i soldi valgono più dei poveri

IL NAUFRAGIO DELL’EUROPA 

“E’ inaccettabile che merci e capitali 

godano di più diritti dei poveri

 per entrare in un Paese”

 di Alex Zanotelli
 
 
Con il naufragio di oltre 700 migranti vicino alle coste libiche, nella notte tra il 18 e il 19 aprile, è naufragata anche l’Unione Europea come patria dei diritti umani. L’Unione Europea è diventata una Fortezza che respinge i ‘naufraghi dello sviluppo’, il frutto di un Sistema economico dove pochi (il 20% della popolazione del mondo consuma il 90% dei beni prodotti).
Questo sterminio di innocenti, questo genocidio dura da 18 anni. Nel 2014 sono morti 3.500 migranti, nel 2013 oltre 600 e nel 2012 più di 500!
Il giornalista Gianpaolo Visetti di la Repubblica ha calcolato che dal 2000 al 2012 potrebbero essere periti nel Mediterraneo 42.000 persone. E’ un’ecatombe! Altro che Mare Nostrum, è un Cimiterium Nostrum!
..
L’Italia si troverà così da sola ad affrontare l’emergenza che si profila per questa estate. Ma ancora più grave è la decisione di distruggere le imbarcazioni , che la Libia interpreterà come un atto di guerra. E questo dopo la guerra del 2011 che ha creato il caos libico di oggi. “Vergognoso colpire le imbarcazioni”, ha reagito giustamente padre G. Perego della Migrantes.
Siamo in guerra contro gli impoveriti del Sistema, che è la causa del loro Esodo biblico. Ed è solo l’inizio: aumenteranno gli esodi in massa, perché provocati anche dal surriscaldamento.
Come credente e come discepolo di Gesù non posso accettare tali barbarie.
….
E’ inaccettabile che una decisione politica vada riempiendo di tombe il cammino che i poveri percorrono con la forza di una speranza. E’ inaccettabile che merci e capitali godano di più diritti dei poveri per entrare in un Paese. E’ inaccettabile che si rivendichino frontiere per i pacifici della terra e si tollerino frontiere permeabili al denaro, alla corruzione, al turismo sessuale, alla tratta delle persone e al commercio delle armi.”
un NO chiaro ad un’altra guerra per distruggere le imbarcazioni.
 
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noi italiani siamo i più razzisti in Europa

rom

non è un mistero che il razzismo sia, in Italia, diffuso e pervasivo, soprattutto negli ultimi tempi
il Pew-Research Center di Washington ci inchioda: siamo i più razzisti in Europa.
lo dice un rapporto, Faith in European Project Reviving, condotto dal think tank americano in Francia, Germania, Italia, Spagna, Polonia e Gran Bretagna, tra il 7 aprile e il 13 maggio del 2015.

Il nostro Paese viene fuori malissimo dalla parte del rapporto che tratta l’Anti-Minority Sentiment, monitorando il grado di ostilità rispetto ad alcune minoranze. L’Italia è, tra i sei grandi paesi considerati, quello più ostile ai musulmani. Il 61% degli italiani hanno un’opinione negativa dei musulmani: gli altri sono meno intolleranti e vanno dal 56% dei polacchi al 42% degli spagnoli, al 24% di tedeschi e francesi e al 19% degli inglesi.

Meno grave la situazione nei confronti delle minoranze ebraiche: il 28% dei polacchi ha un’opinione negativa degli ebrei, seguito da italiani (21%), spagnoli (17%), tedeschi (9%), inglesi e francesi (7%).

Quelli che proprio non vanno giù agli italiani sono i rom e gli zingari. L’86% degli italiani ha un’opinione negativa dei rom, visti in modo meno sfavorevole dagli altri: dal 60% di sgradimento dei francesi al 48% dei polacchi, al 37% degli inglesi, al 35% degli spagnoli per finire col 34% dei tedeschi. Solo il 9% degli italiani gradisce i rom, mentre il restante 5% preferisce non rispondere.

