padre Cardenal riabilitato da papa Francesco

POETA, RIVOLUZIONARIO E SACERDOTE

Ernesto Cardenal, sacerdote, rivoluzionario e poeta nicaraguense, nel 1984 fu sospeso a divinis da Woityla. Oggi, sul punto di morte, è stato ufficialmente riabilitato da papa Francesco

 meglio tardi che mai

Gianni Beretta

«Meglio tardi che mai» verrebbe da dire sulla riabilitazione come sacerdote del poeta Ernesto Cardenal, ministro della cultura in Nicaragua negli anni ’80 durante tutta la Rivoluzione popolare sandinista. Nel 1984 lui, insieme al fratello Fernando (gesuita, coordinatore della Gioventù sandinista e successivamente ministro dell’Istruzione), padre Miguel D’Escoto (ministro degli esteri) e padre Edgar Parrales (ministro per la famiglia) furono sospesi a «divinis» da Karol Wojtyla; dunque esonerati dallo svolgere i loro compiti sacerdotali.

È rimasta nella stoiria la fotografia del papa polacco che il 4 marzo 1983, appena sceso dall’aereo sulla pista dell’aeroporto Sandino di Managua, salutando uno per uno i membri del governo rivoluzionario (noi de il manifesto eravamo lì a un passo), puntò il dito su Ernesto (l’unico dei quattro preti-ministri ad accoglierlo) che gli si era inginocchiato per baciargli l’anello.

L’allora pontefice ritirò subito la mano umiliandolo e intimandogli: «devi regolarizzare la tua situazione con la Chiesa». Quella visita finì con la clamorosa contestazione a Giovanni Paolo II durante la messa nella gremita piazza 19 de julio; e la sua precipitosa dipartita, rosso di rabbia in volto, dal Nicaragua

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Uno degli slogan di quel tempo del corso sandinista era: Entre cristianismo y revolución no hay (non cè) contradicción. Mentre in quasi tutta l’America latina era in auge la Teologia della liberazione, avanguardia nell’applicazione del Concilio vaticano II. Che Wojtyla si prodigò letteralmente a sradicare a partire dal suo non casuale primo viaggio dalla sua nomina (nel gennaio 1979) alla III Conferenza episcopale latinoamericana di Puebla, che avrebbe dovuto sancire l’«opzione preferenziale per i poveri». Facendo così un grande favore al presidente Usa Ronald Reagan, nel frattempo impegnato nel promuovere le sette fondamentaliste in tutto il sub continente.
Papa Francesco ha finalmente revocato la sospensione al 94enne padre Ernesto, ricoverato in rianimazione per una grave infezione in un ospedale della capitale nicaraguense. A portargli il messaggio il nunzio Stanislaw Waldemar. Il quale ha espresso l’intenzione di concelebrare una messa insieme a lui. Sempre che, a questo punto, Cardenal riesca a rimettersi. Mentre il vescovo ausiliare di Managua, Silvio Baez, si è precipitato al suo capezzale chiedendogli la sua benedizione «come sacerdote della Chiesa cattolica».

Monsignor Baez, molto legato a papa Francesco, è il prelato che più si è esposto con le sue critiche al regime del presidente Daniel Ortega, ancor prima della rivolta studentesca scoppiata il 18 aprile dello scorso anno, repressa nel sangue dalle forze di sicurezza del fu comandante guerrigliero.

Così come Ernesto Cardenal è stato uno dei primi esponenti del sandinismo a denunciare (fin dagli anni ’90) la piega antidemocratica di Ortega da segretario del Fronte Sandinista prima, e dittatoriale da quando è tornato al governo nel 2007.

Tanto da essere preso di mira da una vera e propria persecuzione politica che gli è valsa un paio d’anni fa una sanzione di 750mila dollari per una inventata controversia sulla proprietà dei terreni dove lo stesso Cardenal aveva fondato negli anni ’70 la sua comunità contemplativa nell’isola di Solentiname del grande lago Nicaragua. Il sistema giudiziario, strettamente controllato da Ortega, era arrivato a congelargli il conto corrente; per poi sospendere il procedimento di fronte alle proteste di intellettuali e letterati dal mondo intero.
Il padre Cardenal è considerato infatti uno dei più grandi poeti latinoamericani. È stato insignito della Legion d’onore francese, del premio latinoamericano Pablo Neruda; fino al Premio regina Sofia di Spagna per la poesia iberoamericana (nel 2012). L’ultimo riconoscimento, il premio Mario Benedetti, lo aveva ottenuto giusto lo scorso anno; e lo dedicò al 15enne nicaraguense Alvaro Conrado, ucciso il 20 aprile scorso da un francotiratore del regime durante una manifestazione di protesta degli studenti. Tra le sue opere più famose: Oración para Marilyn Monroe (ancora del 1965), Quetzalcoatl, Canto Cosmico, La Revolución perdida…; molte di esse tradotte fin in venti lingue.
Nella sua lunga vita il padre Cardenal è stato suo malgrado avvezzo a subire feroci atti di repressione. Già nel 1977 gli sgherri della Guardia somozista distrussero le installazioni della comunità di Solentiname (cappella, scuola, biblioteca, laboratorio di arte primitivista, cooperativa di pescatori e contadini) e assassinò vari dei suoi attivisti. Così come fu clamorosamente boicottato durante la rivoluzione sandinista da ministro della cultura dalla stessa moglie di Daniel Ortega, Rosario Murillo (anch’essa poetessa e oggi vicepresidente nonché factotum del regime) che aspirava a quel posto; e che decise di inventarsi la Associazione dei lavoratori della cultura, in feroce competizione col padre-ministro.
Con la restituzione delle funzioni sacerdotali papa Francesco ha operato in extremis una sorta di risarcimento nei confronti del padre Ernesto che ora «è pronto per andarsene in pace» come ha commentato la scrittrice e anch’essa poetessa nicaraguense Gioconda Belli.
Gesto che il primo pontefice latinoamericano aveva già concesso (su esplicita richiesta) al padre Miguel D’Escoto prima di morire. Mentre Edgar Parrales optò subito per rinunciare allo stato laicale; e Fernando Cardenal scelse invece di rifare il noviziato per rientrare nella Compagnia gesuita a tutti gli effetti. Ancora qualche mese fa il riottoso Cardenal, che mai aveva chiesto la sua riabilitazione, ebbe a dire: «rivendico di essere stato poeta, sacerdote e rivoluzionario

Il papa sdogana l’islam, ma l’islam sdogana la chiesa? – un auspicio

papa Francesco sdogana i musulmani

da infedeli a fratelli

Ottocento anni fa, durante le Crociate, tra sangue e spade, si levò forte la voce di San Francesco anche “contro” la Chiesa che quelle guerre capeggiava. Oggi sono le diplomazie e i gesti di Francesco Papa, che si reca nel cuore dell’Islam, a sottolineare l’importanza del dialogo, della fraternità e della pace fra i popoli.

La posta in gioco è altissima: parla a nuora perché suocera intenda. In tutto l’Islam il vero problema è il riconoscimento delle comunità cristiane e la costruzione dei luoghi di culto. È la loro possibilità di “vivere” allo scoperto manifestando liberamente la propria fede senza timore.

Ad Abu Dhabi tutto il mondo musulmano guarda con attenzione le parole e i gesti di Bergoglio. Ma anche i cristiani osservano con altrettanta attenzione quello che sta avvenendo.

