san Romero schierato “dalla parte degli sconfitti”

Oscar Romero

l’opzione per i poveri

da Altranarrazione

Ho avuto paura. Ho passato tutta la notte pensando che una pallottola avrebbe ben potuto attraversare la porta o le finestre” (1), confidava Monsignor Romero, ai suoi amici. Parole come queste certificano, qualora ce ne fosse bisogno, la sua santità.

Ha messo, con tutti i limiti, la sua umanità a servizio del Regno di Dio e quindi della causa degli oppressi. E noi contempliamo questa disponibilità ed i gesti profetici compiuti con il supporto della Grazia.

Radicale e fermo nell’esercizio del suo ministero, fragile nel privato, anche a causa dell’isolamento subito e delle calunnie messe in circolo dai suoi innumerevoli oppositori.

Pur attentissimo al valore dell’unità della Chiesa, quando si trattava di scegliere tra un accordo di facciata con le gerarchie locali e romane -penalizzante per le istanze degli ultimi- e l’appoggio alle sacrosante -ma conflittuali- rivendicazioni di giustizia sociale, non arretrava, scegliendo la seconda opzione.

Turbato per le divisioni, ma deciso nel far prevalere le dinamiche evangeliche sui posizionamenti opportunistici della diplomazia. E noi contempliamo la predilezione conflittuale di Romero per i poveri, ricordando le parole del Signore: «Non sono venuto a portare pace, ma una spada» (2).

Infatti, l’annuncio della buona novella è da portare urgentemente, scavalcando, se necessario, le tattiche della burocrazia, combattendo, se necessario, l’imborghesimento, o  la collusione con i tiranni, di quei pastori con la vocazione dei funzionari. Romero era un uomo di preghiera, con una profonda spiritualità.

E proprio la preghiera, insieme alla testimonianza di persone come p. Rutilio Grande, l’hanno portato a schierarsi dalla parte degli sconfitti, la stessa di Cristo, non la cultura del tempo, non la formazione ricevuta, non l’ideologia.

«Il mondo dei poveri, le cui caratteristiche sociali e politiche sono assai concrete, ci mostra dove la Chiesa debba incarnarsi per evitare quel falso universalismo che si conclude sempre in connivenza con i potenti» (3),

dichiarava pochi giorni prima di essere ucciso.

E noi ti ringraziamo, fratello Oscar, per averci ricordato la strada.

(1) Citazioni di O. Romero in Roberto Morozzo della Rocca, Oscar Romero. La biografia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo  (Mi) 2015, p. 245

(2) Vangelo di Matteo 10,34

(3) Oscar Romero, La dimensione politica della fede, Università Cattolica di Lovanio, 2/2/1980 in La voce di Monsignor Romero. Testi e omelie, traduzione di Teodora Tosatti, Borla, Roma 2007, p. 155

testimoni

cinquanta anni di ‘opzione per i poveri’

Medellín, 50 anni dopo. L’opzione per i poveri declinata al futuro

Medellín, 50 anni dopo

l’opzione per i poveri declinata al futuro

tratto da: Adista Documenti n° 32 del 22/09/2018
«Simbolo della memoria fondante della Chiesa latinoamericana», secondo le parole del teologo brasiliano Luiz Carlos Susin, Medellín resta un’insostituibile fonte di ispirazione per il presente. È in quest’ottica che l’ultimo numero di Voices – la rivista di teologia dell’Associazione ecumenica di teologi e teologhe del Terzo Mondo (Eatwot o Asett) – celebra il cinquantesimo anniversario della II Conferenza episcopale latinoamericana, svoltasi nella città colombiana di Medellín nel 1968, l’anno delle utopie per eccellenza, l’anno di Praga, di Parigi e di Woodstock.

E se è a Medellín che, secondo le parole del teologo spagnolo José María Vigil, ha avuto inizio, intorno all’opzione per i poveri, «tutta la spiritualità della liberazione» (la Chiesa dei poveri, la teologia della liberazione, la cristologia della liberazione), dopo 50 anni – si chiede Susin nell’introduzione –, in tempi segnati dallo strapotere del mercato e del capitalismo finanziario, dalla disuguaglianza crescente e dalla minaccia globale agli ecosistemi planetari, «dove stiamo andando? Qual è la memoria e l’interpretazione del cammino percorso? E qual è il futuro, tenendo conto dei nuovi contesti e degli eventi post-Medellín»? È a questi interrogativi che cercano di rispondere gli autori del numero, a partire dai tre punti che meglio riassumono lo spirito della Conferenza: l’onestà dello sguardo verso la durissima realtà dei popoli latinoamericani, l’opzione per i poveri e la liberazione «come principio e cammino dell’evangelizzazione e della pace attraverso la giustizia».

Se, a giudizio del teologo brasiliano Carlos Alberto Motta Cunha e di Geraldo Luiz De Mori, rettore della Facoltà gesuita di Teologia e Filosofia di Belo Horizonte, la scoperta «della forza storica e teologale dei poveri è, senza dubbio, la principale eredità della Conferenza di Medellín, quella che le conferisce un posto unico nella storia del cristianesimo», il suo spirito è «un soffio di rinnovamento nella lotta profetica per il riconoscimento dei diritti delle “vittime della storia”, come direbbe Jon Sobrino». E i suoi frutti alimentano il lavoro teologico del presente, testimoniando «la natura sovversiva dell’evento Gesù Cristo di fronte ai poteri egemonici». Del resto, sono proprio «Gesù e i poveri», a cui, come evidenzia la teologa guatemalteca Geraldina Céspedes, papa Francesco invita costantemente a tornare, «le due ali imprescindibili affinché la Chiesa possa spiccare il volo del rinnovamento». E non è certo una novità, considerando come, ogni volta che nel corso della storia la Chiesa ha voluto rinnovarsi, abbia «dovuto fare questo doppio movimento: tornare a Gesù e tornare ai poveri». Medellín, insomma, prosegue Céspedes, ha indicato in maniera chiara «quale sia il cammino da seguire e quale sia il quadro non negoziabile all’interno del quale realizzare qualunque rinnovamento ecclesiale»: «Questo orizzonte della liberazione e dell’opzione per i poveri si costituisce oggi nel termometro che ci aiuta a misurare lo “stato di salute” delle distinte teologie che sono germogliate in America Latina e nel mondo».

Se tuttavia, in questi 50 anni, la teologia e la spiritualità della liberazione si sono dovute confrontare, come ricorda ancora José María Vigil, «con l’evoluzione costante del pensiero, con le sue rivoluzioni scientiche o cambiamenti di paradigma», l’opzione per i poveri, pur mantenendo inalterato il suo valore, «non potrà più fondarsi sulle stesse narrative bibliche né potrà essere espressa e giustificata sulle stesse basi». Continuare a pensare a una teologia e a una spiritualità liberatrici come quelle originali degli anni ’80 del secolo passato, sarebbe infatti, «oltre che un anacronismo», nient’altro che un suicidio: «finirebbero, ormai irrilevanti, nelle biblioteche».

E allora, conclude Vigil, «come nella vita, molte volte, per restare fedeli a se stessi bisogna saper cambiare, così, per preservare la fedeltà allo spirito genuino di Medellín non basta più attenersi ai suoi documenti, ma è necessario assumere i nuovi paradigmi che da allora sono emersi»

50 anni di storia spirituale con l’opzione per i poveri
José Maria Vigil 

«Simbolo della memoria fondante della Chiesa latinoamericana», secondo le parole del teologo brasiliano Luiz Carlos Susin, Medellín resta un’insostituibile fonte di ispirazione per il presente. È in quest’ottica che l’ultimo numero di Voices – la rivista di teologia dell’Associazione ecumenica di teologi e teologhe del Terzo Mondo (Eatwot o Asett) – celebra il cinquantesimo anniversario della II Conferenza episcopale latinoamericana, svoltasi nella città colombiana di Medellín nel 1968, l’anno delle utopie per eccellenza, l’anno di Praga, di Parigi e di Woodstock.

E se è a Medellín che, secondo le parole del teologo spagnolo José María Vigil, ha avuto inizio, intorno all’opzione per i poveri, «tutta la spiritualità della liberazione» (la Chiesa dei poveri, la teologia della liberazione, la cristologia della liberazione), dopo 50 anni – si chiede Susin nell’introduzione –, in tempi segnati dallo strapotere del mercato e del capitalismo finanziario, dalla disuguaglianza crescente e dalla minaccia globale agli ecosistemi planetari, «dove stiamo andando? Qual è la memoria e l’interpretazione del cammino percorso? E qual è il futuro, tenendo conto dei nuovi contesti e degli eventi post-Medellín»? È a questi interrogativi che cercano di rispondere gli autori del numero, a partire dai tre punti che meglio riassumono lo spirito della Conferenza: l’onestà dello sguardo verso la durissima realtà dei popoli latinoamericani, l’opzione per i poveri e la liberazione «come principio e cammino dell’evangelizzazione e della pace attraverso la giustizia».