Numeri allarmanti, che non sono, però, il prodotto della campagna d’odio di cui si è resa protagonista, negli ultimi tempi, la Lega di Salvini. Anzi: l’Italia starebbe impercettibilmente migliorando, visto che il rapporto del Pew-Research Center l’anno scorso regalava dati peggiori: il gradimento dei rom è peggiorato di un punto, scendendo dal 10% al 9%, in compenso è cresciuto del 6% il gradimento degli ebrei e del 3% quello dei musulmani. La strada è lunga, insomma, ma stiamo imparando. a prendercela soprattutto con i rom. Il rapporto ancora precedente, datato 2009, ci dipingeva ancora più beceri: 21% di gradimento dei musulmani, 9% dei rom (come adesso), 52% degli ebrei.

Passi avanti quasi confortanti in tema di antisemitismo, meno rilevanti rispetto ai musulmani, ristagno dell’odio verso gli zingari. In un quadro del genere va rivista la posizione degli xenofobi in politica: più che fomentare l’odio, cavalcano l’onda offrendo agli italiani i capri espiatori che vanno cercando. Rom su tutti: il 30% non li gradisce, il 56% li odia.

Il resto del rapporto dice che siamo un paese moderatamente ottimista e filoeuropeo. La faccia brutta degli italiani, insomma, viene fuori con le minoranze. Bella figura…

di Pancrazio Anfuso

 

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2 giugno: parata pacifista o retorica bella che nasconde una corsa alle armi hich-tech

 è indubbiamente bella la parata militare del 2 giugno: forse proprio perché così bella riesce a nascondere un’insidia: la corsa agli armamenti più sofisticati; così bella  che G. Crainz, su ‘la Repubblica’, definisce ‘pacifista’
probabilmente la realtà è meno semplice e innocente di quanto appare: non riesce proprio a farsi simbolizzare dal ” ‘gioco tricolore’ dei bambini di una scuola di Roma con quegli ombrelli bianchi, rossi e verdi che spiccavano in tribuna”
di seguito l’articolo di Crainz ma anche una considerazione meno estetizzante ma più riflessiva di Manlio Dinucci (da ‘il Manifesto’) sulla parata del 2 giugno che  “nasconde dietro la facciata retorica una realtà sempre più drammatica: l’accelerazione della corsa alle armi high-tech, in cui l’Italia è coinvolta tramite la Nato”

parata frecce

se la parata del 2 giugno diventa pacifista

di Guido Crainz

in “la Repubblica” del 3 giugno 2015

Il “gioco tricolore” dei bambini di una scuola di Roma con quegli ombrelli bianchi, rossi e verdi che spiccavano in tribuna è stata quasi il simbolo della parata del 2 giugno. Una sfilata militare, sì, ma sempre meno guerresca: con molte bande nel corteo, con gli atleti delle paralimpiadi che sfilavano, mentre erano quasi nascosti i corpi speciali. Come a sottolineare una sempre più marcata trasformazione delle nostre Forze armate.

