personale, ma di una questione politica che vorrei discutesse il Paese».

Dunque, niente incontro?

«Se avrà piacere di incontrarmi, non dico di no. Non mi tiro mai indietro se si tratta di un incontro e un confronto con chi si dimostra intelligente e interessante. Ripeto, però, non è una questione personale e vorrei se ne discutesse nel Paese, non a cena in due. Qualche giorno fa il ministro ha
parlato di un suo gesto cortese di aiuto a una signora mentre si trovava in farmacia, questo mi è piaciuto molto».

Resta il messaggio politico…

«Stiamo andando verso una guerra che cresce e invece di cercare soluzioni i Paesi si sfidano, invadono, soffiano sul fuoco della guerra e la tensione internazionale non è mai stata così alta come adesso. Tutti dicono “pace”, ma poi molti aggiungono che prima bisogna vincere. Volere la pace, ma dopo la vittoria, significa volere la guerra, ovviamente. Ci sono decine di migliaia di bombe nucleari pronte a esplodere, puntate sulle teste di tutti, da una parte e dall’altra e non siamo mai stati
così vicino ad una catastrofe nucleare come adesso. È una follia».

Nel suo intervento ha parlato direttamente ai giovani:

«Le cose del nostro mondo che amiamo sono state costruite nel passato da giovani che hanno saputo sognare un mondo migliore – ha detto – anche a costo di rovesciare tutto qualche volta. Attaccare la Bastiglia, bruciare il Palazzo d’Inverno». E ancora: «Il pianeta voi potete cambiarlo. Non da soli, ma insieme sì».
«L’invito è a impegnarsi per le questioni serie e a lunga distanza. Ho parlato anche di clima, di catastrofe ecologica, di diseguaglianze».

E allora cosa chiede ai ragazzi?

«L’invito è a prestare attenzione, a non trascurare quello che sta succedendo. Ribadisco: sono  assolutamente sorpreso dalle reazioni di affetto e interesse che hanno suscitato le mie parole».

la libertà abusata

quanti abusi in nome della “libertà”

