“la speranza si è messa in cammino”

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Jacques Noyers – Vescovo emerito di Amiens:

Francesco, l’ultimo dei papi?

«Francesco anticipa nella sua persona una forma escatologica di esistenza, che, in quanto forma
generale di vita, appartiene ancora all’avvenire» (1). È una citazione di Benedetto XVI! o piuttosto
di Joseph Ratzinger quando era semplicemente un teologo. Preciso subito che si tratta di Francesco
d’Assisi visto da san Bonaventura e non di papa Francesco annunciato dal suo predecessore.
Vedendolo abbandonare i segni sfarzosi del Sovrano Pontefice, come il primo Francesco restituì
sulla piazza di Assisi i suoi vestiti da borghese al proprio padre, si potrebbe pensarlo. Un papa che
augura «buon appetito» ai suoi interlocutori, un papa che paga il conto dell’hotel, un papa che
viaggia portando a mano il proprio bagaglio, un papa che parla di stare con i poveri e nelle periferie
e che va loro incontro a Lampedusa…
Per mesi, sono rimasto a bocca aperta davanti a tante sorprese. Avevamo delle idee sul futuro della
Chiesa, sulle qualità auspicabili del nuovo papa, sulla priorità delle riforme da intraprendere. Ma
non avevamo previsto questo: un papa che non “gioca” a fare il papa!
Aspettavo quello che sarebbe successo: una fine del mondo? Eravamo forse agli ultimi giorni della
chiesa e all’avvento della pienezza del Regno di Dio?
Ohimé, la mia età non mi permette più di volare facilmente nell’entusiasmo dell’apocalisse. Vedevo
questa chiesa, il suo peso, le sue abitudini, le sue certezze. Conoscevo la sua inerzia. Come avrebbe
potuto quella farfalla risvegliare la balena?
Mi domandavo se fosse possibile lasciar arrugginire senza rimpianti in un angolo la struttura
ingombrante e mal funzionante del Vaticano e ripartire da zero, con le parole del vangelo.
La nostra chiesa sarebbe stata capace di far la muta come il serpente che abbandona sul posto la
propria ingombrante corazza?
Al nostro papa è sufficiente uno spazio libero dove dare appuntamento a tutti gli assetati della
Buona Notizia.

La speranza

Bene! So di sognare. Non si cancella di colpo il peso di mille anni di cristianità. Ci sono
ambasciate. Ci sono cardinali. Ci sono gendarmi. Ci sono guardie svizzere. Ci sono finanze. Ci sono
uffici. C’è la curia.
Allora mi domando se saprà, col suo sorriso disarmante, trasformare lo scenario che non può
cancellare. Si sono già visti alcuni gesti profetici. Si è già vista la differenza tra un pastore che si
cura delle persone e un dottore che si cura dei discorsi. Si è ascoltato il richiamo ad andare verso le
periferie, invece dell’invito a riunirsi docili attorno al centro.
Abbiamo visto mettere al primo posto l’attenzione nei confronti di tutti coloro che questo mondo
non vuole vedere.
Si aspettano parole nuove, immagini inattese, gesti profetici. Si commenta, ci si diverte… Invece i
media vedono solo operazioni di comunicazione più o meno abili. Nella chiesa non c’è la
rivoluzione. Si sono cambiate le immagini dei papi nelle sacrestie. Ma tutto continua come prima. Del resto, potrebbe apparire offensivo per il nuovo papa immaginare che possa veramente dire cose
diverse dai suoi predecessori. Chi oserebbe mettere in pratica la consegna di papa Francesco ai
giovani: fate casino?
Tuttavia non riesco a rassegnarmi a questo comodo pessimismo. Le grandi rivoluzioni richiedono
del tempo. Bisogna che si scontrino con ciò che è diventato abitudine. Occorre che corrodano, che
minino, che le si creda soffocate perché un giorno le grandi istituzioni crollino. Posso credere nello
Spirito di Dio che in questo modo rinnova la faccia della terra?
Già so che uomini e donne scoraggiate dall’immobilismo della chiesa riprendono un po’ fiducia.
Iniziative quasi clandestine osano lentamente manifestarsi. I vescovi che avevano creduto di far
piacere al papa mandando cristiani sulle strade per difendere la morale si rendono conto che forse il
papa attende da loro altri cammini verso i poveri.
Siamo sempre in attesa. Attesa di nuove iniziative del papa per approfondire la rimessa in questione
della pseudocristianità del potere. Attesa di un’eco più chiara di questa nuova parola negli
ingranaggi complicati della chiesa. Attesa anche di reazioni che certamente non mancheranno di
sollevare tutti coloro che si sentono sicuri nelle istituzioni del passato. Attesa soprattutto che il
desiderio di avanzare sulle strade del vangelo sia permesso e incoraggiato. Mai la testa avanza senza
i piedi!
È ancora troppo presto per cantare l’alleluia dell’ultimo giorno. Ma la speranza si è già messa in
cammino.
(da “Adista”)

H. Kung di fronte alla sua morte

 

Il teologo svizzero potrebbe scegliere il suicidio assistito

Trasmissione Raitre Che tempo che fa

Hans Küng, tra i più famosi sacerdoti e teologi cattolici contemporanei – noto soprattutto per le idee progressiste e di rottura rispetto alla tradizione – potrebbe scegliere la strada del suicidio assistito.

Lo studioso svizzero, nato nel 1928, è da tempo affetto dal morbo di Parkinson e nel suo ultimo libro di memorie “Erlebte Menschlichkeit” (pubblicato in lingua tedesca la scorsa settimana) esprime il proprio parere favorevole all’autodeterminazione sul fine vita.

una guerra tra poveri

un bell’articolo di Chiara Saraceno su ‘la Repubblica’ odierna sulla guerra tra poveri: “Non appena il ministro Giovannini annuncia di voler introdurre un reddito minimo per chi si trova in povertà – una misura che esiste da diversi decenni in quasi tutti i paesi europei – non solo la destra, ma anche i sindacati fanno opposizione, chiedendo che prima, appunto, vengano salvaguardati e rifinanziati tutti i diversi tipi di ammortizzatori sociali esistenti. Mantenendo proprio quella frammentazione categoriale che ha finora impedito di garantire diritti certi e omogenei”

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UNA GUERRA TRA POVERI
(Chiara Saraceno)

Quanto è difficile nel nostro paese uscire da logiche puramente categoriali: che riconoscono diritti e protezioni diversi a persone nella stessa condizione oggettiva, ma appartenenti a categorie – professionali, territoriali, di età, ecc. – differenti. Non appena il ministro Giovannini annuncia di voler introdurre un reddito minimo per chi si trova in povertà – una misura che esiste da diversi decenni in quasi tutti i paesi europei – non solo la destra, ma anche i sindacati fanno opposizione, chiedendo che prima, appunto, vengano salvaguardati e rifinanziati tutti i diversi tipi di ammortizzatori sociali esistenti. Mantenendo proprio quella frammentazione categoriale che ha finora impedito di garantire diritti certi e omogenei per omogeneità di condizione: una indennità di disoccupazione universale per tutti coloro che perdono il lavoro e non sistemi macchinosamente differenziati che si prestano a logiche clientelari e lasciano scoperti ampi gruppi di disoccupati, unitamente, appunto, ad un sostegno al reddito per i poveri.

Condivido il timore dei sindacati che, in una situazione di risorse scarse, ci sia il rischio che avvengano tagli senza compensazione. È dovere dei sindacati, oltre che dei partiti che dovrebbero avere a cuore l’equità e l’uguaglianza almeno di fronte al bisogno, sorvegliare che ciò non avvenga. Capisco, e in linea di principio condivido, anche la richiesta di risorse aggiuntive, specie dopo che la questione della mancanza di fondi non ha fermato la cancellazione della prima, e forse anche della seconda, rata dell’Imu sulla prima casa, con ovvio beneficio per i più abbienti. Ciò che non condivido è la difesa strenua della frammentazione categoriale. Come se un giovane che perde un lavoro a tempo determinato valesse meno di uno che perde un lavoro a tempo determinato e viene messo indefinitamente in cassa integrazione a zero ore; come se un esodato avesse più diritti di un/una cinquantenne che ha perso il lavoro e difficilmente ne ritroverà un altro; come se chi è povero e non appartiene a nessuna “categoria protetta” avesse meno diritti.

La frammentazione categoriale cui assistiamo oggi, con tutte le ingiustizie che produce e i buchi che lascia aperti, è frutto del modo in cui si è sviluppato il sistema di protezione sociale italiano: per progressivo incrementalismo che allargava sì la platea dei “protetti”, ma senza mai ridefinire il disegno complessivo, creando disuguaglianze anche tra gli stessi “protetti”. È avvenuto per i lavoratori, i pensionati e persino i disabili. In modo diverso è avvenuto anche per quanto riguarda il sostegno al costo dei figli, ove chi finisce con il non aver diritto a nulla sono proprio i più poveri. In effetti, non si può non rimanere colpiti dall’attenzione, nel migliore dei casi marginale, per la povertà che caratterizza il dibattito politico e la stessa posizione dei sindacati, oltre che del Pd.

