le donne chiedono di più a papa Francesco

no, papa Francesco, preferisco restare tentatrice

No, papa Francesco, preferisco restare tentatrice

Il serpente aveva detto ad Eva che la conseguenza del mangiare i frutti dell’albero proibito sarebbe stata l’ «apertura degli occhi» e il diventare «come Dio» (o «come una divinità»), cioè in grado di discernere il bene dal male.

Il resto della storia la conoscete. Il morso, la caduta, la mortalità. Il peccato originale. La donna tentatrice, “porta del male” addirittura. Male inteso come capacità di discernere? Come apertura degli occhi? Come lascivia? Comunque secoli di roghi. Io li ho studiati tutti, dalle prime herbarie, donne medico nelle campagne dei secoli alto medievali che dispensavano cure, per aiutare la vita e la morte alleviandone i dolori, alle streghe dei secoli basso medievali bruciate nelle piazze dell’Inquisizione. Le stesse donne a cui la Chiesa tolse il “patentino” di curatrici. Perché quelle cure, quella conoscenza o anche solo quella prassi era opera del demonio, era male e non bene. Il dolore, la morte, la vita erano un dono di Dio. E nessuna poteva interferire.

Secoli di gloriosa ribellione delle donne. Indimenticabile Ildegarda di Bingen, Trotula di Salerno e tutte quelle anonime donne “porte del male”, tentatrici dagli “occhi aperti” che, nascoste si opposero, al modello di madre e moglie imposto dalla Chiesa di Roma.

Tremo all’idea che ci venga tolto anche questo. Anche questo glorioso passato di identità di tentatrici, di peccatrici, di porte di un “male” che io intendo come rottura di schemi, ricerca di conoscenza, ribellione a quel modello di vita e di umanità, per schiacciarci in quello che Francesco ha chiamato: «Una teologia della donna che sia all’altezza di questa generazione di Dio». E temo anche quei tutti che subito gridano “bravo Francesco, quanto è moderno Francesco”.

Possibile che non si accenda alcuna spia di allarme nella mente di nessuno di questi? Perché lo fa? perché lo dice? Perché farlo in un momento in cui i roghi non si rischiano più, al limite si rischia la “definitiva” libertà di dire No. No al matrimonio, no ai figli. No. “Sacrosanti” no. «La donna, ogni donna, porta una segreta e speciale benedizione per la difesa della sua creatura dal maligno, come la donna dell’Apocalisse che corre a difendere il figlio dal drago e lo protegge», ha detto il papa. Ha spiegato il motivo, non siamo il male, anzi noi, donne, produciamo e proteggiamo i figli dal male. Madri dunque. Sempre e solo madri. Custodi di piccoli animali possibili prede del male. «Cristo è nato da una donna – ha aggiunto poi durante l’udienza di qualche giorno fa a piazza San Pietro – e questa è la creazione di Dio sulle nostre piaghe, sui nostri peccati, ci ama come siamo e vuole portarci avanti con questo progetto, e la donna è la più forte nel portare avanti questo progetto». Sì Cristo è nato da una donna, è vero. Illibata lei e illibata sua madre che l’ha generata. Dunque il modello è quello: madre e moglie, per giunta illibata. Che porta avanti questa creazione di Dio sulle nostre piaghe e sui nostri peccati.

Allora io vi dico, timidamente ed educatamente, grazie No. Preferisco la tentatrice, la peccatrice.

La donna non è il male, per il papa che vuole rompere questo offensivo luogo comune, perché salverebbe la famiglia (quella tra uomo e donna ovviamente) e la famiglia poi («questa alleanza, la comunità coniugale-famigliare dell’uomo e della donna è la grammatica generativa, il ‘nodo d’oro’, potremmo dire. La fede la attinge dalla sapienza della creazione di Dio: che ha affidato alla famiglia non la cura di un’intimità fine a se stessa, bensì l’emozionante progetto di rendere domestico il mondo») salverebbe il mondo dal disastro.

Ecco, io il mondo non lo voglio rendere domestico, non voglio essere liberata da nessun male se questo vuol dire essere riconosciuta solo come madre e moglie all’interno di quel progetto sulle nostre piaghe e i nostri peccati.

contraddizioni della nostra chiesa

 ‘chiesa contraddittoria, assolve gli omicidi ma non i divorziati risposati!’

intervista al biblista Maggi

 

 

<la chiesa  assolve gli omicidi, ma non i divorziati risposati!>.

