il commento al vangelo della domenica

l’arte di farsi toccare
il commento di E. Bianchi al vangelo della XIII domenica del tempo Ordinario, anno B:
Mc 5,21-43 
 

²¹Essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. ²²E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi ²³e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». ²⁴Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
²⁵Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni ²⁶e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, ²⁷udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. ²⁸Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». ²⁹E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.
³⁰E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». ³¹I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: «Chi mi ha toccato?»». ³²Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. ³³E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. ³⁴Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».
³⁵Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». ³⁶Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». ³⁷E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. ³⁸Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. ³⁹Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». ⁴⁰E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. ⁴¹Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». ⁴²E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. ⁴³E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.

 

Che cos’è l’impurità? Quando una persona è impura, cioè indegna di stare con gli altri e con Dio? Quando una persona è “segnata” da una situazione malefica? E potremmo continuare a porre domande simili o parallele, perché da sempre questi interrogativi emergono nei nostri cuori nelle differenti situazioni della nostra vita. E le risposte che noi esseri umani abbiamo dato, e magari ancora diamo, non sempre riflettono la volontà del Creatore, i sentimenti di Dio. Purtroppo le vie religiose tracciate dall’umanità spesso riflettono non il pensiero di Dio, ma sono piuttosto il frutto di sentimenti umani per i quali si sono trovate giustificazioni fonte di alienazione o di separazione tra gli umani.  In questi percorsi, il sangue, segno della vita negli animali e negli umani, ha attirato fortemente l’attenzione su di sé. Ognuno di noi è nato nel sangue che fluisce dall’utero della madre e ognuno di noi muore quando il suo sangue non scorre più. Ecco dunque, al riguardo, la Legge e le leggi: il sangue che esce da una donna nel mestruo o alla nascita di un figlio la rende impura, così come ognuno quando muore entra nella condizione di impurità, perché preda della corruzione del proprio corpo. Il sangue rende impuri, rende indegni, e questa per una donna è una schiavitù impostale dalla sua condizione secondo la Legge, dunque – dicono gli uomini religiosi – da Dio. La donna impura per il mestruo o per la gravidanza non toccherà cose sante, non entrerà nel tempio (nel Santo) e per purificarsi dovrà offrire un sacrificio; anche chi toccherà una donna impura sarà reso impuro (cf. Lv 12,1-8; 15,19-30), impuro come un lebbroso e chi lo tocca, impuro come un morto e chi lo tocca. Di qui ecco barriere, muri, separazioni innalzati tra persona e persona, ecco l’imposizione dell’esclusione e dell’emarginazione. Certo, “a fin di bene”, per evitare il contagio, per instaurare un regime di immunitas: ma al prezzo della creazione di uno steccato e dell’indegnità-impurità posta come sigillo su alcune persone! Anche le misure di precauzione finiscono per diventare una condanna…   Ma Gesù è venuto proprio per far cadere queste barriere: egli sapeva che non è possibile che il sangue di un animale offerto in sacrificio possa togliere il peccato e rendere puri, mentre il sangue di una donna versato per il naturale ciclo mestruale o il corpo di un morto di cui occorre avere cura possano generare impurità, indegnità di stare con gli altri e davanti a Dio. Per questo i vangeli mettono in evidenza che Gesù non solo curava e guariva i malati, gli impuri, come i lebbrosi o come le donne colpite da emorragia, ma li toccava e da essi si faceva toccare. Gesù abolisce ogni sorta di separazione voluta dalla logica sacrale, poiché egli non era un uomo sacrale come i sacerdoti, essendo un ebreo laico, non di stirpe sacerdotale, e poiché vedeva nelle leggi della sacralità una contraddizione alla carità, alla relazione così vitale per noi umani. Amare l’altro vale più dell’offerta a Dio di un sacrificio (cf. Mc 12,33; 1Sam 15,22), essere misericordiosi è vivere il precetto, il comandamento dato dal “Dio misericordioso (rachum) e compassionevole (channun)” (Es 34,6). In Gesù c’era la presenza di Dio, dunque lui era “il Santo di Dio” (Mc 1,24; Lc 4,34; Gv 6,69), ma egli non temeva di contrarre l’impurità; al contrario, egli proclamava e mostrava che la santità di Dio santifica anziché rendere impuri, consuma e brucia il peccato e l’impurità, perché è una santità che è misericordia (cf. Os 11,9: “Io sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira”). In questa azione di Gesù, inoltre, è impossibile non vedere una liberazione della donna da schiavitù e alienazioni imposte dalla cultura dominante.   Per questo Gesù lasciava che i malati lo toccassero, avessero contatto con il suo corpo (cf. Mc 6,56; Mt 14,36), per questo egli toccava i malati: tocca il lebbroso per guarirlo (cf. Mc 1,41 e par.), tocca gli orecchi e la lingua del sordomuto per aprirli (cf. Mc 7,33), tocca gli occhi del cieco per ridargli la vista (cf. Mc 8,23.25), tocca i bambini e impone le mani su di loro (cf. Mc 10,13.16 e par.), tocca il morto per risuscitarlo (cf. Lc 7,14); e a sua volta si lascia toccare dai malati, da una prostituta, dai discepoli, dalle folle… Toccare, questa esperienza di comunicazione, di con-tatto, di corpo a corpo, azione sempre reciproca (si tocca e si è toccati, inscindibilmente!), questo comunicare la propria alterità e sentire l’altrui alterità… Toccare è il senso fondamentale, il primo a manifestarsi in ciascuno di noi, ed è anche il senso che più ci coinvolge e ci fa sperimentare l’intimità dell’altro. Toccare è sempre vicinanza, reciprocità, relazione, è sempre un vibrare dell’intero corpo al contatto con il corpo dell’altro.   Le due azioni di Gesù riportate da Marco nel brano evangelico di questa domenica sono unite tra loro proprio dal toccare: Gesù è toccato da una donna emorroissa e tocca il cadavere di una bambina. Due azioni vietate dalla Legge, eppure qui messe in rilievo come azioni di liberazione e di carità. Questo toccare non è un’azione magica, bensì eminentemente umana, umanissima: “Io tocco, dunque sono con te!”. Mentre Gesù passa con la forza della sua santità in mezzo alla gente, una donna malata di emorragia vaginale pensa di poter essere guarita toccando anche solo il suo mantello, il tallit, lo scialle della preghiera. Ciò avviene puntualmente, e allora la donna, impaurita e tremante, nella convinzione di aver fatto un gesto vietato dalla Legge, un atto che rende impuro Gesù, una volta scoperta confessa “il peccato” da lei commesso. Ma Gesù, che con il suo sguardo la cerca tra la folla, udita la confessione le dice con tenerezza e compassione: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”. Egli si comporta così non per infrangere la Legge, ma perché risale alla volontà di Dio, senza fermarsi alla precettistica umana. E se Dio era sceso per liberare il suo popolo in Egitto, terra impura, abitata da gente impura, anche Gesù sente di poter stare tra impuri e di poterli incontrare, dando loro la liberazione. Per questo egli ha sentito uscire da sé “un’energia” (dýnamis) quando la donna l’ha toccato, perché la sua santità passava in quella donna impura.   Subito dopo Gesù viene condotto nella casa del capo della sinagoga Giairo, dove giace la sua figlioletta di dodici anni appena morta. Portando con sé solo Pietro, Giacomo e Giovanni, appena entrato in casa sente strepito, lamenti e grida per quella morte; allora, cacciati tutti dalla stanza, in quel silenzio prende la mano della bambina e le dice in aramaico: “Talità kum”, “Ragazza, io ti dico: Alzati!”. Anche qui la santità di Gesù vince l’impurità del cadavere, vince la possibile corruzione e comunica alla bambina una forza che è resurrezione, possibilità di rimettersi in piedi e di riprendere vita. Nella sua attenzione umanissima, poi, Gesù ordina che a quella bambina sia dato da mangiare, quasi che lei stessa abbia faticato per rispondere alla santità di Gesù, il quale le comunica quell’energia divina di cui è portatore.  

         Toccare l’altro è un movimento di compassione;

         toccare l’altro è desiderare con lui;

         toccare l’altro è parlargli silenziosamente con il proprio corpo, con la propria mano;

         toccare l’altro è dirgli: “Io sono qui per te”;

         toccare l’altro è dirgli: “Ti voglio bene”;

         toccare l’altro è comunicargli ciò che io sono e accettare ciò che lui è;

         toccare l’altro è un atto di riverenza, di riconoscimento, di venerazione. 

Dalla contemplazione di questa pagina del vangelo ci viene rivelato che la nostra carne, il nostro corpo non era indegno di Dio: per questo il Figlio di Dio si fece carne (cf. Gv 1,14), non in modo apparente ma in modo reale e autentico. È la nostra carne che è diventata la carne di Dio, e Gesù, il Figlio, l’ha assunta non come un peso da cui liberarsi tornando al Padre, ma come un mezzo per incontrare l’umanità, per essere nostro fratello in piena solidarietà, uguale a noi in tutto eccetto che nel peccato. È grazie a questa carne che Gesù ha potuto toccare ed essere toccato, vivere il sentimento della misericordia e della compassione e rivelarci la vicinanza e la tenerezza di Dio. Anche noi come suoi discepoli e sue discepole, anche la chiesa deve “osare la carne” e saper abbracciare, toccare, curare la “carne di Cristo”nei sofferenti, nei malati, nei peccatori, in tutti i corpi degli uomini e delle donne che, con grida forti o mute, invocano la salvezza delle loro vite.

