i migranti considerati ‘non persone’

dopo Macerata

la filosofa Boella:

“siamo tornati alle «non persone» di Arendt”

 
«Se negli “altri” non si vede umanità è la fine dell’empatia, che genera odio»
la studiosa di etica ricorda che oggi per i migranti si usa l’espressione «displaced persons», come per gli ebrei
Laura Boella (Foto Vito Panico)

Laura Boella 

Marina Corradi

Dopo Macerata, mentre la destra grida ai «migranti bomba sociale», e si percepisce in Italia l’ombra di un razzismo avanzante

La senatrice Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, in un’intervista ha detto una frase densa di significato: «L’indifferenza è peggio della violenza». Abbiamo chiesto di commentarla a Laura Boella, docente di Filosofia morale all’Università Statale di Milano. «Liliana Segre – osserva Boella – ricorda l’epoca della persecuzione antiebraica, quando da un giorno all’altro intere famiglie ebree scomparivano e i vicini di casa voltavano la testa dall’altra parte, e non dicevano nulla.

C’è un voltare la testa, un non voler vedere che riguarda ancora oggi molti italiani: i migranti che li circondano vengono visti come una massa anonima, non riconosciuta come pluralità di individui che hanno invece nome, un volto e una storia. Questo è un vizio di fondo nel rapporto con la realtà, e incide nell’etica quotidiana: le persone diventano numeri, categorie, ‘clandestini’, ‘vù cumprà’. È un disimpegno dal livello elementare di incontro con l’altro. Livello elementare che non va confuso con solidarietà o accoglienza, ma è almeno l’inizio di un possibile cammino. È un non mettere l’altro nel mucchio, non relegarlo nel mondo delle ‘non persone’, espressione questa di Hannah Arendt.

È significativo che oggi per i migranti si usi l’espressione displaced persons, la stessa che indicava le masse di ebrei rifiutati da Paesi ‘democratici’, privati di ogni diritto fino a diventare un niente, nei lager. Questo processo di ‘anonimizzazione’ dell’altro è un’ombra che si proietta anche sul nostro presente’.

Lei ha appena pubblicato un saggio (‘Empatia’, Raffaello Cortina editore) in cui definisce appunto l’empatia come «l’ingresso nel nostro orizzonte vitale, emotivo e cognitivo di ciò che è vissuto dall’altro». Ma come si pratica l’empatia?
La prima cosa è esercitarci a guardare chi ci sfiora per strada ricordandoci che è un uomo unico, e che ha un infinito valore. Non è nemmeno solo una vittima, è di più: è un uomo, nella sua totalità.

Per Edith Stein empatia era «essere presi dentro» dall’altro…
Un aprirsi concreto alla presenza dell’altro nella vita quotidiana. Perché fenomeni come quello di Macerata non nascono da pura follia, ma dal fatto che quegli ‘altri’ non vengono riconosciuti come uomini.

C’è quindi come un guasto collettivo della nostra capacità di empatia di fronte al fenomeno migratorio?
Sì, ribadendo che empatia non è solidarietà, ma la pura presa d’atto che l’altro esiste e ha valore. Questo riconoscimento viene a mancare perché prevale la paura dell’altro, straniero. Poi la politica e i media agiscono come un moltiplicatore, e allora «gli stranieri ci rubano il lavoro», e allora «America first’»…

Non ci può essere, nell’evitare di guardare i migranti, anche una paura della sofferenza che incontreremmo, se conoscessimo le loro storie, se ci lasciassimo coinvolgere?
Certo, ci può essere anche una incapacità di reggere il coinvolgimento emotivo. Ma bisogna sapere che è possibile passare attraverso questa difficoltà, senza chiudere del tutto la porta. È un lavoro da fare sulle proprie emozioni.

Lei è una studiosa di Etty Hillesum, giovane ebrea olandese morta ad Auschwitz. La Hillesum scriveva che ogni grammo di odio introdotto nel mondo fa del male a tutti, mentre un solo grammo di bene si estende e si propaga.
Etty Hillesum aveva fatto una profonda esperienza su se stessa e conosceva bene l’irrigidimento e anche la depressione che gravano su chi si lascia andare all’odio. Aveva capito su di sé che per quella strada non si va da nessuna parte. Invece aveva scelto un ampliamento del cuore, un accogliere nel cuore tante persone, così che anche la sua fragilità e insicurezza cambiarono totalmente di segno.

Che cosa possiamo fare dunque davanti a questo malessere crescente in Italia, esploso a Macerata?
Lo sguardo che posiamo sull’altro è fondamentale. È un’affermazione della nostra stessa dignità e del nostro senso di umanità saper guardare, sentire, leggere l’altro nello sguardo, nel volto. In modo da non cadere negli stereotipi, negli slogan, nelle categorie che dividono ‘noi’ da una moltitudine di estranei senza nome e senza storia.

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la ‘teologia della liberazione’ non è morta, anzi sembra sempre più necessaria anche in Europa

Teologia della Liberazione in Europa: nuove sfide, stessa urgenza teologia della liberazione in Europa

nuove sfide, stessa urgenza

 da: Adista Documenti n° 5 del 10/02/2018
 
  «Finché ci saranno poveri ed emarginati e finché esisterà il Vangelo – ha affermato una volta Pedro Casaldáliga, già vescovo di São Félix do Araguaia, Brasile –, ci sarà la Teologia della Liberazione. Scomparirà solo il giorno in cui non resterà nessuno da liberare». E considerando quanto quel giorno appaia lontano, oggi ancor più che in passato, non sorprende che la TdL abbia ancora molto da dire. Tuttavia, se in America Latina questa teologia, data ripetutamente per moribonda o addirittura per morta, gode invece di buona salute e di insospettabile vitalità, con tutta l’evoluzione di temi, di metodi e di stili che si è registrata al suo interno – dalla teologia pluralista della liberazione alle teologie indigene, femministe ed ecologiche – si può dire lo stesso rispetto all’Europa? È a questa domanda che cerca di rispondere l’ultimo numero di Voices – la rivista di teologia dell’Associazione ecumenica di teologi e teologhe del Terzo Mondo (Eatwot o Asett) – interamente dedicato al tema della “Teologia della Liberazione in Europa”, evidenziando come nel Vecchio Continente sia comune, secondo quanto scrive il teologo tedesco Stefan Silber, «considerare la TdL come un tema del passato, al massimo come un episodio della storia della Chiesa latinoamericana», o tutt’al più come una teologia valida nel suo contesto e nel suo tempo, ma che non può funzionare in ambito europeo. Non a caso, nota il gesuita Felice Scalia, «l’Europa (e in essa l’Italia) non è un Continente “oppresso”. Anzi fa parte integrante di quell’Occidente “predatore” di cui gli oppressi si vogliono liberare». «Una eventuale TdL, dal versante europeo – sostiene Scalia – dovrebbe partire dalla coscienza che anche il predatore è un oppresso dai suoi idoli e dalle sue ideologie disumane. Cose tutte che uccidono umanità e creano schiavitù a catena nelle stesse fila dei cosiddetti privilegiati. Una simile analisi non struttura però il pensiero comune che così si rivela privo di “profezia”». E un ruolo determinante lo ha giocato, in tal senso, il pontificato di Giovanni Paolo II, con la sua scelta – su cui si sofferma nel suo intervento il teologo e sacerdote spagnolo Benjamín Forcano – «di restaurare, ricristianizzare l’Europa, ricondurre tutto al passato», offrendo come rimedio ai mali del presente «l’immagine di una Chiesa preconciliare: una Chiesa centralizzata, androcentrica, clericale, compatta, ben uniformata e obbediente, antimoderna».

Cosicché, come scrive il teologo cileno Luis Martínez Saavedra in relazione alle Chiese francofone – ma il discorso vale in generale – «la cosiddetta “generazione Giovanni Paolo II” di sacerdoti e vescovi si aggrappa a un modello ecclesiale autoreferenziale piuttosto impermeabile all’ecclesiologia del Vaticano II, specialmente della Gaudium et Spes, di una Chiesa al servizio dell’umanità e attenta ai segni dei tempi e ancor più della Chiesa dei poveri». E lo stesso si può dire dei teologi, che rimangono «rinchiusi in una teologia piuttosto accademica, deduttiva e senza ancoraggio né nell’azione pastorale né nell’impegno nel mondo e nelle grandi sfide relazionate alla sorte dei poveri».

Eppure, tutto ciò non rende meno necessario, osserva ancora Silber, il compito di costruire un’autentica Teologia della Liberazione europea, non come mera applicazione della metodologia latinoamericana ai nostri contesti, ma come creazione di una specifica maniera di «liberare la teologia dalla sua prigionia eurocentrista e sviluppare una teologia che contribuisca alla liberazione dei poveri».

Ma il punto di partenza, sottolinea il teologo tedesco, «deve essere lo stesso: l’opzione per i poveri», perché tale opzione «non è un’invenzione di alcuni teologi latinoamericani, ma la struttura fondamentale della Chiesa di Gesù Cristo». E se questa opzione va declinata in tutte le diverse forme della povertà e dell’esclusione proprie dei contesti europei, dalla disoccupazione alla violenza di genere, dal razzismo alla xenofobia, si deve anche tener conto di quella fusione dei contesti locali e globali che chiama in causa necessariamente le responsabilità del Vecchio Continente, in relazione tanto allo sfruttamento capitalista e all’imperialismo neocoloniale quanto al cambiamento climatico e alla distruzione degli ecosistemi.

Tutto questo senza dimenticare altre due sfide importanti che la Teologia della Liberazione in Europa è chiamata a raccogliere: quella legata alla crescita dell’estrema destra e del fondamentalismo, «tanto nella religione quanto nella società, spesso tra loro interconnesse», e quella relativa alla necessaria autocritica rispetto al «peso doloroso dell’eurocentrismo nella nostra filosofia e nella nostra teologia».