Se, a giudizio del teologo brasiliano Carlos Alberto Motta Cunha e di Geraldo Luiz De Mori, rettore della Facoltà gesuita di Teologia e Filosofia di Belo Horizonte, la scoperta «della forza storica e teologale dei poveri è, senza dubbio, la principale eredità della Conferenza di Medellín, quella che le conferisce un posto unico nella storia del cristianesimo», il suo spirito è «un soffio di rinnovamento nella lotta profetica per il riconoscimento dei diritti delle “vittime della storia”, come direbbe Jon Sobrino». E i suoi frutti alimentano il lavoro teologico del presente, testimoniando «la natura sovversiva dell’evento Gesù Cristo di fronte ai poteri egemonici». Del resto, sono proprio «Gesù e i poveri», a cui, come evidenzia la teologa guatemalteca Geraldina Céspedes, papa Francesco invita costantemente a tornare, «le due ali imprescindibili affinché la Chiesa possa spiccare il volo del rinnovamento». E non è certo una novità, considerando come, ogni volta che nel corso della storia la Chiesa ha voluto rinnovarsi, abbia «dovuto fare questo doppio movimento: tornare a Gesù e tornare ai poveri». Medellín, insomma, prosegue Céspedes, ha indicato in maniera chiara «quale sia il cammino da seguire e quale sia il quadro non negoziabile all’interno del quale realizzare qualunque rinnovamento ecclesiale»: «Questo orizzonte della liberazione e dell’opzione per i poveri si costituisce oggi nel termometro che ci aiuta a misurare lo “stato di salute” delle distinte teologie che sono germogliate in America Latina e nel mondo».

Se tuttavia, in questi 50 anni, la teologia e la spiritualità della liberazione si sono dovute confrontare, come ricorda ancora José María Vigil, «con l’evoluzione costante del pensiero, con le sue rivoluzioni scientiche o cambiamenti di paradigma», l’opzione per i poveri, pur mantenendo inalterato il suo valore, «non potrà più fondarsi sulle stesse narrative bibliche né potrà essere espressa e giustificata sulle stesse basi». Continuare a pensare a una teologia e a una spiritualità liberatrici come quelle originali degli anni ’80 del secolo passato, sarebbe infatti, «oltre che un anacronismo», nient’altro che un suicidio: «finirebbero, ormai irrilevanti, nelle biblioteche».

E allora, conclude Vigil, «come nella vita, molte volte, per restare fedeli a se stessi bisogna saper cambiare, così, per preservare la fedeltà allo spirito genuino di Medellín non basta più attenersi ai suoi documenti, ma è necessario assumere i nuovi paradigmi che da allora sono emersi»

Medellín è stata l’origine e la culla dell’opzione per i poveri (OP), per quanto l’espressione non comparisse nel testo. In qualche modo, lì, a Medellín, intorno alla OP, ebbe inizio tutta la spiritualità della liberazione (SdL): la Chiesa dei poveri, la teologia della liberazione (TdL), la cristologia della liberazione… È lì che iniziò tutto. In materia di presa di coscienza, di mobilitazione e di coscientizzazione ecclesiale popolare, il Concilio Vaticano II, in America Latina, mobilitò meno, in realtà, della Conferenza di Medellín. Sono passati 50 anni, tutta una vita. Quanti di noi erano all’epoca ancora giovani e hanno potuto averne una conoscenza sufficiente, oggi hanno circa 70 anni e si trovano in una posizione privilegiata per offrire la migliore testimonianza su Medellín e sulla spiritualità dell’OP, che ne è stato il frutto principale. È stata una storia appassionante.

Ogni riflessione teologica autentica non può non avere una dimensione autobiografica e questa revisione dei “50 anni di storia spirituale con l’opzione per i poveri” non pretende di nasconderla.

Medellín è prima di tutto l’OP

(…). Nel ricordare Medellín, vogliamo soffermarci su quella che è stata la sua eredità teologica e mistica più importante. In effetti, la OP ha trasformato la nostra coscienza e il nostro sguardo: con questa nuova coscienza abbiamo scoperto il «luogo sociale» (Julio Lois, Cristología, in Mysterium Liberationis I, 225-227): il luogo da cui si guarda al mondo e lo si interpreta (…).

Molti di noi eravamo appena stati svezzati dal Concilio Vaticano II, che ci aveva aperto gli occhi sull’urgente superamento della Chiesa di cristianità – sembrava impossibile dopo tanti secoli! –: la fine di una Chiesa alleata con il potere (…). Accettare il pensiero del Concilio su questa materia era quasi come rinnegare di colpo la maggior parte della storia che conoscevamo della Chiesa.

Il Concilio ci avrebbe aperto gli occhi sui “diritti del primo illuminismo”: la libertà di coscienza, la libertà politica, la libertà di espressione e di riunione, la libertà religiosa, l’imprescindibilità della democrazia, la fine dell’Ancien Régime… La nostra è stata realmente la generazione che, sulla scia del Concilio Vaticano II, ha lasciato il mondo in cui era nata per fare il salto in una società nuova. Siamo passati a vedere il mondo per la prima volta con occhi politici critici. Era la scoperta che tutto ha una “dimensione politica”, che tutto, anche la sfera spirituale, incide sulla costruzione della polis. «Che tutto è politico, anche se il politico non è tutto», come diceva Emmanuel Mounier. Con la famosa poesia di Bertold Brech sull’analfabetismo politico, tutti noi che studiavamo teologia in quel tempo ci disalfabetizzammo da quella incosciente pretesa di neutralità politica della religione.

Ed entrando nel continente del politico cominciammo a capire con chiarezza che si trattava di “optare”. Che si trattava di un continente conflittuale, “dialettico”, come si diceva allora, e che non c’erano mezze tinte né neutralità possibile. Già vedevamo tutto con altri occhi, quelli del “Vedere” della pedagogia della liberazione freiriana, la quale ci aveva fatto superare la visione “funzionalista” della società (secondo cui tutto avrebbe funzionato perfettamente, come un organismo, con l’esistenza di elementi poveri e di elementi ricchi ma gli uni e gli altri impegnati a “cooperare inesorabilmente” al bene dell’insieme, cosicché persino la povertà era buona ed esercitava un suo ruolo). La nuova visione socio-critica ci aveva tolto la benda dagli occhi: non credevamo più che tutto cooperasse per il bene, ma riconoscevamo che esisteva il male: che c’erano poveri e ricchi, e, ancor più, che «c’erano poveri perché c’erano ricchi», come più tardi sarebbe arrivato a riconoscere lo stesso Giovanni Paolo II.

A partire da questa trasformazione di coscienza sul semplice piano della visione dialettica, non c’era più neutralità possibile: bisognava porsi da un lato o dall’altro del muro, bisognava fare un’opzione. Ecco la parola, emersa non dai dibattiti teologici, ma dalle discussioni sulle analisi della realtà: schierarsi dalla parte degli oppressi o dalla parte dell’oppressione. La parola “opzione” emerse dal discorso dei militanti cristiani popolari, per le strade. L’urgenza della realtà obbligava a optare: (…) a definire la direzione della propria vita dinanzi alla biforcazione del cammino in cui quella congiuntura ci aveva posto. Era la fine dell’incoscienza e dell’ingenua neutralità. Ossia, il contrario di ciò che gli autori del documento di Puebla sarebbero venuti a mistificare, seminando confusione nel passare a parlare della OP come di un’“opzione preferenziale” (una semplice questione di “precedenza”, di “preferenza”, una specie di richiamo all’attenzione per capire di chi occuparsi prima, se i poveri o i ricchi, dando per scontato che ci occuperemo di tutti, e di tutti allo stesso modo, senza alcuna differenza o discriminazione). A questo vollero ridurre a Puebla la OP di Medellín.

Ma nella SdL derivata da Medellín avevamo chiaramente compreso come la OP fosse, nettamente, una questione di giustizia. Non si tratta di una questione di semplice “gratuità” di Dio (…), né ha a che fare con un qualsiasi altro argomento teologico slegato dalla giustizia. Né la “gratuità di Dio”, né la tenerezza di Dio dinanzi all’“insignificanza del Povero”, né alcun altro argomento biblico-letterario possono dar conto dell’essenza della OP, che è un’“Opzione per i senza giustizia” (…).

Nei primi anni dopo Medellín, ovviamente, non c’era ancora un discernimento dettagliato sul concetto di “poveri”. I poveri erano semplicemente i “poveri” a cui si riferisce il dizionario e la povertà la situazione ingiusta a causa della quale una persona non può contare sui mezzi minimi di sussistenza che la sua dignità esige. Stavamo iniziando. E fu sufficiente lasciar scorrere il tempo perché nel concetto iniziale di “povero” scoprissimo rapidamente in tutto il continente e in tutti i versanti teologici i “nuovi soggetti emergenti”: la donna doppiamente sfruttata, in quanto povera e in quanto donna; l’indio disprezzato culturalmente; i neri come popolo emarginato; chi è rifiutato per il proprio orientamento sessuale… (…).