Eppure la povertà è aumentata notevolmente negli ultimi anni, colpendo soprattutto le famiglie con figli minori e toccando anche ceti che fino a poco tempo fa pesavano di esserne al sicuro. A farla crescere non è stato solo l’aumento della disoccupazione, ma anche la riduzione forzata degli orari di lavoro e lo scarto tra redditi e costo della vita. Il reddito minimo, proposto dalla commissione di esperti che il ministro Giovannini sembra voler far propria, mira a coprire almeno parte della distanza tra reddito disponibile e costo di mantenimento di un livello di vita decente. Per chi non ha lavoro, o è in una forte situazione di precariato, sarebbe accompagnata da attività di formazione e accompagnamento al lavoro, per rafforzarne, come si dice, l’occupabilità. Da questo punto di vista, potrebbe essere anche inteso come uno stimolo dal lato dell’offerta di lavoro, a integrazione di quelli che si dovrebbero mettere in campo dal lato della domanda (riduzione del cuneo fiscale, sostegni a chi assume, ecc.), per evitare che i più poveri manchino anche queste opportunità.

È sicuramente legittimo chiedere risorse aggiuntive, e prima ancora chiedere che, in una situazione di risorse scarse, queste non vengano erogate principalmente a favore dei più abbienti, cui anzi si dovrebbe chiedere una solidarietà maggiore, rinunciando ad una quota dei propri benefici (disboscando le detrazioni fiscali, ad esempio, e tassando le pensioni alte). Tale richiesta sarebbe, tuttavia, più forte se si accompagnasse alla disponibilità a rivedere anche le ingiustizie che si nascondono nel categorialismo spinto del nostro frammentato sistema di protezione sociale.

in memoria

 

cento bare

(ricevo da p. Agostino e metto a disposizione per la comune riflessione)
IN MEMORIA
3 OTTOBRE 2013

Sarebbe forse stato più adatto il silenzio per aprire questa serata. Siamo infatti sommersi dalle parole, dalle immagini, scelte apposta per farci piangere di più, dalla retorica insopportabile dei politici(Alfano è corso a Lampedusa con la stessa fretta con cui AVEVA votato il pacchetto Maroni sui respingimenti) dai mezzi di comunicazione, dagli addetti ai lavori. Resta il fatto che di circa 500 persone ne sono rimaste vive 155 il resto , cioè volti, storie, affetti, speranze giù in fondo al mare dove faranno compagnia agli altri cira 25.000 , morti dal 1988 in po, di cui ci siamo dimenticati, come faremo con questi ultimi, fra qualche giorno, travolti dalle miserabili storiucce dei nostri cosiddetti governanti. Se fossimo davvero sinceri nel manifestare il dolore per queste tragedie, potremmo piangere per queste creature, ma non siamo credibili perché anche quelli che arrivano vivi li trattiamo mica tanto bene; li ammassiamo nei CPT per mesi come delinquenti dato che abbiamo creato il reato di clandestinità. oppure li sfruttiamo col lavoro nero. Questi ultimi disperati venivano da Eritrea Etiopia Somalia, scappavano dalla guerra infinita che da anni affligge quelle popolazioni, quindi erano rifugiati politici e l’articolo…. della Costituzione e la convenzione di Ginevra chiede di accoglierli. In questo caso lo loro emigrazione era dettata dal bisogno estremo di salvarsi la vita e invece hanno trovato ancora morte. L’emigrazione in genere è un effetto la cui causa trova le sue radici nel mondo occidentale: radici economiche prima di tutto ,e vendita molto lucrosa di armi(in Africa non ci sono fabbriche di armi e anche l’Italia e l’Europa tutta sopperiscono ben volentieri a questa mancanza). Di questo si dovrebbe occupare tutta l’Europa cambiando i suoi rapporti con questi paesi, e sopratutto cambiando il capitalismo di rapina che invece piace tanto a chi è già ricco e se ne sbatte di chi crepa in un modo o in un altro. Quindi piangiamo pure le vittime ma interroghiamo anche le nostre coscienze perché c’è qualcosa che uccide più della morte stessa ed è l’indifferenza, il non curarsi di chi ti è vicino, di chi soffre, di chi ha meno di te anche se ti sembra di avere poco. E’ vero, molti di noi sono poveri e altri se ne aggiungeranno se per
esempio a Piombino verrà messa la pietra tombale sulle acciaierie, ma se qui da noi ci ammaliamo abbiamo ancora ospedali che ci curano , se non abbiamo pane ci sono opere di carità che in qualche modo ci sostentano. Nei paesi da dove vengono queste persone non c’è niente di niente e le donne muoiono di parto, i bimbi per una diarrea. Che faremmo noi al loro posto se ci fosse una sola possibilità di scampare a questa sorte? Non ho altro da dire se non un grazie dal profondo del cuore ai lampedusani e a tutti quelli che in mille modi si sono affannati per salvare quelle vite. Loro non sono rimasti indifferenti.

una mostra a Roma dei ‘senza fissa dimora’

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HOMELESS

(Wlodek Goldkorn)
 
Nel mondo i senza tetto sono cento milioni. In Italia cinquantamila. Un fotografo per anni li ha ritratti. Dappertutto. E ha colto il sacro che è in loro. Il suo lavoro in mostra a Roma

A parlare sono gli occhi, gli sguardi di coloro che ha fotografato Lee Jeffries, nella sua serie di ritratti degli homeless, dei senza casa. Sono immagini che non necessitano di molte parole: e che saranno in mostra, in anteprima mondiale, al Museo di Roma a Trastevere, a partire dal 19 ottobre (twitter.com/Lee Jeffries). Jeffries l’autore, o forse co-autore, perché i soggetti dei suoi ritratti sono partecipi all’opera, è un inglese di Manchester, ha 41 anni, ed è stato per vari anni in giro per le strade di Londra, Parigi, New York, Miami, Las Vegas e anche di Roma. Era alla«ricerca di un incontro», dice nel breve testo scritto per il catalogo della mostra.

Voleva entrare in contatto con uomini e donne che in strada vivono ogni giorno e ogni notte perché non hanno né tetto né letto; i senza fissa dimora li chiamiamo nel gergo burocratico. La sua intenzione non era tanto quella di documentare un fenomeno sociale, quanto stabilire un rapporto che durasse nel tempo, attraverso l’immagine impressa dalla camera. Ha finito per creare intimità, con le persone ritratte. Basta vedere le immagini: i protagonisti della sua opera si danno con estrema generosità; come ci si affida a un amico, fratello, amante. L’artista tuttavia non ha voluto fornire né i nomi delle persone né raccontare i luoghi e le circostanze in cui le ha fotografate. Non perché i senza casa, “i barboni”, si assomiglino tutti. Al contrario, l’ipotesi di Jeffries, un’ipotesi che ogni spettatore può verificare, è questa: i volti degli homeless sono segnati da elementi di santità. E sono i corpi non le parole a raccontare le pene patite.

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Detto così, può sembrare una teoria sentimentale, new age, da sazi signori facili a commuoversi di fronte alla sofferenza: basta sia sofferenza altrui. Verrebbe naturale muovergli l’accusa di voyeurismo: spesso ai fotografi si rimprovera questo peccato. Ad assolvere Jeffries da ogni presunta colpa e, anzi, far ammirare la sua opera, è, come si è detto, il centro della sua narrazione, gli occhi appunto (perfino gli occhi ciechi, ma espressivi del ragazzo a pagina 82). Infatti, Jeffries sembra aver capito che gli occhi servono non solo a guardare, ma anche a essere guardati, a svelare i segreti; sono gli occhi a raccontare le nostre gioie, tristezze, speranze, sogni. Si dice, a ragione, che gli occhi sono lo specchio dell’anima. Ma l’anima cosa è? Secondo la geniale intuizione del filosofo Franz Rosenzweig, l’anima non è altro che la luce di dio in ciascuno di noi. Ecco spiegato il tentativo di Jeffries: fotografare l’anima; cogliere la luce divina che emanano (quando ne sono capaci) gli umani. Più prosaicamente, il fotografo tenta di compiere un’operazione simile a quella che guida ogni artista: si immedesima nell’oggetto del racconto, cerca di provare le sue stesse emozioni, per dar loro una forma. Un procedimento che i grandi scrittori e narratori chiamano empatia. O se vogliamo: il fotografo si dà il compito di rubare l’anima del soggetto protagonista del suo lavoro; gli antropologi sanno che esistono popolazioni e tribù che per questo motivo rifiutano di farsi fotografare.

Dice Jeffries: «La sofferenza e la spiritualità sono sinonimi. Il mio scopo è far appello al senso di fede e all’umanità degli spettatori». La stessa frase può essere detta, laicamente, così: siamo tutti vagabondi sulla Terra e l’esperienza del lasciare la casa paterna per andare a esplorare strade ignote è l’essenza di ogni narrazione; i miti in fondo di questo parlano. È un vagabondo che sfida il destino Ulisse; lo è Abramo che lascia la sua dimora in Mesopotamia per seguire la voce divina. Ed è vagabondo il folle don Chisciotte nella ricerca della gloria e del riscatto. Cervantes non raccontò solo il nobile avventuriero: dalla sua penna sono uscite narrazioni di picari veri, reietti, marginali che vagavano per le strade di Spagna. E siamo tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, periodo in cui comincia a darsi forma la modernità con il suo impellente bisogno di ordine e razionalità e con il conseguente rifiuto degli esseri umani considerati superflui, disadattati al lavoro e alla quotidiana disciplina. È il periodo in cui “le corti dei miracoli”, gli assembramenti di coloro che non possiedono altro che la loro nuda vita e i loro corpi, magari deformati dalle malattie, dipinti meravigliosamente qualche anno prima (come se fossero a futura memoria) da Peter Bruegel, vengono soppressi d’autorità. Caravaggio, ancora saprà usare i volti dei marginali per dare forma ai santi (e la poetica di Jeffreis vi assomiglia). Poi su quel mondo cadrà la scure della Ragione.