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il commento al vangelo della domenica

nella vita arriva improvvisa la tempesta
il commento di E. Bianchi al vangelo della domenica XII domenica del tempo Ordinario, anno B
 
Mc 4,35-41 
 

³⁵In quel medesimo giorno, venuta la sera, disse loro: «Passiamo all’altra riva». ³⁶E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. ³⁷Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. ³⁸Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». ³⁹Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. ⁴⁰Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». ⁴¹E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».

 

La tempesta sul mare di Galilea è una metafora della lotta contro le potenze del male, lotta che Gesù Cristo ha vinto. E noi possiamo vincerla in lui e con lui.

 

Dopo aver annunciato ai discepoli e alle folle alcune parabole da una barca appena scostata dalla spiaggia (cf. Mc 4,1-34), Gesù decide di passare all’altra riva del mare di Galilea: si tratta di un’“uscita” dalla terra santa di Israele, per andare verso una terra abitata dai pagani. Perché questa decisione così audace? Perché Gesù, pur sentendosi “inviato prima alle pecore perdute della casa di Israele” (cf. Mt 15,24), vuole annunciare la misericordia di Dio anche alle genti, vuole combattere Satana e togliergli terreno anche in quella terra straniera e non santa. Questa è la ragione che muove Gesù. Giona, chiamato da Dio ad andare a Ninive, città simbolo delle genti pagane, fugge, fa un cammino in direzione opposta (cf. Gn 1,1-3); Gesù invece, inviato da Dio, va tra i pagani.  I discepoli, dunque, iniziano la traversata del lago, “prendendo con sé Gesù” (espressione unica, perché di solito è Gesù che prende con sé i discepoli: cf. Mc 9,2; 10,32; 14,33): egli è stanco per la lunga giornata di predicazione, e sulla barca cerca un pagliericcio su cui distendersi per riposare. Ma alla volontà di Gesù si oppone il mare, che è il luogo dove le forze del male si scatenano in tempesta. Non si dimentichi che per gli ebrei il mare era il grande nemico, vinto dal Signore quando fece uscire il suo popolo dall’Egitto (cf. Es 14,15-31); era la residenza del Leviatan, il mostro marino (cf. Gb 3,8; Sal 74,14); era il grande abisso che, quando scatenava la sua forza, impauriva i naviganti (cf. Sal 107,23-27). Ed ecco che la potenza del demonio si manifesta in una tempesta di vento, che getta le onde nella barca e tenta di affondarla. È notte, è l’ora delle tenebre, e la paura scuote quei discepoli, che non riescono più a governare la barca. Il naufragio sembra ormai inevitabile, eppure Gesù, a poppa, dorme…  I discepoli allora, in preda all’angoscia, al vedere Gesù addormentato si spazientiscono. Decidono dunque di svegliarlo e, con modi non certo reverenziali, gridano: “Maestro, non t’importa nulla che siamo perduti?”. Già questo modo di esprimersi è eloquente: lo chiamano maestro (didáskalos) e con parole brusche contestano la sua inerzia, il suo sonno. Parole che nella versione di Matteo diventeranno una preghiera – “Signore (Kýrios), salvaci, siamo perduti!” (Mt 8,25) – e in quella di Luca una chiamata – “Maestro, maestro (epistátes), siamo perduti!” (Lc 8,24) –. Marco ricorda meglio i rapporti semplici e diretti, finanche poco gentili, dei discepoli verso Gesù…  Di fronte a questa mancanza di fede, Gesù sgrida il vento ed esorcizza il mare, “dicendogli: ‘Taci, calmati!’. E subito il vento cessò e vi fu grande bonaccia”. Questo miracolo operato da Gesù – non sfugge a nessuno – ha soprattutto una grande portata simbolica, perché ognuno di noi nella propria vita conosce ore di tempesta. Anche la chiesa, la comunità dei discepoli, a volte si trova in situazioni di contraddizione tali da sentirsi immersa in acque agitate, in marosi, in un vortice che minaccia la sua esistenza. In queste situazioni, in particolare quando durano a lungo, si ha l’impressione che l’invisibilità di Dio sia in realtà un suo dormire, un non vedere, un non sentire le grida e i gemiti di chi si lamenta. Sì, la poca fede fa gridare ai credenti: “Dio dove sei? Perché dormi? Perché non intervieni?” (cf. Sal 35,23; 44,24; 59,6, ecc.). Dobbiamo confessarlo: anche se magari crediamo di avere una fede matura, di essere cristiani adulti, nella prova interroghiamo Dio sulla sua presenza, arriviamo anche a contestarlo e talvolta a dubitare della sua capacità di essere un Salvatore. La sofferenza, l’angoscia, la paura, la minaccia recata alla nostra esistenza personale o comunitaria ci rendono simili ai discepoli sulla barca della tempesta. Per questo Gesù li deve rimproverare con parole dure. Non solo chiede loro: “Perché siete cosi paurosi?”, ma aggiunge anche: “Non avete ancora la fede?”. Discepoli senza fede, senza adesione a Gesù: lo seguono, lo ascoltano, ma non mettono in lui piena fiducia…  Ed ecco che di fronte a queste parole così critiche di Gesù, ma anche di fronte al prodigio che hanno visto con i loro occhi, affiora nei discepoli una domanda: “Chi è veramente questo rabbi, questo maestro, se anche il vento e il mare gli sono sottomessi?”. Eppure anche da questo evento non sapranno trarre una lezione, perché, quando giungerà per Gesù e per loro la grande tempesta, l’ora della sua passione e morte, verranno meno a causa della loro mancanza di fede. Di fatto, questa prova della tempesta sul mare è annuncio della grande prova che li attende a Gerusalemme; ma allora tutti lo abbandoneranno e fuggiranno (cf. Mc 14,50)…. Poi di fronte a Gesù morto e sepolto, verificheranno un grande fallimento del maestro e del loro gruppo. E solo la tomba vuota e il contemplare Gesù vivente, risorto da morte, genereranno in loro una fede salda, che li porterà a confessare Gesù quale vincitore sul male e sulla morte. Allora, in quanto testimoni del Risorto, diventeranno anche capaci di affrontare, a loro volta, la tempesta che si abbatterà su di loro: la persecuzione a causa del nome di Gesù e della fede in lui.   Quando Marco scriveva il suo vangelo e lo consegnava alla chiesa di Roma, la piccola comunità cristiana nella capitale dell’impero era nella tempesta e regnava in essa una grande paura, tale da impedire a quei cristiani la missione presso i pagani. Così Marco li invita a non temere l’“uscita” missionaria, li invita a conoscere le prove che li attendono come necessarie (cf. Mc 10,30); prove e persecuzioni nelle quali Gesù, il Vivente, non dorme, ma è in mezzo a loro. La tempesta sul mare di Galilea è una metafora della lotta contro le potenze del male, lotta che Gesù Cristo ha vinto. Gesù appare dunque come Giona, ma un Giona al contrario: non riluttante, ma missionario verso i pagani, in obbedienza a Dio. In ogni caso, Giona e Gesù sono due missionari di misericordia, ed entrambi la predicano a caro prezzo: scendendo nel vortice delle acque e affrontando la tempesta (cf. Gn 2,1-11), perché solo attraversandola si vince il male. Ecco perché Gesù dirà che alla sua generazione sarà dato solo il segno di Giona (cf. Mt 12,39-41; 16,4; Lc 11,29-32), ossia la parabola della misericordia annunciata a prezzo della discesa nelle acque di morte, a prezzo dell’andare a fondo.  

Quanto è cristiana la frase: “Naufragium feci, bene navigavi”! “Ho fatto naufragio, ma ho navigato bene”, perché sono approdato nel regno di Dio.

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i poveri hanno a che fare con la democrazia? il messaggio di papa Francesco per la giornata mondiale dei poveri

giornata mondiale dei poveri

 ignorare i poveri mette in crisi il concetto di democrazia


il Messaggio per la V Giornata mondiale dedicata ai poveri e che sarà celebrata il prossimo 14 novembre dal titolo
“i poveri li avete sempre con voi”

Il Papa: ignorare i poveri mette in crisi il concetto di democrazia

di  Riccardo Maccioni

Occorre un differente approccio alla povertà. «Se i poveri sono messi ai margini, come se fossero colpevoli della loro condizione, allora il concetto stesso di democrazia è messo in crisi e ogni politica sociale diventa fallimentare». Nel Messaggio per la V Giornata mondiale a loro dedicata e che sarà celebrata il prossimo 14 novembre, papa Francesco si sofferma sul legame che c’è tra i poveri, Gesù e l’annuncio del Vangelo. Una riflessione che si riassume nella logica insegnataci da Cristo: «i poveri di ogni condizione e ogni latitudine ci evangelizzano perché ci permettono di riscoprire in modo sempre nuovo i tratti più genuini del volto del Padre». Hanno molto da insegnarci.

Il titolo del Messaggio, “I poveri li avete sempre con voi” (Mc 14,7), prende la mosse dall’episodio del Vangelo di Marco in cui una donna cosparge il capo di Gesù con del profumo molto prezioso suscitando l’ira di Giuda: «Perché non si è venduto questo profumo per trecento denari e non si sono dati ai poveri?». Una vicenda che permette al Pontefice di riflettere sul ruolo da protagoniste delle donne nella storia della rivelazione e su Gesù come «povero tra i poveri perché li rappresenta tutti», ne «condivide la stessa sorte». Una condizione che chiede un cambio di mentalità, cioè non considerare più i bisognosi come persone separate, destinatari di un particolare servizio caritativo ma da coinvolgere nel segno della condivisione e della partecipazione. Una lezione da imparare come scuola di salvezza.