Il biblista Alberto Maggi affida a un’esclamazione il suo più totale disappunto per quella che considera <una lampante contraddizione> nell’insegnamento del popolo di Dio. Con il pensiero rivolto a Cristo, <che più che unire sfascia le famiglie>, pur se non è solito discorrere del Sinodo, il religioso dei Servi di Maria accetta di buon grado di rispondere ad alcune domande sull’assise ormai alle porte. <Non mi attendo molto dal Sinodo>, ma, in quest’anno di Giubileo della misericordia indetto dal Papa, <spero in gesti concreti a favore dei risposati, dei preti uxorati e degli omosessuali>. Tre categorie <umiliate ed emarginate dalla Chiesa>.  

fra’ Maggi, quanto l’appassiona il dibattito pre sinodale?                                  

<Non più di tanto. I cambiamenti nella Chiesa vengono sempre dalla base e non dai vertici. I mutamenti sono rifiutati, ostacolati e contrastati dalle gerarchie. Poi, dopo un lungo lasso di tempo, vengono accolti… Quando ormai è troppo tardi>.

Al Sinodo quali cambiamenti potrebbero passare?                                                

<In ogni situazione, in ogni controversia, bisogna tenere presente il comportamento di Cristo: lui, tutte le volte che si è trovato a dover scegliere tra l’obbedienza alla Legge divina e il bene concreto dell’uomo, senza esitare ha sempre scelto quest’ultimo. Facendo il bene dell’uomo si è certi di fare anche quello di Dio>.

Un principio pìù sulla carta che nei fatti? 

<Troppo spesso per l’onore di Dio si è disonorato l’uomo e per il bene di Dio si è causata sofferenza agli uomini>.

In una recente intervista sul Sinodo, Francesco ha parlato di attese <eccessive>. Condivide?  

<Se lo dice il Papa… Lui conosce bene l’ambiente, sente sulla pelle le resistenze curiali al suo impegno per un cambiamento evangelico, ogni giorno si trova di fronte a muri di gomma e a veri e propri dispetti>.

Che tra il Pontefice e parte della Curia non corra buon sangue è risaputo.

<Proprio per questo Bergoglio va sostenuto e non lasciato solo, perché la sola cosa che frena i suoi avversari, come ai tempi di Gesù i sommi sacerdoti, è che ‘temevano la folla…’>.

Dal punto di vista biblico, quale è il filo rosso che unisce Antico e Nuovo Testamento sulla famiglia?

<Non c’è alcuna continuità e il messaggio di Gesù è il meno adatto per sostenere la famiglia patriarcale. Cristo più che unire le famiglie le sfascia…>.

Ovvero?

<Lui viene da una triste esperienza e da brutti rapporti con i suoi che lo hanno creduto pazzo e hanno tentato di rapirlo. Giovanni nel suo Vangelo non esita a scrivere che neanche i fratelli credevano in lui. E Gesù invita a liberarsi, per causa sua e del Vangelo, anche dai vincoli familiari più stretti quali quelli tra marito e moglie, genitori e figli>.

Quali sono le principali discrepanze che evidenzia fra l’insegnamento attuale della Chiesa sulla famiglia e quanto trasmette la Bibbia?

<Non credo che la Chiesa abbia l’autorità di mettere il naso nelle faccende familiari. Una Chiesa, che ha impiegato ben duemila anni per ammettere che nel matrimonio è importante anche l’amore dei coniugi oltre che la procreazione dei figli, sarebbe bene che tacesse su questioni per le quali non ha ricevuto alcun mandato dal Cristo>.

Nessun mandato? Vuole dire che quello di ottobre sarà un Sinodo illegittimo?

<La legittimità la dona lo Spirito Santo. Tanto più gli orientamenti, le scelte e le decisioni del Sinodo saranno all’insegna di una profonda umanità tanto più in queste si manifesterà il divino che alimenta e mantiene in vita la Chiesa>.

Intanto, sui mezzi di comunicazione il dibattito pre sinodale è tutto concentrato sul nodo dell’accesso ai sacramenti per i divorziati risposati. Come se lo spiega?