La strada intrapresa dall’Argentino ricalca quella che Francesco d’Assisi segnò 800 anni fa: allora “infedeli” oggi fratelli.

Il Papa sdogana l’Islam, ma l’Islam sdogana la Chiesa? E’ l’auspicio e il punto di domanda di questo viaggio apostolico. Bergoglio lo ha fatto sin dall’inizio: “un fratello da voi per costruire sentieri di pace“. È questa la posta in gioco e lo si fa con le parole attribuite a san Francesco: fa di me uno strumento della tua pace.

Parole che affondano le loro radici nel testo della Regola non Bollata che allora la Chiesa non volle approvare:

Perciò tutti quei frati che per divina ispirazione vorranno andare tra i saraceni e altri infedeli… I frati poi che vanno tra gli infedeli possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti né dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio (1 Pt2, 13) e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che, quando vedranno che piace a Dio, annunzino la parola di Dio…”.

Parole dettate dall’assisiate dopo il viaggio a Damietta nel 1219, senza se e senza ma.

L’esortazione “Né liti né dispute” è fondamentale in quanto il Santo auspicava che i frati si distinguessero dai crociati in armi. Non la ricerca di uno scontro, ma la costruzione di un terreno comune e umano su cui far nascere un’amicizia.

Le immagini che arrivano oggi da Abu Dhabi: il Grande Imam di Al-Azhar, Mohamed Ahmed al-Tayeb, il principe ereditario lo sceicco Mohammed Bin Zayed al Nahyan, e Papa Francesco che camminano mano nella mano rimarranno nella storia.

Immagini che siglano l’amicizia invocata da Francesco d’Assisi 800 anni fa. Le linee guida di allora diventano gli atteggiamenti di oggi. Non la strada dell’imposizione ma quella della condivisione.

le tempeste e gli uragani che colpiscono la chiesa

FRANCESCO E LE PIAGHE DELLA CHIESA

Enzo Bianchi

 

Natale ci dona la certezza che nessun peccato sarà mai più grande della misericordia di Dio!». È questa la nota di fondo che pervade il discorso di papa Francesco alla Curia in occasione dei tradizionali auguri natalizi. Questo non significa tacere i mali e i peccati. Al contrario, a volte il papa è stato criticato per la sua insistenza verso le malattie proprie degli uomini religiosi, del clero e dei vescovi. Tuttavia l’intento pastorale profondo che anima le parole forti di Francesco è quello di purificare un corpo composto da molte membra, con ruoli, responsabilità e funzioni diverse ma anche con fragilità, patologie e perversioni che affliggono l’intera compagine. Il papa ha il coraggio di dire che alcuni «hanno iniziato a perdere fiducia nella chiesa e ad abbandonarla», mentre altri la offendono fino a scuoterla. Così, soprattutto nell’Occidente europeo, molte comunità cristiane si assottigliano fino a diventare precarie e le nuove generazioni appaiono la parte mancante della chiesa.
È significativo allora che Francesco esordisca facendo riferimento a due fenomeni mondiali quali le migrazioni e il martirio di molti cristiani. Due tragedie sulle quali Francesco non perde occasione per ritornare, cercando per ciò che riguarda i migranti, di destare le coscienze di tutti gli uomini e le donne di buona volontà – in primis di quanti hanno responsabilità pubbliche – per una gestione umana, prima ancora che umanitaria, di una piaga che da tempo non può più essere considerata “emergenza”. L’afflizione del martirio nelle parole del papa non è mai motivo per appelli a resistenze violente o a leggi del contrappasso e della reciprocità nell’infliggere il male, ma sempre occasione per gridare con voce ferma e a nome dei senza voce il caro prezzo che si paga per «vivere liberamente la fede cristiana» e per «non negare Cristo». A questo punto papa Francesco ritorna su due delle piaghe più laceranti che affliggono oggi la chiesa: gli abusi sui minori e l’infedeltà nel ministero. Verso coloro che si sono macchiati di gravi abusi «sessuali, di potere e di coscienza; tre abusi distinti che però convergono e si sovrappongono», papa Francesco arriva a usare parole di una durezza finora riservata solo ai colpevoli di crimini di mafia: «Convertitevi, consegnatevi alla giustizia umana e preparatevi alla giustizia divina!». Poco importa che in altre istituzioni si compiano di questi abusi in quantità ben maggiore: secondo la logica del Vangelo applicata da papa Francesco, le statistiche non offrono nessuna attenuante né giustificazione, perché lo scandalo patito anche da «uno solo di questi piccoli» porta in sé tutto il male del mondo. L’afflizione dell’infedeltà, poi, è inferta al corpo della chiesa da chi tradisce in profondità la propria vocazione giungendo con parole e opere a «pugnalare i fratelli e seminare zizzania, divisione e sconcerto». Anche qui però le tenebre della «corruzione spirituale» non giungono mai a sopraffare la luce di Cristo, «la luce del Natale che parte dalla mangiatoia di Betlemme, percorre la storia e arriva fino alla parusia ». Sì, parole dure e forti, scomode, laceranti come spade a doppio taglio ma parole di speranza perché dal mistero del Natale, del «Dio che si fa povero e piccolo per i poveri e per i piccoli» si sprigiona lo Spirito che anima tanti piccoli, oscuri testimoni della speranza e che trasforma «i peccati in occasione di perdono, le cadute in occasioni di rinnovamento, il male in occasione di purificazione e vittoria».

il messaggio di papa Francesco per la giornata della pace

 

“la buona politica è al servizio della pace”

il manifesto antisovranista di papa Francesco
messaggio sulla buona politica “al servizio della pace

corruzione e xenofobia “vergogne della politica”

contro chi addossa ai migranti l’origine di tutti i mali

 Maria Antonietta Calabrò

Un messaggio breve, quattro cartelle. Ma molto dense. In 7 punti. Con un titolo che dice già tutto: “La buona politica è al servizio della pace”.
Il tradizionale discorso del Papa per la Giornata del 1 gennaio – ricorrenza istituita da Paolo VI e celebrata per la prima volta nel 1968 – cala nel concreto della vita dei popoli e delle nazioni, perché parla di politica, di politici e di scelte politiche. Con un occhio anche alle prossime scadenze elettorali, che per gli europei saranno quelle del prossimo maggio, con il rinnovo dell’Europarlamento di Strasburgo. Quasi un “Manifesto antisovranista”, un documento “antidivisivo”, che fa appello alla speranza del bene comune e all’immagine della “casa” e che nel libretto preparato dalla Libreria Editrice Vaticana è illustrato dalla figura della Giustizia, con in mano una spada e una bilancia.