«Se non si sceglie di diventare poveri di ricchezze effimere – spiega il Papa –, di potere mondano e di vanagloria, non si sarà mai in grado di donare la vita per amore; si vivrà un’esistenza frammentaria, piena di buoni propositi ma inefficace per trasformare il mondo». L’esatto contrario della logica del profitto che condiziona le società di oggi, nelle quali «sembra farsi strada la concezione secondo la quale i poveri non solo sono responsabili della loro condizione, ma costituiscono un peso intollerabile per un sistema che pone al centro l’interesse di alcune categorie privilegiate. Un mercato che ignora o seleziona i principi etici crea condizioni disumane che si abbattono su persone che vivono già in condizioni precarie. Si assiste così alla creazione di sempre nuove trappole dell’indigenza e dell’esclusione» aggravate attualmente dalla tragedia della pandemia. Per uscirne, occorre vincere la sfida di «un lungimirante modello sociale, capace di andare incontro alle nuove forme di povertà che investono il mondo e che segneranno in maniera decisiva i prossimi decenni».

A rischio è la stabilità stesse delle nostre democrazie, il loro fondamento. La povertà infatti «non è frutto del destino ma conseguenza dell’egoismo. Pertanto, è decisivo dare vita a processi di sviluppo in cui si valorizzano le capacità di tutti, perché la complementarità delle competenze e la diversità dei ruoli porti a una risorsa comune di partecipazione. Ci sono molte povertà dei “ricchi” che potrebbero essere curate dalla ricchezza dei “poveri”, se solo si incontrassero e conoscessero!».

Occorre in definitiva un cambio nel modo di pensare, un diverso approccio alla povertà e ai poveri: «non possiamo attendere che bussino alla nostra porta – sottolinea Bergoglio –, è urgente che li raggiungiamo nelle loro case, negli ospedali e nelle residenze di assistenza, per le strade e negli angoli bui dove a volte si nascondono, nei centri di rifugio e di accoglienza…È importante capire come si sentono, cosa provano e quali desideri hanno nel cuore». Si tratta di recuperare i rapporti umani, di impegnarsi per restituire la dignità a chi rischia di perderla. «I poveri – diceva don Primo Mazzolari – non si contano, si abbracciano».

il testo integrale

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

V GIORNATA MONDIALE DEI POVERI

domenica XXXIII del Tempo Ordinario
14 novembre 2021

«I poveri li avete sempre con voi»

(Mc 14,7)

 

1. «I poveri li avete sempre con voi» (Mc 14,7). Gesù pronunciò queste parole nel contesto di un pranzo, a Betania, nella casa di un certo Simone detto “il lebbroso”, alcuni giorni prima della Pasqua. Come racconta l’evangelista, una donna era entrata con un vaso di alabastro pieno di profumo molto prezioso e l’aveva versato sul capo di Gesù. Quel gesto suscitò grande stupore e diede adito a due diverse interpretazioni.

La prima è l’indignazione di alcuni tra i presenti, compresi i discepoli, i quali considerando il valore del profumo – circa 300 denari, equivalente al salario annuo di un lavoratore – pensano che sarebbe stato meglio venderlo e dare il ricavato ai poveri. Secondo il Vangelo di Giovanni, è Giuda che si fa interprete di questa posizione: «Perché non si è venduto questo profumo per trecento denari e non si sono dati ai poveri?». E l’evangelista annota: «Disse questo non perché gli importasse dei poveri, ma perché era un ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro» (12,5-6). Non è un caso che questa dura critica venga dalla bocca del traditore: è la prova che quanti non riconoscono i poveri tradiscono l’insegnamento di Gesù e non possono essere suoi discepoli. Ricordiamo, in proposito, le parole forti di Origene: «Giuda sembrava preoccuparsi dei poveri […]. Se adesso c’è ancora qualcuno che ha la borsa della Chiesa e parla a favore dei poveri come Giuda, ma poi si prende quello che mettono dentro, abbia allora la sua parte insieme a Giuda» (Commento al vangelo di Matteo, 11, 9).

La seconda interpretazione è data da Gesù stesso e permette di cogliere il senso profondo del gesto compiuto dalla donna. Egli dice: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me» (Mc 14,6). Gesù sa che la sua morte è vicina e vede in quel gesto l’anticipo dell’unzione del suo corpo senza vita prima di essere posto nel sepolcro. Questa visione va al di là di ogni aspettativa dei commensali. Gesù ricorda loro che il primo povero è Lui, il più povero tra i poveri perché li rappresenta tutti. Ed è anche a nome dei poveri, delle persone sole, emarginate e discriminate che il Figlio di Dio accetta il gesto di quella donna. Ella, con la sua sensibilità femminile, mostra di essere l’unica a comprendere lo stato d’animo del Signore. Questa donna anonima, destinata forse per questo a rappresentare l’intero universo femminile che nel corso dei secoli non avrà voce e subirà violenze, inaugura la significativa presenza di donne che prendono parte al momento culminante della vita di Cristo: la sua crocifissione, morte e sepoltura e la sua apparizione da Risorto. Le donne, così spesso discriminate e tenute lontano dai posti di responsabilità, nelle pagine dei Vangeli sono invece protagoniste nella storia della rivelazione. Ed è eloquente l’espressione conclusiva di Gesù, che associa questa donna alla grande missione evangelizzatrice: «In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto» (Mc 14,9).

2. Questa forte “empatia” tra Gesù e la donna, e il modo in cui Egli interpreta la sua unzione, in contrasto con la visione scandalizzata di Giuda e di altri, aprono una strada feconda di riflessione sul legame inscindibile che c’è tra Gesù, i poveri e l’annuncio del Vangelo.

Il volto di Dio che Egli rivela, infatti, è quello di un Padre per i poveri e vicino ai poveri. Tutta l’opera di Gesù afferma che la povertà non è frutto di fatalità, ma segno concreto della sua presenza in mezzo a noi. Non lo troviamo quando e dove vogliamo, ma lo riconosciamo nella vita dei poveri, nella loro sofferenza e indigenza, nelle condizioni a volte disumane in cui sono costretti a vivere. Non mi stanco di ripetere che i poveri sono veri evangelizzatori perché sono stati i primi ad essere evangelizzati e chiamati a condividere la beatitudine del Signore e il suo Regno (cfr Mt 5,3).

I poveri di ogni condizione e ogni latitudine ci evangelizzano, perché permettono di riscoprire in modo sempre nuovo i tratti più genuini del volto del Padre. «Essi hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro. La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa. Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro. Il nostro impegno non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza; quello che lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro considerandolo come un’unica cosa con sé stesso. Questa attenzione d’amore è l’inizio di una vera preoccupazione per la sua persona e a partire da essa desidero cercare effettivamente il suo bene» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 198-199).

3. Gesù non solo sta dalla parte dei poveri, ma condivide con loro la stessa sorte. Questo è un forte insegnamento anche per i suoi discepoli di ogni tempo. Le sue parole “i poveri li avete sempre con voi” stanno a indicare anche questo: la loro presenza in mezzo a noi è costante, ma non deve indurre a un’abitudine che diventa indifferenza, bensì coinvolgere in una condivisione di vita che non ammette deleghe. I poveri non sono persone “esterne” alla comunità, ma fratelli e sorelle con cui condividere la sofferenza, per alleviare il loro disagio e l’emarginazione, perché venga loro restituita la dignità perduta e assicurata l’inclusione sociale necessaria. D’altronde, si sa che un gesto di beneficenza presuppone un benefattore e un beneficato, mentre la condivisione genera fratellanza. L’elemosina, è occasionale; la condivisione invece è duratura. La prima rischia di gratificare chi la compie e di umiliare chi la riceve; la seconda rafforza la solidarietà e pone le premesse necessarie per raggiungere la giustizia. Insomma, i credenti, quando vogliono vedere di persona Gesù e toccarlo con mano, sanno dove rivolgersi: i poveri sono sacramento di Cristo, rappresentano la sua persona e rinviano a Lui.

Abbiamo tanti esempi di santi e sante che hanno fatto della condivisione con i poveri il loro progetto di vita. Penso, tra gli altri, a Padre Damiano de Veuster, santo apostolo dei lebbrosi. Con grande generosità rispose alla chiamata di recarsi nell’isola di Molokai, diventata un ghetto accessibile solo ai lebbrosi, per vivere e morire con loro. Si rimboccò le maniche e fece di tutto per rendere la vita di quei poveri malati ed emarginati, ridotti in estremo degrado, degna di essere vissuta. Si fece medico e infermiere, incurante dei rischi che correva e in quella “colonia di morte”, come veniva chiamata l’isola, portò la luce dell’amore. La lebbra colpì anche lui, segno di una condivisione totale con i fratelli e le sorelle per i quali aveva donato la vita. La sua testimonianza è molto attuale ai nostri giorni, segnati dalla pandemia di coronavirus: la grazia di Dio è certamente all’opera nei cuori di tanti che, senza apparire, si spendono per i più poveri in una concreta condivisione.