parata militare

La prima festa della Repubblica del presidente Mattarella ha proseguito e rafforzato un impegno: quello della costruzione di una religione civile e al tempo stesso quella valorizzazione del ruolo dell’esercito in missioni di pace che erano state avviate da Carlo Azeglio Ciampi e proseguite poi da Giorgio Napolitano. Una fase nuova e diversa, rispetto a periodi precedenti. In ogni momento della storia della Repubblica il 2 giugno inevitabilmente ci riconsegna il ritratto di un’epoca. Fin dall’inizio è stato così. NON era secondario legare la Repubblica all’esercito, dopo gli anni del fascismo e le tensioni stesse che avevano accompagnato il referendum del 1946. Era assolutamente essenziale dare legittimità alle forze armate vincolandole alla rinata democrazia e al tempo stesso ridisegnarne il profilo agli occhi dei cittadini. Un reciproco omaggio dell’esercito alla Repubblica e della Repubblica all’esercito (e sullo sfondo vi era anche il delinearsi della guerra fredda). Sarebbe difficile altrimenti comprendere il ruolo di una parata militare nella festa di una Repubblica che «ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli», come recita l’articolo 11 della nostra Costituzione. Negli anni cinquanta si consolidò il carattere istituzionale della festa, mentre il ventennale vide invece un breve rilancio del suo momento più propriamente popolare. Era il 1966, nel pieno del centrosiniuna stra e della presidenza Saragat (e sono ormai lontani i “rumori di sciabola” del generale De Lorenzo del luglio del 1964), ma gli anni successivi videro il deperimento delle celebrazioni, trasformate sostanzialmente in un omaggio alle forze armate. E contestate talora da radicali e pacifisti. Nel 1976 la parata fu poi sospesa nell’emergenza del terremoto del Friuli (in cui l’esercito è fortemente impegnato) e la festa nazionale abolita l’anno dopo, in nome dell’austerity. E più tardi la stessa sfilata sarà poi annullata. Per più versi agli occhi del Paese sembrava ormai ovvio il valore del 2 giugno, assieme alla fiducia nella Repubblica: celebrarla ogni anno poteva apparire inutile. La crisi del 1992-1994 e il suo esito mostrarono che non era affatto così. Mostrarono che i nostri valori fondativi erano messi in discussione da umori secessionisti e da “picconatori” di differente natura. Mostrarono, più ancora, che era necessaria ricostruzione profonda del nostro “essere Paese”, mentre cresceva il nostro impegno militare nello scenario internazionale: e nel 2001 l’11 settembre lacerava drammaticamente il quadro. Di qui il senso e il valore dell’impegno del presidente Ciampi per reintrodurre la festa della Repubblica e per rimodellare più generalmente assieme ad essa il patriottismo repubblicano, i rituali e gli immaginari della nazione. Per dare ad essi respiro europeo, e per valorizzare l’esercito come forza di pace. Nel corso degli anni la “coreografia” della parata ha rafforzato sempre più questo intento: ora siamo giunti a un punto alto di questo percorso, e nella stessa direzione è andato l’incontro della presidente della Camera Boldrini con le ragazze e i ragazzi del Servizio civile, tenutosi anch’esso nella giornata di ieri. Anche quest’anno, in altre parole, il 2 giugno “rappresenta” un nostro percorso e al tempo stesso ci interroga. Ci riconsegna l’effettiva importanza dell’esercito in drammatiche emergenze civili e rafforza poi la richiesta di assoluta trasparenza della nostra presenza militare nei luoghi dei conflitti. Di assoluta chiarezza sulla sua esatta natura, sugli obblighi che ci impone: non hanno aiutato in passato le evocazioni di “missioni umanitarie” anche in casi che poco corrispondevano a questa

definizione. Ma questo 2 giugno ci interroga anche sul ruolo dell’impegno militare nello scenario internazionale: l’avanzata dell’Is dà drammaticità simbolica, e non solo simbolica, a questo interrogarsi, iniziato già ai tempi delle guerre nella ex Jugoslavia (ne aveva testimoniato anche Alex Langer, cresciuto nel più alto impegno pacifista). Un Paese maturo e civile sa far convivere domande come queste, ed oggi è più che mai necessario.

parata militare bersaglieri

L’ARTE DELLA GUERRA

La corsa alle armi high-tech

Manlio Dinucci

La parata militare ai Fori Imperiali, con cui il 2 giugno si celebra la Festa della Repubblica che nella sua Costituzione ripudia la guerra, nasconde dietro la facciata retorica una realtà sempre più drammatica: l’accelerazione della corsa alle armi high-tech, in cui l’Italia è coinvolta tramite la Nato. Corsa guidata in tutti i campi dagli Stati uniti.
 
Una settimana fa il «Comando dell’attacco globale» ha lanciato dalla California un missile intercontinentale Minuteman III, colpendo con una testata sperimentale un atollo nel Pacifico a 8mila km di distanza. Con questi test il Comando verifica «l’affidabiità» dei 450 Minuteman III, pronti al lancio con le loro testate nucleari. Il Congresso ha stanziato oltre 200 miliardi di dollari (acconto su circa 1000 miliardi in dieci anni) per potenziare le forze nucleari, con altri 12 sottomarini da attacco (7 miliardi l’uno, il primo già in cantiere), armato ciascuno di 200 testate nucleari, e altri bombardieri strategici (550 milioni l’uno),  ciascuno armato di 20 testate nucleari.

parata bersaglieri
 
  L’Esercito sta sperimentando armi laser capaci di abbattere velivoli, mettere fuori uso i visori e accecare i soldati nemici; la Marina ha già istallato un cannone laser sulla nave Ponce, precisando che «deve ancora essere usato in un combattimento reale»; l’Aeronautica annuncia che dal 2022 armerà di laser i suoi cacciabombardieri.
 