Racconta lo storico polacco Bronislaw Geremek che alla vita dei vagabondi e dei marginali ha dedicato la carriera di studioso (in italiano con Laterza), come nel Seicento, a Parigi, capitale emergente del mondo della Ragione, appunto, viene sancito il divieto di accattonaggio. I senza casa sono rinchiusi negli “Ospedali dei poveri”. Sveglia all’alba, lavoro pesante, poco cibo, gli uomini separati dalle donne e chi non produce non mangia. In altre parole: con la Razionalità (Spinoza in quel periodo separa la filosofia dalla teologia e il mito dalla storia) nasce il modello qualche secolo più tardi conosciuto come Lager. È un modello che non prevede spazi per coloro che rifiutano l’equazione tra lavoro e felicità. E c’è chi vede negli “Ospedali dei poveri”, il prototipo della fabbrica industriale.

C’è un bellissimo e poco frequentato libro di Jack London, “Il popolo degli abissi” (Robin edizioni) che richiama le foto di Jeffries. E che testimonia come il regno della Razionalità, che a parole tenderebbe ad abolire la marginalità e la follia, in realtà le moltiplica. A partire dai poveri e dai senza casa, appunto. Lo scrittore americano, nel 1902, andò a vivere per qualche mese a East End a Londra; quartiere dei miserabili, dei pazzi, degli homeless. Il suo racconto è integrato da decine di foto: bambini che dormono sulle panche, poveri sotto la neve nei giardini pubblici, venditori di stracci. Aveva il dono dell’empatia London, come pochi scrittori prima e dopo di lui. Ecco, nel libro usa espresioni strane: «Ho visto cose che avrei preferito non vedere»; «una donna che non assomigliava più a un essere umano». E anche «sono cose inenarrabili». Ebbene, con 40 anni di anticipo, London adopera, come toccato da una premonizione, gli stessi termini che verranno usati di fronte alla necessità di narrare la Shoah. Il limite dell’indicibile si era spostato più in là dai tempi di London. Ma, l’intuizione è di Zygmunt Bauman, chi cerca di eliminare marginalità, non solo la moltiplica, finisce per sterminare le masse di presunti marginali.

Rimane il fatto che gli homeless vivono tra di noi. I dati globali parlano di cento milioni di persone, ma sono difficili da verificare. In Italia, secondo Istat e Caritas i senza fissa dimora sono oltre 50 mila. Sei su dieci si trovano in questa condizione perché hanno perso il lavoro. Più precisi i dati della Fondazione De Benedetti che riguardano la sola Milano. Nella metropoli del Nord i senza casa sono oltre 2.600. Il 72 per cento dorme in strada. Nove su dieci ha esperienze di lavoro. Hanno fiducia solo negli assistenti sociali e un po’ nel Comune. In altre parole: sono il risultato del crollo di quel modello che prevedeva la fabbrica come centro della vita e il lavoro come strumento della crescita personale.

La deindustrializzazione ha finito per far tornare nelle nostre strade i vagabondi, le Madri Coraggio, descritte nel Seicento in Germania da Grimmelshausen da cui Brecht ha tratto il suo celebre dramma; donne disposte a tutto perché hanno perso tutto. Ma poi, guardiamo le foto di Jeffries. Forse ha ragione lui; forse la sofferenza va insieme con la spiritualità, e basti pensare all’emozione che suscita anche in non credenti il corpo nudo di Cristo sulla croce (e Gesù era un vagabondo) o i corpi dei santoni indiani sulle rive del Gange a Benares; oppure basta ascoltare quel poeta che alla stazione Santa Maria Novella di Firenze la sera recita versi bellissimi, mescolati con terribili improperi in spagnolo.

perché?!

cento bare

“Le persone valgono in quanto tali. Sempre. E in ogni luogo. È la loro umanità che infonde valore a tutto il resto. E non il contrario. Si tratti delle più prestigiose istituzioni. Morali o politiche. Economiche o familiari. Si tratti della ragion di stato o di quella celeste”

una bella riflessione-denuncia che merita di esser letta e meditata:

Solo fortuna.

Luca Calvetta

 Io non ho chiesto a nessuno di nascere. Non ho scelto alcunché. Nè le mani, le labbra, il passato dei miei genitori. Nè il denaro e la sensibilità che mi avrebbero formato. E neanche le paure o l’amore che avrei ricevuto. Sono nato un giorno di settembre, io, senza volerlo. E senza meriti particolari. Senza altre colpe, neppure, che non fossero il sangue che ho in corpo.

Sono nato cittadino italiano, io. Per puro caso. Sono nato in una famiglia benestante. E non ingrasso se anche mangio molto. Sono nato uomo, bianco e con gli occhi verdi. E godo di tutti i privilegi che questa condizione mi riserva. Per puro caso. O se vogliamo, per la storia che l’umanità ha fino a qui sedimentato.

Per puro caso, allora, e per una certa antichissima violenza.

Sono nato dalla parte opportuna dell’ingranaggio. Acquisto vestiti, alimenti ed oggetti fabbricati in altre parti del mondo o in Italia, anche. Non molto curante, a dire il vero, dei processi, delle mani e dei corpi che li hanno portati fino a me. Deposito soldi, in banca. Spendo, perfino investo, io, dei soldi. Ancora meno consapevole delle loro traiettorie. Purché un margine di profitto sia garantito. E posso permettermi addirittura di esigere che quel cibo sia talvolta biologico, equo e solidale. Che quel conto corrente sia sufficientemente poco chiaro da non recare in calce il nome di una qualche dittatura, all’altro capo del pianeta.

Per puro caso, dunque, e per una certa deliziosa pigrizia.

Sono cresciuto attraversando molti paesi e culture. Camminando sul filo delle frontierecome un equilibrista in scena, durante l’esibizione. Senza pericolo alcuno di cadere. Senza pericolo alcuno di cadere, mai. Perché non mi erano destinate barriere di nessun genere. Dogane. Oceani o procedure di ammissione. Perché l’unica frontiera sono sempre stati i miei soli, altissimi desideri. E per questo, sempre, mi sono potuto dire cosmopolita. Democratico. Liberale. Per pura conseguenza del caso.

Io non ho mai dovuto chiedere a criminali di alcuna sorta un favore, un aiuto, una tutela. Perché solamente chi non ha diritti si trova a comprendere, fin dentro alla propria carne, che i diritti esistono. E si violano. E si lodano come un salmo alla domenica, mentre si pensa a tutt’altro. O non si pensa affatto.

Io non ho mai dovuto chiedere a nessuno che la mia dignità venisse rispettata. Perché la mia dignità poteva tranquillamente fare a meno di un lavoro, di una religione, di una patria, in qualche modo. Perché la mia dignità poteva tranquillamente oltrepassare le distinzioni di razza, orientamento sessuale o istruzione. Per mero frutto del caso e per niente altro ancora.

Io sono sempre stato profondamente europeista. Perché dalle finestre del mio appartamento all’ultimo piano, si gode di una vista meravigliosa sulle nuvole al tramonto. Ed è facile inseguire le più nobili astrazioni. Spetteranno agli altri, suppongo, accalcati negli autobus in basso, per la strada, le incoerenze e gli scarti dei miei sogni sovranazionali. Per la strada in basso e, certo, più lontano: al di là dei monti e delle acque. Al di là degli occhi.

Per mia sorte, mia sorte, mia grandissima sorte.

Io posso permettermi di dire, quindi, che le diverse leggi poste a guardia dei confini sono una barbarie. Io posso permettermi di dire che l’idea stessa di confine è un arbitrio morale e perfino filosofico. Io posso permettermi di insultare chi permane razzista e xenofobo. E posso dire che la retorica sopra i morti a Lampedusa e ovunque, non deve condannarsi, se serve a proporre una questione. E a porla davvero nei cuori. Di tutti. Per puro caso.

E posso perfino gridare che non cambierà mai nulla fin quando si insegnerà che l’essere umano deve salvarsi o redimere da una colpa precedente. Che la sua dignità gli deriva dal sudore della fronte. Dal lavoro. O i suoi diritti dalla condizione di cittadino di un numero limitato di nazioni. O fedele d’una specifica religione. Che la sua dignità e finanche la sua sopravvivenza gli derivano dall’essere maschio o femmina, omosessuale o altro ancora. Che la sua vita dipende, in altre parole, dal ruolo che gli spetta all’interno di un insieme più ampio. E nella misura in cui rimane subordinato agli interessi di chi controlla quello stesso insieme.