<Perché è lampante la contraddizione di una Chiesa che rivendica giustamente il mandato del Cristo di poter perdonare i peccati, ma poi è incapace di concedere il perdono a chi, fallito il primo matrimonio, tenta una nuova unione. La Chiesa assolve gli omicidi ma non i divorziati risposati! Spero che in questo anno della misericordia ci siano gesti concreti a favore di tre categorie di persone umiliate ed emarginate dalla Chiesa: i preti sposati, gli omosessuali, i divorziati. Non è solo una questione di misericordia ma di giustizia>.
                                                                                                                            Giovanni Panettiere

per un vero cambiamento nella chiesa

papa Francesco: ‘chiesa in uscita’

da dove, per dove?

una riflessione di L. Boff sul logotipo che caratterizza l’idea di chiesa di papa Francesco: ‘una chiesa in uscita’

Boff L.

 

 

Mentre ancora celebriamo la straordinaria enciclica su «La cura della Casa Comune», torniamo a riflettere su una prospettiva importante di Papa Francesco, il vero logotipo della sua comprensione della Chiesa: “Una Chiesa in uscita”. Questa formulazione racchiude una velata critica al modello anteriore di Chiesa che era una Chiesa “senza uscita” a causa di diversi scandali di ordine morale e finanziario, che avevano forzato papa Benedetto XVI a rinunciare, una Chiesa che aveva perso il suo capitale più importante: la moralità e la credibilità dei cristiani e del mondo secolare.

Ma il logotipo “Chiesa in uscita” possiede un significato più profondo, diventato possibile perché pensato da un papa che non veniva dai quadri istituzionali della vecchia e stanca cristianità europea. Questa aveva fasciato la Chiesa dentro a una comprensione che la rendeva praticamente inaccettabile ai moderni, ostaggio di tradizioni fossilizzate e con un messaggio che non affrontava i problemi dei cristiani e del mondo attuale. La “Chiesa in uscita” vuole segnare una rottura con quello stato di cose. Questa parola “rottura” irrita i rappresentanti dell’establishment ecclesiastico. Ma non è per questo che smette di essere vera. E dunque si pone la domanda: “Uscita”: da dove, per dove? Vediamo alcuni passi:

– Uscita da una Chiesa-fortezza che proteggeva i fedeli contro le libertà moderne verso una Chiesa-ospitale di campagna che ascolta tutte le persone che la cercano, poco importa il loro stato morale o ideologico.

– Uscita da una Chiesa-istituzione assolutistica, concentrata in se stessa,per una Chiesa-movimento aperta al dialogo universale, con altre chiese, religioni e ideologie.

– Uscita di una Chiesa-gerarchica, creatrice di diseguaglianze verso una Chiesa-popolo di Dio, facendo di tutti, fratelli e sorelle, un’immensa comunità fraterna.

– Uscita da una Chiesa-autorità ecclesiastica, distante o perfino di spalle voltate ai fedeli, per una Chiesa-pastore che cammina in mezzo al popolo, “in odore di pecorella”, e misericordiosa.

– Uscita da una Chiesa-Papa di tutti i cristiani e vescovi che governa con il rigido diritto canonico verso una Chiesa-vescovo di Roma, che presiede nella carità e solo a partire da lì diventa Papa della Chiesa universale.

– Uscita da una Chiesa-maestra di dottrine e norme verso una Chiesa di pratiche sorprendenti e dell’incontro affettuoso con le persone al di là della loro appartenenza religiosa, morale o ideologica. Le periferie esistenziali arrivano alla centralità.

– Uscita da una Chiesa-di potere sacro, di pompe e eventi, di palazzi pontifici e titolature degne della nobiltà rinascimentale verso una Chiesa-povera e “per” i poveri, spogliata dei simboli di riconoscimenti, dedita al servizio e portavoce profetica contro il sistema di accumulazione del denaro, l’idolo che produce sofferenza miseria e morte.

– Uscita da una chiesa-che parla dei poveri verso una Chiesa-che va verso i poveri, parla con loro, li abbraccia e li difende.

– Uscita da una Chiesa-equidistante dei sistemi politici e economici verso una Chiesa-schierata a favore delle vittime e che chiama per nome i produttori delle ingiustizie e invita a Roma rappresentanti dei movimenti sociali mondiali per discutere con loro come inventare alternative. – Uscita da una Chiesa-autoreferenziale e acritica verso una Chiesa-della verità su se stessa contro cardinali, vescovi e teologi gelosi del loro status ma con una faccia “acida, da venerdì Santo”, “tristi come se fossero al proprio funerale”, insomma una Chiesa fatta di persone umane.