  In forte sviluppo anche il settore dei droni e robot da guerra. Mentre si modernizzano i droni teleguidati (il Global Hawk ha superato le 150mila ore di volo), si sperimentano velivoli da attacco completamente robotizzati: l’X-47B ha effettuato in volo il primo rifornimento automatico di carburante. Il caccia F-35C per le portaerei, annuncia il Segretario alla marina, «sarà probabilmente l’ultimo con pilota a bordo». Nel 2016 sarà sperimentato anche un robot subacqueo che, lanciato da un sottomarino, individua e segue automaticamente le navi nemiche.
 
  Dalla guerra robotizzata a quella spaziale il passo è breve: il 20 maggio è partito per la sua quarta missione segreta l’X-37B, un mini-shuttle robotico della U.S. Air Force già testato per quasi 4 anni nello spazio. Il generale Greaves, nuovo capo del Comando spaziale, ha dichiarato che gli Stati uniti «useranno tutti i mezzi per mantenere la supremazia nello spazio».
 
  Alla corsa partecipano sulla scia degli Usa i maggiori paesi europei della Nato: dieci giorni fa, i ministri della difesa di Francia, Germania e Italia hanno firmato il memorandum d’intesa per lo sviluppo di un velivolo robotico da guerra. Israele partecipa alla corsa con nuovi droni e armi nucleari, armi che può continuare a sviluppare dopo che la proposta araba di convocare nel 2016 una conferenza per creare in Medioriente una zona libera da armi nucleari è stata bloccata all’Onu da Usa, Canada e Gran Bretagna.
 
  Russia, Cina e altri paesi, che sono nel mirino strategico Usa/Nato, reagiscono di conseguenza. La Russia sta sviluppando il Sarmat, un nuovo missile balistico intercontinentale le cui testate nucleari manovrano al rientro nell’atmosfera per evitare i missili intercettori dello «scudo» Usa, e il sottomarino della classe Borey, estremamente silenzioso, armato di 200 testate nucleari. Missili e sottomarini analoghi sono costruiti dalla Cina che, secondo il Comando Usa, sta sperimentando anche armi spaziali anti-satellite per accecare i sistemi di attacco statunitensi.
 
  Su tutto questo cala il blackout mediatico, mentre i riflettori vengono puntati sui bambini che, alla parata militare del 2 giugno, festeggiano con ombrelli tricolori. Non la pace, come gli è stato detto, ma la guerra che li aspetta.
 
   (il manifesto, 2 giugno 2015)

 ‘Pensa agli Altri’

Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri,
  non dimenticare il cibo delle colombe.
  Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri,
  non dimenticare coloro che chiedono la pace.
  Mentre paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri,
  coloro che mungono le nuvole.
  Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri,
  non dimenticare i popoli delle tende.
Mentre dormi contando i pianeti , pensa agli altri,
coloro che non trovano un posto dove dormire.
Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,
coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.
Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,
e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.
(Mahmoud Darwish)
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la storia si ripete … sempre contro i più poveri!

la nave negriera che affondò col carico di schiavi

migranti

di Paolo Mastrolilli in “La Stampa” del 2 giugno 2015

È un fantasma che ci ricorda la peggior storia occidentale, la nave São José Paquete Africa, scoperta sul fondo del mare al largo di Città del Capo. Perché quando era colata a picco, il 3 dicembre del 1794, aveva a bordo tra 400 e 500 schiavi in navigazione dal Mozambico a Maranhão, in Brasile. Almeno la metà morirono, una strage che ci riporta alla mente quanto vediamo accadere quasi ogni giorno adesso nel Mediterraneo.

foto premio migranti

La scoperta è stata fatta dal National Museum of African-American History and Culture dello

Smithsonian di Washington, e dall’Iziko Museums of South Africa, ed è stata anticipata dal New York Times. Non è la prima nave schiavista affondata e recuperata, ma è la prima che aveva a bordo delle persone. Proveniva dal Portogallo, era stata in Mozambico a caricare «la merce», e aveva appena passato il Capo di Buona Speranza, quando venti molto forti l’avevano sbattuta contro gli scogli. L’equipaggio e una parte degli schiavi si erano salvati usando le scialuppe, ma quando la chiglia aveva ceduto almeno 212 di loro erano ancora a bordo.