Il messaggio costituirà certamente uno strumento di riflessione anche per i laici cattolici italiani, chiamati di recente dal presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, a uscire dall’irrilevanza pubblica in cui sono precipitati. “Ogni rinnovo delle funzioni elettive, ogni scadenza elettorale, ogni tappa della vita pubblica – si legge nel Messaggio di Francesco – costituisce un’occasione per tornare alla fonte e ai riferimenti che ispirano la giustizia e il diritto. Ne siamo certi: la buona politica è al servizio della pace; essa rispetta e promuove i diritti umani fondamentali, che sono ugualmente doveri reciproci, affinché tra le generazioni presenti e quelle future si tessa un legame di fiducia e di riconoscenza”.
Ma della politica Francesco esamina, nel punto 4, anche i “vizi”: dalla corruzione alla xenofobia. “Accanto alle virtù, purtroppo, anche nella politica non mancano i vizi, dovuti sia ad inettitudine personale, sia a storture nell’ambiente e nelle istituzioni. È chiaro a tutti che i vizi della vita politica tolgono credibilità ai sistemi entro i quali essa si svolge, così come all’autorevolezza, alle decisioni e all’azione delle persone che vi si dedicano. Questi vizi, che indeboliscono l’ideale di un’autentica democrazia, sono la vergogna della vita pubblica e mettono in pericolo la pace sociale: la corruzione – nelle sue molteplici forme di appropriazione indebita dei beni pubblici o di strumentalizzazione delle persone –, la negazione del diritto, il non rispetto delle regole comunitarie, l’arricchimento illegale, la giustificazione del potere mediante la forza o col pretesto arbitrario della ragion di Stato, la tendenza a perpetuarsi nel potere, la xenofobia e il razzismo, il rifiuto di prendersi cura della Terra, lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali in ragione del profitto immediato, il disprezzo di coloro che sono stati costretti all’esilio”.

Al punto 5 Bergoglio aggiunge: “In particolare, viviamo in questi tempi in un clima di sfiducia che si radica nella paura dell’altro o dell’estraneo, nell’ansia di perdere i propri vantaggi, e si manifesta purtroppo anche a livello politico, attraverso atteggiamenti di chiusura o nazionalismi che mettono in discussione quella fraternità di cui il nostro mondo globalizzato ha tanto bisogno”. E ancora, il Papa stigmatizza chi addossa ai più vulnerabili, ai migranti l’origine di tutti i mali.

Qualcuno griderà all’ingerenza politica di Francesco. Ma il Papa è molto attento a richiamare il magistero dei suoi predecessori: Giovanni XXIII, Paolo VI e Benedetto XVI (a cui è dedicato l’intero capitolo 3), insieme alle parole del cardinale vietnamita Nguyen Van Thuan che trascorse ben 13 anni in prigione nel suo Paese, di cui 9 in isolamento, e fu definito da Giovanni Paolo II testimone eroico della sua fede, di cui Francesco enuncia nel suo Messaggio le otto “Beatitudini del politico”.

Nessuno insomma potrà etichettare il documento per la giornata della Pace come “comunista”, o divisivo.

“Offrire la pace è al cuore della missione dei discepoli di Cristo” spiega il Papa.” Inviando in missione i suoi discepoli, Gesù dice loro: In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa!. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi” (Lc 10,5-6). Ed è questo l’augurio di Francesco all’inizio del nuovo anno: “Pace a questa casa!”. “E questa offerta – continua – è rivolta a tutti coloro, uomini e donne, che sperano nella pace in mezzo ai drammi e alle violenze della storia umana. La “casa” di cui parla Gesù – continua – è ogni famiglia, ogni comunità, ogni Paese, ogni continente, nella loro singolarità e nella loro storia; è prima di tutto ogni persona, senza distinzioni né discriminazioni. È anche la nostra “casa comune”: il pianeta in cui Dio ci ha posto ad abitare e del quale siamo chiamati a prenderci cura con sollecitudine”.

La sfida della buona politica

La pace, secondo Francesco, è simile alla speranza di cui parla il poeta Charles Péguy; è come un fiore fragile che cerca di sbocciare in mezzo alle pietre della violenza. Lo sappiamo: la ricerca del potere ad ogni costo porta ad abusi e ingiustizie. La politica è un veicolo fondamentale per costruire la cittadinanza e le opere dell’uomo, ma quando, da coloro che la esercitano, non è vissuta come servizio alla collettività umana, può diventare strumento di oppressione, di emarginazione e persino di distruzione.

“Se uno vuol essere il primo – dice Gesù – sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti” (Mc 9,35). Come sottolineava Papa San Paolo VI: “Prendere sul serio la politica nei suoi diversi livelli – locale, regionale, nazionale e mondiale – significa affermare il dovere dell’uomo, di ogni uomo, di riconoscere la realtà concreta e il valore della libertà di scelta che gli è offerta per cercare di realizzare insieme il bene della città, della nazione, dell’umanità”.

In effetti, la funzione e la responsabilità politica costituiscono una sfida permanente per tutti coloro che ricevono il mandato di servire il proprio Paese, di proteggere quanti vi abitano e di lavorare per porre le condizioni di un avvenire degno e giusto. Se attuata nel rispetto fondamentale della vita, della libertà e della dignità delle persone, la politica può diventare veramente una forma eminente di carità.

Carità e virtù umane per una politica al servizio dei diritti umani e della pace

Papa Benedetto XVI ricordava – continua il Messaggio – che “ogni cristiano è chiamato a questa carità, nel modo della sua vocazione e secondo le sue possibilità d’incidenza nella polis. […] Quando la carità lo anima, l’impegno per il bene comune ha una valenza superiore a quella dell’impegno soltanto secolare e politico. […] L’azione dell’uomo sulla Terra, quando è ispirata e sostenuta dalla carità, contribuisce all’edificazione di quella universale città di Dio verso cui avanza la storia della famiglia umana”. È un programma nel quale si possono ritrovare tutti i politici, di qualunque appartenenza culturale o religiosa che, insieme, desiderano operare per il bene della famiglia umana, praticando quelle virtù umane che soggiacciono al buon agire politico: la giustizia, l’equità, il rispetto reciproco, la sincerità, l’onestà, la fedeltà.

La buona politica promuove la partecipazione dei giovani e la fiducia nell’altro

Il Messaggio continua con uno sguardo rivolto ai giovani, al futuro. “Quando l’esercizio del potere politico mira unicamente a salvaguardare gli interessi di taluni individui privilegiati, l’avvenire è compromesso e i giovani possono essere tentati dalla sfiducia, perché condannati a restare ai margini della società, senza possibilità di partecipare a un progetto per il futuro. Quando, invece, la politica si traduce, in concreto, nell’incoraggiamento dei giovani talenti e delle vocazioni che chiedono di realizzarsi, la pace si diffonde nelle coscienze e sui volti. Diventa una fiducia dinamica, che vuol dire “io mi fido di te e credo con te” nella possibilità di lavorare insieme per il bene comune. La politica è per la pace se si esprime, dunque, nel riconoscimento dei carismi e delle capacità di ogni persona. “Cosa c’è di più bello di una mano tesa? Essa è stata voluta da Dio per donare e ricevere. Dio non ha voluto che essa uccida (cfr Gen 4,1ss) o che faccia soffrire, ma che curi e aiuti a vivere. Accanto al cuore e all’intelligenza, la mano può diventare, anch’essa, uno strumento di dialogo”.

Per Papa Francesco, ognuno può apportare la propria pietra alla costruzione della casa comune. “La vita politica autentica, che si fonda sul diritto e su un dialogo leale tra i soggetti, si rinnova con la convinzione che ogni donna, ogni uomo e ogni generazione racchiudono in sé una promessa che può sprigionare nuove energie relazionali, intellettuali, culturali e spirituali”.