– Uscita da una Chiesa-dell’ordine e del rigorismo verso una Chiesa-della rivoluzione della tenerezza, della misericordia e della cura.

– Uscita da una Chiesa-di devoti, come quelli che appaiono nei programmi televisivi, con preti cineasti del mercato religioso, verso una Chiesa impegnata con la giustizia sociale e con la liberazione degli oppressi.

– Uscita da una Chiesa-obbedienza e da rispetto per la Chiesa-allegria del Vangelo e speranza ancora per questo mondo.

– Uscita da una Chiesa senza il mondo che ha permesso l’insorgere di un mondo senza Chiesa per una Chiesa-mondo, sensibile ai problemi dell’ecologia e del futuro della Casa Comune, la madre-Terra.

Queste e altre uscite mostrano che la Chiesa non si riduce soltanto a una missione religiosa, accantonata in una parte privata della realtà. Essa possiede oltre a questo una missione politico-sociale nel senso pregnante della parola, come fonte di ispirazione per le trasformazioni necessarie che riscattino l’umanità per un tipo di civiltà dell’amore della compassione, che sia meno individualistico, materialistico, cinico e privo di solidarietà. Questa chiesa-in-uscita ha distribuito allegria e speranze fra i cristiani e ha riconquistato il sentimento di essere un focolare spirituale. Ha convinto con la semplicità, con il distacco dalle cose, con l’accoglienza nell’amore e nella tenerezza con la stima di molte persone di altre confessioni, di semplici cittadini del mondo e anche di capi di Stato che ammirano la figura e la pratica sorprendenti di Papa Francesco in favore della pace, del dialogo tra i popoli della rinuncia a qualsiasi violenza e alla guerra.

Più che di dottrine e dogmi è la Tradizione di Gesù, fatta di amore incondizionato, di misericordia e di compassione che in lui si attualizza e rivela la sua inesauribile energia umanizzatrice. Perché, tra le altre cose, questo è il messaggio centrale di Gesù accettabile, da tutte le persone di tutti quadranti del mondo.

* Leonardo Boff è teologo, ecologo e columnist del Jornal do Brasil.

 

 

la suora femminista contro il clericalismo e la misoginia della chiesa e a favore dei matrimoni gay

 

“Considero molto grave non permettere alle donne di rappresentare Cristo, perché cosa imparo io donna rispetto al fatto che sono una femmina?

Teresa, monaca: La Chiesa è misogina
Ma Dio è anche donna

di Roberta Trucco

«La Chiesa dice:  “La cosa più bella è rappresentare Cristo; voi donne non potete!”. Cristo si offre a noi corpo e sangue, e poi qualcuno lo può rappresentare, solo se è uomo: questo è chiaramente ingiusto e non ha senso. Non solo. Nella Chiesa c’è il clericalismo, solo i preti possono rappresentare Dio: io non sono d’accordo. Succede poi anche che solo i preti possono prendere decisioni sul funzionamento della Chiesa, fatta di uomini e donne. Ecco perché credo che la Chiesa sia misogina.

A parlare è una monaca benedettina di origine catalana, Teresa Forcades i Vila, che ho incontrato nel monastero di Sant Benet a Montserrat dopo aver letto l’articolo di Michela Murgia, Persone da conoscere: Teresa. Una lunga chiacchierata su differenze e uguaglianze di genere, omosessuali e queer, vita di coppia e libertà, clericalismo e patriarcato mi ha confermato l’idea di una pensatrice di cui sentiremo parlare sempre più. Sì, perché Teresa, che ha una laurea in medicina e un dottorato negli Stati Uniti in medicine alternative e psicologia, è in prima linea, «imprevedibilmente», sui temi del femminismo, nella denuncia contro le lobby farmaceutiche, nella critica etica al capitalismo e perfino contro la posizione della Chiesa su temi scottanti come l’omosessualità e l’aborto, e contro la sua struttura patriarcale. A luglio sarà in libreria la traduzione italiana del suo libro La teologia femminista nella storia (Casa Editrice Nutrimenti).

 

Partiamo dalle differenze di genere: dici che non sono solo un valore culturale. Cosa significa?
«Tu hai detto valore. Innanzitutto possiamo cercare di capire perché ancora oggi c’è una tensione tra ciò che normalmente chiamiamo “femminismo della differenza” e “femminismo dell’eguaglianza”. Io ho grande rispetto per tutte le donne. Tuttavia per me è fondamentale la difesa dell’eguaglianza tra i generi e l’unicità dell’individuo. Ognuno è unico, non siamo un numero in una lista di qualcosa di generico. Questo sì per me è un valore ed è quanto dice il femminismo dell’eguaglianza: lasciamo crescere liberamente le persone senza aspettare che emerga un modello».