Di seguito, l’intervento di Franco Barbero (fondatore, nel 1974, della comunità cristiana di base di Pinerolo, quindi, nel 2014, della comunità di base “Casa dell’Ascolto e della Preghiera”), e le riflessioni di Santiago Villamayor (della comunità di base di Saragozza, Spagna) e del teologo spagnolo naturalizzato nicaraguense José María Vigil.

* Dipinto di Maximino Cerezo Barredo, per gentile concessione dell’autore

Dal sistema cristianità alla Chiesa della liberazione

dal sistema cristianità alla Chiesa della liberazione

 
 da: Adista Documenti n° 5 del 10/02/2018 
 

Il decennio 1960-1970 ha rappresentato per la Chiesa di base italiana un laboratorio di fede e di cultura assai promettente. Si intrecciavano esperienze, narrazioni, letture ed elaborazioni molto diverse.

Attorno alla “teologia politica” (Metz-Girardi-Diez Alegria-Gonzales Ruiz), alla crescita dei preti operai, ai circoli politici dei “cristiani sociali”, nel fervore dei gruppi biblici di quartiere, molte parrocchie e parecchi centri di spiritualità raccolsero le voci del dissenso radicale e costruttivo che stava diffondendosi dal nord al sud dell’Italia. Furono questi cristiani che, nel decennio successivo, parteciparono con una acquisita coscienza di laicità ai referendum sull’aborto e sul divorzio. Fu la stagione dei “gruppi spontanei che fiorirono un po’ ovunque. I messaggi e le proposte dei teologi esperti al Concilio Vaticano II facilitarono la costruzione di un dialogo con la teologia della liberazione di cui in quegli anni eravamo in attento ascolto. Percepivamo una profonda parentela, sia pure nelle nostre dislocate e differenti realtà.

Le iniziative dei cristiani critici contro il Concordato e l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole della Repubblica, il rinato interesse per i protagonisti del “modernismo”, il 1968-’69, il superamento del partito unico dei cattolici, le lotte operaie e le prime voci dissonanti delle teologie femministe, parecchie riflessioni critiche rispetto all’enciclica Humanae vitae, ci fecero gustare la gioia di essere anche accompagnati da alcuni pastori capaci di camminare insieme al popolo di Dio. Era esattamente ciò che avveniva anche in America Latina dove alcuni vescovi rompevano, in nome del Concilio e in nome del popolo oppresso, il fronte della continuità. Sembrò allora che il “vento” del Concilio soffiasse inarrestabile. In realtà la stroncatura lenta e progressiva delle aperture conciliari non tardò a farsi sentire. Le voci profetiche che giungevano dal Cile, dall’Argentina, dal Brasile, da Cuba, dal Nicaragua e da El Salvador… ci resero progressivamente più attenti a ciò che nel capitalismo stava avvenendo. La cultura e la stagione del progresso sicuro ed illimitato diventavano ai nostri occhi una illusione. L’oppressione metteva in atto un progetto planetario sotto l’egemonia degli USA. Il nuovo nome della salvezza diventava progressivamente la liberazione “dalla schiavitù d’Egitto”.

Gli anni ‘70 videro un vasto “circuito” di realtà ecclesiali di base, parrocchie e comunità religiose, coinvolgersi in modo più esplicito e concreto nella scelta dei poveri in una Chiesa povera. In quel contesto nacquero in Italia le Comunità cristiane di Base e i “cristiani per il socialismo”.

La ricostruzione storica di quel tempo spesso si sofferma sulle esperienze che ebbero maggiore notorietà, ma fu il tessuto meno appariscente che lavorò con grande impegno e profondità sul terreno teologico, biblico e sociale.

Scattò la reazione

Già Paolo VI tuonò contro quella che definì “la rivoluzione teologica”, ma fu soprattutto la sua interpretazione restrittiva delle aperture conciliari a tentare di arginare i fermenti di novità e ad emarginare le “punte” più avanzate.

In ogni caso, fu il pontificato di Woytila che ingaggiò tutti i partigiani della reazione. Iniziò l’emarginazione dei teologi aperti e conciliari, nei seminari e nelle facoltà teologiche si avviò un controllo assoluto con una selezione rigorosa.

Tutto ciò determinò una grande corrente di scoramento mentre veniva favorita ogni operazione di squalifica della Chiesa di base. La Chiesa gerarchica molto presto cominciò ad affiancare i potenti ed a emarginare le esperienze critiche e creative. Le esperienze conciliari cercarono di praticare una spiritualità della resistenza, ma sovente la paura e il clima repressivo allontanarono dalla comunità ecclesiale energie preziose. Le intelligenze critiche facevano paura ad una istituzione che cercava con ogni mezzo di ricompattarsi.

La Chiesa della liberazione

Avevamo ancora nelle orecchie le voci di Milani e Mazzolari quando risuonarono altre testimonianze significative: Turoldo, Dossetti, Balducci, Giancarla Codrignani, Lidia Menapace, Pellegrino, Cuminetti, Raniero La Valle, Giovanni Franzoni, Vittorio Bellavite, Lercaro, Enrico Peyretti, José Ramos Regidor, Luigi Sandri, Enzo Mazzi tennero alta la prospettiva del Concilio Vaticano II. Sul piano culturale molte riviste e periodici svolsero un lavoro prezioso di controinformazione e di approfondimento, fungendo anche da ponte tra le varie Chiese della liberazione. Adista, Confronti, Tempi di Fraternità, Testimonianze, Il Gallo, Il Foglio, Quale vita, Rocca, Il Tetto, Concilium, Esodo…: ecco alcune testate tra le tante.

Lo stesso seminario per l’America Latina di Verona funzionò come laboratorio e come centro di divulgazione delle teologie dell’America Latina. Allora teologi come Mesters, Gutiérrez, Boff, Barros, Assmann, Ellacuría, Freire, Proaño, Richard, Vigil, Gebara… divennero come teologi di casa nostra e compagni di viaggio della nostra esperienza.

Esplosione delle lotte

Da Conversano a Favara, da Pettorano sul Gizio a Roma, da Gioiosa Ionica a Lavello, da Parma a Trento, da Palermo a Milano, da Genova a Pinerolo, da Firenze a Torino, da Bergamo a Voghera, da Livorno a Verona… nacquero esperienze di contestazione del potere sacrale, occupazione di Chiese, preti portati in tribunale per lotte operaie e antimilitariste… Mentre si svolgevano queste lotte, il teologo Rosino Gibellini curò, per l’edizione Queriniana, le più significative produzioni teologiche provenienti da tutte le aree del pianeta, favorendo un costante approfondimento ed ampliamento della mappa culturale e teologica.

Fu sempre nel decennio 1970-1980 che in parecchie città del Sud d’Italia si avviò un processo politico e teologico di crescente dissociazione dalle mafie. Negli anni successivi preti e magistrati furono perseguitati e uccisi perché avevano osato contrastare gli interessi delle organizzazioni criminali. Fu proprio negli anni ’70 che Ciro Castaldo diede vita al Bollettino di collegamento nazionale dei gruppi e comunità cristiane di base: uno strumento che facilitò un confronto costante tra le varie realtà nazionali.

In questi anni diventò sempre più determinante l’impegno e l’apporto delle teologie femministe e la voce delle donne che promossero una radicale critica al patriarcato dominante nella società e nelle Chiese.

Le ricerche femministe sono sempre state al centro del movimento delle Comunità cristiane di Base. Momenti particolarmente stimolanti nella vita delle comunità sono stati i convegni regionali, nazionali e i seminari di studio.

Il cammino delle comunità non potrebbe certo dimenticare l’apporto di teologi e teologhe come Hans Küng, Edward Schillebeeckx, Elisabeth Schüssler Fiorenza, Tissa Balasuriya, John Hick, Ortensio da Spinetoli, Giuseppe Barbaglio, Adriana Valerio…

Tensioni e problemi

Una certa tendenza anti-istituzionale, una difficile comunicazione tra comunità ed esperti, sensibilità diverse ed anche profonde divergenze sulle priorità del movimento stesso hanno creato nel corso degli anni delle difficoltà non indifferenti. A metà degli anni settanta, su iniziativa del teologo Amilcare Giudici e di pochi altri, fu avanzata la proposta di trasformare il collettivo teologico che aveva elaborato e scritto il volume Massa e Meriba in un laboratorio nazionale permanente per la formazione di animatori e animatrici delle comunità. L’idea non trovò seguito, ma nacquero qua e là seminari teologici e corsi biblici (quello di Torino compie 40 anni). La Chiesa di base oggi in Italia sta compiendo il difficile ma fecondo cammino verso un’accoglienza reciproca delle differenze, facendo i conti con reali divergenze sul piano politico e sul terreno religioso.

Anni ’80: repressione e paure

Negli anni ’80 le grandi iniziative pontificali, con una visibilità mediatica straordinaria, determinarono una svolta clericale in cui sembrò che la Chiesa istituzionale fosse riuscita ad imbrigliare la profezia del Concilio che, invece, per noi costituiva soltanto un sentiero aperto verso il futuro. Cominciò allora il funesto periodo della mariolatria, della santomania, della papolatria e del devozionalismo. Le ricerche sulle strutture della Chiesa, sulle cristologie, sui linguaggi liturgici, sul ruolo delle donne, sulla famiglia, sulle unioni civili e il matrimonio omosessuale… diventarono terreni “pericolosi”. Furono preferiti quei teologi e quei monaci accondiscendenti, verniciatori del vecchio catechismo e “buoni per tutte le stagioni”.