Il conflitto civile e l’involuzione ecclesiale

Molti di noi nati nella Chiesa di Pio XII fummo trasformati dal Vaticano II e da Medellín in uomini e donne nuovi, persone interamente rinnovate tanto nel pensiero come nella mistica: senza timore di dare la vita, incarnati nelle realtà più difficili, nel solco stesso della vita dei poveri, disposti a vivere e a morire tra loro (…). Questo nuovo esercito di seguaci di Gesù a partire dalla SdL non poteva non ricevere una risposta dai poteri di questo mondo. L’allarme lanciato dal rapporto Rockefeller lo evidenziò senza pudore: «Se la Chiesa applica i principi di Medellín, attenta contro gli interessi nordamericani e in generale capitalisti». E così iniziò la guerra “totale” scatenata contro la Chiesa di Medellín: le dittature militari, la repressione, la persecuzione contro i movimenti popolari e tutti i simpatizzanti delle cause e dei diritti del popolo, l’operazione Condor, la massiccia repressione in Guatemala… Gli storici possono riportare dettagliatamente la serie di testimoni del nostro interminabile martirologio latinoamericano. Il loro sangue ci accompagna e ci sostiene, con San Romero d’America in testa.

Il conflitto civile venne accompagnato dall’involuzione ecclesiastica, che, sul piano spirituale, rappresentò una difficoltà molto più dura, in quanto appariva semplicemente blasfema: che un papa come il polacco Karol Wojtyla prendesse posizione senza esitazioni contro la ribellione di tutto un popolo che insorgeva contro una lunga dittatura e contro il capitalismo selvaggio imposto dagli Stati Uniti, come era il caso dei Paesi centroamericani a partire dal Nicaragua e da El Salvador, non era concepibile nella prospettiva di fede dei più semplici ma già coscientizzati figli fedeli della Chiesa: non lo intendevamo che come un mistero, ma un mistero al rovescio, ossia un mysterium iniquitatis (…).

Che egli screditasse e combattesse le comunità popolari di base (!), o maltrattasse direttamente mons. Romero, secondo la testimonianza di prima mano di María López Vigil, era per molti/e di noi, teologi, operatori di pastorale e comunità di base, uno scandalo per la fede dei piccoli, tale da indurre molte persone e comunità credenti ad abbandonare per sempre la fede nella Chiesa istituzionale. (…).

Le analisi tracciate erano innumerevoli e convergenti, a partire dal «ritorno alla grande disciplina (Libânio), dal «pontificato della paura» (González Faus), dal «disfacimento utopico della postmodernità» (José María Mardones), dalla «restaurazione» (Zizola)… (…).

Ciò vuol dire che la SdL e la TdL derivanti da Medellín dovettero attraversare un tempo e un ambiente di segno culturale opposto, anche all’interno della Chiesa. (…).

Per semplificare (…), si potrebbe dire che il grande cambiamento, l’inizio del fallimento storico-politico delle cause della sinistra (…), iniziò nel 1989 con la caduta del muro di Berlino e in pochi anni si completò in Centroamerica con la sconfitta democratica elettorale (1990) del Nicaragua rivoluzionario militarmente aggredito e il fallimento di altri processi rivoluzionari centroamericani (El Salvador, Guatemala). In non più di tre anni ci trovammo in un orizzonte sociopolitico in cui l’egemonia capitalista proclamava la fine della storia, con l’avallo della dottrina pontificia di Giovanni Paolo II, attraverso la sua Centesimus Annus, l’enciclica pontificia più incline al capitalismo che sia mai stata scritta, in cui le sottolineature critiche, pur presenti, appaiono piuttosto risorse retoriche per smorzare l’entusiasmo per la caduta del socialismo reale. La fine del socialismo nella Polonia di Giovanni Paolo II fu unanimemente considerata quasi un suo trionfo personale, che si intendeva estendere ben presto a Cuba con le militanti visite papali. (…).

Nel 1968 l’egemonia politica emergente e più rilevante in America Latina era stata quella delle masse popolari che prendevano coscienza del loro stato di oppressione e rivendicavano per tutto il Continente un cambiamento delle strutture socioeconomiche: quello che la stessa Populorum Progressio aveva riconosciuto come un «clamore che si alzava fino al cielo», arrivando a suggerire che in alcuni momenti la situazione di ingiustizia avrebbe potuto in presenza di determinate condizioni giustificare la rivoluzione. Eravamo ora (…) agli antipodi del clima culturale e politico che regnava al tempo della Conferenza di Medellín. E in tutto questo la cosa più grave è che ciò è potuto avvenire all’interno dell’ambito ecclesiastico e soprattutto gerarchico: che per 26 anni sono stati scelti vescovi di mentalità opposta a Medellín, all’opzione per i poveri, alla teologia e alla spiritualità della liberazione (…), in buone relazioni con il capitale e con la destra. (…).

Esperienze mistiche nella Spiritualità della Liberazione

Non possiamo non riconoscere che, insieme a questi contrattempi e a queste persecuzioni, abbiamo anche vissuto esperienze autenticamente mistiche, come quelle di alcuni compagni che si impegnarono ad accompagnare pastoralmente il popolo ribelle insorto in armi o di altri che rinunciarono definitivamente alla patria (e alla famiglia) per accompagnare in maniera definitiva un popolo oppresso dalla guerra alimentata dalla maggiore potenza del continente. O come quella di chi fu costretto ad abbandonare la congregazione religiosa (…) per non rinunciare all’impegno politico per i poveri in mezzo all’insurrezione contro la dittatura somozista: Roma dixit. (…).

Quante volte abbiamo reso grazie a Dio per quegli anni condivisi nell’oscurità, facendo affidamento solo sulla fede, gli anni più difficili e al tempo stesso più felici della nostra vita, in cui ci siamo abbandonati solo a Dio, (…), sostenuti dai vibranti testi di Medellín e da tutti ciò che essi suscitavano.

Ricordo di aver detto – scritto, predicato, pubblicato – che non mi pentivo di nulla di ciò che avevo vissuto nell’obbedienza alla OP, anche in quell’obbedienza che mi aveva condotto – e come me tanti altri/e – a “disobbedire” (…) al superiore generale, il quale accettò il confronto durante tutto un venerdì santo, confermandomi che, per quanto politicamente discordasse con la mia opzione, pure ne riconosceva la qualità etica e la validità evangelica. Gliene sono ancora grato (…).

Se Dio non mi abbandona in futuro, spero di vivere e morire in questa spiritualità della liberazione per il resto dei miei giorni.

Una spiritualità sempre aperta alla sfida del cambiamento

In questi 50 anni la SdL e la TdL si sono andate autocostruendo laboriosamente, confrontandosi quotidianamente con l’evoluzione costante del pensiero, con le sue rivoluzioni scientiche o cambiamenti di paradigma. (…).

Il primo fondamento su cui si costruì – negli anni ‘70 – la spiritualità dell’opzione per i poveri fu la riscoperta del Gesù storico. Ci sembrava impossibile che (…) potessimo ora scoprire tanti aspetti e atteggiamenti che non conoscevamo di Gesù. La cristologia, la teologia e l’esperienza spirituale cambiarono radicalmente. A poco a poco ci spogliammo di quel Gesù divino prigioniero del tabernacolo, del Cristo Re disegnato a immagine e somiglianza del Giove di Roma, o del Gesù ospite dell’anima al centro della nostra preghiera abituale (…). Queste “immagini” (…) vennero meno (…) quando apparve dinanzi a noi il Gesù annunciatore dell’Utopia del Regno, che percorreva i cammini polverosi della Palestina con l’ossessione di suscitare l’entusiasmo di seguaci impegnati con la Rivoluzione del Regno, della sua Utopia; un Gesù militante, profondamente umano – così umano che solo Dio avrebbe potuto esserlo –, anti-imperialista, utopico, messianico… (…).

Furono anni decisivi ed è giusto ricordare e riconoscere che la ragione della trasformazione che ci ha condotto all’OP e alla TdL e SdL non è stato altro che il Gesù storico, la sua riscoperta, la sua sequela.

Gottwald e il Dio degli habiru-ebrei

Fu forse negli anni ‘80 che gli studi teologici e biblici garantirono il massimo del sostegno all’opzione per i poveri, ricercandone i fondamenti anche nell’Antico Testamento. Alla prospettiva del Gesù storico si aggiunse così quella dello studio storico e archeologico della storia reale dell’apparizione di Israele. Norman K. Gottwald fu, tra pochi altri, la stella più brillante in quel firmamento.

Parallelamente alla riscoperta del Gesù storico si registrava ora una riscoperta dell’Israele originale storico, il cui punto iniziale non si pensava più che fosse (…) l’esodo, ma un fenomeno sociologico un poco anteriore: la rivoluzione agrario-contadina della fine del XIII secolo a.C., quando un settore della popolazione povera e marginale, i cosiddetti habiru – parola etimologicamente legata a “ebrei” – fuggì dalle oppressive città-stato per occupare la parte alta delle montagne del centro del Paese: il luogo della nascita del popolo originale di Israele (…). Non potevamo allora immaginare la svolta che l’archeologia biblica avrebbe iniziato a intraprendere proprio negli anni immediatamente successivi.