di Gustavo Zagrebelsky

La norma della libertà è ignota a me, come a tutti noi. Lo stesso per la giustizia, l’uguaglianza, la democrazia, l’umanità e tante altre bellissime cose. La libertà si invoca contro il male che impedisce al bene di trionfare o semplicemente contro i fastidi che impediscono di vivere tranquillamente nel proprio astuccio privato. Libera nos a malo, dice l’antica preghiera. Si presuppone in questo modo che la vita sia una grande o piccola lotta tra il bene e il male: una lotta che può lasciare indifferenti solo gli ignavi, quelli che non hanno diritto di stare in Paradiso, ma nemmeno all’Inferno. Nella filosofia, nella teologia, nei programmi dei partiti e dei governi, nei convegni e nelle conferenze
intelligenti che tanto ci piacciono, nelle strade e nelle piazze, ciascuno ha da dire la sua ma, se ne metti due insieme, capisci che ciascuno, la libertà, la pensa a modo suo. Allora, concetti che ti sembravano universali si rivelano contraddittori, singolari, parziali o addirittura settari. Singolari sì, ma hanno la pretesa di valere per tutti, anche per chi non la pensa come te. Hanno, per così dire, un aspetto bonario, ma la sostanza è aggressiva. Essendo valori assoluti devono valere assolutamente.
Siamo tutti per la libertà! Dove ci sono violenza, stupri, arbitri, oppressioni, pregiudizi,  conformismo, ignoranza, ossessioni, paure, sfruttamento, schiavitù, s’invoca e si combatte per la libertà. Questo è tanto giusto e ovvio che non ha bisogno di commento. Meno ovvio è che la si invochi anche al contrario, per schiacciarla, la libertà. È una bella parola, a disposizione di tutti. Il marchese de Sade è stato a suo modo un campione della libertà: libertino, si dice, ma il libertinaggio
è libertà al massimo grado.
Le cose ignobili sono sempre quelle che dovrebbero attirare per prime la nostra attenzione.  Prendiamo nota che in nome della libertà, della libera ricerca della felicità, come sta scritto nella Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776, l’immenso West si considerò spazio vuoto a
disposizione dei coloni e dell’esercito federale, e lì si consumò uno dei maggiori genocidi che la storia abbia conosciuto, contro la “grande nazione indiana” che popolava l’intero continente. La Libertà, il colosso con la fiaccola in mano, accoglie il viaggiatore che sbarca a Manhattan, ignaro che quella terra fu “acquistata” dagli olandesi per poche perline e cianfrusaglie dalla tribù dei nativi che non conoscevano che cosa volesse dire proprietà. In nome della libertà persero la loro terra e, molti, la loro vita. Che cosa di diverso fecero i conquistadores nel centro e nel sud delle Americhe?
Erano alla ricerca dell’oro, ma dicevano d’essere venuti a liberare quei selvaggi dalla superstizione, dai sacrifici umani, dal cannibalismo. Neppure Adolf Hitler diceva d’essere contro la libertà. Al contrario. Le camicie brune e poi le SS erano i difensori della “vera” libertà della Germania e dell’Europa minacciate dal complotto giudaico-bolscevico. Di battaglia per la libertà si parlava nel momento in cui si scatenava una guerra mondiale e si uccidevano milioni di persone nelle camere a gas. Le goliardiche camicie nere nostrane, dal canto loro, promettevano libertà alle “faccette nere belle Abissine” e, intanto, l’esercito spargeva iprite sulle popolazioni dell’Eritrea. Cambiava la miscela politica, ma anche i massacri dei kulaki e “purghe” staliniane si giustificavano con la libertà
insidiata dai nemici del popolo. Non dimentichiamo, infine, che non c’è stata alcuna impresa coloniale, del passato e del presente, che non abbia issato la bandiera della libertà. Tutti amano presentarsi come “liberatori” e non c’è invasione o bombardamento che non venga spacciato come
un dovere verso la libertà.
È facile constatare come questa parola (insieme, ad esempio, la giustizia e la uguaglianza) suona diversamente sulle labbra di chi sta in alto e di chi sta in basso nelle gerarchie del potere, dei potenti e degli inermi. Alto e basso: non c’è parola del lessico politico che si sottrae a questa dialettica di significati. La libertà che serve a chi sta in alto si manifesta in oppressione; per chi sta in basso, la libertà si manifesta in rivolta contro la libertà di chi sta in alto. Chi non distingue non solo fa
confusione e intorbida il discorso, ma inganna anche. La norma della libertà ci è, dunque, ignota perché ognuno ha a cuore la sua libertà. A seconda della posizione sociale, quella dell’uno diverge da quella dell’altro e tutte insieme possono confliggere.
Non c’è, allora, qualcosa di inoppugnabile? È, forse, tutto relativo? Riflettiamo: se non sappiamo, in generale, che cosa è la libertà, sappiamo invece bene che cosa è il suo contrario nella carne viva degli uomini, delle donne, dei bambini e degli anziani soli, degli stranieri, dei migranti, delle
minoranze, degli irregolari, degli emarginati, dei disoccupati, dei poveri. Sappiamo come questo contrario si manifesta sempre e comunque: con la violenza in una delle sue tante forme. Riflettiamo ancora: la violenza è cosa che chiunque conosce e riconosce quando la subisce su di sé e riesce a vedere negli altri. C’è forse qui un nucleo minimo di umanità comune che chiede di essere rispettato. I masochisti amano la violenza, ma solo se sono essi stessi a volerla. La violenza subita ci repelle, prima e indipendentemente di sapere che cosa la libertà è in teoria. L’esperienza dell’orrore della violenza è universale e universale è la sua condanna.
C’è una macrofisica della violenza, la guerra, e c’è una microfisica nelle piccole cose quotidiane. Il rigetto della violenza a ogni livello è un contributo alla libertà. La stessa cosa è per la giustizia? Che cosa è la giustizia? Se lo chiediamo in astratto, ci perdiamo. Non ci vuol molto a saperlo, invece, quando sperimentiamo l’ingiustizia nelle grandi come nelle piccole cose. In fondo, libertà e giustizia si tendono la mano.
Se vuoi la libertà, cerca di renderti conto di dove nasce la violenza, di dove attecchisce e di come si  viluppa. Questo potrebbe essere il motto di questa VIII edizione di Biennale Democrazia che ha scelto di fermarsi più sulle pratiche e meno sulle dottrine. Per questo non inizierà, per esempio, con “la libertà da e di”, e non terminerà con “la libertà degli Antichi e dei Moderni” e magari dei Futuri, ma con le vittime della guerra a Kiev e con il processo a Siniavskij e Daniel a Mosca. L’Accademia
è, sì, buonissima cosa, ma la nostra Biennale vuole diffondere pungoli per scuotere di dosso pigrizie, conformismi e indifferenze non (solo) guardando attraverso concetti, ma anche attraverso le esperienze della libertà, dei suoi amici e dei suoi nemici.

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