Mentre nei seminari e nelle facoltà teologiche si registrò e si registra tuttora una grave decadenza della teologia scientifica: teologi e monaci allineati trovano una presenza e una visibilità vasta su tutti i mezzi di comunicazione, determinando un’informazione che nasconde le novità critiche e le ricerche più pungenti sui terreni scottanti che la realtà dell’oggi pone alle Chiese e alle religioni. È sufficiente non “toccare”, non affrontare con rigore certi argomenti che attengono al piano etico o dogmatico, ed allora puoi vivere tranquillo.

Nonostante la voce profetica di papa Francesco su temi centrali della convivenza umana e cosmica, nonostante il suo appassionato richiamo ad una Chiesa in uscita, le nostre Chiese locali sono spesso sonnolente, piene di santi e madonne, di rosari, di processioni, di apparizioni, di feste patronali… continuano come prima le cappellanie militari, il Concordato tra Stato italiano e Chiesa cattolica, la scuola di religione cattolica, il catechismo ufficiale… Il passaggio a una Chiesa che operi un annuncio ed una testimonianza dalla fede ai sacramenti è appena avviato. Regna ancora una prassi pastorale che mette al centro la sacramentalizzazione, ma il passaggio è in atto e necessita di tempi medio-lunghi.

Una opportunità straordinaria

Lo spirito disumanizzante del capitalismo ha totalmente permeato il vissuto quotidiano con la religione del “benesserismo” e con la globalizzazione dell’indifferenza. Il clima diffuso batte anche alla porta delle nostre comunità e delle nostre vite personali. Ma in realtà, accanto a chi cede a questa idolatria, accanto a chi vive il tramonto della “societas christiana” come delusione o rimpianto, esiste una realtà minoritaria, ma capillarmente sparsa, di donne e di uomini che vivono l’attuale stagione come una difficile sfida e una grande opportunità.

Nella fatica, nella scarsità dei frutti, molte donne e molti uomini, a tutti i livelli della nostra Chiesa, vivono con speranza attiva il servizio evangelico della semina del granello di senape e la loro testimonianza nelle vie del mondo.

Uomini, donne, presbiteri, pastori, catechisti: c’è una multiforme e dispersa comunità che non cede alla tentazione “panottica”, cioè della grande immagine scenica, ma vive ogni giorno in costante riferimento alla esistenza degli ultimi, immersa nelle lotte per i diritti, contro le disuguaglianze. Esistono, quasi totalmente silenziate dalle voci ufficiali, una ricerca cristologica, un dialogo ecumenico di base, ricerche di nuovi linguaggi per dire Dio oggi in cui si gioca una partita importante. In questo contesto lentamente si crea dal basso una nuova ministerialità, anzi una nuova comunità.

“Chiesa di tutti chiesa dei poveri” non è un cartello, ma un sentiero che vuole mettere in rete, in comunione, tutte quelle esperienze che tentano di liberare il cristianesimo dalla idolatria del potere e del dogma. Molti, senza illusioni lavorano, studiano, pregano e operano in questa direzione, affidando a Dio i tempi del cammino.

Mi sembra che questa sia autentica spiritualità della liberazione. Si tratta di un’opportunità storica di passare dalla prevalenza di un cristianesimo sociologico alla fede personale e comunitaria nel Dio della liberazione che, per noi cristiani, si è manifestato in Gesù di Nazareth e nelle persone più emarginate, fragili ed oppresse.

* Fronte di copertina dell’opera collettanea Massa e Meriba. Itinerari di fede nella storia delle comunità di base (Tempi di Fraternità 1980)

Dal nazionalcattolicesimo al postcristianesimo. Le CdB in Spagna e la TdL

dal nazionalcattolicesimo al postcristianesimo

le CdB in Spagna e la TdL

 da: Adista Documenti n° 5 del 10/02/2018
 

Introduzione

La Teologia della Liberazione è la conseguenza più onesta del Vaticano II, nata in parte nelle catacombe romane ed emarginata dalla curia romana fin dal primo momento. Tutto il potere e tutto il peso della Basilica di San Pietro sarebbero ricaduti a piombo negli anni successivi su questo sottosuolo evangelico. (…). L’espressione più rilevante di questo rinnovamento è stata la formazione di un grande movimento dalla duplice militanza, cristiana e politica, sotto forma di piccole comunità. Alle frontiere della stessa Chiesa, molti catechisti, religiosi/e e sacerdoti si sono avvicinati ai poveri, agli indigeni, agli abitanti delle baraccopoli e ai contadini che con fatica si guadagnavano il pane e che per le loro proteste perdevano facilmente la vita. Il martirologio latinoamericano mostra la radicalità e la santità che hanno caratterizzato la sequela di un Gesù di Nazaret sempre nuovo, povero e sovversivo, profeta al servizio del popolo.

In Spagna l’esempio latinoamericano si diffuse rapidamente soprattutto tra i cristiani a cui il Concilio aveva dato speranza. Erano i settori che si andavano distaccando dall’ortodossia e dal concubinato politico con il regime franchista: una piccola borghesia sinceramente religiosa, lavoratori dell’industria dalla religiosità ancora profondamente rurale, professionisti liberali, studenti contestatari e i resti della sinistra che aveva perso la guerra ma che non per questo aveva rinunciato alla sua cultura cristiana.

Si originò allora una dinamica di avvicinamento alla “classe operaia”, di proletarizzazione e di prossimità nelle periferie. Il misticismo rivoluzionario si fece spazio ispirandosi all’Esodo e ai Profeti. (…).

Influenza della Teologia della Liberazione in Spagna

Il libro Marx e la Bibbia di José Porfirio Miranda non è il più importante della TdL, ma è di certo uno dei più rilevanti per le comunità. Significativamente, poneva la giustizia interumana come principio etico comune al marxismo e al cristianesimo. «Fede significa credere che questo mondo ha un rimedio». L’analisi marxista delle alienazioni e l’interpretazione materialista della storia iniziarono a costituire la mediazione di cui la teologia aveva bisogno per uscire dalle eteree e screditate interpretazioni metafisiche. Si scopriva così un «amore più universale e pertanto più divino» di quello legato alle classi potenti il cui Dio era seduto alla «mensa del padrone». La sociologia marxista e la rivoluzione dei cristiani si collocavano così nell’occhio del ciclone ecclesiastico e politico.

Con questo avvicinamento strutturale ai poveri sorge anche un nuovo paradigma, una sincera chiave di interpretazione della realtà, al tempo stesso molto semplice e molto potente: quello in base a cui non è il pensiero quello che determina la maniera di essere o di vivere, ma è l’esistenza reale, la condizione sociale, a determinare il modo di pensare e pertanto di agire. (…).

Tale paradigma (…) impregnò l’esperienza cristiana in modo tale che, malgrado la profonda trasformazione delle società, persiste ancora oggi, sebbene con nuovi modi di espressione: con minore radicalità, forse, ma con maggiore estensione. (…).

E diciamo anche che questa teologia è venuta per riconciliare la Chiesa con la sinistra, poiché fino agli anni Sessanta l’esclusiva del cattolicesimo l’aveva la destra. È venuta per fare da ponte tra il cristianesimo sincero di alcune famiglie e gli “eroi rossi” sconfitti in guerra. E ciò nonostante l’episcopato e la gerarchia in generale, malgrado papa Francesco, facciano ancora resistenza. Ed è venuta anche per costruire l’istmo di un umanesimo liberatore universalista. Un movimento che assume e supera le religioni e le ideologie, il teismo e l’ateismo, e che unisce “greci, ebrei e gentili” in una convocazione plurale e indefinita interpretata dalle comunità sotto le metafore del Regno e del Padre. Vale a dire, animata dal cielo stellato della fraternità universale e mossa dalla memoria della migliore “buona volontà” dentro di noi (Kant).

Traiettoria delle Comunità di base in Spagna

a) La rottura con il nazionalcattolicesimo, anni ’60-’70

Il nazionalcattolicesimo è nato dalla simbiosi tra il regime franchista vincitore della guerra civile e la Chiesa spagnola schierata in difesa dei valori più tradizionali del cattolicesimo e della legittimità di tale guerra, definita come una crociata. (…). Una dittatura cattolica. Una “triplice alleanza”: tra l’esercito golpista, il potere economico beneficiato dalla guerra e la Chiesa anticomunista e tridentina. (…)

Da questo cattolicesimo borghese, centrato sul culto, sulla salvezza individuale, sul moralismo, soprattutto sul terreno della sessualità, e sull’”altro mondo” – da conquistare attraverso la reiterazione magica dei sacramenti –, si è passati a un cristianesimo della solidarietà tra fratelli, impegnati a conquistare la propria dignità e a ricercare insieme una liberazione dalle proprie condizioni di vita. Un passaggio sperimentato congiuntamente nel seno di una comunità.

Per questo quasi si può dire che fu un miracolo uscire da quella situazione di oscurità. Ma il miracolo ci fu, a partire dagli anni ’60, grazie a diverse e decisive circostanze (…), a cominciare dalla scoperta della povertà estrema nei quartieri periferici in virtù delle missioni catechetiche. (…).

In questo divorzio con il regime assume un ruolo di rilievo José María de Llanos, il mons. Romero spagnolo, come potremmo chiamarlo. E con lui José María González Ruiz, parroco di periferia e canonico della cattedrale di Malaga, il teologo spagnolo forse più influente al Vaticano II (…) e José María Díez Alegría, fratello di due illustri generali dell’esercito vittorioso (…), che passò dalla direzione degli esercizi spirituali di Franco alla periferia più povera di Madrid, il Pozo del Tío Raimundo, dove sposò la causa dei lavoratori e delle loro lotte ed entrò nel sindacato Comisiones Obreras, e successivamente nel Partito Comunista. Fu uno scandalo per il regime e una follia per la fede, di grande impatto sul nascente cristianesimo popolare delle comunità. Un percorso simile a quello di un altro gesuita, “Paco el Cura”, Francisco García Salve, figlio di una guardia civile assassinata dagli anarchici (…), che diventò membro del Comitato Centrale del Partito Comunista e della direzione di Comisiones Obreras, e, come tale, condannato nel famoso «processo 1001» del 1973 (quello con cui il Tribunale di Ordine Pubblico condannò al carcere dieci dirigenti del sindacato clandestino Comisiones Obreras per delitto di associazione illecita, ndr).