I sommozzatori ingaggiati dai due musei hanno avuto la certezza che avevano trovato questo relitto, quando hanno visto nella sabbia le zavorre metalliche usate in genere per stabilizzare le navi schiaviste. La sua scoperta potrebbe risultare molto utile agli storici, soprattutto se venissero individuati resti ossei. Lo Smithsonian si è impegnato nel ritrovamento perché sta per aprire il nuovo National Museum of African-American History and Culture, e riteneva fondamentale poter mostrare uno di questi relitti, per raccontare in maniera più efficace la terribile storia della tratta degli schiavi.

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una bella intervista ad Antonietta Potente

credenti più gentili con le cose e con la terra

intervista a Antonietta Potente

a cura di Laura Badaracchi

in “Avvenire” del 31 maggio 2015

Potente

 

Si rivolge anzitutto a chi non conosce da vicino la vita consacrata, e a chi la guarda con diffidenza, l’ultimo saggio scritto dalla teologa Antonietta Potente, delle Suore domenicane di San Tommaso d’Aquino, edito dalle Paoline col titolo È vita ed è religiosa. Una vita religiosa per tutti. Dopo il dottorato in teologia morale e l’insegnamento a Roma e Firenze, ha vissuto per oltre un decennio in Bolivia con una famiglia di etnia Aymara, guadagnandosi il pane come docente all’Università di Santa Cruz e Cochabamba. Nelle pagine del suo nuovo libro si respira profumo conciliare. Chi professa i voti – dice fra le righe la religiosa di origine ligure, trapiantata a Torino – non è un superuomo o una superdonna, ma un battezzato e una battezzata che desidera vivere radicalmente il Vangelo: «Non siamo noi la liberazione e la salvezza, né degli eroi, ma dei compagni di viaggio». Che hanno ispirato i Padri e le Madri del deserto nei primi secoli del cristianesimo e oggi possono suggerire a tutti uno stile di vita alternativo, diventando una bussola in tempi di crisi etica, oltre che economica. Un discorso decisamente controcorrente.

In un mondo dominato da superficialità e approssimazione, lei invita a essere particolarmente attenti al soffio della vita e dello Spirito.

«Credo che il soffio debba rimanere una costante nella vita cristiana. Nel senso della precarietà, nella coscienza che – in fin dei conti – la vita in generale è qualcosa di molto bello e altrettanto sfuggevole, con dei limiti. Una costante che vale per congregazioni, gruppi, movimenti in cui si sente e si palpa questa fragilità dell’esistenza. Questa premessa del Vangelo sembra comunque accompagnarci sempre, sollecitando attenzione e sensibilità a quello che la storia e la realtà ci mostra come possibili cammini».

In che modo oggi la vita religiosa è chiamata a rinnovarsi per essere autentica? E come evitare le spinte verso un anacronistico ritorno al passato?

«Non ho delle risposte. Sono convinta che dobbiamo ritornare all’essenzialità più profonda: non è questione di esteriorità (rimettersi il saio, ripristinare la tonsura, ad esempio), ma di trovare un senso più evangelico che ci accomuna tutti, oggi come oggi. Tornare alle origini non dell’esteriorità, quindi, ma dell’essenzialità. La vita è fatta per ricercare il mistero, non per esserne sicuri, indipendentemente dalle varie scelte; per essere consapevoli e provare la passione di questa ricerca che è invisibile, soffio, Spirito. Si sceglie di consacrarsi a Dio per avvicinarsi non alle strutture, ma a una vita abbandonata alla gioia e alla precarietà».

Significa attualizzare i carismi delle diverse congregazioni?

«Bisogna guardare i disegni della storia: i carismi sono nati in un clima di consapevolezza evangelica, rappresentano una modalità con cui questa salvezza e gioia possono entrare nella vita di tutti, perché tutti ne possano beneficiare. Se le persone riescono a rendersi conto di questo, diventeranno fruttuose. Oggi le congregazioni più aperte hanno poche vocazioni, perché danno meno sicurezze ed esteriorità, hanno poche opere e lavori, scarsi posti di responsabilità».