Io posso dire tutto questo, senza nessuna certezza di venire compreso. Per puro caso, posso dirlo e pensarlo. Quello che non posso, invece, dire per un semplice giro della fortuna, ma perché devo dirlo, è che Lampedusa, lei, non è figlia del caso. E non dipende da una legge. Dal coraggio di un peschereccio e neppure dai soli strumenti dell’Unione europea.

Perché Lampedusa non è un incidente. Un dramma. Una triste notizia. Ed i morti senza nome di Lampedusa non sono altri morti da quelli vomitati ogni singolo giorno dal nostro sistema nel suo complesso. In ciascuno dei nostri gesti. Gusti. E consumi. Ovunque si subordini l’umanità di una persona ad un criterio ulteriore. Ad un’altra, più stringente qualità. Oltre quella, semplicemente, di essere al mondo.

Genere, razza o fede, allora, cittadinanza, occupazione o produttività, assemblea degli azionisti o sfruttamento delle risorse naturali. Le persone valgono in quanto tali. Sempre. E in ogni luogo. È la loro umanità che infonde valore a tutto il resto. E non il contrario. Si tratti delle più prestigiose istituzioni. Morali o politiche. Economiche o familiari. Si tratti della ragion di stato o di quella celeste. Perché questo non è il caso. È la nostra responsabilità. E la logica di un sistema che implica per sua stessa natura partizioni, ingiustizie e morti.

O se ne cambia l’essenza, quindi. A piccoli passi, magari. Progressivamente. O Lampedusa tornerà senza sosta. Vicino e lontano e dentro ciascuno di noi. Perché non ho chiesto a nessuno di nascere, io, tanti anni fa, ma ho lasciato che qualcun altro morisse. Ogni giorno.

la burocrazia del mare che uccide

migranti-tuttacronaca

è giustamente arrabbiatissimo A. Padellaro, direttore de ‘il fatto quotidiano’ nei confronti della burocrazia marina (ma non solo) che in nome di protocolli e formalità astratte permette non solo la morte di tante persone non soccorse in tempo utile, ma impedisce a volontari di farlo, pena l’accusa di favoreggiamento dell’emigrazione illegale …

Lampedusa, il protocollo dell’Isola dei Conigli

di Antonio Padellaro 

Ma quali imperdonabili colpe hanno i poveri morti di Lampedusa abbandonati, bruciati, annegati e adesso usati, maneggiati, falsificati ed esibiti come una qualunque, dozzinale merce politica e televisiva? Che dire del ministro Alfano che “unendosi alla vergogna del Papa” ne tradisce il pensiero e lesto se ne appropria avendo, al contrario, Francesco rivolto il grido sdegnato anche e soprattutto a quegli uomini di governo che potevano fare e non hanno fatto. E che poco hanno intenzione di fare visto che Angelino mette le mani avanti e ci comunica che “forse non sarà l’ultima tragedia” come se gli oltre 6mila migranti, che in un decennio hanno concluso la loro traversata in fondo al mare morto siciliano, fossero la conseguenza di una fatalità imperscrutabile e inevitabile. Cosa dunque dobbiamo pensare quando la presidente della Camera Boldrini ci dice che “nulla dovrà essere più come prima”, visto che “prima” c’era lei che per conto dell’Onu si occupava a tempo pieno di quei rifugiati di cui ora non risulta che si occupi più nessuno? E quel tutto che deve cambiare perché nulla sia più come prima come potrà farlo in presenza di leggi infami e imbecilli come quella Bossi-Fini che prevede l’accusa di favoreggiamento anche per chi soccorre in mare persone stremate che stanno per morire? (Senza contare il reato di immigrazione clandestina che sarà contestato ai superstiti, colpevoli forse, di essere rimasti vivi). Come può cambiare la burocrazia vigliacca del nulla impastato col niente che, mentre le barche dei pescatori affondavano stracolme di corpi disperati, avrebbe risposto alla richiesta di trasbordarli sulle motovedette, “non possiamo, dobbiamo aspettare il protocollo”.

Frase talmente abietta che l’unica cosa da augurarsi è che non sia mai stata pronunciata. E se il premio Nobel per la Pace andrebbe giustamente assegnato alla nobile gente di Lampedusa, per il senso profondo che hanno dato alle parole accoglienza e soccorso, quale solenne menzione di biasimo si dovrebbe appuntare sul petto di chi doveva intercettare il barcone con il dispositivo Frontex o per lo meno, avvistarlo con i radar e che avrà per sempre sulla coscienza quella moltitudine implorante e sommersa a poche centinaia di metri dalla costa? Vicino a quell’Isola dei Conigli, dalla notte del 2 ottobre luogo geografico della disperazione e dell’ignavia. Che hanno fatto di male i poveri corpi di Lampedusa per essere esposti infine nei talk show della sera, vittime che i consueti ospiti urlanti si sono rinfacciate nel solito pollaio tra finta commozione e autentica oscenità? Potrebbe non essere l’ultima pena riservata a questi eritrei e somali colpevoli di essere fuggiti dalla fame se, come si teme, il minuto di silenzio loro tributato negli stadi dovesse essere interrotto dai fischi e cori razzisti. Sarebbe la degna marcia funebre per un Paese che è naufragato molto tempo fa.

Il Fatto Quotidiano, 6 Ottobre 2013

Le tre cose da fare per poterci dire umani (Gad Lerner).

 

povertà

in piena tragedia delle centinaia di morti e dispersi di migranti e davanti alla loro lunga fila di bare per i cadaveri recuperati dalle onde e risuonando in noi e ancora nelle nostre orecchie il rimprovero papale: ‘vergogna!’, vengono alla mente alcuni pensieri per non perdere la nostra umanità: di seguito una lucida riflessione di Gad Lerner:

TRAGHETTI.

La prima cosa che ci vuole sono traghetti sicuri verso porti accoglienti, quand’anche i politici non possano dirlo apertamente.

È questa la prima ovvia necessità se si vuole evitare che il Canale di Sicilia si trasformi in una nuova Fossa delle Marianne. Quel tratto di mare non è di per sé insidioso per la navigazione; diventa tale quando lo solcano barche malconce e stipate all’inverosimile. Peggio dei vagoni merci diretti a Auschwitz esattamente settant’anni fa, se proprio vogliamo fare il calcolo del numero di persone ammucchiate in una superficie più o meno analoga. La differenza è che ad Auschwitz ci si andava deportati a morire, contro la propria volontà. Mentre sulle carrette del mare le persone si imbarcano volontariamente, pagando cifre con cui sugli aerei si viaggia in business class, nella speranza di vivere. Per questo la prima urgenza sono i traghetti che garantiscano un trasporto civile e sicuro dalle coste africane verso porti europei attrezzati. Non solo perché lo impone il codice fondamentale dell’umanità. Ma anche perché il metodo inverso dei respingimenti in mare, dopo quattro anni di applicazione e dopo migliaia di morti, non è risultato dissuasivo. Sono disperati ma non certo stupidi i fuggiaschi dalla Siria, dall’Eritrea, dalla Somalia. Se continuano a partire assumendosi una così elevata percentuale di rischio, significa che lo considerano il male minore. Probabilmente hanno ragione. Hanno conosciuto ben altra ferocia che non la voce grossa di qualche politicante italiano. Hanno già visto morire troppa gente per tornare indietro dopo un naufragio. Organizzando un adeguato servizio di navigazione per i migranti in fuga dalla guerra e dalla miseria — che resteranno peraltro una quota esigua rispetto al totale dei milioni di profughi accampati in attesa di fare ritorno alle loro case — le Nazioni Unite e l’Unione Europea infliggerebbero un duro colpo alle organizzazioni criminali degli scafisti. Esse lucrano enormi profitti, grazie ai quali diventano sempre più forti e pericolose. Fino ad impadronirsi di intere regioni e fino a sottomettere le istituzioni locali, com’è già avvenuto con i trafficanti d’armi e di droga. Illudersi di risolvere questo problema per via mi-litare, rafforzando — come pure è necessario — il monitoraggio del canale di Sicilia con altre motovedette italiane o europee, è pura demagogia. La seconda cosa da fare è restituire ai profughi il fondamentale diritto perduto: uno status giuridico certificato. Documenti d’identità validi. La convenzione di Ginevra del 1954 è superata. Oggi il diritto internazionale può avvalersi di una rete di codificazione informatica ben più efficiente, in grado di tutelare e sorvegliare le moltitudini di persone costrette alla mobilità. Se siamo stati capaci di organizzare il monitoraggio sistematico delle merci, cui viene garantita la libera circolazione, non si vede perché lo stesso non possa avvenire per gli esseri umani. È questione sovranazionale di volontà politica, ma anche di civiltà giuridica: la condizione di profugo ridotto all’apolidia, cioè deprivato di un passaporto valido e quindi impedito sia nel diritto a un lavoro regolare sia nel diritto alla mobilità regolare, ormai riguarda decine di milioni di persone. Va regolamentata prima che dia luogo a guerre di nuovo tipo. Non bastano le sanatorie, come quella promulgata dal governo Berlusconi nell’aprile 2011 in seguito alle primavere arabe. Anche se vale la pena ricordare che quella sanatoria riguardò in tutto 22 mila fuggiaschi, e che in quell’anno fatidico sbarcarono sulle nostre coste meno di 50 mila profughi. Fate voi la proporzione: 50 mila profughi in un paese di 60 milioni di abitanti. Restiamo sempre ben al di sotto delle cifre allarmistiche sparate dagli imprenditori politici della paura. Occorrerà certo attrezzarsi per accogliere e smistare un flusso in crescita dalla sponda sud del Mediterraneo, ma per favore non ci si venga a parlare di invasione. La terza cosa da fare è una modifica della legge Bossi Fini del 2002 che ha di fatto irrigidito la normativa per il riconoscimento degli aventi diritto all’asilo politico. Sembra incredibile, ma ne ospitiamo una quota infima rispetto ai nostri partner europei, il che oggi ci rende poco credibili quando chiediamo aiuto a Bruxelles. Tanto più dopo l’introduzione del reato di clandestinità nel 2009, rivelatosi utile solo a “legittimare” la pratica illegale dei respingimenti in mare. È giusto pretendere che l’Europa non si volti dall’altra parte e che, potenziando le strutture comunitarie di Frontex, partecipi all’opera di accoglienza e monitoraggio dei profughi. Purché tale richiesta sia preceduta da un doveroso ripasso della storia e della geografia. La forma allungata della nostra penisola che si protende grazie a migliaia di chilometri di coste verso la sponda sud del Mediterraneo, ne determina una vocazione naturale; che i nostri antenati hanno saputo trasformare più volte in supremazia culturale, commerciale, finanziaria. Ciò che è valso per il passato, vale anche per il futuro: non c’è crescita, non c’è progresso italiano che non si avvalga di una relazione armoniosa con l’insieme del bacino Mediterraneo. Oggi la sponda sud è in fiamme, ma nel mare non si possono costruire dighe. E la penisola non può rattrappirsi. Il lutto nazionale proclamato ieri dal nostro governo deve quindi essere valorizzato nel suo significato più profondo, che va oltre l’umana pietà: gli uomini, le donne e i bambini che muoiono nel tentativo di approdare sulle nostre coste appartengono alla nostra comunità, abbiamo un destino condiviso.