In Europa è imminente il “Maggio del ’68” e negli Stati Uniti esplode la contestazione della guerra in Vietnam. A Cuba trionfa Fidel e in Spagna i seminari entrano in ebollizione. (…). La HOAC (Hermandad Obrera de Acción Católica) e la JOC (Juventud Obrera Cristiana) si avvicinano alle cattive compagnie della sovversione marxista. I “preti operai” abbracciano con grande sacrificio il lavoro manuale salariato. Gruppi di religiosi e religiose (…) vanno a vivere in appartamenti condividendo la vita quotidiana, il mercato e la strada con le altre persone. Si cedono i locali parrocchiali alla lotta operaia, allora clandestina, e i loro ciclostili stampano più volantini che fogli parrocchiali.

La “Parola di Dio”, la buona semente, non viene più lasciata con devota parsimonia sui banchi della chiesa, ma è lanciata con rabbia sulle strade, all’alba. Ed è in questo contesto che irrompe la Teologia della Liberazione. E che si forgiano le Comunità di Base e altri gruppi simili.

Tanto in America Latina quanto in Spagna furono momenti di mistica messianica. Gesù era un rivoluzionario come il Che, come Fidel, come, allora, Daniel Ortega. (…). E se c’erano resistenze nei riguardi del marxismo, si prendeva come esempio la non violenza di Gandhi o di Martin Luther King. Gli Stati Uniti erano il Leviatano capitalista. (…). Credere era impegnarsi, partecipare alle lotte operaie e di quartiere e celebrare la memoria sovversiva di Gesù di Nazaret. (…).

Nelle facoltà di teologia, oltre al marxismo, si insegnava la psicoanalisi e l’evoluzionismo di Teilhard de Chardin. Si leggeva Camus, Sartre, Simone de Beauvoir. Con John Arthur Thomas Robinson e il suo libro Honest to God, ci avvicinammo a Bonhoeffer e a Tillich. Nelle comunità e nei loro gruppi di formazione si divulgavano questi scritti e si leggevano direttamente i teologi più pastorali: Hélder Câmara, Roger Garaudy, Giulio Girardi, García Nieto e Comín, che danno avvio in Spagna al movimento dei “Cristiani per il socialismo”. Proliferano i quaderni di formazione come la Teologia Popolare di José María Castillo, le riviste della HOAC, Noticias obreras, Exodo e Utopía, quest’ultima delle nostre comunità. Julio Lois, Juan José Tamayo, Pedro Casaldáliga, Ivone Gebara, González Faus e i quaderni di “Cristianismo y Justicia”, per fare alcuni esempi, avrebbero portato avanti successivamente questa pedagogia della liberazione. Le poesie di Ernesto Cardenal o le canzioni di Víctor Jara, Violeta Parra, Carlos Mejía Godoy e poi Silvio Rodríguez o Pablo Milanés, tra altri, ci trasmettevano, molte volte, più teologia di molti scritti accademici.

b) La alternativa cristiana. Le CdB, anni ’70 e ’80

Le Comunità di Base vivono il loro apogeo in questi due decenni. (…). Il libro La alternativa cristiana di José María Castillo (…) rappresenta assai bene ciò a cui si mirava in quel periodo. Un’alternativa alla Chiesa tradizionale. Una rinascita del cristianesimo a partire dal popolo, ma senza abbondonare quella Chiesa. Ci ponevamo in un’appartenenza critica. Volevamo essere “l’altra voce della Chiesa” e compensare l’eccessiva loquacità di destra della gerarchia, che quasi sempre metteva in cattiva luce il vangelo. (…).

L’assassinio di mons. Romero nel 1980 fu uno dei momenti più importanti, per ciò che significava come esempio di conversione al vangelo dei poveri a partire da un’alta sfera dell’Istituzione. La sua morte diede vita ai Comitati Oscar Romero, che portarono la Teologia della Liberazione in tutto il mondo. Qualcosa di simile avviene con l’assassinio dei gesuiti e delle due donne che li aiutavano in El Salvador. (…). Alla fine degli anni ’80 inizia un lavoro meno vistoso e più efficace sul terreno istituzionale. (…). Nelle comunità si va diffondendo a poco a poco un clima di disincanto e di desolazione. Soprattutto nella misura in cui Giovanni Paolo II va stravolgendo lo spirito del Vaticano II e attaccando e umiliando la Teologia della Liberazione nella persona di Ernesto Cardenal, durante la sua visita in Nicaragua. La Spagna entra in un’epoca di prosperità economica che va ampliando le classi medie, con le quali si impone un profilo più conformista. (…).

c) La cooperazione internazionalista, dal ’90 al 2005 Il cristianesimo della liberazione si dispiega in nuovi movimenti sociali e nella pre-politica mondialista. Gli sguardi si rivolgono al Sud. (…).

La caduta del muro di Berlino e con essa il discredito dei Paesi del socialismo reale pone fine alla rivoluzione intesa in modo classico e apre la porta al pensiero unico e alla globalizzazione. Fukuyama pubblica La fine della storia per confermare il trionfo del capitalismo. Ma parallelamente sorgono anche i movimenti antiglobalizzazione, i forum sociali e l’altermondialismo: il Vertice di Rio nel 1992, le proteste di Seattle nel 1999 e il primo Forum Sociale Mondiale a Porto Alegre nel 2001 (…).

A poco a poco si va imponendo anche una nuova cultura, la postmodernità. La liberazione compete con il gusto per la vita e i costumi si liberano dalla religione. (…). L’individualismo, la solitudine e l’anonimato si espandono per le città sempre più cosmopolite. Si consolidano i tratti che successivamente Bauman riassumerà nel concetto di “società liquida”.

Le comunità affrontano questi momenti di difficoltà con molteplici iniziative. Revisione delle proprie basi identitarie, gruppi di formazione e di preghiera, giornate statali di riflessione. Ogni incontro statale diventa motivo di speranza esprimendo una volontà di rilancio, benché domini la nostalgia del profetismo di un tempo. (…). Negli ultimi anni del XX secolo alcune visioni teologiche acquistano una speciale importanza. Cresce l’interesse per la ricerca di nuovi simboli, considerando il logoramento dei sacramenti classici. La disaffezione dalla Chiesa diventa sempre più forte e la funzione del sacerdote non viene più riconosciuta. (…). La celebrazione dell’eucarestia si rinnova completamente. Diventa qualcosa che appartiene a tutta la comunità: la riflessione, la preghiera e un pasto comune in memoria dell’ultima cena di Gesù. Non si tratta di pasque ebraiche né cristiane, né tantomeno di sacrifici redentori e le donne iniziano a presiedere la celebrazione. A poco a poco si perde il carattere sacro e si valorizza maggiormente la dimensione comune derivante dalla condivisione dell’azione sociale e dell’opzione per i poveri. Non ci sono consacrazioni né liturgie. Si tratta di nuovi simboli vincolati alla gratuità e all’amore disinteressato, soprattutto di carattere civico. E le comunità passano a concentrarsi sull’aiuto ai migranti e sull’accoglienza ai rifugiati.

Con le nuove tecnologie dell’informazione, le reti sociali e i cellulari, l’attivismo sociale cresce nel mondo virtuale e si proietta sulla realtà. Le nuove tecnologie, le neuroscienze e la robotica annunciano un mondo ancora più contraddittorio rispetto ai vecchi racconti biblici ed emancipatori. La TdL, che aveva eclissato i problemi metafisici ed esistenzialisti, torna ad affrontare le questioni radicali della finitezza e del limite, ora passati per il setaccio della vita reale e collettiva: un altro mondo è possibile? Quanto dureranno le conquiste popolari? (…). Cosa o chi garantisce che il mondo trovi un rimedio? L’oppressione e l’ingiustizia sono viste nell’ottica del tradizionale problema del male, e il paradiso comunista o comunitario entra nell’incertezza del mistero e dell’enigma. Il pluralismo religioso pone sul tappeto la questione della relatività delle risposte religiose.

La fede che cerca di comprendere si sente sola e insicura. I cristiani, non più tanto della base, sono ora compagni di viaggio di agnostici e anateisti.

d) Post-religione e umanesimo universalista. Dal 2005 a oggi

Il cristianesimo si è sempre rinnovato. E se tante volte è entrato in crisi, generalmente a causa del potere, che lo si chiami ricchezza, autoritarismo o egocentrismo, altrettanto spesso ha assistito al ritorno dei profeti. Ma ora la crisi e la mutazione che l’accompagna appaiono più profonde, avendo a che fare con aspetti essenziali del credo cristiano, compreso di di ciò che si credeva fosse il messaggio originario del Vangelo. Le coordinate o paradigmi che reggono il mondo sono cambiati profondamente. La globalizzazione della povertà si manifesta attraverso un’enorme forbice di disuguaglianza tra l’1% rappresentato dal potere finanziario e il 99% degli impoveriti. L’intero pianeta si trova in estremo pericolo. E d’altra parte l’intelligenza artificiale, l’ingegneria genetica, i bigdata e via dicendo sembra vogliano condurci al bordo del “transumanesimo”, dell’affermazione di un’intelligenza artificiale.

In questo panorama molti si spingono ad affermare che ci troviamo in un nuovo tempo assiale. In una fase convulsa di metamorfosi che, nel caso del cristianesimo, si traduce in una decostruzione del grande racconto della Salvezza e in un imminente volo della farfalla verso la convergenza dell’umanità. Le comunità non respirano più al ritmo dei grandi avvenimenti salvifici enunciati nella prima teologia paolina.