Fine del ciclo dell’archeologia biblica

Con gli anni, questo nuovo paradigma storico-archeologico (…) avrebbe richiesto anche una riconversione della spiritualità della OP di Medellín (…). Per il primo decennio del secolo gli scienziati del nuovo paradigma archeologicobiblico davano ormai per scontato che i patriarchi, la permanenza degli ebrei in Egitto, la traversata del deserto, l’Alleanza del Sinai, la conquista della “terra promessa”, come pure la confederazione delle tribù di Israele, non avessero nulla di storico. Se non fu uno tsunami, è solo perché l’onda dell’informazione rivoluzionaria giunse poco per volta e di fatto non è ancora arrivata in molti luoghi. Molte università, gruppi, comunità non hanno ancora preso atto di questa nuova visione e ancora non hanno abbandonato la narrativa classica della maggior parte dei nostri scritti teologico- biblici sulla TdL e concretamente sulla OP (…). Dobbiamo riconoscere che su questo punto neppure possiamo dire di trovarci all’interno del processo di transizione: siamo piuttosto appena agli inizi. Vi sono ancora molti libri, congressi e testi della TdL che non sanno nulla di questa nuova visione e quanti ne sanno qualcosa preferiscono non mescolare lo spirito di Medellín con questo cambiamento di prospettiva storico-archeologica. C’è chi ritiene che pubblicare tali risultati provocherebbe un danno grave alla lettura popolare della Bibbia e alla Chiesa dei poveri. (…). Ed effettivamente, la riconversione teologica, l’accettazione ben ponderata del nuovo racconto scientifico archeologico (…), è ancora tutta da fare. (…).

Viviamo in un altro mondo. La OP mantiene tutto il suo valore, ma non potrà più fondarsi sulle stesse narrative bibliche né potrà essere espressa e giustificata sulle stesse basi.

L’incrocio con un nuovo paradigma: il pluralismo religioso

Da lontano si iniziò a vedere un altro orizzonte, che però minacciava altre coste, non le nostre: un nuovo paradigma, quello del pluralismo. Era una questione che suonava totalmente nuova. Di fatto, il primo libro sul tema venne scritto nel 1963 (Die Religionen als Thema der Theologie, Herder Verlag, Freiburg im Breisgau 1963, collana Quaestiones Disputatae, a cura di Karl Rahner ed Heinrich Schlier) e il suo argomento – la teologia delle religioni, che poi si sarebbe chiamata “teologia del pluralismo religioso” – non arrivò al Vaticano II.

L’ambiente teologico ecclesiastico era così gravato dalla persecuzione ai teologi e alle teologhe che furono pochi coloro che si presero la responsabilità di rispondere alla nuova sfida (…). Si disse: tale problematica teologica non riguarda l’America Latina; qui non ne abbiamo bisogno. Che poi non è vero, a meno di ignorare i popoli originari del nostro continente con le loro culture e le loro religioni. (…).

La OP come tale, invece, si sentì eccome toccata dalla sfida pluralista.

Famose le parole del teologo asiatico Aloysius Pieris: «L’irruzione del Terzo Mondo, con le sue esigenze di liberazione, significa anche l’irruzione del mondo non cristiano. L’immensa maggioranza dei poveri di Dio avvertono le proprie preoccupazioni esistenziali ed esprimono le proprie lotte di liberazione nel linguaggio delle religioni e delle culture non cristiane. Per questo, una teologia che non parli a, o non parli attraverso di, questa umanità con le sue religioni, è un lusso di una minoranza cristiana».

Avevamo bisogno di una TdL universale, religiosamente pluralista, che si rivolgesse a tutti i poveri del mondo. Era necessario ampliare la TdL cercando di incrociarla con la teologia del pluralismo religioso, cioè costruire una teologia delle religioni che fosse al tempo stesso (…) «una teologia pluralista delle religioni liberatrice» (Paul F. Knitter, Toward a Liberation Theology of Religions). Era un appello alla costruzione di una SdL e di una OP universali, religiosamente pluraliste, costruite su schemi e fondamenti oltre l’esclusivismo e l’inclusivismo cristiani. (…).

Come applicazione del Concilio Vaticano II all’America Latina, tanto i documenti di Medellín quanto la TdL che da Medellín derivò erano “inclusivisti”, facendo proprio il paradigma con cui il Concilio, senza clamore né parole solenni, aveva sostituito il paradigma anteriore, quell’“esclusivismo” che si era autoimposto fin dal IV secolo. Tuttavia, all’inizio degli anni ‘90 del XX secolo, la TdL mosse un passo avanti prendendo coscienza del superamento dell’inclusivismo ed elaborando esplicitamente il cosiddetto “macroecumenismo” (…) come nuova designazione per un inclusivismo aperto completamente al pluralismo del Regno, così come lo avevamo scoperto proprio nel Gesù storico: Mt 25,31ss; Lc 10,25ss; Mt 7,21; Mt 21,28-32. (…). In qualche modo, il macroecumenismo latinoamericano sarebbe stato la “teologia latinoamericana pluralista” avant la lettre.

In tal senso, settanta teologhe e teologi latinoamericani parteciparono alla riflessione teologica della serie “Per i molti cammini di Dio”, la più grande opera teologica latinoamericana fino a questo momento. Con un andamento progressivo, l’ultimo dei cinque volumi della serie guardava alla meta che Pieris aveva indicato come invito all’elaborazione di una teologia della liberazione pluralista in una prospettiva globalizzata, una teologia della liberazione che era avanzata molto rispetto a Medellín, offrendo una visione che ai tempi della Conferenza era semplicemente impossibile trovare. Come nella vita, molte volte, per restare fedeli a se stessi bisogna saper cambiare, così, per preservare la fedeltà allo spirito genuino di Medellín non basta più attenersi ai suoi documenti, ma è necessario assumere, con lo stesso spirito che animò i “padri di Medellín”, i nuovi paradigmi che da allora sono emersi. Oggi non si può più essere religiosi se non inter-religiosamente.

La spiritualità di Medellín – con la SdL al suo interno – non smette di arricchirci

(…). Vi sono non poche associazioni, pubblicazioni, congressi, incontri sulla teologia della liberazione che ne parlano, si può dire, con gli occhi degli anni ‘80: ancora legati all’inclusivismo tradizionale di un cristocentrismo assoluto, possono, sì, parlare di pluralismo, ma riferendosi alla sfera inter-culturale, non a quella religiosa, non a una prospettiva teologica aperta al riconoscimento dell’efficacia salvifica autonoma delle altre religioni. Si guardi alle dichiarazioni finali di congressi e incontri e si osservi come, pur incorporando il vocabolario relativo ai nuovi paradigmi, di fatto si eviti ogni affermazione concreta che implichi un passo in avanti.

Il paradigma dell’ecologia profonda (“integrale”)

Sarebbe impossibile riferirsi a tutti i cambiamenti di paradigma che si sono registrati e hanno investito lo spirito di Medellín, ma non possiamo evitare di richiamare quello ecologico. La TdL e la SdL di Medellín, come tutta la teologia anteriore e come praticamente tutta la tradizione cristiana, davano le spalle alla natura. Con Medellín, sotto la spinta del Concilio Vaticano II, la teologia e la spiritualità operarono il grande cambiamento: quello di smettere di guardare solo al soprannaturale (…) per volgere lo sguardo al Regno di Dio annunciato da Gesù qui sulla terra, e in primo luogo nei poveri (…).

Solo più tardi avrebbero preso coscienza della necessità di aprirsi ad altre forme di povertà e di oppressione (…), con la conseguente apparizione dei cosiddetti nuovi soggetti emergenti, autori di nuovi rami della teologia della liberazione: femminista, indigeno, nero… E fu in questa congiuntura che si registrò anche l’apertura all’Ecologia. Il libro emblematico fu Grido della Terra, grido dei poveri di Leonardo Boff, in cui venne espressa la ragione dell’inclusione dell’ecologia nella TdL: la Terra è il grande povero che richiede anch’esso di essere sanato.

La TdL non ha avuto grosse difficoltà ad accettare la Terra come una grande causa per cui lottare; da questo punto di vista non ci sono stati problemi. L’accettazione generalizzata dell’enciclica Laudato si’ ne è la prova. Un importante consigliere di vescovi latinoamericani mi diceva: in generale i nostri vescovi non hanno alcun problema ad accettare il tema ecologico; subito lo aggiungono «come un’appendice» al loro piano di pastorale. Accettiamo la problematica ambientale della Terra come un ulteriore problema dei poveri, della grande Povera, in questo caso. E tanto più lo hanno fatto i seguaci della TdL di Medellín, introducendo l’ecologia nella propria prospettiva, senza alcuna resistenza. Ma questa assunzione dell’ecologia come appendice degli impegni liberatori della nostra prassi pastorale non comporta, in realtà, alcun cambiamento di paradigma; non significa l’accettazione del paradigma ecologico, o ecocentrico, o eco-centrato. (…). Il paradigma di base di questa TdL, per quanto rinnovata possa apparire, continua spesso a essere quello vecchio: è una TdL teocentrica, cristocentrica e antropocentrica. In questa tessitura, la dimensione ecologica non è altro che un campo di azione in più, un’appendice o una verniciatura che non tocca in nulla le strutture del paradigma. Tuttavia, la visione ecologica ha operato il salto verso un autentico paradigma con il movimento dell’ecologia profonda degli scandinavi Arne Naes e George Sessions: non si tratta di far posto all’ecologia, ma di ecocentrare tutto. È possibile una teologia il cui paradigma centrale sia oiko-centrico, ossia che colga e ordini tutto a partire dalla realtà cosmica intesa come nostro oikos, la nostra Casa comune? (…).