No alla guerra e alla strategia della paura

A cento anni dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, “mentre ricordiamo i giovani caduti durante quei combattimenti e le popolazioni civili dilaniate, oggi più di ieri conosciamo il terribile insegnamento delle guerre fratricide, cioè che la pace non può mai ridursi al solo equilibrio delle forze e della paura. Tenere l’altro sotto minaccia vuol dire ridurlo allo stato di oggetto e negarne la dignità. È la ragione per la quale riaffermiamo che l’escalation in termini di intimidazione, così come la proliferazione incontrollata delle armi sono contrarie alla morale e alla ricerca di una vera concordia. Il terrore esercitato sulle persone più vulnerabili contribuisce all’esilio di intere popolazioni nella ricerca di una terra di pace. Non sono sostenibili i discorsi politici che tendono ad accusare i migranti di tutti i mali e a privare i poveri della speranza. Va invece ribadito che la pace si basa sul rispetto di ogni persona, qualunque sia la sua storia, sul rispetto del diritto e del bene comune, del creato che ci è stato affidato e della ricchezza morale trasmessa dalle generazioni passate. Il nostro pensiero va, inoltre, in modo particolare ai bambini che vivono nelle attuali zone di conflitto, e a tutti coloro che si impegnano affinché le loro vite e i loro diritti siano protetti. Nel mondo, un bambino su sei è colpito dalla violenza della guerra o dalle sue conseguenze, quando non è arruolato per diventare egli stesso soldato o ostaggio dei gruppi armati. La testimonianza di quanti si adoperano per difendere la dignità e il rispetto dei bambini è quanto mai preziosa per il futuro dell’umanità”.

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
PER LA CELEBRAZIONE DELLA
LII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
1° GENNAIO 2019

 

La buona politica è al servizio della pace

1. “Pace a questa casa!”
Inviando in missione i suoi discepoli, Gesù dice loro: «In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi» (Lc 10,5-6).
Offrire la pace è al cuore della missione dei discepoli di Cristo. E questa offerta è rivolta a tutti coloro, uomini e donne, che sperano nella pace in mezzo ai drammi e alle violenze della storia umana.[1] La “casa” di cui parla Gesù è ogni famiglia, ogni comunità, ogni Paese, ogni continente, nella loro singolarità e nella loro storia; è prima di tutto ogni persona, senza distinzioni né discriminazioni. È anche la nostra “casa comune”: il pianeta in cui Dio ci ha posto ad abitare e del quale siamo chiamati a prenderci cura con sollecitudine.
Sia questo dunque anche il mio augurio all’inizio del nuovo anno: “Pace a questa casa!”.
2. La sfida della buona politica
La pace è simile alla speranza di cui parla il poeta Charles Péguy;[2] è come un fiore fragile che cerca di sbocciare in mezzo alle pietre della violenza. Lo sappiamo: la ricerca del potere ad ogni costo porta ad abusi e ingiustizie. La politica è un veicolo fondamentale per costruire la cittadinanza e le opere dell’uomo, ma quando, da coloro che la esercitano, non è vissuta come servizio alla collettività umana, può diventare strumento di oppressione, di emarginazione e persino di distruzione.
«Se uno vuol essere il primo – dice Gesù – sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti» (Mc 9,35). Come sottolineava Papa San Paolo VI: «Prendere sul serio la politica nei suoi diversi livelli – locale, regionale, nazionale e mondiale – significa affermare il dovere dell’uomo, di ogni uomo, di riconoscere la realtà concreta e il valore della libertà di scelta che gli è offerta per cercare di realizzare insieme il bene della città, della nazione, dell’umanità».[3]
In effetti, la funzione e la responsabilità politica costituiscono una sfida permanente per tutti coloro che ricevono il mandato di servire il proprio Paese, di proteggere quanti vi abitano e di lavorare per porre le condizioni di un avvenire degno e giusto. Se attuata nel rispetto fondamentale della vita, della libertà e della dignità delle persone, la politica può diventare veramente una forma eminente di carità.
3. Carità e virtù umane per una politica al servizio dei diritti umani e della pace
Papa Benedetto XVI ricordava che «ogni cristiano è chiamato a questa carità, nel modo della sua vocazione e secondo le sue possibilità d’incidenza nella polis. […] Quando la carità lo anima, l’impegno per il bene comune ha una valenza superiore a quella dell’impegno soltanto secolare e politico. […] L’azione dell’uomo sulla terra, quando è ispirata e sostenuta dalla carità, contribuisce all’edificazione di quella universale città di Dio verso cui avanza la storia della famiglia umana».[4] È un programma nel quale si possono ritrovare tutti i politici, di qualunque appartenenza culturale o religiosa che, insieme, desiderano operare per il bene della famiglia umana, praticando quelle virtù umane che soggiacciono al buon agire politico: la giustizia, l’equità, il rispetto reciproco, la sincerità, l’onestà, la fedeltà.
A questo proposito meritano di essere ricordate le “beatitudini del politico”, proposte dal Cardinale vietnamita François-Xavier Nguyễn Vãn Thuận, morto nel 2002, che è stato un fedele testimone del Vangelo:
Beato il politico che ha un’alta consapevolezza e una profonda coscienza del suo ruolo.
Beato il politico la cui persona rispecchia la credibilità.
Beato il politico che lavora per il bene comune e non per il proprio interesse.
Beato il politico che si mantiene fedelmente coerente.
Beato il politico che realizza l’unità.
Beato il politico che è impegnato nella realizzazione di un cambiamento radicale.
Beato il politico che sa ascoltare.
Beato il politico che non ha paura.[5]
Ogni rinnovo delle funzioni elettive, ogni scadenza elettorale, ogni tappa della vita pubblica costituisce un’occasione per tornare alla fonte e ai riferimenti che ispirano la giustizia e il diritto. Ne siamo certi: la buona politica è al servizio della pace; essa rispetta e promuove i diritti umani fondamentali, che sono ugualmente doveri reciproci, affinché tra le generazioni presenti e quelle future si tessa un legame di fiducia e di riconoscenza.
4. I vizi della politica
Accanto alle virtù, purtroppo, anche nella politica non mancano i vizi, dovuti sia ad inettitudine personale sia a storture nell’ambiente e nelle istituzioni. È chiaro a tutti che i vizi della vita politica tolgono credibilità ai sistemi entro i quali essa si svolge, così come all’autorevolezza, alle decisioni e all’azione delle persone che vi si dedicano. Questi vizi, che indeboliscono l’ideale di un’autentica democrazia, sono la vergogna della vita pubblica e mettono in pericolo la pace sociale: la corruzione – nelle sue molteplici forme di appropriazione indebita dei beni pubblici o di strumentalizzazione delle persone –, la negazione del diritto, il non rispetto delle regole comunitarie, l’arricchimento illegale, la giustificazione del potere mediante la forza o col pretesto arbitrario della “ragion di Stato”, la tendenza a perpetuarsi nel potere, la xenofobia e il razzismo, il rifiuto di prendersi cura della Terra, lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali in ragione del profitto immediato, il disprezzo di coloro che sono stati costretti all’esilio.
5. La buona politica promuove la partecipazione dei giovani e la fiducia nell’altro
Quando l’esercizio del potere politico mira unicamente a salvaguardare gli interessi di taluni individui privilegiati, l’avvenire è compromesso e i giovani possono essere tentati dalla sfiducia, perché condannati a restare ai margini della società, senza possibilità di partecipare a un progetto per il futuro. Quando, invece, la politica si traduce, in concreto, nell’incoraggiamento dei giovani talenti e delle vocazioni che chiedono di realizzarsi, la pace si diffonde nelle coscienze e sui volti. Diventa una fiducia dinamica, che vuol dire “io mi fido di te e credo con te” nella possibilità di lavorare insieme per il bene comune. La politica è per la pace se si esprime, dunque, nel riconoscimento dei carismi e delle capacità di ogni persona. «Cosa c’è di più bello di una mano tesa? Essa è stata voluta da Dio per donare e ricevere. Dio non ha voluto che essa uccida (cfr Gen 4,1ss) o che faccia soffrire, ma che curi e aiuti a vivere. Accanto al cuore e all’intelligenza, la mano può diventare, anch’essa, uno strumento di dialogo».[6]
Ognuno può apportare la propria pietra alla costruzione della casa comune. La vita politica autentica, che si fonda sul diritto e su un dialogo leale tra i soggetti, si rinnova con la convinzione che ogni donna, ogni uomo e ogni generazione racchiudono in sé una promessa che può sprigionare nuove energie relazionali, intellettuali, culturali e spirituali. Una tale fiducia non è mai facile da vivere perché le relazioni umane sono complesse. In particolare, viviamo in questi tempi in un clima di sfiducia che si radica nella paura dell’altro o dell’estraneo, nell’ansia di perdere i propri vantaggi, e si manifesta purtroppo anche a livello politico, attraverso atteggiamenti di chiusura o nazionalismi che mettono in discussione quella fraternità di cui il nostro mondo globalizzato ha tanto bisogno. Oggi più che mai, le nostre società necessitano di “artigiani della pace” che possano essere messaggeri e testimoni autentici di Dio Padre che vuole il bene e la felicità della famiglia umana.
6. No alla guerra e alla strategia della paura
Cento anni dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, mentre ricordiamo i giovani caduti durante quei combattimenti e le popolazioni civili dilaniate, oggi più di ieri conosciamo il terribile insegnamento delle guerre fratricide, cioè che la pace non può mai ridursi al solo equilibrio delle forze e della paura. Tenere l’altro sotto minaccia vuol dire ridurlo allo stato di oggetto e negarne la dignità. È la ragione per la quale riaffermiamo che l’escalation in termini di intimidazione, così come la proliferazione incontrollata delle armi sono contrarie alla morale e alla ricerca di una vera concordia. Il terrore esercitato sulle persone più vulnerabili contribuisce all’esilio di intere popolazioni nella ricerca di una terra di pace. Non sono sostenibili i discorsi politici che tendono ad accusare i migranti di tutti i mali e a privare i poveri della speranza. Va invece ribadito che la pace si basa sul rispetto di ogni persona, qualunque sia la sua storia, sul rispetto del diritto e del bene comune, del creato che ci è stato affidato e della ricchezza morale trasmessa dalle generazioni passate.
Il nostro pensiero va, inoltre, in modo particolare ai bambini che vivono nelle attuali zone di conflitto, e a tutti coloro che si impegnano affinché le loro vite e i loro diritti siano protetti. Nel mondo, un bambino su sei è colpito dalla violenza della guerra o dalle sue conseguenze, quando non è arruolato per diventare egli stesso soldato o ostaggio dei gruppi armati. La testimonianza di quanti si adoperano per difendere la dignità e il rispetto dei bambini è quanto mai preziosa per il futuro dell’umanità.
7. Un grande progetto di pace
Celebriamo in questi giorni il settantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata all’indomani del secondo conflitto mondiale. Ricordiamo in proposito l’osservazione del Papa San Giovanni XXIII: «Quando negli esseri umani affiora la coscienza dei loro diritti, in quella coscienza non può non sorgere l’avvertimento dei rispettivi doveri: nei soggetti che ne sono titolari, del dovere di far valere i diritti come esigenza ed espressione della loro dignità; e in tutti gli altri esseri umani, del dovere di riconoscere gli stessi diritti e di rispettarli».[7]
La pace, in effetti, è frutto di un grande progetto politico che si fonda sulla responsabilità reciproca e sull’interdipendenza degli esseri umani. Ma è anche una sfida che chiede di essere accolta giorno dopo giorno. La pace è una conversione del cuore e dell’anima, ed è facile riconoscere tre dimensioni indissociabili di questa pace interiore e comunitaria:
– la pace con sé stessi, rifiutando l’intransigenza, la collera e l’impazienza e, come consigliava San Francesco di Sales, esercitando “un po’ di dolcezza verso sé stessi”, per offrire “un po’ di dolcezza agli altri”;
– la pace con l’altro: il familiare, l’amico, lo straniero, il povero, il sofferente…; osando l’incontro e ascoltando il messaggio che porta con sé;
– la pace con il creato, riscoprendo la grandezza del dono di Dio e la parte di responsabilità che spetta a ciascuno di noi, come abitante del mondo, cittadino e attore dell’avvenire.
La politica della pace, che ben conosce le fragilità umane e se ne fa carico, può sempre attingere dallo spirito del Magnificat che Maria, Madre di Cristo Salvatore e Regina della Pace, canta a nome di tutti gli uomini: «Di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono. Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; […] ricordandosi della sua misericordia, come aveva detto ai nostri padri, per Abramo e la sua discendenza, per sempre» (Lc 1,50-55).
Dal Vaticano, 8 dicembre 2018
Francesco