Quale la contaminazione positiva tra la vita religiosa e quella dei laici?

«Siamo tutti chiamati, uomini e donne di ogni cultura, alla pienezza della vita. Credo che tutte le divisioni siano negative, a cominciare da quelle gerarchiche. Sappiamo che nella storia si sono create delle strutture che ci hanno separati, per quanto riguarda la partecipazione alla conoscenza del mistero. Pur mantenendo la diversità, lo specifico che è l’identità delle persone, bisogna riconoscere che la vita religiosa non è un ruolo, ma entra a far parte di donne e uomini consapevoli della loro sensibilità e passione. Invece, facendone quasi un mestiere – in passato anche con alcuni privilegi – abbiamo sbagliato. Le vocazioni vere non sono poche oggi: sono sempre state poche e nella Bibbia corrispondono a quelle profetiche. Nella comunità credente nella Chiesa alcuni uomini e donne percorrono questo cammino alla ricerca di una spiritualità specifica».

Afferma che la vita religiosa femminile ha dettagli che quella maschile non ha: cosa intende?

«Non siamo soldatini, non si tratta di arruolarsi ma di cercare la propria posizione nella storia, legare la vocazione alla propria identità. Ci sono delle mediazioni, io l’ho trovata nella spiritualità domenicana con la sua grande larghezza, nata nella consapevolezza che il Vangelo è di tutti. La categoria delle donne ha sempre appartenuto alle minoranze, con la consapevolezza di essere popolo, mentre gli uomini (da quando la vita religiosa è diventata anche sacerdotale) sono consapevoli di appartenere a una categoria. Essere popolo ha dato la possibilità di crescere vicine all’umano sia nelle relazioni comunitarie, sia nell’impegno missionario, affrontando le situazioni non solo in forma intellettuale. Invece la vita religiosa maschile ha avuto la grande fortuna di essere più dedicata allo studio della teologia».

Come s’intrecciano povertà, castità e obbedienza al rapporto cruciale con il creato?

«Vogliamo partecipare alla costruzione della storia (obbedienza), vivere relazioni non violente (castità), in una giustizia dignitosa senza assurde penitenze, alla ricerca del bene comune (povertà). Insieme impariamo che la terra non è nostra ma di tutti. Abbiamo abusato del creato perché diventasse denaro e merce. Se la vita religiosa fosse essenziale nei rapporti e sobria nelle scelte, dalla parte di coloro che ancora vogliono prendersi cura di un pezzo di terra, sarebbe possibile per i consacrati proporre uno stile esistenziale alternativo: la missione è questa, non andare a salvare gli altri ma testimoniare concretamente l’intensità del rapporto con Dio. Non bisogna essere tutti francescani per capire che in questo momento storico dobbiamo cambiare la relazione con le cose e la natura, renderla più gentile, meno prepotente e invadente. Questa è l’umiltà di stare nella storia: imparare a muoverci in questo deserto abitato con normalità, gioia e disponibilità. Perché la vita si salva se siamo davvero solidali».

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la maggiore cautela che i cristiani dovrebbero usare

la tentazione della “buona risposta”

di Enzo Bianchi
in “Jesus” del maggio 2015

Bianchi

 

 