Adottare il paradigma ecologico profondo implica recuperare la nostra vera “storia sacra” (la storia cosmica di 13.730 milioni di anni, senza limitarla ai 3.500 anni della storia biblica), abbandonare l’antropocentrismo, il bibliocentrismo (tornare al “primo libro scritto da Dio”, superando la nostra tendenza a rinchiuderci nel “secondo”), il teocentrismo (compreso lo stesso teismo). (…).

Il passaggio a un paradigma ecologico profondo è in marcia, in costruzione, e bisogna riconoscere che vi sono gruppi minoritari che già hanno colto questo movimento. E benché neppure il campo ecclesiale della teologia lo lasci intravedere nelle sue attuali pubblicazioni, non ci sono dubbi che, per quanti vogliano “arrivare fino alla fine”, un’altra TdL e un’altra SdL siano possibili e che forse saranno le uniche a consentirci di superare la crisi che viene.

Conclusione

Sono oggi in costruzione altri paradigmi rispetto a quelli a cui abbiamo accennato in questa piccola storia della teologia e della spiritualità derivate da Medellín. Il momento fondante continua a essere quello, Medellín, non ce ne è stato un altro in questo mezzo secolo ormai trascorso. Ma paradigmi co-fondanti o ri-fondanti hanno continuato a sorgere e ad andare incontro alla TdL e alla SdL più e più volte. Non abbiamo parlato del paradigma olistico (un solo piano della realtà, non due), del paradigma femminista (che molte/i uniscono a quello ecologico), del paradigma post-teista, del paradigma post-religionale, del nuovo paradigma epistemologico… Viviamo in un tempo che molti definiscono come un nuovo “tempo assiale”, sostenendo che quasi tutti i fondamenti teorico-paradigmatici di un’epoca millenaria si stanno estinguendo, senza che quelli nuovi appaiano spontaneamente già pronti all’uso. La TdL e la SdL non potranno sussistere se non affronteranno con coraggio tutti questi cambiamenti di paradigma. Continuare a pensare a una TdL e a una SdL “pure”, come quelle originali degli anni ‘80 del secolo passato, oltre che un anacronismo, non sarà altro che un suicidio: queste TdL e SdL pure finirebbero, ormai irrilevanti, nelle biblioteche. La tentazione continua a essere quella di guardare indietro e trasformare in una statua di sale, in un monumento, la Conferenza di Medellín. La celebrazione dei 50 anni in questo 2018 deve avvenire guardando in avanti, non solo verso il passato.

l’opzione per i poveri vero segno di sequela di Cristo

conversione

 

La scelta dei poveri non rappresenta una delle tante sensibilità del cristiano ma è il segno concreto ed inequivocabile della conversione. Se non scegliamo i poveri significa semplicemente che Dio deve ancora fare irruzione nella nostra vita. Magari abbiamo sentito parlare di Lui ma senza farne esperienza(1)

C’è scritto nel Vangelo e nel resto della Sacra Scrittura, ma noi non leggiamo né il Vangelo né il resto della Sacra Scrittura(2). Ci accontentiamo del foglietto della domenica e delle interpretazioni disincarnate, asettiche, di routine spendibili in tutte le epoche storiche ed in ogni luogo della terra. Per comprendere la nostra relazione con Dio ci affidiamo ai professionisti spirituali come ci si affida al commercialista per le pratiche fiscali a all’avvocato per le fondamentali questioni condominiali: tipo il colore degli zerbini. Certo li scegliamo accuratamente gli esperti cioè ci rivolgiamo a quelli in grado di raggiungere i nostri obiettivi: pagare meno tasse possibile, imporre qualcosa agli altri condòmini e continuare a servire Mammona da cattolici praticanti. È una delega in bianco: siamo disposti a pagare qualsiasi compenso od elemosina purché collaborino alla nostra scalata sociale. Evitiamo accuratamente quelli che ci parlano di coscienza sociale, di responsabilità, di condivisione dei beni materiali con gli ultimi sia innocenti sia colpevoli. Meglio quelli che giustificano l’accumulo e il consumismo purché sia fatto per la propria famigliola. I profeti infatti infastidiscono, rompono l’inconfessabile idillio tra trono e altare. Utilizzano un linguaggio duro, scorretto(3) per chi opprime direttamente o collaborando ma non lo ammette. Occorre attendere che muoiano (naturalmente o meno), poi far passare un po’ di tempo per disinnescare la potenzialità sovversiva del loro messaggio e recuperarli, in una fase storica successiva, alla narrazione funzionale alle strutture e relative gerarchie. Ecco perché di solito i profeti subiscono una doppia violenza: in vita (fisica o psicologica) e nella memoria (strumentalizzando e standardizzando la testimonianza). Due esempi per tutti: Oscar Romero e Don Milani.

(1) “Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono” (Giobbe 42,5)

(2)“A chi dunque paragonerò gli uomini di questa generazione, a chi sono simili? Sono simili a quei bambini che stando in piazza gridano gli uni agli altri: Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato; vi abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!” (Vangelo di Luca 7, 31-32)

(3) Ci vuole una parola dura ,affilata, che spezzi e ferisca, cioè una parola concreta[…] La famiglia cristiana dell’operaio e del contadino ha bisogno di un prete povero, giusto, onesto, distaccato dal danaro e dalla potenza, dal Governo, capace di dir pane al pane senza prudenza, senza educazione, senza pietà, senza tatto, senza politica, così come sapevano fare i profeti o Giovanni il Battista.
(Don Lorenzo Milani, Lettere di Don Lorenzo Milani, Priore di Barbiana, a cura di Michele Gesualdi, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo-Milano 2007, p.103)

da ‘altranarrazione’

fede e opzione per i poveri

papa Francesco

la fede è tangibile se si concretizza in servizio ai poveri

lo afferma in udienza alla delegazione del Consiglio Metodista mondiale
«Siamo fratelli che, dopo un lungo distacco, sono felici di ritrovarsi e di riscoprirsi a vicenda»
«La fede diventa tangibile soprattutto quando si concretizza nell’amore, in particolare nel servizio ai poveri e agli emarginati»
Lo ha detto il Papa ricevendo in udienza il Consiglio Metodista mondiale. «Quando, Cattolici e Metodisti, accompagniamo e solleviamo insieme i deboli e gli emarginati, coloro che, pur abitando le nostre società, si sentono lontani, stranieri, estranei, rispondiamo all’invito del Signore», ha sottolineato il Papa.  

Parlando del cammino tra metodisti e cattolici, il Papa ha messo in evidenza: «Il dialogo vero incoraggia continuamente a incontrarci con umiltà e sincerità, desiderosi di imparare gli uni dagli altri, senza irenismi e senza infingimenti. Siamo fratelli che, dopo un lungo distacco, sono felici di ritrovarsi e di riscoprirsi a vicenda, di camminare insieme, aprendo con generosità il cuore all’altro. Così proseguiamo, sapendo che questo cammino è benedetto dal Signore: per Lui è iniziato e a Lui è diretto».

la chiesa e l’opzione per i poveri

 

 

l’opzione per i poveri è opzione per la giustizia,
e non è preferenziale
per un nuovo inquadramento teologico-sistematico dell’opzione per i poveri

una bella riflessione di José María VIGIL

Vigil


 

Situazione della questione

Abbiamo sempre detto che la OP ha fondamento in Dio stesso, nell’essere di Dio, e che ha pertanto natura “teocentrica”[1]: in certo modo possiamo dire che Dio stesso fa opzione per i poveri, Dio “è” opzione per i poveri. Ed aveva un consenso universalmente sentito che questa OP si basasse precisamente sull’Amore-Giustizia del Dio biblico e cristiano[2].

Tuttavia, con l’avvenimento della “crisi della Teologia della Liberazione (TL)”, alcuni autori ammorbidirono il loro discorso sulla OP, preferendo abbandonare la prospettiva dell’Amore-Giustizia[3] e sostituendola quasi completamente per quella della “gratuità” di Dio come fondamento della OP. In questa nuova impostazione, Dio, semplicemente “preferisce” i poveri, ha una “debolezza” misericordiosa, una “tenerezza” incontenibile verso di loro, e per questo fatto non dovremmo cercare molte ragioni, essenzialmente per il fatto di essere “gratuito”.

La OP risulterebbe essere una specie di capriccio di Dio, verso i “piccoli, i deboli, gli insignificanti”.

Questi sarebbero coloro di cui oggi dovremmo parlare, e non più dei “poveri” nel senso forte [4] del discorso classico, che oggi sarebbe già sorpassato. La teologia stessa della OP dovrebbe svincolarsi dal tema forte della Giustizia ed essere aggiudicata al tema gradevole della gratuità.

La mia tesi è che questo spostamento o scivolamento dell’accento dalla Giustizia verso la Gratuità di Dio come fondamento della OP deteriora e alla fine malversa detta opzione – coscientemente o incoscientemente – fino a convertirla in una semplice “preferenza”, in un “amore preferenziale”, una semplice priorità di ordine nella carità[5], smettendo di essere una vera “opzione”, una presa di posizione disgiuntiva ed escludente, come una opzione fondamentale, fondata per noi nella natura stessa di Dio.