4. Abbiamo bisogno, dunque, di aderire con piena convinzione all’invito del Signore: «Convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15). Questa conversione consiste in primo luogo nell’aprire il nostro cuore a riconoscere le molteplici espressioni di povertà e nel manifestare il Regno di Dio mediante uno stile di vita coerente con la fede che professiamo. Spesso i poveri sono considerati come persone separate, come una categoria che richiede un particolare servizio caritativo. Seguire Gesù comporta, in proposito, un cambiamento di mentalità, cioè di accogliere la sfida della condivisione e della partecipazione. Diventare suoi discepoli implica la scelta di non accumulare tesori sulla terra, che danno l’illusione di una sicurezza in realtà fragile ed effimera. Al contrario, richiede la disponibilità a liberarsi da ogni vincolo che impedisce di raggiungere la vera felicità e beatitudine, per riconoscere ciò che è duraturo e non può essere distrutto da niente e nessuno (cfr Mt 6,19-20).

L’insegnamento di Gesù anche in questo caso va controcorrente, perché promette ciò che solo gli occhi della fede possono vedere e sperimentare con assoluta certezza: «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19,29). Se non si sceglie di diventare poveri di ricchezze effimere, di potere mondano e di vanagloria, non si sarà mai in grado di donare la vita per amore; si vivrà un’esistenza frammentaria, piena di buoni propositi ma inefficace per trasformare il mondo. Si tratta, pertanto, di aprirsi decisamente alla grazia di Cristo, che può renderci testimoni della sua carità senza limiti e restituire credibilità alla nostra presenza nel mondo.

5. Il Vangelo di Cristo spinge ad avere un’attenzione del tutto particolare nei confronti dei poveri e chiede di riconoscere le molteplici, troppe forme di disordine morale e sociale che generano sempre nuove forme di povertà. Sembra farsi strada la concezione secondo la quale i poveri non solo sono responsabili della loro condizione, ma costituiscono un peso intollerabile per un sistema economico che pone al centro l’interesse di alcune categorie privilegiate. Un mercato che ignora o seleziona i principi etici crea condizioni disumane che si abbattono su persone che vivono già in condizioni precarie. Si assiste così alla creazione di sempre nuove trappole dell’indigenza e dell’esclusione, prodotte da attori economici e finanziari senza scrupoli, privi di senso umanitario e responsabilità sociale.

Lo scorso anno, inoltre, si è aggiunta un’altra piaga che ha moltiplicato ulteriormente i poveri: la pandemia. Essa continua a bussare alle porte di milioni di persone e, quando non porta con sé la sofferenza e la morte, è comunque foriera di povertà. I poveri sono aumentati a dismisura e, purtroppo, lo saranno ancora nei prossimi mesi. Alcuni Paesi stanno subendo per la pandemia gravissime conseguenze, così che le persone più vulnerabili si trovano prive dei beni di prima necessità. Le lunghe file davanti alle mense per i poveri sono il segno tangibile di questo peggioramento. Uno sguardo attento richiede che si trovino le soluzioni più idonee per combattere il virus a livello mondiale, senza mirare a interessi di parte. In particolare, è urgente dare risposte concrete a quanti patiscono la disoccupazione, che colpisce in maniera drammatica tanti padri di famiglia, donne e giovani. La solidarietà sociale e la generosità di cui molti, grazie a Dio, sono capaci, unite a progetti lungimiranti di promozione umana, stanno dando e daranno un contributo molto importante in questo frangente.

6. Rimane comunque aperto l’interrogativo per nulla ovvio: come è possibile dare una risposta tangibile ai milioni di poveri che spesso trovano come riscontro solo l’indifferenza quando non il fastidio? Quale via della giustizia è necessario percorrere perché le disuguaglianze sociali possano essere superate e sia restituita la dignità umana così spesso calpestata? Uno stile di vita individualistico è complice nel generare povertà, e spesso scarica sui poveri tutta la responsabilità della loro condizione. Ma la povertà non è frutto del destino, è conseguenza dell’egoismo. Pertanto, è decisivo dare vita a processi di sviluppo in cui si valorizzano le capacità di tutti, perché la complementarità delle competenze e la diversità dei ruoli porti a una risorsa comune di partecipazione. Ci sono molte povertà dei “ricchi” che potrebbero essere curate dalla ricchezza dei “poveri”, se solo si incontrassero e conoscessero! Nessuno è così povero da non poter donare qualcosa di sé nella reciprocità. I poveri non possono essere solo coloro che ricevono; devono essere messi nella condizione di poter dare, perché sanno bene come corrispondere. Quanti esempi di condivisione sono sotto i nostri occhi! I poveri ci insegnano spesso la solidarietà e la condivisione. È vero, sono persone a cui manca qualcosa, spesso manca loro molto e perfino il necessario, ma non mancano di tutto, perché conservano la dignità di figli di Dio che niente e nessuno può loro togliere.

7. Per questo si impone un differente approccio alla povertà. È una sfida che i Governi e le Istituzioni mondiali hanno bisogno di recepire con un lungimirante modello sociale, capace di andare incontro alle nuove forme di povertà che investono il mondo e che segneranno in maniera decisiva i prossimi decenni. Se i poveri sono messi ai margini, come se fossero i colpevoli della loro condizione, allora il concetto stesso di democrazia è messo in crisi e ogni politica sociale diventa fallimentare. Con grande umiltà dovremmo confessare che dinanzi ai poveri siamo spesso degli incompetenti. Si parla di loro in astratto, ci si ferma alle statistiche e si pensa di commuovere con qualche documentario. La povertà, al contrario, dovrebbe provocare ad una progettualità creativa, che consenta di accrescere la libertà effettiva di poter realizzare l’esistenza con le capacità proprie di ogni persona. È un’illusione da cui stare lontani quella di pensare che la libertà sia consentita e accresciuta per il possesso di denaro. Servire con efficacia i poveri provoca all’azione e permette di trovare le forme più adeguate per risollevare e promuovere questa parte di umanità troppe volte anonima e afona, ma con impresso in sé il volto del Salvatore che chiede aiuto.

8. «I poveri li avete sempre con voi» (Mc 14,7). È un invito a non perdere mai di vista l’opportunità che viene offerta per fare del bene. Sullo sfondo si può intravedere l’antico comando biblico: «Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisognoso […], non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso, ma gli aprirai la mano e gli presterai quanto occorre alla necessità in cui si trova. […] Dagli generosamente e, mentre gli doni, il tuo cuore non si rattristi. Proprio per questo, infatti, il Signore, tuo Dio, ti benedirà in ogni lavoro e in ogni cosa a cui avrai messo mano.Poiché i bisognosi non mancheranno mai nella terra» (Dt 15,7-8.10-11). Sulla stessa lunghezza d’onda si pone l’apostolo Paolo quando esorta i cristiani delle sue comunità a soccorrere i poveri della prima comunità di Gerusalemme e a farlo «non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7). Non si tratta di alleggerire la nostra coscienza facendo qualche elemosina, ma  piuttosto di contrastare la cultura dell’indifferenza e dell’ingiustizia con cui ci si pone nei confronti dei poveri.

In questo contesto fa bene ricordare anche le parole di San Giovanni Crisostomo: «Chi è generoso non deve chiedere conto della condotta, ma solamente migliorare la condizione di povertà e appagare il bisogno. Il povero ha una sola difesa: la sua povertà e la condizione di bisogno in cui si trova. Non chiedergli altro; ma fosse pure l’uomo più malvagio al mondo, qualora manchi del nutrimento necessario, liberiamolo dalla fame. […] L’uomo misericordioso è un porto per chi è nel bisogno: il porto accoglie e libera dal pericolo tutti i naufraghi; siano essi malfattori, buoni o siano come siano quelli che si trovano in pericolo, il porto li mette al riparo all’interno della sua insenatura. Anche tu, dunque, quando vedi in terra un uomo che ha sofferto il naufragio della povertà, non giudicare, non chiedere conto della sua condotta, ma liberalo dalla sventura» (Discorsi sul povero Lazzaro, II, 5).

9. È decisivo che si accresca la sensibilità per capire le esigenze dei poveri, sempre in mutamento come lo sono le condizioni di vita. Oggi, infatti, nelle aree del mondo economicamente più sviluppate si è meno disposti che in passato a confrontarsi con la povertà. Lo stato di relativo benessere a cui ci si è abituati rende più difficile accettare sacrifici e privazioni. Si è pronti a tutto pur di non essere privati di quanto è stato frutto di facile conquista. Si cade così in forme di rancore, di nervosismo spasmodico, di rivendicazioni che portano alla paura, all’angoscia e in alcuni casi alla violenza. Non è questo il criterio su cui costruire il futuro; eppure, anche queste sono forme di povertà da cui non si può distogliere lo sguardo. Dobbiamo essere aperti a leggere i segni dei tempi che esprimono nuove modalità con cui essere evangelizzatori nel mondo contemporaneo. L’assistenza immediata per andare incontro ai bisogni dei poveri non deve impedire di essere lungimiranti per attuare nuovi segni dell’amore e della carità cristiana, come risposta alle nuove povertà che l’umanità di oggi sperimenta.