Ma allora, secondo te, cosa pensano le donne che difendono le differenze tra i generi?
«Se guardiamo ai maschi e alle femmine è evidente una differenza. Le donne che difendono questa differenza hanno cominciato ad analizzare cosa succede all’inizio della vita, nella relazione madre-figlio e madre-figlia, relazioni che – così come quelle con il padre – segnano il nostro essere donna o uomo. Anche a me, ora che divento adulta e invecchio, dicono che tendo ad assomigliare a mia madre. Io penso: “Come è possibile?”. È così: molte donne incominciano a parlare e a muoversi come la propria madre. Dunque, ciò che chiamiamo genere (maschile e femminile) non è una costruzione solo culturale. Per un bambino, maschio o femmina che sia, il referente della vita emotiva, intellettuale e fisica è una donna. La prima soggettività-identità è un lento e difficile percorso di separazione dalla madre, un’esperienza differente se si è maschio o femmina. Tutti, da bambini, ci chiediamo: “Amerò mia madre? Sarò anche io come lei? O sarò differente?”. Ecco, il maschio non può giocare con facilità il ruolo di madre, che per lui non è certo naturale, e dunque attraversa un’esperienza di contraddizione: “Vorrei essere come lei ma non lo sono”. Questo il punto di partenza uguale per tutti. Tuttavia questa soggettività-identità infantile è anche alla base dell’errore stereotipato del così detto femminismo della differenza e certamente del patriarcato che dice: “A causa di questa differenza stabiliamo che questa soggettività- identità deve essere così per sempre nella vita».

Un errore?
«È la fossilizzazione di una dicotomia iniziale, che non deve per forza restare così per sempre. Per un piccolo, è un bene che la madre indichi cosa è buono o giusto; ma a un certo punto deve andare per la sua strada e deve essere lasciato andare. Per chiarire cosa intendo voglio citare il primo capitolo del Vangelo di Giovanni, dove si racconta il dialogo tra Nicodemo e Gesù. Nicodemo è un uomo adulto, un dottore della legge che conosce bene le scritture e la Torah; è molto affascinato da Gesù ma non vuole farsi riconoscere come suo seguace e dunque lo va a cercare nella notte per parlare con lui e gli chiede come si possa diventare adulti maturi. Gesù gli risponde: «Tu devi nascere di nuovo». Nicodemo è sorpreso: «Come può un adulto tornare nell’utero di una donna?». Gesù dice: «Non è questa la strada della rinascita, devi rinascere in acqua e in spirito». Per me questo significa essere queer. Queer è una parola inglese, per noi intraducibile: nel suo senso originario significa strano, obliquo, qualcosa che va fuori dal canone. È una parola di rottura rispetto agli schemi abituali con i quali raccontiamo la realtà. Una persona “diritta” è di solito una persona eterosessuale, una persona queer è una che devia dal percorso lineare. In realtà significa andare oltre le etichette di qualsiasi tipo. Io non immagino la vita come un percorso lineare: parti dalla soggettività infantile per arrivare a un punto in cui fai il salto e sei queer. No, non è così. Noi dobbiamo conquistare la nostra identità tutti i giorni. Se la mia soggettività infantile esce fuori ogni volta che mi trovo in difficoltà succede quello che Julia Kristeva, una psicoanalista lacaniana, chiama crisi. La crisi avviene quando una persona adulta perde la testa, perde se stessa, agisce come un bambino, senza ragionare. Può succedere a tutti noi, specialmente se qualcosa mette a rischio la nostra sicurezza. Ecco perché in periodi di crisi riemerge prepotente la violenza contro le donne, viste come coloro che sostengono i bisogni (colei che mi ha dato il suo seno, mi ha accudito, mi ha sostenuto nei miei desideri). Anche la donna, quando ha una crisi, richiede a se stessa di essere come una madre. È un processo molto complesso; secondo la Kristeva è il punto nodale del problema della violenza sulle donne».