Non nego che abbia qualche senso affermare che “Dio ha una preferenza gratuita per i piccoli e i deboli”; però sostengo che questa “preferenza” non può essere identificata in modo preciso con la OP, né molto meno può essere posta come fondamento della stessa. Confondere la OP con questa “preferenza di Dio verso i piccoli e i deboli”, o con il cosiddetto “amore preferenziale per i poveri”, e applicare a questo lo stesso nome di OP, significa essere vittima della confusione, o cedere davanti alla strategia di chi ha tentato di dare un nuovo significato e occupare il termine OP per spogliarlo del suo proprio contenuto. La OP originale e classica latinoamericana, quella tipica della teologia e della spiritualità della liberazione, la OP per la quale morirono i/le nostri/e martiri/e, e che anche noi consideriamo “decisiva e irrevocabile”, è altra cosa, e deve essere distinta da qualsiasi succedaneo. Una fedeltà coraggiosa e lucida deve rifiutare coscientemente ed esplicitamente questo preteso fondamento della OP nella “gratuità” di Dio. E’ questo che voglio aiutare a chiarire. Per questo, niente di meglio che tentare di inquadrare di nuovo, sistematicamente, la natura stessa della OP.

 

Prima tesi: In senso stretto, Dio ama senza preferenze né discriminazioni

Affermare il contrario sarebbe, in buona parte, un antropomorfismo.

Dio vuole bene e ama tutti/e come uguali, con un amore molto peculiare per ogni persona, e contemporaneamente infinito, tanto che questo amore non ha possibilità di essere quantificato né comparato. Ogni persona può sentirsi amata infinitamente da Dio, e nessuno deve sentirsi “preferito” o discriminato né positivamente né negativamente. Non è possibile parlare seriamente di “amori preferenziali” da parte di Dio rispetto ad alcuni essere umani in confronto ad altri. Lo esige la suprema dignità della persona umana e la equanimità infinita di Dio. E tutto quello che si allontana da questo può solo costituire forme inadeguate di parlare, “troppo umane”, antropomorfismi.

Dio non fa parzializzazioni né “accezioni di persone”. Non le ha per motivi di razza, né di colore, genere o cultura… Dio ama tutte le sue creature, con amore realmente “non quantificabile e incomparabile”, nel quale non entrano preferenze né discriminazioni.

 

Seconda tesi: Dio opta per la Giustizia, non preferenzialmente, ma piuttosto alternativamente e in modo escludente

C’è tuttavia un campo nel quale Dio è necessariamente radicale e inflessibilmente parziale: il campo della giustizia. Qui Dio si colloca dalla parte della giustizia e contro la ingiustizia, senza nessuna concessione, senza nessuna “neutralità”, e senza semplici “preferenze”: Dio è contro l’ingiustizia e si pone dalla parte di chi è “senza giustizia”, delle vittime dell’ingiustizia. Dio non fa né può fare una “opzione preferenziale per la giustizia”[6]: piuttosto opta per essa posizionandosi radicalmente contro l’ingiustizia e abbracciando in modo totale la Causa dei senza giustizia.

Questa opzione di Dio per la Giustizia non ha fondamento nella sua “gratuità” né è una specie di “capriccio” divino che potrebbe essere successo in altro modo o semplicemente non essere accaduto, come se la sanzione divina della giustizia obbedisse a un semplice volontarismo etico[7].

L’opzione di Dio per la Giustizia si basa nel suo proprio essere: Dio non può essere in altro modo, non potrebbe non fare questa opzione senza contraddirsi e senza negare il suo proprio essere. Dio è, per “natura”, opzione per la Giustizia, e questa opzione non è gratuita (ma assiologicamente inevitabile), né contingente (ma necessaria) né arbitraria (ma fondata di per sé nello stesso essere di Dio), né preferenziale (ma alternativa, esclusiva e escludente[8]).

 

Terza tesi: la OP è opzione per chi è “senza giustizia”

Il concetto “poveri”, come parte dell’espressione “opzione per i poveri”, ha causato una certa confusione. In effetti, se l’opzione è “per i poveri”, esplicitamente sopraggiunge la tentazione di situare nella “povertà” il fondamento di questa opzione, questo sia identificando falsamente povertà con santità (cosa che fu esclusa fin dal principio), o rielaborando metaforicamente il concetto di “povertà” in differenti direzioni[9], o deviandolo verso qualunque dei gruppi che nell’Antico Testamento paiono essere oggetto di una “preferenza” da parte di Dio (i “deboli e piccoli”…), o in molti altri modi[10].

Si potranno evitare queste deviazioni se si porta alla luce il ruolo teologico che il concetto di “poveri” gioca concretamente nella espressione “opzione per i poveri”. Teologicamente parlando, “poveri” suona qui esattamente come “senza giustizia”. Perché Dio non opta per i poveri in quanto poveri (materiali, economici), ma in quanto “senza giustizia”. La povertà economica non è di per sé una categoria teologica, piuttosto lo è l’ingiustizia che si può avere nella povertà economica. Teologicamente considerata, la “opzione per i poveri” è in realtà “opzione per i senza giustizia”[11]. Se si chiama opzione “per i poveri”, questo si deve al fatto che i poveri (economici) sono la prima espressione dell’ingiustizia e la sua espressione massima o per antonomasia.

Parlando con precisione teologica, i destinatari di questa OP non possono essere identificati più con i “poveri economici” per se stessi, né con i “poveri sono buoni”, né con quelli che sono “poveri in un certo senso”, o con quelli che hanno lo “spirito dei poveri”… (delimitazioni tutte queste molto labili, scivolose, a causa dei giochi metaforici del linguaggio), ma piuttosto i “senza giustizia”, che siano poveri economici o no, metaforici o no.

Al contrario: i “piccoli e i deboli”, ossia, tutti quelli la cui “povertà” non può essere misurata in termini di ingiustizia[12], non devono essere identificati come destinatari espliciti della OP, ma per estensione metaforica. Possono essere oggetto di una “tenerezza speciale” e gratuita da parte di Dio e nostra, però questo sentimento e questo atteggiamento non devono essere confusi con la OP.

Ogni problematica umana che sia convertibile in ingiustizia – benché non abbia a che vedere con la “povertà” nel senso letterale o economico – è oggetto della OP (perché questa è opzione per la giustizia). Così, la discriminazione etnica, di genere, culturale… come forme di ingiustizia che sono, e anche se non si verificano insieme a situazioni di povertà economica, oggetto della OP. Non lo sono per essere forme di povertà – perché non lo sono -, ma per essere forme di ingiustizia.

L’opzione per la cultura disprezzata, per la razza emarginata, per il genere oppresso… non sono opzioni differenti della OP, ma concrezioni diverse dell’unica “opzione per i senza giustizia”, che chiamiamo OP.

 

Quarta tesi: l’essenza teologico-sistematica della OP e il suo fondamento è l’opzione di Dio per la Giustizia

Teologicamente parlando, nel senso dogmatico-sistematico, la vera natura della OP è l’opzione di Dio per la Giustizia. La “radiografia teologica” della OP, il fondamento sul quale si sostiene, ciò che in realtà la costituisce, è l’opzione di Dio per la giustizia.

Se si ignora la sua relazione con la giustizia e la imparentiamo con una semplice “volontà gratuita” di Dio, la OP si perde per strade che le tolgono virtù, la mistificano e la snaturalizzano, finendo per convertirla in un semplice “amore preferenziale”, o in una opzione opzionale, facoltativa, gratuita, arbitraria, contingente, svincolata dalla giustizia, ridotta a “carità” o beneficenza.

L’Opzione per la Giustizia (OG) di Dio è più grande – e precedente – a ciò che la TL latinoamericana captò ed espresse come OP. La OP non è che una derivazione – importante ma non comprendente la totalità – di questa opzione di Dio per la giustizia.

La Op è una forma nostra di percepire, di esprimere e di accettare questa opzione di Dio per la Giustizia.

“Opzione per i poveri” è un nome pastorale, storico, scelto in funzione della sua intelligenza immediata. Però, teologico-sistematicamente considerata, ossia aderendo alla sua essenza teologica più profonda, la OP “è” opzione per la giustizia e il nome che meglio esprime la sua natura teologica sarebbe quello di “opzione per i senza giustizia”[13]. Non intercediamo per un cambiamento di nome; semplicemente richiamiamo l’attenzione sul fatto che il nome non corrisponde a quella che sarebbe una “definizione essenziale”[14] della OP.

 

Quinta tesi: come opzione per la giustizia quale essa è, la OP non è preferenziale ma disgiuntiva ed escludente. Al contrario, la OPP è semplicemente una priorità e non è nemmeno una “opzione”.

La OP è una presa di posizione spirituale, integralmente umana, e pertanto anche sociale e politica, a favore dei poveri nell’ambito del conflitto sociale storico, e per questo è una opzione disgiuntiva ed escludente[15].

La “opzione (non preferenziale) per i poveri” (OP) appartiene al campo della giustizia e si fonda sulla opzione stessa di Dio per la giustizia. Al contrario, la “opzione preferenziale per i poveri” (OPP) appartiene all’ambito della carità[16] e può porsi in relazione con la gratuità di Dio. La OP non ha applicabilità di fronte alle povertà naturali. La OPP, invece, ha valore solo per le povertà naturali.