Mi auguro che la Giornata Mondiale dei Poveri, giunta ormai alla sua quinta celebrazione, possa radicarsi sempre più nelle nostre Chiese locali e aprirsi a un movimento di evangelizzazione che incontri in prima istanza i poveri là dove si trovano. Non possiamo attendere che bussino alla nostra porta, è urgente che li raggiungiamo nelle loro case, negli ospedali e nelle residenze di assistenza, per le strade e negli angoli bui dove a volte si nascondono, nei centri di rifugio e di accoglienza… È importante capire come si sentono, cosa provano e quali desideri hanno nel cuore. Facciamo nostre le parole accorate di Don Primo Mazzolari: «Vorrei pregarvi di non chiedermi se ci sono dei poverichi sono e quanti sono, perché temo che simili domande rappresentino una distrazione o il pretesto per scantonare da una precisa indicazione della coscienza e del cuore. […] Io non li ho mai contati i poveri, perché non si possono contare: i poveri si abbracciano, non si contano»(“Adesso” n. 7 – 15 aprile 1949). I poveri sono in mezzo noi. Come sarebbe evangelico se potessimo dire con tutta verità: anche noi siamo poveri, perché solo così riusciremmo a riconoscerli realmente e farli diventare parte della nostra vita e strumento di salvezza.

Roma, San Giovanni in Laterano, 13 giugno 2021,
Memoria di Sant’Antonio di Padova

 

FRANCESCO

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può il cristianesimo essere considerato una religione? quale teologia per il futuro

Quali compiti per la teologia del XXI secolo?

quali compiti per la teologia del XXI secolo?

 da: Adista Documenti n° 22 del 12/06/2021

 

la religione che non c’è

 da: Adista Documenti n° 22 del 12/06/2021

Gesù non ha fondato una religione: «ha proclamato e inaugurato il regno di Dio sulla terra. Il Regno di Dio non è un regno religioso, è un rinnovamento dell’intera umanità, realizzazione che cambia il senso della storia umana». In questa prospettiva, la teologia oggi deve aiutare a conoscere «il vero vangelo», distinguendolo da ciò che è stato aggiunto in un secondo tempo, per arrivare alla vera fede. Lo afferma il teologo belga José Comblin, già docente di teologia in Ecuador, Cile e Brasile, in una relazione tenuta a Santiago (Cile) durante le Giornate teologiche latinoamericane del 2009 – due anni prima della sua morte e pubblicata su Redes Cristianas l’8 maggio scorso.

Il nostro punto di partenza sarà la distinzione tra religione e vangelo. Il cristianesimo non è originariamente una religione e Gesù non ha fondato nessuna religione. Successivamente i cristiani hanno fondato la religione cristiana, che è una creazione umana e non divina. La religione è il prodotto della cultura umana. Esiste una grande varietà di religioni e tutte hanno la stessa struttura, sebbene molto diverse nella loro forma esteriore. Hanno tutti una mitologia, un culto e una classe dedicata al loro esercizio. In questo la religione cristiana non è diversa dalle altre. È anch’essa una creazione umana, prodotto di varie culture. La religione è una realtà fondamentale dell’esistenza umana. Pone il problema del significato della vita su questa terra, il problema dei valori, il posto dell’essere umano nell’universo e il problema della salvezza da tutti i suoi mali di questo mondo.   

La religione è stata ampiamente studiata dall’antropologia religiosa, dalla sociologia religiosa, dalla psicologia religiosa, dalla storia delle religioni. Tutto questo riguarda anche la religione cristiana. Essendo una creazione umana, la religione cristiana è cambiata e potrebbe ancora cambiare in futuro in base ai cambiamenti nella storia.    Questa è anche una delle grandi sfide del tempo presente, perché la religione cristiana è esaurita e non offre alcuna risposta all’orientamento della cultura odierna, tranne resti di passato.     Il vangelo di Gesù non è una religione. Gesù non ha fondato nessuna religione: non ha proclamato una dottrina religiosa o una mitologia, nessun discorso su Dio, non ha fondato nessun culto e non ha fondato nessuna classe clericale. Gesù ha proclamato e inaugurato il regno di Dio sulla terra. Il Regno di Dio non è un regno religioso, è un rinnovamento dell’intera umanità, realizzazione che cambia il senso della storia umana, aprendo una nuova epoca, l’ultima. È un messaggio per tutta l’umanità in tutte le sue culture e religioni. Si potrebbe dire che è un messaggio e una storia meta- politica. Poiché gli esseri umani non possono vivere senza religione, i discepoli di Cristo per 2000 anni hanno costruito una religione che era come il rivestimento del messaggio cristiano, con il pericolo di trasformare il cristianesimo in una religione. Il rivestimento religioso può nascondere il messaggio del vangelo o può guidare questo messaggio secondo l’evoluzione della storia. In molti casi la religione ha occultato il Vangelo. I cristiani hanno enunciato una dottrina usando molti elementi del giudaismo o delle religioni non cristiane né ebraiche, hanno creato un culto di uguale ispirazione e un intero sistema legale che inquadra un’istituzione molto complessa.     Possiamo affermare che la storia del cristianesimo è la storia di una tensione o di un conflitto tra religione e vangelo, tra una tendenza umana verso la religione e le voci o le vite di coloro che volevano vivere secondo il vangelo.   Le religioni sono conservatrici e trasmettono la fede in un mondo permanente in cui tutto riceve una spiegazione religiosa. La religione cambia inconsciamente, ma resiste a qualsiasi richiesta di cambiamento volontario. Molti cristiani e molte strutture cristiane lottano inconsapevolmente contro il Vangelo. C’è del vero in ciò che affermò Charles Maurras, un ateo francese del secolo scorso, quando disse che si congratulava con la religione romana per aver eliminato dal cristianesimo tutto il veleno del Vangelo. È un po’ esagerato, ma certamente suggestivo.      Il vangelo è cambiamento, movimento, libertà. Non può accettare il mondo che esiste, deve cambiarlo. Il vangelo è conflitto tra ricchi e poveri. All’interno della religione, ricchi e poveri fanno parte dell’armonia generale. Sono così perché deve essere così, sebbene i ricchi debbano aiutare i poveri ma senza cambiare la struttura creata da Dio o dai sostituti di Dio. La religione vuole la pace, sebbene in alleanza con i potenti. Il vangelo vuole il conflitto.     Il compito della teologia è mostrare la distinzione, individuare da un lato quello che è vangelo e dall’altro tutto quello che è stato aggiunto e che può o deve cambiare per essere fedele a quel vangelo. È liberare il vangelo dalla religione. La religione è buona se aiuta a cercare il Vangelo e a non dimenticarlo sotto il rivestimento religioso. Essa è una necessità umana, ma deve essere indagata e corretta.     La teologia è al servizio del popolo cristiano o anche non cristiano, affinché conosca il vero vangelo e possa arrivare alla vera fede e non a un sentimento religioso.     Per secoli la teologia è stata al servizio dell’istituzione per difenderla dalle eresie o dai nemici della Chiesa. Così è stato dopo il Concilio di Trento fino al XX secolo e in molte regioni fino al Vaticano II. È stato apologetico, arma intellettuale nella lotta contro le Chiese riformate e tutta la modernità, al servizio della gerarchia. In un certo senso, era un’arma diretta contro i laici perché non fossero sedotti dai nemici della Chiesa.   Fino al Concilio di Trento, la teologia era un commentario alla Bibbia, libera, aperta a tutti, come lavoro intellettuale gratuito. La Riforma è partita da teologi, e allora la teologia passò sotto lo stretto controllo della gerarchia.

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il commento al vangelo della domenica

la pienezza del Regno e la gioia del raccolto


La pienezza del Regno e la gioia del raccolto
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della XI domenica del tempo ordinario Anno B:

In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce […]»

Due piccole parabole (il grano che spunta da solo, il seme di senape): storie di terra che Gesù fa diventare storie di Dio. Con parole che sanno di casa, di orto, di campo, ci porta alla scuola dei semi e di madre terra, cancella la distanza tra Dio e la vita. Siamo convocati davanti al mistero del germoglio e delle cose che nascono, chiamati «a decifrare la nostra sacralità, esplorando quella del mondo» (P. Ricoeur). Nel Vangelo, la puntina verde di un germoglio di grano e un minuscolo semino diventano personaggi di un annuncio, una rivelazione del divino (Laudato si’), una sillaba del messaggio di Dio. Chi ha occhi puri e meravigliabili, come quelli di un bambino, può vedere il divino che traspare dal fondo di ogni essere (T. De Chardin). La terra e il Regno sono un appello allo stupore, a un sentimento lungo che diventa atteggiamento di vita. È commovente e affascinante leggere il mondo con lo sguardo di Gesù, a partire non da un cedro gigante sulla cima del monte (come Ezechiele nella prima lettura) ma dall’orto di casa. Leggero e liberatorio leggere il Regno dei cieli dal basso, da dove il germoglio che spunta guarda il mondo, raso terra, anzi: «raso le margherite» come mi correggeva un bambino, o i gigli del campo. Il terreno produce da sé, che tu dorma o vegli: le cose più importanti non vanno cercate, vanno attese (S. Weil), non dipendono da noi, non le devi forzare. Perché Dio è all’opera, e tutto il mondo è un grembo, un fiume di vita che scorre verso la pienezza. Il granellino di senape è incamminato verso la grande pianta futura che non ha altro scopo che quello di essere utile ad altri viventi, fosse anche solo agli uccelli del cielo. È nella natura della natura di essere dono: accogliere, offrire riparo, frescura, cibo, ristoro. È nella natura di Dio e anche dell’uomo. Dio agisce non per sottrazione, mai, ma sempre per addizione, aggiunta, intensificazione, incremento di vita: c’è come una dinamica di crescita insediata al centro della vita. La incrollabile fiducia del Creatore nei piccoli segni di vita ci chiama a prendere sul serio l’economia della piccolezza ci porta a guardare il mondo, e le nostre ferite, in altro modo. A cercare i re di domani tra gli scartati e i poveri di oggi, a prendere molto sul serio i giovani e i bambini, ad aver cura dell’anello debole della catena sociale, a trovare meriti là dove l’economia della grandezza sa vedere solo demeriti. Splendida visione di Gesù sul mondo, sulla persona, sulla terra: il mondo è un immenso parto, dove tutto è in cammino, con il suo ritmo misterioso, verso la pienezza del Regno. Che verrà con il fiorire della vita in tutte le sue forme. Verso la fioritura della vita, Il Regno è presentato come un contrasto, non uno scontro, bensì un contrasto di crescita, di vita. Dio come un contrasto vitale. Una dinamica che si insedia al centro della vita. verso il paradigma della pienezza e fecondità. Il Vangelo sogna mietiture fiduciose, frutto pronto, pane sulla tavola. Positività. Gioia del raccolto.
(Letture: Ezechiele 17,22-24; Salmo 91; 2 Corinzi 5,6-10; Marco 4,26-34)