La Bibbia è per noi una grande metafora: non ha la ragione, ma ha anima di liberazione. La creazione, il peccato, l’incarnazione, la redenzione o la resurrezione e la vita eterna non sono sequenze di una grande epopea storica. Sono simboli delle costanti esistenziali della condizione umana e dell’invito alla fraternità.

Le opere di Lenaers, Spong, Knitter, Hick e altri, che le comunità hanno potuto conoscere grazie a Servicios Koinonia, alla biblioteca Relat (Revista Latinoamericana de Teología) e ai successivi incontri con José María Vigil nelle sue visite in Spagna rappresentano l’ultimo passo dell’influenza della TdL nelle comunità. Tali letture ci hanno provocato in un primo momento uno sconcerto profondo e doloroso, ma ci hanno permesso l’accesso a un nuovo paradigma post-religionale e sovra-religionale che genera in noi sollievo e fa nascere un nuovo spirito di liberazione. È la grande onda della massimizzazione dell’amore civico che si esprime in tutta la sua purezza quando abbraccia i più sfavoriti.

Appendice

La speleologia della speranza

“…E arrivarono tempi oscuri

in cui tutte le nostre conquiste furono distrutte

da orde di ciechi mercenari

al servizio del potere del denaro.

Una volta ancora la speranza

fu costretta a cercare rifugio

nella grotta più profonda

per evitare che l’avidità la demolisse

cancellandone la memoria;

e fu necessario mantenere il silenzio,

lontano dalle cose, in modo che il silenzio ci restituisse

la coscienza semplice dell’amore

e il senso compiuto della parola”.

(Frammento di una poesia trovato nelle rovine di Babilonia, presso la porta di Ishtar).

Doveva essere questo il titolo di questo articolo: “La speleologia della speranza”, ma mi sembrava troppo magniloqente. Non lo è però qui, come epigrafe di un’appendice. Uso questo termine, “speleologia”, del tutto intenzionalmente, perché il compito che presuppone è quello della ricerca e della creatività. Perché la “teologia” si indebolisce nella misura in cui crescono l’antropologia e la sociologia delle molteplici trascendenze umane. Come tali mirano all’assoluto, senza arrivare a toccarlo o a macchiarlo. E ci dobbiamo abituare a restare nella caverna cercando di uscirne. Siamo incomprensione e limitazione, carne di relatività che dice Dio, Libertà. Siamo umanità scissa a causa dell’ingiustizia in attesa di un’integrazione fraterna.

Uso questo termine anche perché la speranza non può che essere attrattiva. Come possiamo entusiasmarci per qualcosa che ci oltrepassa se viene annunciato a partire da una sofferenza obbligata e dall’impotenza di una “missione impossibile”?

Cerchiamo allora attraverso le crepe della complessa ingiustizia di questo tardo capitalismo, finanziario e distruttore, soluzioni economiche e di pace; guardiano ai filoni della contingenza per scoprire aperture di libertà duratura. La speleologia è un magnifico lavoro di scoperta che richiede una luce potente sul proprio casco, intensa suspense e lavoro pericoloso.

La fede che nasce tra i poveri si chiama speranza. Il potente vive nella sicurezza dei cieli luminosi, conosce Dio, sa chi è e lo chiama per nome, perché sta con lui. Il povero ne avverte l’assenza, va a tentoni e lo attende e lo ama senza una sufficiente ragione. La Prassi della Liberazione ha aperto nella caverna umana filoni di fede profonda e di compassione attiva, ogni giorno più vasti.

* Basílica de Nuestra Señora del Pilar a Saragozza in una foto [ritagliata] di LeyLeyLey, tratta da Pixabay

L’America Latina dinanzi alla ricezione della TdL in Europa

l’America Latina dinanzi alla ricezione della TdL in Europa

da: Adista Documenti n° 5 del 10/02/2018
 

Qualche parola ulteriore dall’America Latina, per (…) esprimere con fiducia alcune convinzioni latinoamericane che affiorano nel nostro cuore dopo questo “dialogo con l’Europa” in cui consiste di fatto questo numero di Voices dedicato alla ricezione della Teologia della Liberazione in Europa.

Di fronte a una ricezione così varia e multiforme (…), nascono in noi queste parole fraterno-sororali, da TdL a TdL, rivolte a tanti fratelli e sorelle e a tante comunità che pensano, pregano e praticano questa teologia uguale e al tempo stesso diversa, che ci unisce nella lotta per la stessa Causa, l’Utopia di Gesù.

1. TdL, una teologia veramente latinoamericana

Teologie ve ne sono molte in America Latina, ma la TdL è quella che più propriamente può essere definita davvero latinoamericana, cioè nata e cresciuta qui e identificata pienamente con valori tipicamente latinoamericani. Altre teologie possono magari vantare più adepti e un maggiore appoggio istituzionale, ma sono teologie nate in un altro luogo, teologie importate e a volte imposte.

Per quanti di noi l’accompagnano dalla sua nascita, riveste un grande significato per questo continente: è il primo corpus sistematico di teologia elaborato al di fuori dell’Europa. E non è il risultato di una mera applicazione del Concilio Vaticano II al continente latinoamericano: l’applicazione effettivamente realizzata dalla II Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano di Medellín è risultata molto creativa e ha rappresenta  to un salto qualitativo verso un nuovo paradigma (storico, critico, liberatore, a partire dall’opzione per i poveri…) realmente nuovo, nella storia non solo del continente, ma della Chiesa intera. Ha aperto prospettive nuove che non erano presenti nel testo conciliare che sembrava dovesse “semplicemente” applicare.

Nei primi anni ’80 si discusse ampiamente della differenza specifica (se ci fosse e quale fosse) tra la TdL e la cosiddetta teologia progressista europea, che, senza dubbio, aveva contribuito notevolmente all’apparizione della TdL. Sappiamo bene che, in una sana teologia, non è possibile una novità assoluta. E sappiamo bene anche che la TdL non ha un “padre”, né riconosce alle sue origini alcun maestro che abbia creato intorno a sé questa “scuola teologica”, bensì è andata sorgendo collettivamente, un po’ ovunque in America Latina, a partire dall’esperienza spirituale e dalla prassi di un popolo “oppresso e credente” come quello latinoamericano. Un’esperienza che è stata un “atto primo” di cui la TdL che è sorta in America Latina sarebbe un atto secondo.

Ma questo atto secondo non avrebbe potuto aver luogo se non fosse stato per il Concilio Vaticano II che si intendeva applicare (e che di certo ha avuto molto poco di latinoamericano), e per i primi sviluppi della teologia europea postconciliare, i quali non erano sconosciuti ai teologi e alle teologhe dell’America Latina che accompagnarono il proceso.

Di certo, il risultato non è stato una copia, bensì ha presentato novità sostanziali, fondamentalmente a causa della differenza tra il contesto socioeconomico e socioculturale latinoamericano e quello europeo, per il diverso “luogo sociale” all’interno della società mondiale a cui guardava ciascuna delle due teologie. Di fatto Rockefeller reagì con furia contro Medellín e contro la TdL, non contro altre teologie. Nell’ottica dell’America Latina, ci sembra di vedere che questo popolo simultaneamente “oppresso e credente” – nella consapevolezza della dialettica oppressione/liberazione e dell’opzione per i poveri – sia la differenza specifica alla base del marchio di fabbrica della TdL, del salto qualitativo che questa ha potuto compiere, senza disconoscere né sottovalutare per questo l’aiuto inestimabile che ha significato la teologia progressista europea.

In ogni caso, la TdL latinoamericana può essere considerata a ragione come un contributo di questa Chiesa cristiana continentale all’intera Chiesa universale, trovandosi in effetti presente oggi in tutti i continenti.

Non si è trattato di un’esclusiva cattolica, dal momento che lo stesso processo è stato vissuto nello stesso periodo dalle Chiese protestanti, nella Conferenza di Uppsala, nel “Movimento Chiesa e Società” del Consiglio Ecumenico delle Chiese a Ginevra… Le innumerevoli realizzazioni accademiche e pastorali “ecumeniche”, tra cattolici e protestanti, in materia di TdL non sono mai cessate fin dai primi momenti della sua apparizione. Anzi, senza che nessuno abbia voluto “esportarla”, la incontriamo anche in altre religioni, come l’islam, l’ebraismo, l’induismo, il buddhismo…

Pur essendo la teologia latinoamericana per antonomasia, è chiaro anche che non è solamente latinoamericana, bensì presenta anche altre radici – tra cui quelle europee –, e soprattutto molti rami, carichi di frutto, che si sono innestati nei luoghi più diversi, in tutti i continenti.

2. TdL: senza trionfalismo

Per dire la verità, neppure negli anni ’70 e ’80 la TdL è arrivata a occupare egemonicamente il continente latinoamericano. Ha, sì, assunto un chiaro protagonismo, grazie alla pubblicità dei mezzi di comunicazione che ne hanno fatto una novità giornalistica, ma neanche allora è stata una teologia maggioritaria tra il popolo di Dio latinoamericano. E ancor meno lo è stata istituzionalmente. Però, questo sì, ha portato, quasi da sola, la palma del martirio: era dai primi tempi della Chiesa che non assistevamo a una «così grande nube di testimoni», il martirologio latinoamericano, la prova di credibilità massima della spiritualità della liberazione (l’atto primo della TdL).