Da La Repubblica del 05/10/2013.

Rom e sinti, l’informazione scorretta sotto la lente dell’Osservatorio

ancora sinti

                Ogni giorno 1,86 episodi di informazione scorretta nei confronti di rom e sinti: “I media influenzano i processi di inclusione e discriminazione della minoranza rom”. Secondo l’Osservatorio 21 luglio, una soluzione c’è: monitoraggio costante e interventi puntuali            

 Ogni giorno, in Italia, si registrano 1,43 casi di incitamento all’odio e discriminazione nei confronti di rom e sinti, per lo più attraverso dichiarazioni di esponenti politici riprese da giornali, siti web e social network. Stereotipi e pregiudizi verso tali comunità, del resto, sono alimentati da una media giornaliera di 1,86 episodi di informazioni scorretta a opera di giornalisti di testate locali e nazionali. Sono questi i dati principali che emergono dallo studio Antiziganismo 2.0, il rapporto dell’Osservatorio nazionale  sull’incitamento alla discriminazione e all’odio razziale dell’Associazione 21 luglio, presentata pochi giorni fa a Roma nella sede della Federazione Nazionale della Stampa.

Dal 1 settembre 2012 al 15 maggio 2013, il monitoraggio dell’Osservatorio 21 luglio, effettuato su circa 140 fonti, ha rilevato 370 casi di incitamento all’odio e discriminazione e 482 casi di informazione scorretta in grado di alimentare il cosiddetto fenomeno dell’antiziganismo, definito dalla Commissione Europea contro il Razzismo e l’Intolleranza come “una forma di razzismo particolarmente persistente, violenta, ricorrente e comune che viene espressa, tra gli altri, attraverso violenza, discorsi d’odio, sfruttamento, stigmatizzazione e attraverso le più evidenti forme di discriminazione”.

“La particolarità del nostro lavoro non si esaurisce qui – spiega Carlo Stasolla, presidente del consiglio direttivo dell’associazione –: noi non ci limitiamo a monitorare, ma interveniamo”. L’area legale dell’Associazione 21 luglio ha intrapreso 135 azioni correttive, tra cui 75 segnalazioni all’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali), 29 lettere di diffida, 10 esposti al Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti, 7 segnalazioni all’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori di Polizia di Stato e Carabinieri (Oscad).

“L’intervento puntuale può dare ottimi risultati – continua Stasolla –, ma non è sufficiente. Servirebbero organi istituzionali predisposti. Oltre che, ovviamente, a una rivoluzione culturale. Considerato che quest’ultima sembra di là da venire, noi proviamo a provvedere nell’immediato con i mezzi che abbiamo a disposizione”.

I risultati non si sono fatti attendere. Le segnalazioni dell’Osservatorio 21 luglio hanno portato alla chiusura di due siti web: viairom.wordpress.com e bastazingariinitalia.myblog.it che, con modalità differenti, diffondevano contenuti lesivi della dignità delle comunità rom. Nel marzo 2013 l’équipe dell’Osservatorio ha ricevuto la rettifica, da parte di Edizioni White Star, dei contenuti di un paragrafo della guida National Geographic su Roma che criminalizzava indistintamente le comunità rom. Durante la campagna elettorale romana, a seguito dell’invio tempestivo di una lettera di diffida, il candidato del Movimento 5 Stelle ha provveduto a rimuovere dalla sua pagina Facebook un’immagine in cui accusava tutti i rom che si erano recati alle primarie del Partito Democratico di aver ricevuto 10 euro. Al momento della chiusura dello studio, tutti gli esposti al Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti presentati dall’Osservatorio risultano ancora pendenti, ma dall’attività di monitoraggio è emerso che 4 giornalisti (Luca Casciani de Il Giornale d’Italia, non professionista curatore di una rubrica periodica; Maria Cristina Lani e Antonio Marino di MilanoPost.info; Michele Mendolicchio di Rinascita.eu) non hanno più proposto articoli dai contenuti lesivi.

Carlo Stasolla interviene, oggi,  sabato 5 ottobre alla tavola rotonda Comunicazione e Rom in Europa organizzata a Ferrara in occasione del festival  di Internazionale, per capire quanto i mass media influenzino i processi di inclusione o, al contrario, di discriminazione della minoranza rom nel Vecchio Continente. Insieme con lui, Nicu Dumitro, giornalista rumeno; Dimiter Kenarov, giornalista e scrittore bulgaro; Marcello Maneri, ricercatore presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Milano-Bicocca; Nazzareno Guarnieri, fondatore e presidente della Fondazione Romanì Italia. (ambra notari)

 

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E. Ronchi e la preghiera

mare fiore

una bella riflessione di Ermes Ronchi sulla preghiera: meditazione sul padre nostro

Questa sera cercheremo di riscoprire insieme lo stupore di essere figli. Lo faremo guidati da una intuizione di Gregorio di Nissa che afferma: “I concetti creano idoli, solo lo stupore coglie qualcosa”.
Spesso qualcuno mi dice: “Padre non ho tempo per pregare. Per favore, preghi lei per me”. Ebbene io rispondo così: “Ricorda che pregare è come voler bene. C’è sempre tempo per voler bene, perché non serve il tempo. Tu non dici: adesso mi prendo cinque minuti per voler bene a mio figlio, a mio marito, al mio nipotino. E’ sufficiente evocare la persona amata e da te parte un qualcosa, un messaggio interiore, uno slancio, una luce. Non serve il tempo, ma il cuore. Qualcosa prende la strada e parte in pellegrinaggio verso il luogo del tuo amore. Basta un istante per amare, o meglio, per esserne consapevole. Perché già ami prima, già sei struttura d’amore dentro, là dove nascono le parole, i sogni, i sorrisi, le azioni. Così è la preghiera, basta un istante, uno slancio del cuore, un solo movimento. I padri antichi dicevano che la preghiera è itinerarium mentis in Deum, cammino dell’anima verso Dio, istante forse breve, ma acceso; passo che ci pare cortissimo, ma che vibra di forza. La preghiera è un attimo immenso. Forse, solo per istanti si può realizzare il comando difficilissimo di Gesù: amerai con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente… Solo per istanti immensi.
Perché in principio non c’è la preghiera. La preghiera non è il primo atto dell’uomo, né del credente. Prima c’è un’esperienza, un grido, la passione del dolore, un amore, la carezza della gioia, uno stupore, almeno quello di essere vivi. Ed è questa la sorgente da cui nasce la preghiera come supplica e come canto, talvolta come contestazione di Dio..
Bisogna essere ben vivi per saper pregare. Bisogna essere molto vivi per pregare bene. Perché la preghiera è già in noi come sete, come esigenza. Dobbiamo solo lasciarla sgorgare, riconciliandoci con le pagliuzze d’oro che sono già presenti nel fiume del nostro io profondo. La preghiera è già dentro. Infatti lo Spirito Santo già prega in noi con gemiti inesprimibili (Rom 8,26). Che io ne sia consapevole o no. Non dobbiamo andare a conquistare la preghiera lontano, in chissà quale deserto misterioso. La preghiera respira col mio stesso respiro. La preghiera nasce prima delle parole. È sete e grido. Viene prima di te. Nasce con il bambino che nasce e grida con il bambino che grida. Non consiste nel dire preghiere: è desiderio di una sorgente e grido del sangue. Appartiene alle fibre più intime di tutto ciò che esiste.
Noi siamo chiamati a partecipare a questa corrente immensa e salvifica, che viene dal seme stesso della vita. Allora pregare è facile. Io prego perché vivo. L’intima essenza d’ogni creatura è di essere preghiera.
Che cos’è, allora, la preghiera? È collocare il senso ultimo della vita, delle cose, non in se stessi ma fuori di sé. È costatare che la speranza del mondo non risiede nella cronaca quotidiana ma oltre, in alto. Pregare, perché? Perché quando imparerò a pregare, avrò imparato a vivere, sarò finalmente uomo. Pregare vuol dire accorgersi che esistono gli altri. È smettere di ripiegarsi su se stessi: è urgenza di aprirsi, è sfuggire all’eterno ritorno su di sé. Narciso è più lontano da Dio di Caino; colui che guarda solo a se stesso è più lontano da Dio di Caino.
Dice il Signore nel libro della Genesi: Io proteggerò Caino, chi lo tocca sarà punito (Gn 4,15). Ma Narciso è assolutamente inconvertibile.