[1] Cfr Lc 2,14: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama».
[2] Cfr Le Porche du mystère de la deuxième vertu, Paris 1986.
[3] Lett. ap. Octogesima adveniens (14 maggio 1971), 46.
[4] Enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 7.
[5] Cfr Discorso alla mostra-convegno “Civitas” di Padova: “30giorni”, n. 5 del 2002.
[6] Benedetto XVI, Discorso alle Autorità del Benin, Cotonou, 19 novembre 2011.
[7] Enc. Pacem in terris (11 aprile 1963), 24.

papa Francesco contro gli scarti di umanità

gli scartati

la denuncia di Papa Francesco

Il capitalismo genera esclusione e povertà concentrando la ricchezza nelle mani di pochi

La reificazione (vedi Marx e G. Lukacs) è una delle conseguenze più inquietanti del modo di produzione capitalistico. Non solo si determina lo spostamento di valore dalle persone alle cose ma i singoli stessi si valutano secondo parametri di utilità funzionale o produttiva.  Chi è in esubero secondo le esigenze del capitale, chi non può produrre o semplicemente non raggiunge risultati quantificabili in termini economici non serve e quindi può essere scartato. Questa visione antropologica, ad altissima capacità di propagazione, riduce e uccide. Fa leva sugli istinti peggiori quelli cioè che sembrano realizzare l’uomo ed invece lo deformano. Riuscire a far parte di un sistema lasciando morti e feriti dietro il proprio passaggio appaga solo il delirio di onnipotenza ed innesca un inarrestabile processo di svuotamento dei contenuti essenziali.

testo di Papa Francesco:

è inaccettabile, perché disumano, un sistema economico mondiale che scarta uomini, donne e bambini, per il fatto che questi sembrano non essere più utili secondo i criteri di redditività delle aziende o di altre organizzazioni. Proprio questo scarto delle persone costituisce il regresso e la disumanizzazione di qualsiasi sistema politico ed economico: coloro che causano o permettono lo scarto degli altri – rifugiati, bambini abusati o schiavizzati, poveri che muoiono per la strada quando fa freddo – diventano essi stessi come macchine senza anima, accettando implicitamente il principio che anche loro, prima o poi, verranno scartati – è un boomerang questo! Ma è la verità: prima o poi loro verranno scartati – quando non saranno più utili ad una società che ha messo al centro il dio denaro”.