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una vita da prete tra i rom e i sinti – in morte di don Mario Riboldi

 

 

è morto don Mario Riboldi

ha dedicato la sua vita ai rom e sinti

“scelse di vivere il sacerdozio da nomade”

di Zita Dazzi

Ha vissuto a lungo in roulotte in un campo rom di Brugherio e ha condiviso la sua vita con i rom e i sinti italiani di cui è sempre stato amico e referente. Ieri è morto a 96 anni, don Mario Riboldi, il prete di frontiera che più di chiunque altro negli ultimi 50 anni è riuscito a interpretare i bisogni di un popolo che ha vissuto come una minoranza ai margini delle grandi città, Milano in primis.
Lo avevamo intervistato una decina di anni fa proprio a Brugherio, nella sua casa mobile, in mezzo alle altre roulotte e vicino alla “cappella” dove celebrava ogni mattina la messa per i cattolici del suo campo. Era il loro consigliere spirituale e con loro tante iniziative aveva organizzato a favore del dialogo e dell’integrazione sociale. Da quando la sua salute si era deteriorata, viveva in una casa di riposo di Varese, lì dove è mancato ieri.

“È morto don Mario Riboldi, un uomo buono di Dio e uno dei più cari amici dei Rom e Sinti in Italia, Europa e in mezzo mondo – racconta in un post su Facebook Stefano Pasta, uno dei dirigenti di Sant’Egidio di Milano – Ho avuto la fortuna di essergli amico e aver tante occasioni con lui per condividere preghiere, parole, pranzi, sogni, preoccupazioni, pensieri per tanti rom e sinti. Tanti sono i ricordi dei momenti vissuti insieme: ricordo quando – avevo appena finito le superiori – mi raccontò come aveva iniziato la traduzione del Vangelo di Marco in una delle tante lingue romanes che parlava. Ogni incontro era l’occasione per un nuovo aneddoto, vicino e lontano nel tempo”.

            così ne da notizia  don Marco Frediani:

“È con dolore che vi informiamo della morte di Don Mario Riboldi, avvenuta il 9 giugno 2021, all’età di 92 anni. Ordinato sacerdote nel 1953 cominciò ad incontrare i nomadi della periferia Milanese. Iniziò così il suo viaggio con i popoli rom e sinti, vivendoci assieme. Accolto e apprezzato dall’allora Cardinale Montini e quindi futuro papa Paolo VI fu tra i promotori del primo e storico incontro della Chiesa Cattolica con Rom e Sinti a Pomezia il 26 settembre 1965. Ha svolto diversi ruoli in ordine alla evangelizzazione dei rom, sinti e camminanti sia come responsabile diocesano  che nazionale, portando agli onori degli altari il 4 maggio 1997, per la prima volta nella storia il gitano Ceferino Jimenez Malla.

Ha lottato, come lui diceva, con se stesso per cercare di entrare nella cultura del popolo “zingaro” imparandone i diversi idiomi e traducendo Bibbia, testi liturgici e canti nelle varie lingue per annunciare le meraviglie di Dio. “

così lo ricorda l’Avvenire:

Nomade per il Vangelo

addio a don Mario Riboldi, prete degli zingari


di Lorenzo Rosoli
Sacerdote del clero di Milano, è morto a 92 anni dopo una vita tutta dedicata a rom e sinti

Un’immagine sorridente di don Mario Riboldi

  • La canonica? Una roulotte. La cappella? Un container. Il tabernacolo? Una tenda cucita a mano dalle donne della comunità sinti. È morto martedì sera a Varese don Mario Riboldi, sacerdote del clero di Milano. Una vita condivisa in tutto e fino in fondo con gli zingari. «Mica per fare l’operatore sociale – aveva raccontato anni fa ad Avvenire  – ma solo perché sono un prete che si è sentito chiamato a portare il Vangelo fra chi, troppo a lungo, troppo spesso, è stato ignorato dai cattolici, a volte ancora così chiusi nelle loro parrocchie». Lui, la sua parrocchia, l’aveva portata – o, meglio, l’aveva incontrata – sulle strade, nei campi, nella vita dei nomadi. Fin dall’episcopato di Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, aveva iniziato a vivere con loro, a viaggiare con loro. Aveva imparato la loro cultura e le loro lingue. «Non per fare il maestro: ma per essere scolaro, con loro, alla scuola della Parola che salva», insisteva don Riboldi, che aveva tradotto il Vangelo di Marco in cinque lingue zingare. Lo stesso aveva fatto con testi liturgici, preghiere, canti. «E più della predicazione – non si stancava di ripetere – è importante la preghiera. Perché la conversione non è un frutto dei nostri sforzi ma un dono di Dio».

Mario Riboldi era nato il 21 gennaio 1929 a Biassono (Monza e Brianza) ed era stato ordinato sacerdote nel Duomo di Milano il 28 giugno 1953. Dal 1971 al 2018 è stato incaricato per la Pastorale dei nomadi della diocesi di Milano. Ma a farsi prossimo dei sinti e dei rom aveva già iniziato fin dalla fine degli anni ’50. «”Chi porta loro il Vangelo?”: ecco la domanda che don Mario, appena ordinato, al primo incarico a Vittuone, si fece dopo aver incontrato un gruppo di sinti. A quella domanda ha risposto col dono della sua vita. Le opere sociali sono importanti e utili, ma nulla va in profondità come la Parola di Dio. E don Mario non ha costruito cattedrali nel deserto, si è occupato solo di portare la Parola di Dio», testimonia don Marco Frediani, attuale incaricato per la Pastorale dei nomadi a Milano, che ha condiviso con don Riboldi alcuni anni di vita “itinerante”. Gli ultimi: dal 2018, infatti, le peggiorate condizioni di salute avevano costretto l’anziano prete a lasciare la roulotte per la casa di riposo «San Giacomo» di Varese, dove si è spento martedì. Don Riboldi, ricorda inoltre don Frediani, ha avuto un ruolo decisivo nel cammino verso gli altari di Zefirino Giménez Malla, il primo beato gitano, e – con don Bruno Nicolini – nell’organizzazione dello storico incontro di Paolo VI con gli zingari, il 26 settembre 1965 a Pomezia.

A quell’incontro – e al ruolo che vi ebbe don Riboldi – fa riferimento anche l’arcivescovo di Ferrara-Comacchio Gian Carlo Perego, neo presidente della Fondazione Migrantes, per ricordare nel sacerdote ambrosiano «una figura centrale, nel cammino post conciliare, della pastorale dei rom e dei sinti». «Voi nella Chiesa non siete ai margini, siete nel suo cuore», disse papa Montini a Pomezia. Parole che sono diventate, per don Riboldi, «il programma di una vita pastorale che lo ha visto camminare lungo tutte le strade d’Italia e d’Europa per incontrare le famiglie e le comunità rom e sinti». «Ringraziamo il Signore per il dono del suo lungo e fedele ministero sacerdotale speso con lo zelo del buon pastore», si legge nel messaggio di cordoglio dell’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, e del Consiglio episcopale milanese «in comunione con il presbiterio diocesano». Il funerale verrà celebrato domani alle 11 nella natìa Biassono.