Io prego perché vivo e vivo perché prego

Io prego perché vivo, perché vivere è desiderare l’altro, desiderare la comunione. La preghiera è innata in tutte le nostre fibre, grida nella nostra stessa fisiologia. Prego perché vivo. L’essenziale preghiera dei salmi, la più ripetuta, è soltanto questa: Signore, fa che io viva. Il mio sangue chiede di vivere in una invocazione muta, originaria, primordiale, ininterrotta. Io chiedo di vivere e vivere chiede comunione. Diceva Heidegger: denken ist danken, pensare è già ringraziare. Vivere è già pregare.
E poi, io vivo perché prego. La preghiera fa lievitare la vita che si irrobustisce al contatto con Dio. Vorrei dirlo con una divagazione etimologica. Nella liturgia noi usiamo ancora la parola greca Kyrios, che significa Signore, parola liturgica della chiesa universale, da sempre in uso, e che deriva dal verbo KYO, il verbo più proprio e geloso ed esclusivo della donna, che indica l’essere incinta, il portare dentro una vita.
Il nome di Kyrios viene attribuito a chi è portatore di vita, a colui che fa crescere, difende, protegge, fa germinare vita. Dio è Dio perché datore di vita, colmo, gravido di vita che da lui si diffonde nella creazione continua, nella generazione perenne, nella resurrezione di ciò che credevo morto o spento. Dio è padre e madre nella sua stessa radice etimologica, nel senso primordiale di gravido di vita.
Allora pregare è pormi davanti a Lui, come davanti a una fontana, perché vita venga e riempia le anfore vuote del cuore, le anfore assetate dell’anima. Pregare è, allora, partecipare alla vita del Kyrios, che dona, nutre, fa crescere la vita.
Prego perché vivo: in tutte le forme dell’amore, l’uomo vivendo prega, fa comunione con la storia di Dio. Vivo perché prego: porto Dio nella vita, faccio della vita un luogo teologico, di rivelazione, faccio dell’amore un luogo privilegiato di evangelizzazione, un nuovo battesimo.
Quando Zaccaria, padre di Giovanni il Battista, riceve il messaggio dell’angelo nel tempio (Lc l,8ss) e dubita, diventa muto. Ritrova la parola solo quando nasce il bambino, cioè quando lui diventa padre, quando partecipa del kyrios di Dio. Ritorna alla parola e ritrova la capacità di pregare quando gli nasce un figlio, quando un amore nuovo scioglie i limiti del cuore.
Così noi ritroviamo la parola e la preghiera, ritroviamo le parole buone e giuste quando siamo padri, quando cioè abbiamo cura della vita, quando sappiamo amare. La vita cessa di essere muta quando generiamo un figlio, un amico, un fratello, un amore. Se non hai un cuore di carne, le parole diventano di pietra.
Tu preghi quando dai vita. Così Zaccaria riprende a parlare e a pregare (è il Benedictus, la preghiera che la Chiesa ripete ogni giorno all’alba) quando la sua vita si apre al dono, diventa piena, vera. Prega perché vive. E, pregando scopre dimensioni nuove per il figlio, e profondità impensate: tu bambino, figlio mio bambino, figlio senza parole, tu sarai profeta e Dio verrà dietro di te. Pregare crea uomini con più orizzonti e con più storia. Non ci interessa un sacro che non faccia fiorire l’umano.
La stessa cosa accade alle due madri, Elisabetta e Maria. Sono entrambe incinte, partecipano del Kyrios, colui che è la fonte della vita e che le abilita al canto, al Magnificat per Maria, alla beatitudine e alla lode per Elisabetta: la preghiera sgorga dalla vita. Pregare è facile, dunque, basta essere ben vivi. E vivere è facile, non è un mestiere ingrato, basta non essere come Narciso.

Il Padre nostro

Nella preghiera cristiana, quella che sappiamo meglio, quella che intesse il nostro crescere, che accompagna i nostri giorni è il Padre nostro. Essa è prima di tutto una preghiera “espropriata”, dove mai si dice “io”, mai si dice “mio”; sempre, invece “tu” e “nostro”. È la preghiera in cui si è liberi dalla tirannia di questo “io” che vuole mettersi al centro. Ricordate la parabola del fariseo nel tempio. Prega, e pregando pecca; continua a ripetere “io faccio, io dico, io pago, io non sono come gli altri…” (Lc 18,9-14). La sua preghiera non è altro che un monumento innalzato a se stesso. E Dio è un muto specchio su cui far rimbalzare la sua soddisfazione.
Il primo atteggiamento per pregare bene è imparare a dire “tu”: il tuo nome, il tuo Regno, la tua volontà; e – di conseguenza – è imparare a dire “noi”: il nostro pane, i nostri debiti, il nostro male. Pregare è uscire dall’io ed entrare nella relazione. Il segreto del Padre nostro è la relazione. In questa preghiera la passione per il cielo si coniuga con la passione per la terra. E la causa dell’uomo diventa la causa di Dio. E mentre nella prima parte l’uomo si interessa di Dio e dice: il tuo Regno venga, la tua volontà si compia, nella seconda parte Dio si interessa dell’uomo e gli dona pane, perdono, liberazione dal male.
Qui udiamo l’appello ad uscire da noi stessi: la sua voce che continuamente dice “va”, che continuamente dice “vieni”. Vai verso l’uomo. Vieni verso il Padre. Non si può pregare se non si ama con la stessa intensità il cielo e la terra. Il Padre Nostro è la preghiera degli appassionati: è nata da una immensa passione per il cielo e per la terra ed è destinata non a grigi impiegati, ma a gente ben viva, appassionata di Dio e degli uomini.

Essere figli

La prima esperienza di umanità che noi tutti facciamo è quella di essere figli. Noi esistiamo perché figli: di un uomo e di una donna e del loro amore, figli di una storia, figli di Dio. La prima esperienza comune a tutti è l’essere generati, da altri, a una vita che non è mia, che viene da prima di me e che va oltre me. A una vita che è dono. La prima esperienza è che nessuno è figlio di se stesso. Così la prima parola del Padre Nostro ci apre alla trascendenza. Parola importante, filosofica, difficile, attraverso la quale un uomo e una donna annunciano che il segreto del loro modo di vivere è in un “al di là”, in un altrimenti. Il mio segreto è un “oltre”. Questo affermo quando dico “Padre”: il mio segreto è oltre me. E ricevo me stesso come un dono che viene da altrove. Accanto all’orante e alle sue prime parole si può allora percepire l’onda di un mare invisibile che viene a battere sulle cose e sulle parole della vita quotidiana, come un appello a salpare, a navigare avanti. Così inizia il Padre nostro: l’essenziale è avere un padre. Che ama ed ha cura.
Per il cristiano avviene come per il bambino: solo se fa l’esperienza di essere amato sarà poi capace di amare a sua volta. Perché ad amare si impara: noi cristiani lo impariamo da Dio.
C’è la tentazione, oggi, di ridurre la religione a carità, a solidarietà umana, al compimento di opere buone. Fai del bene corrisponde a Sei un buon cristiano. Questo è importante ma assolutamente insufficiente. L’ultima tentazione della Chiesa, oggi, è quella di una religione senza Dio, senza trascendenza, di una religione ridotta a opere buone, a un codice di virtù sociali, quasi una religione “atea”. Da un Dio superfluo ci preservano la preghiera e l’eucaristia che hanno come loro meta la comunione con Dio.