La OP vede la povertà come un’ingiustizia da sradicare mediante l’amore politico trasformatore, mediante una prassi sociale, come atto di giustizia. La OPP, per sua parte, vede la povertà come qualcosa di spiacevole però forse naturale, come qualcosa che semplicemente si deve compensare con atti di generosità gratuita, assistenziali.

La “preferenzializzazione” della OP, ossia, lo spostamento o la sostituzione della OP mediante la OPP, agisce come un occultamento delle coordinate della giustizia per guardare la realtà solo dalla prospettiva della beneficenza o dell’assistenzialismo. O come la riduzione dell’amore cristiano a una misericordia privatizzata e una solidarietà spiritualizzata. Un cristianesimo con OPP ma senza OP è funzionale a qualsiasi sistema ingiusto. L’opposizione alla OP – e in generale alla teologia e spiritualità della liberazione nel cui seno quella nacque – ha funzionato come il principale obiettivo di coloro che hanno tentato di annullare il rinnovamento postconciliare della teologia e della spiritualità latinoamericana con Medellin e Puebla, e come il ritorno a una Chiesa che legittima il sistema capitalista e neoliberale che anch’esso fu frontalmente ostile alla Chiesa della liberazione latinoamericana e ai suoi innumerevoli martiri.

Applicato alla OP, l’aggettivo “preferenziale”, con l’implicare una relazione di semplice priorità fra termini esenti di disgiuntiva o mutua esclusione, snatura la OP, convertendola in una semplice priorità o preferenza di ordine e negando la possibilità di una opzione radicale per uno dei termini sottomessi a relazione di preferenza. Per questo, parlando rigorosamente, la OPP non è OP, ma, come hanno espresso i suoi teorici, un semplice “amore preferenziale” o una “forma speciale di primato nell’esercizio della carità cristiana”. E’ una priorità, e nemmeno è una “opzione” nel senso forte della parola[17]. L’aggiunta dell’aggettivo “preferenziale” è servito in molti casi come “cavallo di Troia” che ha introdotto nella OP il germe del suo proprio snaturarsi. Fortunatamente, sono molti quelli che hanno adottato solo esternamente l’uso dell’aggettivo, per le pressioni all’intorno, senza abbandonare interiormente la comprensione e l’esperienza radicale di quella che è la genuina natura della OP, non preferenziale, ma esclusiva ed escludente.

 

Applicazioni e corollari

OP: trascendentale al livello della norma normans

Nel suo senso teologico-sistematico (prima dunque, o più in là della sua applicazione concreta a mediazioni non teologiche e ben distinte da queste), la OP è un trascendentale che supera e attraversa le dimensioni teologiche e appartiene essenzialmente alla immagine stessa del Dio biblico e cristiano. Il nostro Dio “è” – per il nucleo più profondo delle rivelazione biblica [18] e cristiana, e per se stesso – opzione per la giustizia[19], con assoluta precedenza e con totale indipendenza da ogni scuola teologica o di qualsiasi carisma o spiritualità nella quale ci muoviamo. Con questa qualità, la OP non è suscettibile di essere normata da dimensioni subalterne[20] (si situa al livello massimo della norma normans); e, percepita in coscienza, deve essere obbedita come in obbedienza a Dio stesso, con disposizione di spirito per la prova dell’amore più grande.

In questo stesso senso, la OP non è una “teoria” della teologia latinoamericana della liberazione, ma piuttosto una dimensione trascendentale del cristianesimo, dimensione che questa teologia ha avuto il merito di riscoprire – per il cristianesimo universale – come vincolata alla essenza stessa di Dio. Questa ri-scoperta è effettivamente “il più grande avvenimento della storia del cristianesimo negli ultimi secoli”[21], e segna un prima e un dopo, incancellabile e senza ritorno, per coloro per i quali la OP è stata una esperienza spirituale di conversione al Dio dei poveri. La OP deve essere considerata come “decisiva e irrevocabile” e come una “nota della vera Chiesa”.

 

Povertà, ricchezza e ingiustizia

Rispetto all’identificazione della OP come opzione per la giustizia, possiamo fare qualche aggiunta in un linguaggio più applicativo.

Se la povertà di una persona o gruppo è dovuta all’essere stati vittima dell’ingiustizia[22] – e in questa misura -, Dio sta dalla parte di questi poveri, e contro chi ha causato questa povertà-ingiustizia. E sta qui , necessariamente, in un modo “escludente” della ingiustizia degli ingiusti, e non semplicemente con una “opzione preferenziale non escludente”.Se si tratta di qualche “povertà” che non abbia a che fare con la giustizia (“povertà naturali”, di razza, di genere, di cultura…) Dio non fa discriminazioni a questo proposito, né “preferisce” qualcuno in questo senso. Dio non preferisce né trascura nessuna razza o genere o cultura per se stessa.

Se la ricchezza di una persona o gruppo implica ingiustizia – e in questa misura -, Dio sta decisamente contro questa ricchezza, contro lo stile di vita che la genera, perché Egli è dalla parte di quelli che soffrono le conseguenze dell’ingiustizia e contro coloro che la causano. Ed ha questo comportamento in un modo necessario e in un modo che esclude questa ingiustizia, e non con una opzione solo “preferenziale verso il povero”, però non radicalmente escludente del “modo di vita del ricco”[23] che produce questa ingiustizia. Se c’è qualche ricchezza che non ha a che vedere con la ingiustizia (qualità psicologiche, genere, doni corporali e/o spirituali, casualità…) Dio non fa qui discriminazioni: non preferisce né trascura nessuno.

 

Il concetto di giustizia come mediazione

Logicamente, i principi teologici sono obbligati a passare necessariamente per il filtro ulteriore di differenti mediazioni filosofiche, sociologiche e perfino politiche, nel momento di essere posti in pratica nell’arena della realtà.

Per esempio: il concetto stesso di “giustizia”, con tutte le sue implicazioni filosofiche, sociologiche, politiche e perfino culturali, sarà una mediazione influente specialmente nel campo di questa “opzione per i poveri”. C’è un concetto capitalista della giustizia, ce n’è un altro socialista, un altro neoliberale, un altro imperialista… Noi persone siamo influenzate dall’uno o dall’altro a seconda del “luogo sociale” che occupiamo o che scegliamo. Per coloro per i quali la giustizia è semplicemente “dare a ciascuno il suo”, un mondo di estreme disuguaglianze può sembrare giusto se – per esempio – da solo avvalora la attuale legalità della proprietà privata. assolutizzata. Questo non lo penserebbe nessuno dei Padri della Chiesa, né chi faccia suo il concetto di giustizia sociale distributiva e democratica della dottrina sociale della Chiesa, perché queste persone operano con un concetto di giustizia molto differente.

In questo senso, nonostante il fatto di riferirci teoricamente a uno stesso Dio, nonostante il fatto di accettare forse come evidente la sua opzione per la giustizia, la visione della volontà di Dio sul mondo può essere diversa o perfino contraria in alcuni cristiani e in altri. Dove è l’origine di questa discrepanza?

Potrebbe non essere nel concetto stesso che abbiamo di Dio né del suo Progetto o Volontà, ma nel concetto di giustizia col quale costruimmo i nostri giudizi morali. L’origine può essere nel giudizio morale che, dal concetto di giustizia di ognuno, facciamo sulla povertà e la ricchezza e sui meccanismi sociali o strutture che le generano o producono, sia che li giudichiamo come naturali o come storici, come fatali o come correggibili, come casuali o come causati, colpevoli o incolpevoli, strutturali o congiunturali, prodotto essenziale del sistema perverso o sottoprodotto accidentale negativo di un sistema sociale non necessariamente negativo…

Così, per esempio:

Chi ritiene “naturale” la attuale divisione così designale della ricchezza nel mondo (la famosa “coppa di champagne” dei documenti del PNUD), penserà anche – con buona logica – che Dio non si pronuncia su di essa, o che solamente ci esorta all’elemosina, alla beneficenza, alla gratuità generosa… come palliativi per queste deplorevoli differenze “naturali”…

Chi, al contrario, ritiene che questa divisione del mondo è ingiusta e peccaminosa, sosterrà – anch’egli con buona logica – che Dio è irritato con questa e che desidera ardentemente che sia abolita, e che vuole che li aiutiamo a combattere questo ingiusto disordine con un impegno radicale per la giustizia;

Chi pensa che questa situazione del mondo è il peggior dramma della umanità attuale considererà anche che il suo superamento urgente esprime la più grande e più pressante volontà di Dio;

Chi considera che il neoliberalismo è innocente, o che è il “minor male dei sistemi”… sosterrà che Dio vuole che lo appoggiamo, o anche che lo “miglioriamo” in alcune delle sue “deficienze accidentali”;

Chi, al contrario, ritenga che il neoliberalismo è ingiusto, o perfino la maggiore ingiustizia, la più strutturale, riterrà che Dio vuole che combattiamo questa struttura di peccato nel modo più deciso possibile.

Per questo, parrebbe chiaro che il problema teologico si indirizza verso la discussione e l’analisi delle mediazioni, e che le discrepanze si situerebbero non al livello propriamente teologico dei principi, ma al livello prudenziale delle mediazioni. Tuttavia, questa è solo la metà della verità, perché il nostro concetto di giustizia fa parte delle nostra scelta di Dio. “Dimmi cosa intendi per giustizia, e ti dirò qual è il tuo Dio”. Dimmi in quale giustizia credi e ti dirò quale Dio adori.