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siamo decisamente peggiorati! ci siamo incattiviti! – a proposito del suicidio di Seid Visin

Il vero messaggio di addio di Seid Visin è che siamo diventati peggiori

di Mario Giro

«Ovunque io vada, ovunque io sia, ovunque mi trovi sento sulle mie spalle, come un macigno, il
peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone»

Queste parole pesanti
come pietre le ha scritte Seid Visin, adottato da piccolo dall’Etiopia, tre anni fa. Due giorni fa si è tolto la vita e qualcuno le mette in relazione. Comunque sia sappiamo che il problema esiste: le sue parole contraddicono il film degli italiani brava gente. Contraddicono anche l’idea sovranista che una società chiusa e dell’autodifesa sia più sicura e giusta.
Non è così: per troppi anni abbiamo accettato la seminagione della zizzania dell’odio; ci siamo abituati a pensare che la minaccia veniva dall’esterno; ci siamo lamentati come se fossimo noi le
uniche vittime.
Oggi ci ritroviamo una società più dura, insensibile, all’interno della quale nuotano i serpenti del razzismo. Impressionano “gli sguardi scettici, prevenuti, schifati”: non le parole –che pur ci sono -ma gli sguardi.
Questo significa che nel profondo dell’Italia qualcosa si è rotto. Erano meglio, molto meglio le
nostre nonne: anche davanti allo straniero restavano umane e materne. Siamo peggiorati: a
quell’epoca, dopo la guerra e fino a qualche decennio fa, a nessuno sarebbe venuto in mente di
picchiare un disabile per strada, di insultare e tirare uova a un “ciccione” autistico, a sparare ai
“neri” o a schifare apertamente uno straniero.
Dobbiamo dircelo senza relativizzare: siamo peggiori. Su molte cose siamo migliorati: ci sono  meno omicidi di una volta, ad esempio. Ma in quanto a clima umano siamo decisamente peggiorati.
Ci giustifichiamo dicendo che avere i propri giudizi o pregiudizi non fa male agli altri. Invece no: fa male, fa molto male e Seid ce lo dice lucidamente. Certamente c’è una responsabilità delle destre che hanno manipolato politicamente la paura e il razzismo. Ma non è solo questo: tutti lo abbiamo in qualche modo accettato e tollerato. Tutti abbiamo pensato almeno una volta che gli immigrati erano troppi; tutti abbiamo consentito nel nostro vicino sguardi e pensieri razzisti e cattivi.
Una società incattivita si prepara al declino: questa è la vera crisi italiana che spiega quella
economica. Forse una volta si sarebbe detto che tale declino avrebbe provocato violenza e alla fine
la guerra. E’ ancora possibile che ciò accada: una società divisa e con pensieri di odio finisce
sempre male, si auto-avvelena. Ma anche se la guerra –quella vera- non scoppierà, ci sarà
certamente un’altra forma di conflitto diffuso che farà vivere peggio tutti. Nella sua lettera Seid
racconta la mutazione della società italiana di questi anni, vissuta sulla sua pelle. Narra anche di
come lui stesso ne sia stato contagiato. La vera pandemia italiana è lo scaricare le paure su capri
espiatori, che siano immigrati, stranieri, rom o altro.
Così perdiamo la nostra identità, invece che rafforzarla. Leggendo le lettere dei nostri soldati dal
fronte le troviamo più umane: durante la seconda guerra mondiale non parlavamo così nemmeno del
nemico. Altroché andare a Kasteloritzo a celebrare l’anniversario dell’Oscar a Mediterraneo: non
siamo più così. Siamo diventati antipatici e intossicati d’odio.

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il commento al vangelo della domenica

il flusso della vita divina nelle nostre vene


Il flusso della vita divina nelle nostre vene
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della domenica del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo – Anno B
Il primo giorno degli azzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”» […]

Prendete, questo è il mio corpo. Nei Vangeli Gesù parla sempre con verbi poveri, semplici, diretti: prendete, ascoltate, venite, andate, partite; corpo e sangue. Ignote quelle mezze parole la cui ambiguità permette ai potenti o ai furbi di consolidare il loro predominio. Gesù è così radicalmente uomo, anche nel linguaggio, da raggiungere Dio e da comunicarlo attraverso le radici, attraverso gesti comuni a tutti. Seguiamo la successione esatta delle parole così come riportata dal Vangelo di Marco: prendete, questo è il mio corpo… Al primo posto quel verbo, nitido e preciso come un gesto concreto, come mani che si aprono e si tendono. Gesù non chiede agli apostoli di adorare, contemplare, venerare quel pane spezzato, chiede molto di più: “io voglio essere preso dalle tue mani come dono, stare nella tua bocca come pane, nell’intimo tuo come sangue, farmi cellula, respiro, pensiero di te. Tua vita”. Qui è il miracolo, il batticuore, lo scopo: prendete. Per diventare ciò che ricevete. Quello che sconvolge sta in ciò che accade nel discepolo più ancora che in ciò che accade nel pane e nel vino: lui vuole che nelle nostre vene scorra il flusso caldo della sua vita, che nel cuore metta radici il suo coraggio, che ci incamminiamo a vivere l’esistenza umana come l’ha vissuta lui. Dio in me, il mio cuore lo assorbe, lui assorbe il mio cuore, e diventiamo una cosa sola, una stessa vocazione: non andarcene da questo mondo senza essere diventati pezzo di pane buono per la fame e la gioia e la forza di qualcuno. Dio si è fatto uomo per questo, perché l’uomo si faccia come Dio. Gesù ha dato ai suoi due comandi semplici, li ha raddoppiati, e in ogni Eucaristia noi li riascoltiamo: prendete e mangiate, prendete e bevete. A che serve un Pane, un Dio, chiuso nel tabernacolo, da esporre di tanto in tanto alla venerazione e all’incenso? Gesù non è venuto nel mondo per creare nuove liturgie. Ma figli liberi e amanti. Vivi della sua vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Corpo e sangue indicano l’intera sua esistenza, la sua vicenda umana, le sue mani di carpentiere con il profumo del legno e il foro dei chiodi, le sue lacrime, le sue passioni, la polvere delle strade, i piedi intrisi di nardo e poi di sangue, e la casa che si riempie di profumo e parole che sanno di cielo. Lui dimora in me e io in lui, le persone, quando amano, dicono le stesse cose: vieni a vivere nella mia casa, la mia casa è la tua casa. Dio lo dice a noi. Prima che io dica: “ho fame”, lui ha detto: “voglio essere con te”. Mi ha cercato, mi attende e si dona. Un Dio così non si merita: lo si deve solo accogliere e lasciarsi amare.
(Letture: Esodo 24,3-8; Salmo 115; Lettera agli Ebrei 9,11-15; Marco 14,12-16.22-26)

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la religione degli italiani “gode di una discreta salute”

davvero in Italia non c’è più religione?

i numeri raccontano una storia
diversa
di Marco Marzano
in “Domani” del 31 maggio 2021

le geremiadi sulla fine del cristianesimo che si levano da molti ambienti cattolici e atei
devoti sono largamente esagerate e assomigliano a quelle di tanti professori sulla morte della
cultura e l’imbarbarimento della gioventù. La secolarizzazione è in atto, ma segue strade e sentieri
tortuosi e imprevisti. La chiesa, anche grazie alla popolarità enorme di cui gode il suo capo
supremo, gode di una discreta salute: quella di un paziente la cui morte è molto al di là da venire


Quando la pandemia sarà finalmente terminata dovremo cercare di capire quale impatto abbiano
avuto sui processi di secolarizzazione la sospensione di molte attività pastorali, la riduzione dei
posti disponibili nelle chiese, la chiusura prolungata degli oratori, il rinvio di prime comunioni,
cresime e matrimoni. Molti preti tracciano già oggi un bilancio apocalittico per la chiesa,
sostenendo che molti praticanti non torneranno più, che tanti bambini hanno rinunciato per sempre
all’iniziazione cristiana, che i fedeli più tiepidi hanno abbandonato i banchi delle chiese e che solo i
più caparbi e motivati faranno ritorno in parrocchia.
Non mancano naturalmente, nei ranghi del clero, coloro che ritengono tutto questo non una
disgrazia, ma una fortuna, che libera la chiesa dalla devozione stanca, meramente rituale e
conformistica di tanti cattolici per abitudine e restituisce alla comunità cristiana quella dimensione
di «piccolo gregge» giudicata ideale per un ritorno alle radici evangeliche.

La religiosità degli italiani

Ci sarà tempo per verificare l’esattezza di queste profezie «decliniste». Quel che possiamo fare
oggi è invece valutare ancora una volta la situazione della religiosità italiana precedente l’inizio
della pandemia. L’opportunità ci è data dalla presentazione, a cura di Critica liberale, del
quattordicesimo «rapporto annuale sulla secolarizzazione», ricco di dati quantitativi ricavati da
diverse fonti ufficiali. Tra i tanti numeri presenti nel rapporto ce ne sono almeno tre che, se
osservati nella prospettiva temporale di almeno un quindicennio, segnalano in modo chiaro un
distacco crescente degli italiani dalla tradizione cattolica.
Si tratta della percentuale di prime nozze di cittadini italiani (quindi non stranieri e non divorziati o
risposati) celebrate con rito civile sul totale delle prime nozze, che passa dal 20,7 per cento del 2004
al 31,3 del 2018, di quella dei nati vivi fuori dal matrimonio sul totale dei nati vivi, passata da poco
più del 10 per cento del 2002 al 32 per cento del 2018 e di quella delle «coppie non coniugate» sul
totale delle coppie che appare quasi quintuplicata tra il 2000 e il 2018. Da questi tre dati si può
ricavare un’indicazione piuttosto chiara: quando si tratta di decidere che forma dare alla vita di
coppia e al contesto della genitorialità un numero crescente di italiani (nel complesso ancora
minoritario) propende per un modello distante dalla tradizione religiosa cattolica.