Negli anni ’70 e ’80 si pensava che la CLAR (Conferenza Latinoamericana dei Religiosi e delle Religiose) fosse totalmente egemonizzata dalla TdL; in realtà, analisi più dettagliate hanno rivelato come solo un quarto dei religiosi/e aderisse – profondamente, questo sì – alla TdL: la grande maggioranza si limitava semplicemente a seguire le persone che erano convinte oppure si opponeva loro. E lo stesso potremmo dire del grosso delle diocesi della Chiesa cattolica e delle denominazioni e congregazioni della Chiesa protestante. La realtà della TdL è stata spesso significativa, e in sé molto valida, ma non ha mai raggiunto una presenza di massa e ancor meno totalizzante. I nemici politici e gli avversari ecclesiastici istituzionali non sono mancati e questo ha reso particolarmente duri alcuni decenni dell’inverno ecclesiale che abbiamo attraversato. Tutto ciò spazza via ogni trionfalismo nel parlare della TdL: lo stesso atteggiamento con cui ascoltiamo i resoconti e le cronache della presenza e della ricezione della TdL in Europa. È il cammino del Vangelo: sempre privo di trionfalismo.

3. TdL: con umiltà

La TdL è stata frequentemente celebrata come un ritorno al cristianesimo del Vangelo, alla Chiesa primitiva, quella dei poveri, slegata da ogni alleanza con l’Impero. Ma se tali riconoscimenti sono veri, devono anche essere accolti con umiltà, perché non si possono chiudere gli occhi di fronte alla sua impotenza rispetto alla realtà di peccato del nostro continente.

L’America Latina, il continente famoso per la TdL, è altrettanto tristemente famoso per essere il continente economicamente più diseguale del mondo. Il Brasile, il Paese che è giunto ad avere – si diceva – più di 80mila Comunità Ecclesiali di Base – è il Paese che registra la maggiore concentrazione di reddito, e in cui l’1% della popolazione possiede il 28% della ricchezza del Paese, secondo i dati del 2015, anche dopo il livellamento in termini di equità che ha significato il governo di Lula, con più di 40 milioni di poveri che hanno fatto ingresso nella classe media. La TdL latinoamericana deve parlare con umiltà, perché i postulati teorici su cui si basa sono assai lungi da una traduzione effettiva in risultati socio-economici giusti e in efficaci e concrete strutture politiche. E ciò malgrado questa contraddizione tra religione cristiana e ingiustizia sociale non appartenga solo al continente latinoamericano, ma a tutto il complesso socio-culturale occidentale, essendo purtroppo l’Occidente la culla e il supporto del capitalismo mondiale, noto in tutto il mondo come massimo responsabile della disuguaglianza, dello sfruttamento dei popoli e del colonialismo. La TdL, tanto in America Latina quanto in Europa o in qualunque altra parte del mondo, deve essere umile perché non può vantare il merito di aver realizzato storicamente molte trasformazioni socio-economico- politiche, benché possa, al tempo stesso, essere umilmente orgogliosa di stare dalla parte giusta della necessaria trasformazione del mondo, dallo stesso lato in cui si schierò Gesù di Nazaret, che pure lui fallì.

Specialmente dinanzi all’Europa, la TdL non può essere arrogante né pretendere di dare lezioni a priori, poiché di fatto l’Europa, pur essendo una delle regioni che producono più diseguaglianza a livello mondiale, e pur trovandosi attualmente in un processo di inequità crescente, è ancora la regione del mondo a cui le statistiche attribuiscono la minore disuguaglianza sociale. Malgrado tale indice non sia l’unico importante in una realtà così complessa come quella della politica socioeconomica, vi sono analisti che indicano l’Europa come esempio da seguire per altri continenti nella lotta alla disuguaglianza nel mondo, per quanto riguarda l’introduzione di un regime di tassazione progressiva e l’aumento delle imposte sull’eredità, oltre a un maggior rigore nel controllo dell’evasione fiscale. L’equità sociale, come elemento del Regno di Dio predicato da Gesù, utopia della TdL, pare non essersi ancora rivelata possibile in modo stabile, duraturo e integrale in nessun regime politico ispirato dalla TdL o sulla linea della TdL. Non abbiamo alcuna realtà politica di cui inorgoglirci.

È all’interno di questo atteggiamento di umiltà che va accolta la presenza della TdL in Europa (…), come una presenza in ogni caso assai positiva, che si sforza di rinnovare tanto la Chiesa quanto, soprattutto, la Società, come è compito della TdL, che è sempre stata una teologia “in uscita”, verso l’altro mondo possibile, verso l’Utopia di Gesù.

4. La TdL non è l’“ultima” parola

Nei primi decenni della sua apparizione in America Latina è sembrato ad alcuni che la TdL e la spiritualità della liberazione fossero “l’ultima” parola e continuassero a esserlo quasi per sempre… Il mondo ha registrato una svolta socio-economico-ideologica importante nel 1989, e a partire da allora è sopraggiunto un forte calo dell’ammirazione che la TdL riceveva all’estero. La prima critica che allora le venne mossa è che non evolveva, che ripeteva – magari approfondendoli – i temi fondamentali, senza presentare novità.

Vi fu una prima reazione della TdL a questa presa di distanza da parte di quelli che fino ad allora erano stati i suoi ammiratori, quella rappresentata dalla sorpresa della diversificazione dei suoi soggetti, i “nuovi soggetti emergenti”, come si disse: le donne con la loro teologia femminista, gli indigeni con la loro teologia india, gli afroamericani con la loro teologia nera… Fu una sorta di sdoppiamento, una diversificazione, non una divisione ma un arricchimento in termini di profondità, cosicché, per quanto si possa parlare oggi di teologie della liberazione, al plurale, ha anche senso mantenere il singolare, per la forte e sostanziale unità che unisce tutte loro.

Anche così, tale sdoppiamento non era una novità rispetto alla TdL, ma solo un approfondimento. Presto tornò a ripetersi la critica contro di essa: non evolve, è rimasta nel mondo degli anni ’80-’90, non accoglie né dà risposta alle nuove e profonde questioni epistemologiche, ai “nuovi paradigmi” che stanno apparendo da alcuni decenni, sebbene alcuni vengano da molto lontano, dai secoli passati. Per fare solo un esempio: la TdL classica, fin dalla sua origine, essendo una “derivazione” di un’applicazione del Concilio Vaticano II, non poteva non essere inclusivista e cristocentrica. In quegli anni, dopo il superamento recente del millenario esclusivismo tipico del cristianesimo, non esisteva un’altra prospettiva a cui richiamarsi: il paradigma pluralista neppure si intravedeva all’orizzonte. Tuttavia, verso la fine degli anni ‘80 apparve la teologia del pluralismo religioso, e con essa il paradigma pluralista, che presto iniziò a occupare spazi nella teologia. In non pochi settori ecclesiali, la TdL classica fu presa dallo sconcerto, senza sapere cosa fare; molti confusero la fedeltà alla TdL con la chiusura al nuovo, e con il timore a mescolarsi, a confrontarsi e a riconvertirsi. Ma vi furono anche autori e autrici legati alla TdL che accettarono la sfida di confrontarsi con questo nuovo paradigma: nella raccolta Per i molti cammini di Dio (tiempoaxial.org/Por-LosMuchosCaminos), della EATWOT (cinque volumi in senso progressivo, con oltre 70 autori/autrici) si presenta una Tdl impegnata a confrontarsi con il pluralismo, non più necessariamente inclusivista.

E insieme al paradigma pluralista sono presenti oggi sullo scenario vari altri “nuovi paradigmi”, i quali im pongono sempre più chiaramente la loro presenza, suscitando la resistenza di quanti preferiscono non affrontare cambiamenti drastici (i cambiamenti di paradigma sono, per definizione, i più radicali), e restare fedeli alla TdL “di sempre”, quella “originale”, quella degli anni ’80, come se fosse l’“ultima parola”. Insieme a quello pluralista, esistono il paradigma femminista, quello post-teista, quello non dualista, quello ecocentrico, il nuovo paradigma archeologico biblico, il nuovo paradigma epistemologico…

Le pagine di questa rivista testimoniano che, sebbene sia l’America Latina il luogo in cui è più noto e più assunto come proprio questo confronto della TdL con i nuovi paradigmi, anche in Europa vi sono Paesi entrati – a partire dalle Comunità di Base più che dai cattolici accademici – in questo processo di sviluppo di una TdL che non costituisce più “l’ultima parola”, bensì che dialoga con le nuove sfide teoriche generate dal rinominato nuovo “tempo assiale” (tiempoaxial.org) per cui stiamo transitando. Forse è questa l’ora di intraprendere una collaborazione tra Europa e America Latina in relazione a questo nuovo “sviluppo della TdL” a metà del XXI secolo.

5. L’America Latina dinanzi al kairos europeo

È già da alcuni anni che in America Latina alcuni di noi stanno dicendo che, dopo vari decenni in cui l’Europa ha guardato alla TdL e alle Comunità di base come un kairos, un segno dei tempi che ha illuminato e sostenuto tante lotte europee, il vento sta ora soffiando in un’altra direzione.

Questo è (anche) il momento che l’America Latina guardi attentamente all’Europa, perché il processo di secolarizzazione che lì si è registrato è anch’esso un kairos in cui lo Spirito parla al nostro continente. Senza rendercene conto, dopo l’ammirazione che la TdL ha suscitato in questi decenni, ci resta inconsciamente l’idea che non vi siano nuovi segni dei tempi al di fuori dell’America Latina (perché la TdL continuerebbe a essere l’ultima parola…), ma non è così.

L’attuale laicizzazione dell’Europa è di tale portata da far già considerare la “post-religionalità” come un nuovo paradigma in grado di iniziare a coprire l’intero territorio continentale: la religione rimarrebbe confinata solo nelle fasce più anziane, chiamate a scomparire. La “trasmissione della fede” è praticamente scomparsa dall’ambiente culturale dei giovani in Europa. Che ne sarà del cristianesimo europeo fra 30 anni?