Siamo soliti pensare che il nostro concetto di giustizia ci viene dal Dio creduto, però anche il contrario è certo: crediamo solo nel Dio che entra nel nostro concetto di giustizia. E l’opzione più fondamentale della nostra vita può essere quella dalla quale optiamo per un concetto o un altro di giustizia, giustizia che è contemporaneamente la nostra utopia per il mondo. La nostra immagine di Dio è figlia della opzione dalla quale scegliamo il nostro concetto di giustizia e la sua corrispondente utopia per il mondo. E viceversa: molti non arrivano ad accettare un concetto utopico di giustizia perché previamente hanno fatto la opzione per il Dio dell’egoismo e delle sue ricchezze.

La OP è dunque contemporaneamente una opzione per Dio (dei poveri) e una opzione per la Giustizia utopica (del Regno). La “opzione per i ricchi” è contemporaneamente una rinuncia al Dio dei poveri e una opzione per una giustizia sottomessa all’egoismo. La opzione per i poveri o per i ricchi, la giustizia utopica e la giustizia sottomessa, e il Dio dei poveri o il suo rifiuto, sono mutuamente implicati in un circolo ermeneutico. L’obbedienza a Dio non la valutiamo in una relazione diretta verso Dio ma piuttosto nella scelta di un ideale di giustizia utopica o di una giustizia sottomessa. Principi e mediazioni sono più mutuamente implicate di quello che sembrerebbe. Dio è giusto, e la giustizia è divina. L’opzione per i poveri è contemporaneamente un atto di fede nel Dio dei poveri e una opzione etica e umanizzante per la giustizia (quella dei poveri e quella di Dio simultaneamente). Per sua parte, la opzione per l’egoismo è contemporaneamente una ingiustizia e un rifiuto di(del) Dio (dei poveri). E torniamo all’inizio: Dio e la OP non si possono separare, perché la OP si fonda in Dio stesso, nella Sua Giustizia. La gratuità di Dio è un altro tema.

 


 

[1] “Diciamolo con chiarezza: la ragione ultima di questa opzione è nel Dio in cui crediamo. (…) Si tratta per il credente di una opzione teocentrica, basata su Dio”. Gustavo GUTIERREZ, El Dios de la Vida, «Christus» 47(1982)53-54, México; La fuerza histórica de los pobres, Lima 1980, págs. 261-262.

[2] Nonostante che sia una ovvietà, si veda la tesi dottorale di Julio LOIS, Teología de la Liberación: Opción por los pobres (IEPALA, Madrid 1986) che studia la OP in vari dei principali teologi della liberazione del periodo classico.

[3] Un caso chiaro può essere quello di Gustavo Gutiérrez. In un discorso pronunciato davanti a Ratzinger, afferma: “La tematica della povertà e la marginalità ci invitano a parlare di giustizia e a tener presente i doveri del cristiano a questo proposito. Così è in verità, e questa prospettiva è senza dubbio feconda. Però non bisogna perdere di vista quello che fa sì che la opzione preferenziale per i poveri sia una prospettiva così centrale. Alla radice di questa opzione c’è la gratuità dell’amore di Dio. Questo è il fondamento ultimo della preferenza.”

A partire da questo momento non torna più ad apparire la parola “giustizia” nella sua dissertazione e tutta la OP gira intorno alla “gratuità”. Cfr. Una teología de la liberación en el contexto del tercer milenio, in VARIOS, El futuro de la reflexión teológica en A.L., CELAM, Bogotá 1996 pag, 111. Non si tratta di un testo isolato ma, nella mia modesta opinione, di una prospettiva ammorbidita comune nella teologia della OP di Gustavo da più di dicei anni; cfr. Pobres y opción fundamental, in Mysterium Liberationis, UCA Editores, San Salvador 1991, 303ss, 310.

[4] Poveri che erano una realtà “collettiva, conflittuale e socialmente alternativa”: C. BOFF, ¿Quiénes son hoy los pobres, y por qué?, in J.PIXLEY-C.BOFF, Opción por los pobres, Paulinas, Madrid 1986, 17ss.

[5] Un amore uguale per tutti ma che inizia dai poveri e che continua con i ricchi, senza fare fra loro nessuna differenza; un “amore ugualitario ma con un ordine di priorità”, semplicemente.

[6] Chi opta “preferenzialmente” per la giustizia, opta anche, benché meno preferenzialmente, per la ingiustizia. Nel dilemma di giustizia e ingiustizia non ci sono “semplici preferenze” possibili: l’opzione è fra alternative di una disgiuntiva escludente.

[7] Ricordiamo la posizione teologica medioevale (il “volontarismo etico”) di chi sosteneva che l’ordine morale attuale non era necessario ma contingente, e che obbediva a una volontà positiva e gratuita (arbitraria) di Dio. L’ordine morale – sosteneva questa dottrina – avrebbe potuto essere un altro, incluso il contrario dell’attuale, se Dio lo avesse voluto in un imperscrutabile disegno arcano della sua volontà.

[8] J.M. VIGIL, Opzione per i poveri: Preferenziale e non escludente?, in J.M.Vigil (org.), Con i poveri della terra. Studio interdisciplinare sull’opzione per i poveri, Cittadella Editrice, Assisi 1992, p. 70ss.

Colombia (Paulinas 1994), Ecuador (Abya Yala 1998), Italia (Cittadella 1992), Brasil (Paulinas 1992).

[9] Come quando si argomentava che i ricchi erano i veri poveri (poveri in ricchezze spirituali, delle quali i poveri erano molto ricchi)… Si arrivò a veri giochi di parole o acrobazie concettuali per non intendere l’ovvio. Casaldaliga dette testimonianza poetica di questo nelle sue Bienaventuranzas de la conciliación pastoral.

[10] Povertà di spirito, poveri di Jahvé, virtù della povertà, anawin, infanzia spirituale…

[11] “Opzione per i senza giustizia” è una espressione precisa, che rifugge dalla possibilità di essere mistificata o metaforizzata.

[12] Come è il caso delle povertà “naturali”, non storiche, senza colpa di qualcuno.

[13] Per questo i nuovi soggetti non necessitano di una “opzione” per la donna, l’indigeno/a, l’afro… ma è la opzione stessa per i “senza giustizia” che include tutti e tutte.

[14] “Definizione essenziale”, come dice la logica classica, è quella che non solo discrimina adeguatamente l’oggetto ma che lo fa in riferimento alla sua essenza (e non, per esempio, in base a un “proprio” o a un insieme di accidenti sufficientemente discriminanti).

[15] J.M. VIGIL, ibid.

[16] O di quelle classicamente dette “opere di misericordia”; per questo, la OPP può essere chiamata appropriatamente, in effetti, “amore preferenziale per i poveri”. Questo è tutto. La OP è un’altra cosa.

[17] L’atto per il quale una persona fa la sua OP o sceglie il suo luogo sociale partecipa del carattere antropologico esistenziale che ha la cosiddetta “opzione fondamentale”.

[18] Dio non fa favoritismi (Rom 2, 11). Il Sovrano di tutti non fa differenze fra le persone e non farà caso alla grandezza (Sab 6, 7). Un giudizio implacabile attende i potenti; il piccolo ha le sue discolpe e merita compassione, ma i potenti saranno castigati severamente. Egli creò i grandi e i piccoli di tutti ha cura allo stesso modo. I potenti saranno esaminati con più rigore. (Sab 6, 6.7b.8). Maestro, sappiamo che sei giusto e non fai differenza fra le persone… (Mt 22,16). L’essere umano guarda le apparenze ma Jahvé guarda il cuore… (1 Sm 16, 7).

[19] “La lotta per la giustizia è come un altro nome del Dio dell’Antico Testamento e del Dio di Gesù»: Rufino VELASCO, La Iglesia de Jesús, Verbo Divino, Estella 1992, 33.

[20] Ecclesiastiche o disciplinari per esempio.

[21] “Personalmente penso che con la opzione preferenziale per i poveri si è prodotta la grande necessaria rivoluzione copernicana nel seno della Chiesa, il cui singificato deborda dal contesto ecclesiale latinoamericano e concerne la Chiesa universale. Sinceramente, credo che questa opzione costituisca la più importante trasformazione teologico-pastorale accaduta dalla Riforma protestante del secolo XVI». L. BOFF, citato da Julio LOIS, in Teología de la liberación: Opción por los pobres, IEPALA, Madrid 1986, 193.

[22] E’ quanto si vorrebbe dire con la preferenza dell’aggettivo dinamico “impoveriti” (come dinamico è anche il concetto di “senza giustizia”) rispetto al nome statico di “poveri”.

[23] Per “modo di vita del ricco” intendiamo tutto quello che implica il ricco – eccetto la sua stessa persona -: il suo stile di vita, il suo ruolo sociale, la Causa che obiettivamente serve, il suo lusso, il suo sfruttamento dei poveri, la sua partecipazione al sistema che li sfrutta…

Notiziario della Rette Radie Resch» 64(giugno 2004)48-56. Quarrata PT, Italia.


 

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