Un rapporto stabile

Detto questo, va osservato che molti degli altri dati contenuti nel rapporto vanno in una direzione
decisamente diversa, e cioè testimoniano di una sostanziale stabilità nel rapporto tra gli italiani e la
chiesa cattolica. Si prenda, ad esempio, il dato relativo ai battesimi. È vero che la percentuale di
battezzati tra zero e sette anni sul totale dei nati vivi è scesa, in poco più di quindici anni, di ben
dieci punti, dall’85 per cento del 2002 al 76,8 del 2018, ma questo sembra più un effetto della
crescita della quantità di bimbi figli di immigrati che nascono sul territorio italiano che dell’aumento
significativo della decisione dei genitori italiani di non battezzare i loro piccoli (tra l’altro, il dato è
ormai stabile da una decina d’anni). Lo stesso discorso vale per prime comunioni e cresime, la cui
diminuzione in cifra assoluta è, almeno in parte, spiegabile con il calo demografico degli ultimi
anni. Molto elevato rimane anche il numero di ragazzi che si avvalgono dell’insegnamento della
religione cattolica a scuola, sceso in dieci anni, dal 2008 al 2018, di soli cinque punti percentuali,
dal 91 all’86 per cento. Una conferma della persistente solidità del legame tra gli italiani e la chiesa
cattolica si ricava infine dalla lettura dei dati relativi alla destinazione dell’8 per mille. Nel 2000
erano un terzo (esattamente il 33,41 per cento) i contribuenti che manifestavano la volontà di
destinarlo alla chiesa cattolica; nel 2018 è stata una percentuale di poco inferiore: il 31,8 per cento. In definitiva, il distacco degli italiani dalla chiesa cattolica è molto meno consistente e veloce di
quel che si afferma in molte analisi improvvisate e impressionistiche nelle quali si narra di un esodo
di massa dei nostri connazionali dalla tradizione che per secoli ha caratterizzato il paesaggio
religioso della penisola. Dobbiamo ammettere che la frattura investe più talune sfere (ad esempio, il
matrimonio) che altre (ad esempio l’educazione religiosa dei figli: il catechismo e i sacramenti) e
riguarda maggiormente, come ci dicono altre ricerche, le generazioni più giovani, gli under 40,
rispetto a quelle più anziane, gli uomini rispetto alle donne. Per giunta essa implica tanti altri piani
che non sono visibili in statistiche come quelle presentate nel rapporto e che riguardano anche la
fede e non solo la pratica, la dimensione intima e valoriale e non solo quella pubblica e dei
comportamenti e quindi non solo l’andare a messa la domenica o il pregare, ma anche il credere in
Dio, le concezioni dell’aldilà, le immagini del peccato e del male, eccetera. Sul tema, si veda
l’ottimo volume di Roberto Cipriani, La fede incerta. Un’indagine quanti-qualitativa in Italia . Per
non parlare del tema ancora più complesso delle cause, dell’individuazione di quel che determina
in ultima istanza l’avanzata o la ritirata della faglia.

L’istituzione

Da ultimo è interessante rivolgere lo sguardo all’altro capo del rapporto, all’istituzione, alla chiesa
cattolica. Il rapporto contiene molti dati interessanti anche su questo versante, in particolare sul
«personale» a disposizione dell’organizzazione. Anche qui non manca qualche dato nettamente
positivo per la chiesa: ad esempio quello che riguarda i diaconi, praticamente raddoppiati in
vent’anni. In altri comparti abbiamo invece assistito a un calo drammatico: ad esempio, la quantità
di «religiose» in 20 anni è diminuita in modo drastico, dalle 113.295 unità del 2000 alle 75mila
scarse del 2018. Un crollo verticale, infinitamente superiore a quello dei sacerdoti diocesani (non
riportato nel rapporto) scesi, negli ultimi vent’anni, di sole tremila unità, da 35mila a 32mila. È vero
che l’età media del clero è cresciuta e che la quantità di ordinazioni è in diminuzione (nel 2008
erano stati ordinati 393 preti contro i 343 del 2018), ma anche qui la situazione è ben lungi
dall’essere catastrofica per la chiesa italiana. Per almeno tre ragioni: primo perché il numero
complessivo di sacerdoti rimane comunque altissimo se comparato a quello di altri paesi nel mondo
(nel nostro paese vive e lavora quasi il 12 per cento del clero di tutto il mondo!): secondo perché,
come già avviene in molti angoli del paese, l’arretramento può essere contrastato con l’importazione
di clero dal sud del mondo e infine perché l’effetto congiunto del calo demografico e della
secolarizzazione stanno riducendo in modo consistente l’attività complessiva del clero, adeguandola
di fatto alla diminuita disponibilità di personale.
Cito il caso più eclatante: nel 2000 circa 35mila sacerdoti celebravano 214mila matrimoni, i 32mila
presbiteri del 2018 ne hanno celebrati meno di 97mila. Difficile parlare di aumento del carico di
lavoro.
Il problema principale per la chiesa cattolica rimane quello degli spazi, dei presidi territoriali,
ovvero della gestione di un numero di parrocchie e di chiese ormai impossibile da tenere tutte aperte
con il personale a disposizione.

Un paziente in salute

Insomma, le geremiadi sulla fine del cristianesimo che si levano da molti ambienti cattolici e atei
devoti sono largamente esagerate e assomigliano a quelle di tanti professori sulla morte della
cultura e l’imbarbarimento della gioventù. La secolarizzazione è in atto, ma segue strade e sentieri
tortuosi e imprevisti. La chiesa, anche grazie alla popolarità enorme di cui gode il suo capo
supremo, gode di una discreta salute: quella di un paziente la cui morte è molto al di là da venire.

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rischiamo di abituarci all’orrore

le foto choc

 i piccoli migranti morti

ma non possiamo abituarci all’orrore


l’orrore, un tanto al giorno, come una cura omeopatica somministrata ai nostri occhi, ci sta invadendo la coscienza e non ce ne accorgiamo
I piccoli migranti morti, ma non possiamo abituarci all'orrore
di Daniele Mencarelli

Nel settembre del 2015 il mondo gridò di orrore. Una fotografia stravolse l’opinione pubblica, fermò di colpo tutte le questioni interne ai singoli Stati, sembrò quasi cancellare qualsiasi forma di ordinaria amministrazione.

La fotografia era quella del piccolo Alan Kurdi, ritrovato senza vita su una spiaggia dell’Egeo. La sua famiglia, in fuga dalla Siria, tentò come altre migliaia di profughi di raggiungere l’occidente attraverso le tratte clandestine, nel loro caso dalla Turchia verso la Grecia. Partirono da Bodrum, ma il loro viaggio durò poco, pochissimo, il gommone sul quale viaggiavano si capovolse per il mare grosso e il peso eccessivo. Della famiglia Kurdi sopravvisse solo il padre, mentre la madre e i due figli, Ghalib e Alan, affogarono.
La fotografia di Alan con il volto nella sabbia, bagnato dalle onde del mediterraneo, con la sua magliettina rossa, i pantaloncini blu, ci rimase negli occhi per settimane. Una civiltà che permette una simile sciagura non è più una civiltà. Questo dissero, dicemmo, tutti. Talmente forte lo sdegno collettivo, e sincero, che in molti pensarono che quel sacrificio potesse aprire un nuovo capitolo della Storia. Una nuova era. Dove i bambini, tutti, ma proprio tutti, avessero stessi diritti e possibilità.

 

Il corpo restituito dal mare in Libia e a destra il piccolo Alan Kurdi

il corpo restituito dal mare in Libia e a destra il piccolo Alan Kurdi – Open Arms / Ansa

 

Poi l’umanità riprese la corsa, dimenticò quegli attimi di commozione, come succede sempre, in preda alla sua smania frenetica.
Qualche giorno fa, Oscar Camps, il fondatore della Open Arms, l’organizzazione non governativa che si occupa di aiuto ai migranti, ha diffuso delle fotografie scattate in Libia. Si vedono i corpi di tre bambini. Altre foto ritraggono adulti. Tre bambini, di cui uno neonato. Vittime di un naufragio, uno dei tanti.

Dalla foto di Alan Kurdi a queste sono trascorsi poco meno di sei anni. Un dato salta agli occhi, evidente per quanto preoccupante. Il piccolo siriano, la sua immagine straziante, divenne icona di una crisi che riguardava tutti, perché tutti hanno una coscienza e da che mondo è mondo i bambini si proteggono.

Perché tutto questo non è successo per quelli ritrovati in Libia? Perché quei tre corpi bambini non hanno prodotto nulla? Se ne è parlato per mezza giornata, poi basta. Qualsiasi spiegazione è a dir poco terribile. La prima cosa che viene in mente è questa: nel giro di poco meno di sei anni l’opinione pubblica, tutti noi, ha vissuto una specie di assuefazione-regressione all’orrore, al punto da rendere digeribile una foto che ritrae tre bambini morti su una spiaggia. Un’altra chiave di lettura potrebbe essere questa, forse ancora più disumana della prima. Le foto diffuse da Camps sono state scattate a Zuwara, in Libia, e si sa, la nostra coscienza ha oggi un confine geografico, e quel confine è proprio il Paese nordafricano, tutto ciò che accade da lì in poi e affare di altri, ed è sempre lecito. E poi, a guardare bene, quei tre bambini erano dalla pelle scura. Ma delle spiegazioni possibili interessa il giusto. Anzi niente.

L’orrore, un tanto al giorno, come una cura omeopatica somministrata ai nostri occhi, ci sta invadendo la coscienza e non ce ne accorgiamo. È la storia. La nostra storia. Quella che fa di ogni sciagura del passato, dai lager ai roghi, qualcosa che deve ancora avvenire.

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