Da secoli noi cristiani pensiamo di dover dare una “buona risposta” su tutto. In questa ansia – oggi causa di sempre maggior fastidio nei non cristiani – finiamo a volte per dare risposte preconfezionate, incuranti della realtà mutevole e sfaccettata né della diversità delle persone e del mistero che ciascuna di loro racchiude. Occorrerebbe un serio esame di coscienza: e se l’altro ci trattasse come noi trattiamo lui? E se ciò che diciamo con sicurezza all’altro fosse anche un giudizio su di noi? Ci ricordiamo dell’avvertimento di Gesù: “Con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi” (Mt 7,2)? E ci ricordiamo che Gesù era maestro anche nell’arte del non dire tutto? Come non ammettere che nella chiesa sovente i rigoristi che giudicano con severità alcuni peccati commessi dagli altri, sono in realtà i primi a commettere quegli stessi peccati? E piuttosto di condannare se stessi, infieriscono sugli altri: come ha detto recentemente papa Francesco, “puniscono negli altri quello che nascondono nella loro anima”… In questi giorni nelle nostre chiese d’occidente emerge costantemente la questione dell’orientamento sessuale, del gender e degli statuti che questo può richiedere. Possiamo, come cristiani, dire alcune parole in proposito, e dirle umilmente, fornendo indicazioni per cercare ancora? Innanzitutto dovremmo evitare di parlare semplicisticamente di omosessuali, eterosessuali, bisessuali o transessuali perché le persone non possono essere definite dai loro comportamenti o a essi ridotte. Occorre inoltre ammettere che l’orientamento sessuale appare come un enigma (attenzione: un enigma, non un mistero): non è una scelta dell’individuo né sta nello spazio delle patologie; emerge in diverse situazioni; persino di fronte agli stessi cammini educativi e allo stesso “venire al mondo” l’orientamento può manifestarsi come eterosessuale, omosessuale, o con altre varianti al di là delle libere scelte. Perché? Per ora non abbiamo una risposta: non dobbiamo però avere paura dell’enigma, ma prenderlo sul serio perché parte della realtà complessa dell’umano. Là dove ci sono “storie d’amore”, c’è l’amore sempre vulnerabile, la necessità del perdono, della fiducia sempre da rinnovare, la fatica della fedeltà, mai piena. L’amore, che è il fine della relazione, è più grande della condizione in cui si è abilitati ad amare. Da questo dovrebbe discendere molta cautela nel dare giudizi o nel richiedere alle persone di essere ciò che non possono essere: si deve guardare alla relazione, all’amore vissuto e tentato dai partner, alla loro sincerità, astenendosi dal giudicare le persone. È vero, i comportamenti omosessuali sono severamente esecrati dall’Antico e dal Nuovo Testamento – anche se i vangeli non registrano parole esplicite di condanna da parte di Gesù – ma il peccato resta una realtà presente anche in tutti i comportamenti sessuali e in ogni azione da noi compiuta assecondando l’egoismo, la violenza, l’arroganza del potere sull’altro. Uomini e donne, qualunque orientamento sessuale abbiano, sono sempre creature amate da Dio; nella chiesa sono cristiani nati dal battesimo, conformati a Cristo e dotati di una capacità di testimonianza e di missione nel mondo; e in quanto battezzati sono sacerdoti, profeti e re (cf. Lumen gentium 34-36), tutti partecipi del corpo di Cristo. A tutti, nessuno escluso, la chiesa deve chiedere di tentare di vivere il Vangelo, tutti deve amare come si amano le membra del corpo di Cristo, e tutti deve aiutare a vivere l’amore con gli enigmi che esso contiene. La chiesa non è stata chiamata a condannare il mondo ma a indicare al mondo vie di salvezza, e queste stanno sempre in cammini di umanizzazione. Nessuna ingenuità e nessuna resa: a tutti la chiesa chiede responsabilità nei comportamenti; chiede lotta contro la philautía, l’amore egoistico di se stessi; chiede di non cedere al facile e conformista “così fan tutti”; chiede di combattere i nuovi idoli dominanti, tra cui spicca l’individualismo esasperato, in base al quale i desideri devono diventare diritti. Non tutto è possibile e non tutto può essere un diritto! Chiediamoci in ogni circostanza qual è il cammino di umanizzazione più fecondo e felice per ciascuno, senza aver la pretesa di possedere a priori l’unica risposta possibile.