(dal Discorso di Papa Francesco alla Delegazione della “Global Foundation“, 14/01/2017)

Europa malata di indifferenza

 papa Francesco

l’Europa malata di indifferenza e chiusura, serve misericordia

Udienza al Pontificio Comitato per i Congressi Eucaristici internazionale:

oggi nel mondo un «fiume carsico di miseria» provocato da «tante forme di paura, sopraffazione, arroganza, malvagità, odio». I cristiani siano un «balsamo» per l’umanità ferita

salvatore cernuzio

Famiglie in difficoltà, giovani e adulti senza lavoro, malati e anziani soli, migranti: sono tante le situazioni in questa «Europa malata d’indifferenza e attraversata da divisioni e chiusura» nelle quali i cristiani sono chiamati a «versare il balsamo della misericordia con opere spirituali e corporali». Ancora una volta Papa Francesco posa lo sguardo sulle categorie umane più ferite, segnate «da fatiche e violenze e altre povertà», e nel suo discorso ai membri del Pontificio Comitato per i Congressi Eucaristici internazionali, ricevuti in udienza questa mattina in Vaticano, richiama la responsabilità di tutti i credenti a compiere azioni concrete in nome di quella misericordia che, seppur sia una «parola quasi tolta dal dizionario della cultura attuale», dev’essere iniettata nuovamente nelle vene del mondo.  

Occorre riportare «in superficie parole di Vangelo che le nostre città hanno spesso dimenticato»: questa è, secondo il Papa, l’urgenza per il tempo attuale in cui «tutti si lamentano per il fiume carsico di miseria che percorre l’esperienza della nostra società». «Si tratta – evidenzia il Pontefice – di tante forme di paura, sopraffazione, arroganza, malvagità, odio, chiusure, noncuranza dell’ambiente, e così via. E tuttavia i cristiani sperimentano ogni domenica che questo fiume in piena non può nulla contro l’oceano di misericordia che inonda il mondo».

In questo scenario drammatico «i cristiani rinnovano prima di tutto, di domenica in domenica, il gesto semplice e forte della loro fede: si radunano nel nome del Signore riconoscendosi fratelli. E si ripete il miracolo: nell’ascolto della Parola e nel gesto del Pane spezzato anche la più piccola e umile assemblea di credenti diventa corpo del Signore, suo tabernacolo nel mondo». Ogni celebrazione dell’Eucaristia diventa così «incubatrice degli atteggiamenti che generano una cultura eucaristica», una cultura, cioè, che «spinge a trasformare in gesti e atteggiamenti di vita la grazia di Cristo che sì è donato totalmente». Che porta quindi alla comunione, alla fraternità e alla misericordia, tutti valori apprezzabili e percepibili anche al di là dell’appartenenza ecclesiale.

La comunione in particolare, spiega Papa Bergoglio, è una «vera sfida» per la pastorale eucaristica, perché si tratta di aiutare i fedeli a vivere in Cristo e con Cristo «nella carità e nella missione». Da ciò, dalla logica cioè del «corpo donato» e offerto per molti, si entra nella logica del servizio: «I cristiani servono la causa del Vangelo inserendosi nei luoghi della debolezza e della croce per condividere e sanare», afferma il Pontefice. Essi diventano «servitori dei poveri, non in nome di una ideologia ma del Vangelo stesso, che diventa regola di vita dei singoli e delle comunità, come testimonia l’ininterrotta schiera di santi e sante della carità».

In questo modo «la misericordia», dice il Papa, entra «nelle vene del mondo e contribuisce a costruire l’immagine e la struttura del Popolo di Dio adatta al tempo della modernità».

A conclusione, Francesco ricorda il prossimo Congresso Eucaristico Internazionale che si terrà nel 2020 a Budapest, in Ungheria (all’udienza è presente infatti la Delegazione del comitato ungherese guidata dal cardinale Peter Erdő). «Questo evento – rileva il Pontefice – sarà celebrato nello scenario di una grande città europea, dove e comunità cristiane attendono una nuova evangelizzazione capace di confrontarsi con la modernità secolarizzata e con una globalizzazione che rischia di cancellare le peculiarità di una storia ricca e variegata».

Portando avanti «una storia più che centenaria», il prossimo Congresso è chiamato pertanto ad «indicare questo percorso di novità e di conversione, ricordando che al centro della vita ecclesiale c’è l’Eucaristia», mistero «capace di influenzare positivamente non solo i singoli battezzati, ma anche la città terrena in cui si vive e si lavora». Auspicio del Papa è dunque che l’appuntamento eucaristico di Budapest possa «favorire nelle comunità cristiane processi di rinnovamento» che si traducano nel diffondersi di una «cultura eucaristica capace di ispirare gli uomini e le donne di buona volontà nei campi della carità, della solidarietà, della pace, della famiglia, della cura del creato».

la passione di papa Francesco per i poveri, gli ultimi, gli scartati della storia, le vittime della società

“Papa Francesco e i poveri”