Per noi, in America Latina, questa domanda è molto seria, perché, sebbene non pochi lo dubitino, siamo in molti a ritenere che, in quanto anche noi appartenenti all’Occidente, il fenomeno della laicizzazione non solo arriverà anche qui, ma sta già avvenendo, e più rapidamente di quanto possa sembrare. Le statistiche, in quasi tutti i Paesi, confermano questo dato con una nettezza impietosa.

In questa trama di ciò che potremo chiamare come l’apparizione della post-religionalità, vorremmo trovare in Europa un orientamento affinché quello che da lì si sta avvicinando a noi possa avvenire qui in un altro modo. È in questo senso che pensiamo che oggi sia l’America Latina a dover guardare all’Europa, per scrutare il nuovo cammino che potremmo far derivare dalla sua evoluzione religiosa attuale.

Così, la relazione tra la TdL latinoamericana e l’Europa, lungi dall’essere univoca, è invece una relazione bidirezionale, reciproca, fraterno-sororale.

* Cappella Maggiore del Seminario dell’Arcidiocesi di Medellin (Colombia) in una foto di John Nicolas del 2011, tratta da Wikimedia Commons

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i ‘religiosi’ secondo papa Francesco

“religiosi, non siate mistici isolati o faccendieri frenetici”

il papa celebra la messa in San Pietro per la Giornata mondiale della vita consacrata: «Con gli scarti generazionali non c’è futuro per la Chiesa», «attenti alla nostalgia che uccide l’anima». Una primula in regalo dal Pontefice alle religiose che lavorano in Vaticano
papa Francesco a messa in San Pietro per la Giornata mondiale della vita consacrata
salvatore cernuzio
 

C’è il mondo che «insegue i piaceri e le voglie dell’io» e la vita frenetica che «induce a chiudere tante porte all’incontro, spesso per paura dell’altro» e a guardare il display del telefonino piuttosto che gli occhi del fratello. C’è poi il «misticismo isolato» e il «sentimentalismo devoto» a cui fa da contrappeso l’«attivismo sfrenato» tipico dei «faccendieri», o ancora la «paralisi della normalità» e «la sterile retorica dei “bei tempi passati”», quella che porta a dire: «Qui non va più bene niente». Insomma, sono tanti gli ostacoli in cui rischia di incorrere chi ha abbracciato la vita consacrata.  

A questi «fratelli e sorelle», che oggi gremiscono numerosi la Basilica di San Pietro per la messa della Giornata a loro dedicata, Papa Francesco propone la cura e il rimedio per delle tentazioni tipicamente mondane: Gesù. Con Lui ci sono le «sorprese nella vita», c’è il «vero amore», c’è il «dialogo» con gli altri, tra i giovani e gli anziani soprattutto. Nella sua omelia – che segue una suggestiva processione nel buio della Basilica illuminata solo dalle candele accese dei presenti – il Pontefice invita a fare «memoria» dell’incontro con il Signore, perché da quell’incontro «è nato il cammino di consacrazione». «Bisogna farne memoria», dice, «e se faremo bene memoria vedremo che in quell’incontro non eravamo soli con Gesù: c’era anche il popolo di Dio, la Chiesa, giovani e anziani».  

Giovani e anziani, ripete il Papa, in un dialogo intergenerazionale che sembra impossibile ma che è invece fondamentale per il futuro della Chiesa e del mondo. Con gli anziani i giovani trovano «le radici del popolo» e «le radici della fede», la quale «non è una nozione da imparare su un libro, ma l’arte di vivere con Dio, che si apprende dall’esperienza di chi ci ha preceduto nel cammino». D’altra parte gli anziani, incontrando i giovani, «realizzano i loro sogni».   

Sono le «sorprese» che arrivano «puntuali» quando si incontra il Signore. Per far sì che esse accadano nella vita consacrata «è bene ricordare che non si può rinnovare l’incontro col Signore senza l’altro: mai lasciare indietro, mai fare scarti generazionali, ma accompagnarsi ogni giorno, col Signore al centro». «Se i giovani sono chiamati ad aprire nuove porte, gli anziani hanno le chiavi», rimarca Francesco. «La giovinezza di un istituto sta nell’andare alle radici, ascoltando gli anziani. Non c’è avvenire senza questo incontro tra anziani e giovani; non c’è crescita senza radici e non c’è fioritura senza germogli nuovi. Mai profezia senza memoria, mai memoria senza profezia; e sempre incontrarsi».  

Bergoglio mette in guardia anche dalla frenesia del vivere che «induce a chiudere tante porte all’incontro», spesso per paura, mentre rimangono «sempre aperte le porte dei centri commerciali e le connessioni di rete». Nella vita consacrata non sia così: «il fratello e la sorella che Dio mi dà sono parte della mia storia, sono doni da custodire», sollecita. «Non accada di guardare lo schermo del cellulare più degli occhi del fratello, o di fissarci sui nostri programmi più che nel Signore. Perché quando si mettono al centro i progetti, le tecniche e le strutture, la vita consacrata smette di attrarre e non comunica più; non fiorisce perché dimentica “quello che ha di sotterrato”, cioè le radici». 

Cioè l’imitazione di Gesù «casto, povero e obbediente». «La vita del mondo insegue i piaceri e le voglie dell’io», invece «la vita consacrata libera l’affetto da ogni possesso per amare pienamente Dio e gli altri», sottolinea il Pontefice. «La vita del mondo s’impunta per fare ciò che vuole, la vita consacrata sceglie l’obbedienza umile come libertà più grande». E mentre la vita del mondo «lascia presto vuote le mani e il cuore, la vita secondo Gesù riempie di pace fino alla fine». 

Bisogna allora tenere stretto il Signore sempre «tra le braccia»: «Non solo nella testa e nel cuore, ma tra le mani, in ogni cosa che facciamo: nella preghiera, al lavoro, a tavola, al telefono, a scuola, coi poveri, ovunque». Avere il Signore «tra le mani» è infatti «l’antidoto al misticismo isolato e all’attivismo sfrenato», spiega il Papa; «l’incontro reale con Gesù raddrizza sia i sentimentalisti devoti che i faccendieri frenetici», e aiuta anche a superare la «paralisi della normalità» per «aprirsi al quotidiano scompiglio della grazia».  

Lasciarsi incontrare da Gesù: solo questo è dunque «il segreto per mantenere viva la fiamma della vita spirituale»; altrimenti si finisce per «farsi risucchiare in una vita asfittica, dove le lamentele, l’amarezza e le inevitabili delusioni hanno la meglio». O di scadere in una «sterile retorica dei “bei tempi passati”, quella nostalgia che uccide l’anima». Al contrario, «se si incontrano ogni giorno Gesù e i fratelli, il cuore non si polarizza verso il passato o verso il futuro, ma vive l’oggi di Dio in pace con tutti», afferma Francesco. E conclude invitando i consacrati a viaggiare «controcorrente» nel mondo. Solo così, assicura, potrete essere «l’alba perenne della Chiesa».   

Come omaggio per la Giornata mondiale della vita consacrata, il Pontefice ha fatto recapitare, tramite il suo elemosiniere, l’arcivescovo Konrad Krajewski, una primula a ogni religiosa che lavora in Vaticano. Una delle piantine – informa L’Osservatore Romano – ha ornato l’altare allestito in un capannone della zona industriale, dove il prelato polacco ha celebrato con gli operai dei servizi tecnici la messa della festa della Presentazione del Signore.

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ilcommento al vangelo della domenica

“si ritirò in un luogo deserto, e là pregava”

il commento al vangelo della quinta domenica del tempo ordinario (3 febbraio 2018) di p. Ronchi e dal monastero Marango:

 

In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni; ma non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano. Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!». […]

il commento di E. Ronchi:

Gesù esce dalla sinagoga e va nella casa di Simone: inizia la Chiesa. Inizia attorno ad una persona fragile, malata: la suocera di Simone era a letto con la febbre.
Gesù la prende per mano, la solleva, la libera e lei, non più imbrigliata dentro i suoi problemi, può occuparsi della felicità degli altri, che è la vera guarigione per tutti.
Ed ella li serviva: Marco usa lo stesso verbo impiegato nel racconto degli angeli che servivano Gesù nel deserto, dopo le tentazioni. La donna che era considerata una nullità, è assimilata agli angeli, le creature più vicine a Dio.
Questo racconto di un miracolo dimesso, così poco vistoso, senza neppure una parola da parte di Gesù, ci può aiutare a smetterla con l’ansia e i conflitti contro le nostre febbri e problemi. Ci può ispirare a pensare e a credere che ogni limite umano è lo spazio di Dio, il luogo dove atterra la sua potenza.
Poi, dopo il tramonto del sole, finito il sabato con i suoi 1521 divieti (proibito anche visitare gli ammalati) tutto il dolore di Cafarnao si riversa alla porta della casa di Simone: la città intera era riunita davanti alla porta. Davanti a Gesù, in piedi sulla soglia, luogo fisico e luogo dell’anima; davanti a Gesù in piedi tra la casa e la strada, tra la casa e la piazza; Gesù che ama le porte aperte che fanno entrare occhi e stelle, polline di parole e il rischio della vita, del dolore e dell’amore. Che ama le porte aperte di Dio.
Quelle guarigioni compiute dopo il tramonto, quando iniziava il nuovo giorno, sono il collaudo di un mondo nuovo, raccontato sul ritmo della genesi: e fu sera e fu mattino. Il miracolo è, nella sua bellezza giovane, inizio di un giorno nuovo, primo giorno della vita guarita e incamminata verso la sua fioritura.

La fede non è rassegnazione alla sofferenza”

il commento dal monastero Marango:

 

Come leggere il dramma umano della sofferenza alla luce della fede? E’ questo il tema centrale delle Letture di questa domenica. Infatti, nella prima Lettura, Giobbe grida il suo dolore per la sua sofferenza, mentre il Vangelo ci narra della “reazione di guarigione” da parte di Gesù quando gli portano «molti affetti da varie malattie».