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a proposito della canea razzista anti rom …

Zingari, giudei, buonisti e cattivisti

di Moni Ovadia

Ovadia
in “il manifesto” del 30 maggio 2015

Il tema politico sociale incandescente degli ultimi giorni ha preso avvio da un tragico fatto di cronaca. A Roma, un’auto sulla quale viaggiavano, stando a quanto riferito dalla stampa, tre persone della comunità rom, non ha rispettato l’alt della polizia ed è fuggita a velocità folle travolgendo e uccidendo un donna filippina e ferendo, anche gravemente, altre otto persone che si trovavano sul suo cammino. Come era prevedibile si è scatenata la usuale canea razzista contro i rom in quanto tali guidata dal leader della Lega Nord, Matteo Salvini e da tutta la galassia nera dei nazifascisti. Il tutto condito dall’inevitabile folklore mediatico. Ieri mattina, il giornalista di Libero Piero Giacalone, nel corso della trasmissione di attualità politica de La 7, con puntuale chiarezza, ha inquadrato la questione nei termini della legalità affermando un valore imprescindibile delle civiltà democratiche, ovvero che tutti i cittadini e gli esseri umani in generale, davanti alla legge, sono uguali. Giacalone ha proseguito il suo ragionamento con sapidità ironica prendendo a bersaglio due categorie di persone contrapposte: «buonisti» e «cattivisti» i quali, a suo parere, si limitano a recitare le loro parti in commedia. Ora, appartenendo io alla categoria dei primi, proverò a rintuzzare, almeno in parte, la pur legittima stigmatizzazione ironica di Giacalone. Se è pur vero che fra i buonisti si incontrano talora persone superficiali inclini a generici embrassons nous, coloro che vengono spesso definiti con sprezzo «buonisti» sono in linea di principio esseri umani che si pongono il problema dell’altro, delle minoranze e si ritengono responsabili del «volto altrui», per dirla con il filosofo Levinas, o mettono in pratica il dettato evangelico: «Ciò che fai allo straniero lo fai a me». Del resto, la questione dell’accoglienza dell’altro è la madre di tutte le questioni, quella la cui mancata soluzione è causa di ogni violenza e di tutte le infamie che devastano la convivenza delle comunità umane. Nel mio caso, appartengo ad una ulteriore fattispecie, sono un ex «altro» entrato nel salotto dei privilegiati. Io sono ebreo e so che significa essere gravato da pregiudizi, calunniato, perseguitato, deriso, massacrato e sterminato. Oggi, molti cattivisti vi diranno che l’ebreo non è come il rom. Oggi ve lo dicono, ma in passato i «perfidi giudei» erano trattati allo stesso modo, con una sola differenza che i rom non ricevevano l’accusa di essere deicidi, in quanto cristiani o mussulmani. Credete che l’antisemitismo abbia perso aggressività a causa dell’orrore provocato dalla Shoà? Non è così, anche rom e sinti hanno subito lo stesso destino. La vera ragione è che oggi esiste uno stato ebraico ( la definizione è di Teodor Herzel, suo Ideologo, das Juden Staat ) con un esercito, un governo e servizi segreti che sanno essere molto «cattivisti». Per rom e sinti non c’è nessuno Stato che parli e agisca, nessuno li difende da posizioni di forza e gli attacchi razzisti contro di loro sono solo azioni di vigliacchi. È razzista chiunque attribuisca reati di individui all’intera comunità. Ma io, che appartengo simultaneamente anche ad un altra categoria, i settantenni, ho buona memoria. E che c’entra con l’argomento in discussione? C’entra! Ricordo quando sui muri della prospera «Padania», della sua capitale «morale» c’erano le infami scritte razziste «via i meridionali dalle nostre città!», «non si affitta ai terroni!». Mi ricordo dell’eco di Marcinelle quando i nostri italiani più poveri, trattati come bestie in quanto italiani, venivano venduti come schiavi da miniera perché tutta l’Italia avesse carbone. Mi ricordo delle scritte «vietato agli italiani e ai cani» nel civile Nord Europa.
Allora gli zingari eravamo noi. Salvini se lo ricorda? Ma cosa volete che si ricordi un populista demagogo alla ricerca di voti? A lui, a quelli come lui, i voti non servono per fare politica, ma per fare un mestiere, quello del nazionalista da piccola patria, come i Karadzic, gli Arkan, i Mladic e i loro omologhi croati, gli sterminatori della ex Jugoslavia. Un mestiere molto redditizio che si nutre di odio, approfitta della paura dei più fragili, garantisce posti nei parlamenti e gratificante visibilità mediatica. C’è un solo nome per chi approfitta di un fatto efferato — commesso questa volta da rom, ma decine e decine di altre volte da italiani, padani compresi — per seminare odio: sciacallo.

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