Abbà, Padre

E Gesù diceva: Abbà. Parola aramaica, non ebraica, parola del linguaggio popolare, del dialetto comune. Tutte le preghiere che gli evangelisti ci hanno tramandato iniziano con questa parola: Padre. Per 170 volte ricorre nei Vangeli questo termine che è una delle caratteristiche inconfondibili della preghiera di Gesù. E mi chiedo: perché inconfondibile, se tutte le religioni, da sempre – i Sumeri, gli Egizi, i Greci, i Latini – hanno usato questo termine di Padre riferito alla divinità? Se questa parola raccoglie il senso di precarietà e di dipendenza di ogni creatura sotto il sole? Se anche gli Ebrei nel Primo Testamento e più spesso al tempo di Gesù, si rivolgevano a Jahwé chiamandolo Padre, sentendosi figli? Perché dire che ciò è tipico di Gesù?
La singolarità del rapporto di Gesù con il Padre è una costante di tutti e quattro i Vangeli. E lo rivela anche l’uso sorprendente di alcune formule: Gesù parla sempre di “mio Padre”, oppure di “vostro Padre”, non associandosi mai ai discepoli per dire insieme a loro “nostro Padre”. Gesù aveva coscienza di una relazione unica, e non estensibile, con il Padre. Lo stesso Padre Nostro non è l’orazione detta insieme, non è la preghiera comune a Gesù e ai discepoli: “Quando voi pregate, direte: Padre nostro”. Quando pregava Gesù diceva: Abbà!
Abbà è la parola aramaica con cui i bambini in casa chiamano il papà; fuori casa, il figlio che incontra il genitore, lo chiama “Signore”. In casa, anche il figlio sposato si rivolge al genitore con Abbà. È la parola più confidenziale, più affettuosa, più familiare. Non ha la solennità della lingua liturgica: in sinagoga si pregava Dio dicendo: Abinù, (padre nostro, in ebraico) o più semplicemente: “ab”. Ma Gesù nel colloquio con Dio usa il linguaggio dei bambini e non quello dei rabbini; usa la lingua di casa e non quella dei documenti: usa il dialetto del cuore.
Questa espressione familiare e banale per chiamare Dio “abbà-papà” poteva apparire come una mancanza di rispetto verso Jahwé. Ma il Vangelo conserva la precisa espressione aramaica, proprio per conservare l’avvenimento dell’ardire insolito di Gesù.
E qui dobbiamo confessare che anche per noi è insolito e un po’ imbarazzante rivolgerci a Dio con l’appellativo di papà; anche per noi, oggi, il messaggio di Cristo suona sconcertante e l’abbiamo talvolta travisato o corretto, talvolta velato o dimenticato. Avviene come per un bambino, che quando chiama il padre o la madre, non li chiama per nome, col loro nome proprio. Papà, o mamma, non è un nome fra tanti: indica invece una precisa relazione, che si compie nell’amore.
Ricordiamo la bella trasmissione televisiva in cui Roberto Benigni commentò l’ultimo canto del Paradiso di Dante. È possibile parlare di Dio solo se l’uomo è come un poppante:

Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella. (Par., XXXIII, 108)

Unica parola adatta è quella di chi ancora non parla, dell’infante stretto al seno: è solo balbettando, come un poppante, senza pretendere di sapere, solo ripetendo queste due sillabe ab-ba come un balbettio infinito, che possiamo dire Dio. Se non diventerete come bambini…(Mt 18,3). In questa parola Abbà – non nella parola Padre è l’originalità dell’esperienza di Gesù. E dice che l’identità della vita, il nome del vivere, è “relazione d’amore”. Se non diventerete come bambini, non entrerete… (Lc 18,17). Il bambino è colui che può sopravvivere solo se è amato; è colui che vive dell’amore dei suoi genitori, colui il cui domani dipende dall’amore; vive dentro una struttura vitale intessuta di amore e di fiducia. Il bambino è colui che un gesto d’amore ha tratto ridente dal nulla, e reso eterno.
Gesù conosce e usa anche altri nomi di Dio, lo vediamo nelle parabole dove Dio appare come Signore, re, giudice, padrone; ma tutte le parabole sono sotto il grande arcobaleno della bontà e della tenerezza di Dio come abbà, papà. Tutti gli altri sono appellativi di Dio, aggettivi, ma padre è il suo nome proprio. Che cosa Gesù ha veramente creato nel campo religioso? Gli studiosi cercano ciò che del Vangelo ha radici nell’Antico Testamento e ciò che invece è assolutamente nuovo, originale. Ebbene, l’unica cosa originale è Lui, un Figlio che si rivolge a Dio con questo nome così insolito, cosi poco ossequiente, così assoluto: abbà.
E scopriamo allora di avere un Padre, scopriamo che non nasciamo per una combinazione casuale di cellule, o di aminoacidi, che non si vive per coincidenze, né si muore per caso, votati al nulla, ma che tutto è sotto il segno della paternità. La storia dell’uomo è chiusa tra due parentesi che gli atei dicono “di nulla”, e che noi, con Gesù, diciamo “di amore”.
Perciò la prima parola della preghiera è Padre, anzi papà, cioè una vibrazione, una totalità, una modulazione della gamma dell’amore. Un amore sorgivo, iniziale, primordiale: la radice della preghiera e della fede e di tutta la religione è ciò che Dio fa per me, non ciò che io faccio per Dio. Pregare dicendo Padre è entrare in una struttura di fiducia; significa opporre alla struttura del sospetto reciproco e della indifferenza il sistema della fiducia assoluta.

Padre e altri amori

Di quale padre si tratta? Innanzitutto di lui possiamo dire che egli è Padre che non sequestra i suoi figli, che li ama di un amore non possessivo. Che non è geloso degli altri amori dell’uomo. Infatti sulla santa montagna del Sinai non ha detto: Tu non avrai altro amore all’infuori di me. Ha detto invece: Non avrai altro Dio all’infuori di me. Nel vangelo Gesù riassume la legge e la profezia in queste parole: amerai il Signore tuo Dio, con tutto il cuore. Ma non dice: amerai Dio solamente. Dio non è Padre geloso, un rivale dei nostri amori. La totalità del cuore che egli chiede non significa esclusività del cuore. Allo stesso modo, con la stessa totalità amerai tua moglie, tuo marito, tuo figlio, i tuoi genitori. Li amerai con tutto il cuore, ma non amerai solo loro. Amerai anche il tuo amico, lo amerai con tutto il cuore, ma non amerai solo lui.
Il Padre non è geloso delle gioie della strada, non è in competizione con i nostri amori. Non vuole essere unico possessivo sbocco del nostro cuore. Il cuore dell’uomo ha molte lunghezze d’onda, ama in molte direzioni, e Dio non può e non vuole rispondere a tutte. Non vuole sottrarci alla polifonia dell’esistenza. Il rischio di una religione malintesa è di farci smarrire la polifonia dell’esistenza. Qui vive una parrocchia di musici e artisti che possono capire molto bene tutto ciò. Il rischio di una religione capita male è quello di far perdere tutta la ricchezza delle note e dei suoni della vita. In una relazione vissuta bene Dio è come la nota dominante, il canto fermo, e attorno ad esso può dispiegarsi in tutta la sua ricchezza il contrappunto di tutte le altre voci, degli altri amori, sicuri di essere sostenuti dal canto fermo e di riuscire ad esprimere tutta la loro bellezza.
Amerai allora il tuo Padre che è nei cieli, lo amerai gelosamente come unico Dio. E non avrai altri idoli, altri dei. Ma ci saranno altri amori, per necessità, per resurrezione, come acqua e pane nostro quotidiano. Piccolo e grande nostro cielo quotidiano. Liberi da un malinteso amore possessivo del Padre.

Amore sorgente

II Padre esiste solo se ha dei figli vivi, solo come paternità continua, solo come sorgente di vita, trasmessa a noi. Gesù dice alla Samaritana: ti darò un’acqua che diventerà in te sorgente (Gv 4). Anche tu esisterai solo come sorgente per qualcuno che vive accanto a te. La fine della sete non è nel bere a sazietà, ma nel diventare fontana per altri, nel dissetare qualcuno, diventando sorgente per i bisogni e l’arsura d’altri. La fine della fame non sta nel consumare voracemente per me il mio pane, ma nel saziare la fame d’altri. La felicità, tutti lo sappiamo, non sta nel consumare la mia riserva di piacere, ma nel far nascere un sorriso sul volto dell’altro. Allora la felicità che da te defluisce la riattingi dal volto dell’altro, moltiplicata. Come diceva Pacomio, abate del primo monastero cristiano: “È nell’affaticarmi per voi che trovo il mio riposo”.

Genitore e padre

Dio è padre. Genitore è colui che genera fisicamente un figlio. Padre colui che ti introduce nella vita. La nostra cultura e la nostra esperienza privilegiano la paternità rispetto alla generazione fìsica. Generare un figlio è facile, bastano pochi istanti per essere genitore. Ma essere padre è una avventura che prende tutta la vita. Essere padre significa insegnare il mestiere di uomo, l’arte di vivere, mostrare come si ama, come si lavora, come si gioisce. Dio è padre per questo. Nella sacra Scrittura il termine figlio, applicato a noi, è un termine tecnico: voi dite che avete Abramo per padre, ma non fate le opere di Abramo; non siete quindi suoi figli. Perché il termine figlio nella Scrittura designa colui che agisce come agisce il padre, colui che prolunga nella sua esistenza l’eredità del padre, le sue caratteristiche, il suo comportamento. Figlio è colui che si comporta come il Padre, figlio di Dio è uno che fa ciò che Dio fa.
Beati i costruttori di pace, saranno chiamati figli di Dio (Mt 5,1-12). Perché lui non è il Dio delle guerre, ma della pace, che stronca le guerre e riporta alle loro case i prigionieri (Gdt 16,2). Chi fa la pace agisce come Dio, per questo è figlio di Dio. Dio è Padre solo se i figli agiscono come lui. Egli ha messo la sua paternità nelle nostre mani. Allora vediamo come non ci sia etica possibile senza una mistica, senza una comunione di vita con Dio. La morale altro non è che l’espandersi verso l’esterno di una vita divina che già urge dentro, che si dilata e fa forza contro le pareti troppo strette del cuore. Non c’è etica senza mistica. Non c’è mistica senza preghiera.
Il Vangelo è pieno di una piccolissima parola, come, un avverbio che da solo non vive, che ha bisogno di appoggiarsi ad un nome. Siate perfetti come il Padre, siate misericordiosi come il Padre, amatevi come io vi ho amato, come ho fatto io così fate anche voi, la tua volontà come in cielo così in terra. Come Cristo, come il Padre, come il cielo: ed è aperto per noi il più vasto orizzonte, l’obiettivo massimo, il percorso infinito. Allora so che cosa fare: ascoltare e guardare, per vedere come Dio agisce, che cosa fa nella storia, che cosa il suo Spirito crea sulla terra, quali sono le strade del regno, che cosa il vangelo dice di me, del mondo, di Dio. Altrimenti non divento figlio e Dio senza figli vivi non è Padre.