Tutto il libro di Giobbe mostra che è legittimo gridare la propria rabbia per il male che si vive. Giobbe arriva quasi a bestemmiare Dio per la sua sofferenza, contestando i suoi amici religiosissimi, che gli predicavano rassegnazione e obbedienza alla “volontà di Dio”. E, alla fine del libro, Dio sanzionerà che solo Giobbe ha detto cose rette di lui (cfr. Gb 42,7).
La fede non comporta l’accettazione supina e vittimale di ogni tipo di sofferenza. Mai, nella Bibbia, si dice che Dio mandi le sofferenze, oppure che “si serva” di esse per far capire qualche cosa all’uomo. In molte espressione dei Salmi, preghiere modello della fede, l’uomo “si sfoga” con Dio per il dolore che sta patendo; come si fa, in genere, con le persone più vicine e intime. È un appello al Signore per sentirsi tenuti per mano da Lui quando si patisce, a sentirlo vicino: è questo il sollievo che si cerca. Quindi non solo Giobbe, ma anche altri abbondanti testi biblici insistono nel mostrarci che la fede vera non predica rassegnazione, non chiede di offrire la sofferenza a Dio, non dice mai che ci avvicini di più a Dio.
Stupisce che, dopo tanti secoli, ancora oggi sia radicata una certa istintiva convinzione e una certa predicazione che ci sia in qualche modo Dio dietro al male che si soffre. Invece, Dio è tutto e solo bene, e vita che splende: non è in grado in nessun modo di concepire qualcosa di negativo, nemmeno come mezzo: patisce Lui, purché non patiscano i suoi figli, questo è il senso della croce di Gesù.

Anche Gesù non ha mai dato valore positivo al dolore. Di fronte alla sofferenza umana ha sempre mostrato tanta compassione – fino alle lacrime – e tanto impegno nel volerla sconfiggere: attraverso i segni di guarigione. Così l’inizio del suo ministero pubblico, nel Vangelo di Marco, è contraddistinto prima dal dare nuovo senso alla dimensione sacra della sinagoga e del sabato, come realizzazione del vero culto che è liberazione dell’uomo dallo spirito negativo che lo imprigiona (Vangelo di domenica scorsa); e poi dal dare nuovo senso anche alla dimensione feriale, quella rappresentata dalla casa di Pietro, dove compie, appunto, il gesto della guarigione della suocera dell’apostolo. Gesti che assumono dunque valore programmatico, perché costituiscono i primi segni del suo annuncio del Regno: per umanizzare l’uomo, Gesù viene a liberarlo dalla sofferenza, non a schiacciarlo nella rassegnazione.

«Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni»: Gesù non è venuto ad opprimere l’uomo con nuove pretese religiose, ma a liberarlo dai mali, fisici e interiori, che lo fanno soffrire.
Ci capita di ripetere spesso la frase di un vescovo: «Nel mondo c’è più sofferenza che peccato». Anche oggi il Figlio di Dio vuole farsi presente e all’opera dove più c’è l’esistenza dell’uomo: nelle sue ferite. Egli vuole aprire i cuori degli uomini perché si facciano suoi occhi, suo cuore, sue mani nei confronti di chi soffre: i samaritani del buon Samaritano, perché nessuno rimanga abbandonato lungo la strada a soffrire. Per questo i cristiani devono essere cittadini del mondo: laddove c’è la pena di un uomo, lì si è di casa, perché lì c’è l’appello del Signore a farsi prossimi, lì si ascolta la sua voce a vivere la carità e si vede la sua volontà di cura, non di sofferenza.
Oggi c’è poca fede non perché si svuotano le chiese, ma perché si svuotano i cuori. Infatti non esiste più neppure la compassione: per esempio verso chi ci chiede la carità dell’accoglienza. Dio non vuole la sofferenza dell’uomo, ma quanti uomini vogliono la sofferenza di altri uomini come loro, magari per superficialità ed egoismo!

All’inizio del nuovo giorno, Gesù si ritira in un luogo solitario a pregare, dice il racconto di Marco. I discepoli lo vanno a cercare e lo invitano a tornare in città dove l’aspettano nuove guarigioni. Ma Gesù si avvia, pellegrino, verso altri luoghi.
Due elementi mettono un limite alla sua attività di guarigione. Il primo è la necessità di attingere forza dal rapporto orante con il Padre, senza del quale anche le opere più significative diventano vuoto attivismo. Questa attenzione è una delle cose raccomandate da papa Francesco alla Chiesa italiana. Soprattutto oggi, che i pastori devono occuparsi di più comunità, si rischia di farsi prendere ed espropriare dalle molte cose da fare. C’è da ricordare che Gesù, prima di guarire la suocera di Pietro, le si è avvicinato e l’ha fatta alzare prendendola per mano: la cosa più importante è il contatto personale con le persone, farle sentire che in quel momento si è del tutto per loro, e non con il pensiero rivolto già alle prossime cose da fare. Questo contatto personale ha una forza di guarigione più grande della moltiplicazione delle Messe per non scontentare nessuno.
La seconda ragione è che Gesù si sottrae al rischio di diventare il semplice fornitore di miracoli di guarigione. Egli può prendersi cura dell’uomo perché si prende cura del suo rapporto con il Padre, da cui trae la forza necessaria che è l’amore. Solo così i gesti che Egli compie non sono semplice soddisfazione del bisogno dell’uomo, ma segni della vicinanza di Dio all’uomo e alla sua condizione di sofferenza: diventano “sacramenti”, che indicano, dentro i gesti umani più belli della cura dell’altro, la tenerezza di Dio per la fragilità delle sue creature e dei suoi figli.

Alberto Vianello
Fonte:www.monasteromarango.it/

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un giorno della memoria anche per gli indiani d’America

oggi è il giorno della memoria degli indiani Sioux

il genocidio ignorato dei nativi

il 1 febbraio 1876 gli Stati Uniti dichiararono guerra ai Sioux che non volevano abbandonare i territori dov’era stato scoperto l’oro. E fu l’inizio del massacro di Wounded Knee

Oggi è il giorno della memoria degli indiani Sioux: 100 milioni di nativi sterminati

oggi è il giorno della memoria degli indiani Sioux: 100 milioni di nativi sterminati

Oggi cade l’anniversario di una dichiarazione di guerra troppo spesso ignorata o non considerata come tale. Il 1 febbraio 1876 il ministro degli Interni degli Stati Uniti d’America dichiarò guerra ai Sioux “ostili”, quelli cioè che non avevano accettato di trasferirsi nelle riserve, dopo che era stato scoperto l’oro nelle Black Hills, il cuore del territorio Lakota. Come si potevano traferire migliaia di uomini, donne e bambini dalla terra dov’erano nati, in una stagione dell’anno in cui il territorio era coperto di neve? Molti indiani pare neanche ricevettero l’ordine, in quanto impegnati nelle loro attività di caccia, lontano dalla propria residenza.

Quella dichiarazione di guerra del 1 febbraio fu l’inizio del massacro degli Indiani d’America, che culminerà con l’eccidio di Wounded Knee, passato alla storia grazie a canzoni, libri e film. Sul finire del dicembre 1890, la tribù di Miniconjou guidata da Piede Grosso, appresa la notizia dell’assassinio di Toro Seduto, partì dall’accampamento sul torrente Cherry, sperando nella protezione di Nuvola Rossa. Il 28 dicembre furono intercettati dal Settimo Reggimento, che aveva l’ordine di condurli in un accampamento sul Wounded Knee: 120 uomini e 230 tra donne e bambini furono portati sulla riva del torrente, circondati da due squadroni di cavalleria e trucidati.

“Seppellite il mio cuore a Wounded Knee” di Dee Brown è il libro (anche film) che ha commosso generazioni di persone e ispirato cantanti di tutte le generazioni e latitudini, fino a Fabrizio De Andrè che compose la canzone “Fiume Sand Creek”, Prince e Luciano Ligabue. Protagonista delle lotte indiane per 40 anni fu il Capo Nuvola Rossa (1822-1909) che si confrontò aspramente con l’agente governativo perché venisse rispettata l’autorità tradizionale dei capi indiani. Nel 1888 invitò i Gesuiti a creare una scuola per i bambini Lakota nella riserva indiana, una scelta necessaria per mantenere il legame degli Indiani con la loro terra. Pochi anni prima il governo aveva cercato di obbligare i bambini a frequentare una scuola “bianca” per essere “civilizzati” con risultati disastrosi per la cultura indiana.

Nuvola Rossa andò a Washington più volte di ogni altro capo indiano e rimane il leader più rispettato del suo popolo, insieme ad Alce Nero, noto per la sua forte carica spirituale. Quest’ultimo aveva 13 anni nel 1876 ed era già impegnato nella causa, tanto che l’anno dopo andò a Londra per incontrare la Regina Elisabetta. Così racconta il massacro di Wounded Knee: «Brillava il sole in cielo. Ma quando i soldati abbandonarono il campo dopo il loro sporco lavoro, iniziò una forte nevicata. Nella notte arrivò anche il vento. Ci fu una tempesta e il freddo gelido penetrava nelle ossa. Quello che rimase fu un unico immenso cimitero di donne, bambini e neonati che non avevano fatto alcun male se non cercare di scappare via».

I Sioux, che preferiscono chiamarsi Dakota o Lakota, sono la principale tribù degli Stati Uniti, con 25.000 membri. Ora vivono in riserve nei loro antichi territori. Continuare a raccontare la loro storia (pochi giorni fa è stata la Giornata della memoria) è un modo per non dimenticare di cosa è stato capace l’uomo nel corso della storia e fare in modo che episodi simili non si ripetano.

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