dal sito del Monastero di Bose

Nell’affrontare il tema della passione di papa Francesco per i poveri, gli ultimi, gli scartati della storia, le vittime della società, non posso non fare memoria di alcune parole profetiche di Giovanni XXIII, pronunciate un mese prima dell’apertura del concilio: “La chiesa si presenta quale è, e vuole essere, come la chiesa di tutti, e particolarmente la chiesa dei poveri” (Radiomessaggio ai fedeli di tutto il mondo, 11 settembre 1962). Parole che allora parvero inedite, ma che durante il concilio presero fuoco e diventarono un’urgenza avvertita con forza, un segno dei tempi, perché quell’ora era ritenuta “l’ora dei poveri”.
Quel fuoco acceso da papa Giovanni forgiò uno straordinario diamante nella Lumen gentium: “Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la chiesa e chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza … Così anche la chiesa, benché per compiere la sua missione abbia bisogno di risorse umane, non deve cercare la gloria terrena, ma con il suo esempio diffondere umiltà e abnegazione” (LG 8). Questa è la logica dell’evangelizzazione operata dal Signore Gesù Cristo, che “da ricco che era si è fatto povero per noi” (cf. 2Cor 8,9; cf. ibid.), e dunque questa deve essere la via percorsa dalla chiesa per portare la buona notizia ai poveri. Questa istanza – diciamo la verità – è parsa paradossale e anche, qua e là nella chiesa, scandalosa, perché molti hanno continuato a pensare che solo una chiesa ricca, forte e potente possa fare del bene ai poveri. Anche per questo la profezia evangelica della povertà, dopo il concilio, e in particolare negli anni ’80 del secolo scorso, si è indebolita, è diventata silente ed è stata spesso contraddetta in modo anche clamoroso, provocando scandalo nella chiesa e nel mondo.
Ma proprio tra sue primissime parole, papa Francesco ha quasi sospirato: “Ah, come vorrei una chiesa povera e per i poveri!” (Udienza ai rappresentanti dei media, 16 marzo 2013). Da allora Francesco, che ha assunto il nome del santo che ha legato la sua vita cristiana alla povertà, non cessa di ripetere, quasi in modo ossessivo, l’urgenza della povertà della chiesa e della sua responsabilità di fronte ai poveri del mondo. Sono convinto che di questo papa saranno ricordate soprattutto le sollecitudini per la misericordia e la povertà, perché in lui il mistero cristiano si riassume soprattutto nel Cristo povero e misericordioso dei vangeli. D’altronde egli è ben consapevole che solo una chiesa povera e misericordiosa può fare riforme profonde, non operazioni di maquillage che sono senza forza e durano un momento, che incantano ma non causano conversione. È significativa questa sua affermazione: “Non si può comprendere il vangelo senza la povertà” (Intervista a La Vanguardia, quotidiano catalano, 12 giugno 2014; cf. Osservatore romano, 13 giugno 2014).
Potrei fornire diverse citazioni, tratte da numerosi interventi del papa su questo tema, sia in discorsi sia nel suo magistero quotidiano nelle omelie mattutine a Santa Marta: contro il “denaro, radice di tutti i mali” (cf 1Tm 6,10), “capace di togliere la fede”, “fonte di corruzione”, contro il potere che non diventa servizio del fratello, soprattutto dell’ultimo, contro la vanità e l’orgoglio ecclesiastico. Ma, anziché ricordare queste invettive profetiche del papa, preferisco mettere in evidenza due sue preoccupazioni emblematiche.
La prima è quella che i cristiani abbiano occhi capaci di scorgere nei poveri “la carne di Cristo”. Al cristiano – ricorda il papa – è assolutamente necessario innanzitutto sentire la chiamata a essere povero, a spogliarsi di se stesso, in una vera kénosis sull’esempio di Cristo (cf. Fil 2,7), a imparare a stare con i poveri, praticando la condivisione con chi è privo del necessario, in modo da “toccare la carne di Cristo” (Veglia di Pentecoste con i movimenti, le nuove comunità, le associazioni e le aggregazioni laicali, 18 maggio 2013; cf. anche omelia a Santa Marta, 7 marzo 2014). Ha affermato ancora il papa: “Il cristiano è uno che incontra i poveri, che li guarda negli occhi, che li tocca” (Incontro con i poveri assistiti dalla Caritas, Assisi, 4 ottobre 2013). E recentemente, con parole che vanno messe in pratica, senza commenti: “Davanti ai poveri non si tratta di giocare per avere il primato di intervento, ma possiamo riconoscere umilmente che è lo Spirito a suscitare gesti che siano segno della risposta e della vicinanza di Dio. Quando troviamo il modo per avvicinarci ai poveri, sappiamo che il primato spetta a Lui, che ha aperto i nostri occhi e il nostro cuore alla conversione. Non è di protagonismo che i poveri hanno bisogno, ma di amore che sa nascondersi e dimenticare il bene fatto. I veri protagonisti sono il Signore e i poveri” (Messaggio per la II Giornata mondiale dei poveri, 13 giugno 2018). Sembra che il bacio di san Francesco al lebbroso sia per il papa l’icona del vero rapporto di amore con chi è bisognoso. Ma, di nuovo, questo è lo stile di Gesù, è ciò che i vangeli ci raccontano di Gesù, il quale sempre ha voluto toccare corpi di malati, abbracciare i bisognosi, stare a tavola con gli scarti della società, impuri ed emarginati.
Papa Francesco esprime una vera povertà cristologica, o una cristologia della povertà, con accenti che ricordano i padri della chiesa, soprattutto Basilio di Cesarea, Giovanni Crisostomo, Ambrogio di Milano. “Il povero è un vicario di Cristo”, ha detto più volte (cf., per esempio, Incontro con i poveri, Assisi, 4 ottobre 2013; Omelia a Santa Marta, 20 gennaio 2014; Intervista all’Osservatore romano, 13 giugno 2014), proprio lui che mai e poi mai direbbe di sé di essere il vicario di Cristo. Per i poveri nessuna carità “presbite”, che li tiene lontani e li discerne solo nella lontananza; verso di loro nessuna ottica di superiorità, l’ottica di chi li guarda dal centro o dall’alto. No, occorre vederli stando accanto a loro nelle periferie dell’esistenza, nella consapevolezza che “esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri … i destinatari privilegiati del Vangelo” (Evangelii gaudium 48); “i poveri … categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica. Dio concede loro la sua prima misericordia”, perché “essi hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente” (ibid. 198). L’insegnamento di papa Francesco sui poveri è un insegnamento in primo luogo a livello rivelativo, cristologico, e questo conferisce alle sue parole una particolare autorità nello spazio della fede. La chiesa non può restare sorda o non tenerne conto, perché sul rapporto con i poveri e la povertà si gioca la sua fedeltà al Signore, il suo essere o non essere chiesa di Cristo.
L’altra preoccupazione di Francesco riguarda la povertà della chiesa stessa. Se la chiesa è chiesa di Cristo, allora – come si vedeva nella citazione della Lumen gentium – essa deve percorrere la via di Cristo nel suo cammino verso il Regno, facendo della povertà, dell’umiltà, della mitezza, del servizio il suo stile. Qui povertà e umiltà della chiesa sono immanenti l’una all’altra: sempre siamo tentati dalla ricchezza, dal potere, dal successo, come Gesù nel deserto all’inizio del suo ministero (cf. Mt 4,1-11; Lc 4,1-13). Ma – dice Francesco nel suo splendido discorso tenuto a Seoul ai vescovi della Corea del Sud il 14 agosto 2014 – “la vita e la missione della chiesa … non si misurano in definitiva in termini esteriori, quantitativi e istituzionali; piuttosto esse devono essere giudicate nella chiara luce del Vangelo e della sua chiamata a una conversione alla persona di Gesù Cristo”. Sempre la memoria della nostra identità “deve essere realistica, non idealizzata e non ‘trionfalistica’ … L’ideale apostolico [è quello] di una chiesa dei poveri e per i poveri, una chiesa povera per i poveri” … Tutti infatti saremo giudicati su quel “protocollo” – Mt 25,31-46 –, dove Cristo identifica se stesso con i poveri e i bisognosi. La chiesa deve soprattutto vigilare “nei momenti di prosperità”, quando c’è “il pericolo che la comunità cristiana diventi una società, cioè che perda quella dimensione spirituale, che perda la capacità di celebrare il Mistero e si trasformi in una organizzazione spirituale, cristiana culturalmente, con valori cristiani, ma senza lievito profetico”. Nessuna chiesa è esente dalla tentazione di porre fiducia in sé e nei suoi mezzi, nella sua affermazione nel mondo. È “la tentazione del benessere spirituale, del benessere pastorale”. Allora la chiesa “non è una chiesa povera per i poveri, ma una chiesa ricca per i ricchi, o una chiesa di classe media per i benestanti” (ibid.).
Queste sono parole infuocate, soprattutto se le pensiamo rivolte a una chiesa particolare che, secondo il papa, può correre tale rischio. Francesco opera un capovolgimento dei traguardi che qualcuno voleva dare a qualche chiesa particolare negli ultimi decenni, proponendo che la chiesa cercasse riconoscimenti, si facesse vedere forte, volesse concorrere culturalmente con la società… Il risultato dell’evangelizzazione di una chiesa in questo stato è la sterilità, e in tal modo l’immagine della chiesa si deforma, diventando sempre più debole nell’essere un segno innalzato tra le genti.
È all’insegna della misericordia, del “cuore per i miseri”, che va compresa la passione di papa Francesco per i poveri, gli ultimi, gli scartati della storia, le vittime della società: tutti figli e figlie di Dio, tutti con la stessa dignità, tutti “segno” di Gesù Cristo. Una “chiesa povera e per i poveri” e dunque una chiesa di poveri “beati” secondo il Vangelo: questo è ciò che desidera papa Francesco ed è ciò cui si sente impegnato dal nome del santo di Assisi che ha voluto assumere.