Quale padre?

Non sono figlio se non agisco come Dio. È fondamentale che sappia però in quale Dio credo. Anche Saddam prega, anche Bush prega. E fanno bene. Ma il problema è chi pregano, quale Dio pregano. Il Signore della guerra? Colui che riceve lode dall’ecatombe di battaglie sante? La peggiore sciagura che ci possa capitare è quella di sbagliarci su Dio. Perché poi ti sbagli sull’uomo e sulla storia e sul senso stesso della tua esistenza. Per non sbagliarsi su Dio occorrono ascolto, contemplazione e preghiera. Non avrai altro Dio, dice il primo dei comandamenti. Ma il testo sacro aveva appena detto: io sono colui che ti ha fatto uscire dall’Egitto, il gohel, il liberatore. Non avrai altro Dio: non accettare un Dio che ti rimetta in schiavitù o che tolga libertà a popoli e persone e menti. Non accettare un Dio che benedica gli uccisori e le armi e le azioni di terrorismo. Non avrai altro Dio che il Dio liberatore. E questo è il fondamento dell’umanità, non della divinità.

Amore passivo

Davanti al Padre, sono chiamato per prima cosa a riscoprire non l’amore attivo ma l’amore passivo, il lasciarmi amare. Io sono cristiano perché Dio mi ha amato per primo. Continuo a restare cristiano perché continuo a sentirmi oggetto di amore, in debito d’amore. Se non ti senti debitore, non nascerà mai dentro di tè il Magnificat, mai una preghiera esultante. Continuerai sempre a dire: io, io, io…, saprai solo moltiplicare richieste.
È proprio in nome di questo debito che l’angelo dice a Maria: sii felice, Maria, tu sei riempita di Dio. Il tuo nome è: piena di grazia, cioè amata per sempre. Amata per sempre. L’angelo ci chiama alla riscoperta dell’amore passivo, a stare davanti al Crocifisso non per spremere dal cuore arido delle preghiere che non germogliano, ma per sentirsi amati dalle sue piaghe; a stare davanti all’icona non per guardarla, ma per lasciarsi guardare. Ci chiama, nel momento della comunione, non a forzare sentimenti e parole, ma a lasciarci invadere, lasciar riempire le anfore vuote.
Giovanni è l’Apostolo amato, il prediletto, oggetto d’amore. Pietro invece è l’apostolo che ama, che si butta in acqua, che sfodera la spada. Lui è soggetto d’amore. Oggi io sto con Maria e con Giovanni, a sentirmi amato, a sentire che ogni amore è un dono immeritato. Non si merita l’amore. Dio non si merita, si accoglie. L’amore passivo crea le condizioni per le più alte rivelazioni: è Giovanni che per primo giunge al sepolcro, che capisce, cioè, la resurrezione; è di Giovanni, l’amato, la più folgorante definizione di Dio: Dio è amore (1Gv 4,8). Lasciarsi amare è carico di rivelazioni: senti Dio che in te si esprime, lo senti parlare parole che toccano il cuore. Il cristiano diventa davvero un amato amante, agisce come agisce Dio.
La linea fondamentale della Storia Sacra non è ascendente ma discendente: si fonda non sul mio impegno di salire, di dare la scalata al Paradiso, ma sull’impegno di Dio di discendere. E’ la grande intuizione di santa Maria, quando nel suo Magnificat, per dieci volte su tredici verbi ripete: è lui che innalza, è lui che abbassa, è lui che riempie, che manda a mani vuote, e guarda, ed ha misericordia, è lui. Per dieci volte. È il decalogo di Dio, i dieci comandamenti dell’agire del Signore, quasi risposta al decalogo dato all’uomo sul Sinai. Una donna, Maria, porge un decalogo a Dio. Come un responsorio tra Padre e figli, tra cielo e terra. Il centro della fede è ciò che Lui fa per me, perciò io altro non farò che prolungare la sua azione nel mondo.

La casa di Dio

Padre nostro che sei nei cieli. Ma il cielo di Dio sono i piccoli e i poveri nei quali si nasconde (Mt 25,40), ai quali si rivela (Lc 10,21) e che più degli altri invocano il pane quotidiano. Il cielo dove Dio abita è il povero, il prossimo. Il fratello è il cielo di Dio. Dio siede alla destra di ciascuno di noi. Solo se si compie questo percorso di accoglienza e di servizio delicato, tenero, ai piccoli, solo dando loro dignità e affetto, solo allora si può chiamare Dio con il nome di Padre. E non solo Padre mio, ma Padre nostro. Solo facendo lo stesso percorso intriso di umanità che ha compiuto anche Gesù impareremo a dire: Padre.

E il dolore

Ma c’è anche, e soprattutto in questi giorni, un grande peso di dolore nel mondo: avvenimenti tragici, crudeli, di immensa sofferenza che la televisione riversa nel nostro vivere come se fossero videogiochi… Colui che prega è sempre voce di ogni creatura e c’è un immenso peso di lacrime in tutto ciò che vive: il mondo è aggressivo, ci sono vene aperte da ogni parte. Nemmeno la vita quotidiana nostra sfugge alle ombre dell’assurdo, dell’enigmatico, del crudele. Per questo, forse, la sensibilità moderna è pervasa da accuse contro Dio, contro il Padre. Non c’è morte che non provochi accuse contro Dio. Anzi, molti uomini d’oggi ripetono, in rivolta o rassegnati, le parole di Marcione, un eretico del II secolo: “Dio è padre di nessuno”. Il dolore innocente è la più grande contestazione all’esistenza di Dio. Nel Padre Nostro io divento voce del dolore, che a sua volta è voce della creazione.
Ma in che modo Dio si mostra Padre in un mondo che geme con le vene aperte, in una vicenda personale o familiare che non è libera dall’assurdo e dalle lacrime? Dio non ci tira fuori dalle onde pericolose, ma può darci coraggio dentro le tempeste. Dio non è un sedativo per le nostre paure o una risposta al nostro bisogno di protezione. Non è un genitore ansioso sempre pronto a intervenire, che risparmia al figlio qualsiasi prova e fatica, e lo rende così inetto alla vita, un mollusco incapace di direzione e di scelta. E quanti genitori in questo modo rendono i figli dei molluschi… Dio non ti toglie dalla tempesta, ma ti dà forza perché tu continui a remare dentro la tempesta, perché le tue mani non abbandonino il timone, perché gli occhi della sentinella scrutino attraverso le tenebre quanto manca all’alba. Se il nostro Dio esistesse unicamente per tirarci fuori dalle onde perigliose e non per darci coraggio in mezzo alle onde, allora morirebbe la nostra speranza, perché ci sarebbe negato un senso dentro le nostre vicende.
Quando prego per il dolore del mondo, io non faccio a qualcuno l’elemosina di una preghiera. Quando prego, io sono coloro che soffrono; io sono Abele e Caino e l’anonimo che grida a lui dal deserto dell’Iraq o da una carretta sperduta nel Mediterraneo che cerca l’approdo. Io non faccio la carità di una preghiera agli sventurati di oggi: sono loro che mi trasformano con il loro grido, mi allargano il cuore, me lo invadono, come hanno invaso di vita e di preghiere la Bibbia.

Lo stupore

Tutti conosciamo il miracolo della prima volta. La prima volta che hai visto il mare, la prima volta che hai amato, che tuo figlio ti ha chiamato “mamma”. Poi ci si abitua. L’eternità, invece, è non abituarsi. L’eternità è il miracolo della prima volta che si ripete sempre. La nostra capacità di essere felici è legata alla nostra capacità di meravigliarci. Allora la preghiera che più da lode al creatore è la gioia di vivere. L’umile piacere di esistere, provato con gratitudine, dà lode a Dio, perché attinge allo stesso stupore di Dio che guardò e vide e gridò: che bello! a tutto ciò che aveva fatto. Lo stupore e il piacere di vivere prolungano qualcosa di Dio. Con la meraviglia e la gioia di vivere ripetiamo: davvero hai fatto belle tutte le cose. Allora la vita cristiana è coniugare la mistica dello stupore e l’etica dell’impegno; legare insieme lo stupore di essere figli e l’impegno a rendere Dio padre di figli vivi.

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