la scandalosa povertà nel nostro mondo

papa Francesco

“nel mondo c’è una povertà scandalosa”

lo ha detto il papa nell’udienza generale a San Pietro:

“per non rubare occorre imparare a condividere, nessuno è padrone assoluto dei beni”

Papa Francesco

La nostra vita non è fatta per “possedere” ma “per amare”. Lo ha ribadito Papa Francesco nell’udienza generale in Piazza San Pietro dedicata al settimo comandamento ‘non rubare’.
“Il mondo – ha detto il Papa – è ricco di risorse per assicurare a tutti i beni primari. Eppure molti vivono in una scandalosa indigenza e le risorse, usate senza criterio, si vanno deteriorando”.
“La ricchezza del mondo – ha sottolineato Francesco – oggi è nelle mani della minoranza, di pochi, e la povertà e la miseria è la sofferenza di tanti, della maggioranza”.
“Nessuno – ha proseguito Bergoglio – è padrone assoluto dei beni: è un amministratore dei beni. Ogni ricchezza, per essere buona, deve avere una dimensione sociale. Per non rubare occorre imparare a condividere”.
“Se sulla terra c’è la fame – ha concluso il Papa – non è perché manca il cibo! Anzi, per le esigenze del mercato si arriva a volte a distruggerlo, si butta. Ciò che manca è una libera e lungimirante imprenditoria, che assicuri un’adeguata produzione, e una impostazione solidale, che assicuri un’equa distribuzione”.

la chiesa ‘inquieta’ e ‘in uscita’ di papa Francesco

papa Francesco

la chiesa inquieta

da Altranarrazione

Sogniamo una chiesa che faccia aspettare i c.d. capi di Stato quando alla porta suona una vittima delle loro politiche.
Sogniamo una chiesa che celebri Eucaristia di Solidarietà: ad esempio fuori l’Ilva di Taranto, davanti ai poligoni militari come quello di Salto di Quirra, davanti alle basi militari statunitensi presenti in Italia.
Sogniamo una chiesa che rivendichi la verità sulla strategia della tensione.
Sogniamo una chiesa che sia vicina alle vittime di tutte le tragedie, ed in particolare di quelle evitabili.
Sogniamo una chiesa che diventi megafono della sofferenza dei cittadini dell’Aquila, di Amatrice e di tutti quelli colpiti dal terremoto.
Sogniamo una Chiesa che ricordi ad ogni omelia i soldi che il nostro governo spende in armamenti, il numero di disoccupati e di precari.
Sogniamo una chiesa presente negli ospedali non solo per dare l’estrema unzione ma anche per rivendicare il buon funzionamento della sanità pubblica.
Sogniamo una chiesa coinvolta nei sit-in contro i licenziamenti dei lavoratori.
Sogniamo una chiesa che si sdegni di fronte alle ingiustizie sociali.
Sogniamo una chiesa che mantenga la schiena dritta davanti la potere e soprattutto che non cerchi contraccambi.
Sogniamo una chiesa che riconosca come martiri della verità ad esempio testimoni come Ilaria Alpi, Paolo Borsellino, Giovanni Falcone.
Sogniamo una chiesa che si preoccupi per la vita del magistrato Nino Di Matteo.
Sogniamo una chiesa che chieda di entrare nei CIE per verificare le condizioni dei migranti.

Per adesso sogniamo.

Ma un giorno siamo sicuri che diventerà realtà.

testo di papa Francesco:

“Mi piace una Chiesa inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta con il volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà”.

(Papa Francesco, Discorso all’incontro con i rappresentanti del V Convegno nazionale della Chiesa italiana, 10/11/2015, Firenze).

papa Francesco contro i cristiani razzisti

migranti

papa Francesco critica i cattolici razzisti

 papa Francesco riceve in udienza i direttori degli Uffici della pastorale per le migrazioni e si dice preoccupato per i sentimenti di intolleranza e xenofobia diffusi anche tra i cattolici e giustificati, spiega, «da un non meglio specificato “dovere morale” di conservare l’identità culturale e religiosa originaria»

Denuncia l’incoerenza di molti credenti e di alcune Chiese locali di fronte al problema delle migrazioni in Europa. Papa Francesco, nel discorso direttori degli Uffici per i migranti delle Conferenze episcopali d’Europa, è molto severo nella critica e parla apertamente di “reazione di difesa e di rigetto”, veri e propri atteggiamenti razzisti in molti cattolici.

L’incontro è avvenuto venerdì 22 settembre e i direttori erano accompagnati dal cardinale Angelo Bagnasco, ex-presidente della Cei e attuale presidente dei vescovi europei. Il Papa ha confidato: “Non vi nascondo la mia preoccupazione di fronte ai segni di intolleranza, discriminazione e xenofobia che si riscontrano in diverse regioni d’Europa. Esse sono spesso motivate dalla diffidenza e dal timore verso l’altro, il diverso, lo straniero. Mi preoccupa ancor più la triste constatazione che le nostre comunità cattoliche in Europa non sono esenti da queste reazioni di difesa e rigetto, giustificate da un non meglio specificato ‘dovere morale’ di conservare l’identità culturale e religiosa originaria”.

I rimproveri di Francesco riguardano il settore orientale dell’Europa e le posizioni tiepide degli episcopati di Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica ceca nei confronti delle politiche nazionali dei loro governi che hanno ripetutamente negato l’accettazione delle quote di migranti previste dall’Unione Europea. La maggior parte dei cattolici è d’accordo con i governi sul contrasto all’immigrazione e sull’ingresso dei migranti in quei Paesi. La situazione più delicata appare quella polacca. Qualche mese fa monsignor Krzysztof Zadarko, vescovo ausiliare di Koszalin-Kołobrzeg e responsabile della conferenza episcopale polacca per l’immigrazione, ha affermato che è “necessaria una maggiore apertura verso il prossimo in difficoltà”, riferendosi ai dati di un sondaggio secondo cui solo il quattro per cento dei polacchi è “decisamente favorevole” all’accoglienza dei profughi provenienti dal Medio Oriente.

Lo studio, dell’istituto polacco Cbos (Centro di analisi dell’opinione pubblica), indicava una costante crescita della porzione della popolazione, fino al 74 per cento, contraria alla ricollocazione dei profughi, secondo le quote previste dall’Unione in Polonia. Da dicembre del 2015 ad oggi il numero di polacchi che rifiutano gli immigrati mediorientali e africani supera stabilmente i favorevoli all’accoglienza. Tuttavia, il 55 per cento della popolazione polacca accetterebbe i profughi ucraini senza distinzioni di fede o di etnia. Monsignor Zadarko aveva detto di essere “profondamente rattristato”. E’ la stessa amarezza che si coglie nelle parole del Papa, che invece sostiene che “riconoscere e servire il Signore in questi membri del suo ‘popolo in cammino’ è una responsabilità che accomuna tutte le Chiese particolari nella profusione di un impegno costante, coordinato ed efficace”.

Beroglio ha denunciato anche una “sostanziale impreparazione delle società ospitanti e da politiche nazionali e comunitarie spesso inadeguate”. E ha aggiunto anche una critica ai “limiti dei processi di unificazione europea” e agli “ostacoli con cui si deve confrontare l’applicazione concreta della universalità dei diritti umani, dei muri contro cui si infrange l’umanesimo integrale che costituisce uno dei frutti più belli della civiltà europea”.

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