Quando dici che il patriarcato è costruito da uomini e donne insieme per motivi psicologici, cosa intendi?
«La società patriarcale è quella in cui uomini e donne vivono da adulti con la stessa identità infantile, senza rinascere in acqua e in spirito. Rinascere significa qualcosa di nuovo ogni giorno, qualcosa di diverso per ognuno di noi; è una sfida, è la bellezza di una vita vissuta in modo pieno e consapevole. Fa anche paura, perché devi assumere la responsabilità di te stesso. Certo, amiamo la libertà, ma in realtà ne abbiamo paura. E la paura della libertà nelle questioni di genere porta a tornare indietro, alla soggettività infantile».

Per superare questo modello dobbiamo dunque rinascere in acqua e in spirito. Una strada è il cristianesimo, ma suppongo non sia l’unica strada…
«Certo che no, tu puoi rinascere in acqua e spirito ma anche essere queer. Molti queer non sono cattolici, la maggior parte dei movimenti promossi dai queer non hanno nulla a che vedere con la cristianità ma hanno una vita umana che li spinge a questa apertura indicata da Gesù nel vangelo di Giovanni: superare il modello infantile per rinascere a qualcosa di profondamente nuovo e unico».

Torniamo indietro. Pensi che la Chiesa sia misogina?
«È chiaro che la struttura della Chiesa è oggettivamente patriarcale. Se per misogina intendiamo ostile alle donne, certo che lo è. Ovviamente considero molto grave non permettere alle donne di rappresentare Cristo, perché cosa imparo io donna rispetto al fatto che sono una femmina? Da bambina non volevo diventare una donna perché percepivo che era svantaggioso. Ai maschi è permesso fare cose che alle femmine non è permesso e questo è davvero un brutto messaggio per le ragazze ma anche per i ragazzi; per tutti noi è un messaggio patriarcale, misogino. Un messaggio dato dalla Chiesa indipendentemente dal fatto che questo Papa o quel Vescovo siano buoni o cattivi. È una questione strutturale che credo vada cambiata. Come? Aprendo alle donne la possibilità di rappresentare Cristo come fanno i preti. Conosco personalmente un gruppo di donne che si batte per questo. Alcune di loro sono Vescove e sono state scomunicate; ma credo continueranno a battersi, a sognare un futuro diverso per le donne all’interno della Chiesa. Mi auguro che le loro battaglie presto diano frutti all’interno della Chiesa».

Come fai a stare dentro una Chiesa “misogina”?
«Io sono qui, in questo monastero, semplicemente perché sono stata chiamata da Dio in modo del tutto inaspettato. Sono venuta qui quando avevo 27 anni. Stavo finendo il mio master in medicina e avevo bisogno di un posto tranquillo per preparare la tesi. Chiesi ospitalità nel famoso monastero di Montserrat; ma non c’era posto e i monaci benedettini mi suggerirono di venire dalla monache. All’inizio non volevo, immaginavo che il posto fosse triste e le monache noiose. Poi mi sono accorta di essere caduta in contraddizione: io femminista che davo per scontato che le monache non potessero essere interessanti. Così ho accettato la sfida. Sono venuta a stare qui, ho trovato una comunità molto interessante e dopo un mese di studio, io che ero venuta non per diventare monaca, non per vocazione, ma solo per preparare un esame, ho sentito qualcosa che cresceva in me: era la chiamata di Dio. Io credo davvero che Dio mi abbia chiamata ad essere monaca».

Come si fa a portare un punto di vista femminile, e a battagliare per questo in una struttura misogina, senza diventare nemica degli uomini?
«La battaglia istituzionale non è un problema, perché si può sempre separare l’istituzione dalle persone, dagli uomini. Se un vescovo, un cardinale, un prete o addirittura il Papa si comporta in modo misogino io non ho problemi a dirlo o scriverlo. Non giudico, non mi sento nemica; semplicemente descrivo quello che mi pare evidente. All’interno di una coppia è diverso. La coppia condivide una totale intimità, la vita emotiva, sessuale, e credo che possa agire molto più in profondità di quanto possa fare io, anche se questo richiede molta più fatica. La vera sfida è cercare di capire cosa significa essere liberi dentro alla coppia, essere liberi e essere una cosa sola, avere il
mio spazio e aprire spazio all’altro. La libertà! ».

Sostieni che dire «La mia libertà finisce quando inizia la tua» induce competizione più che solidarietà. Ma questa è la definizione con la quale siamo cresciuti…
«Libertà è qualcosa che provo quando io tratto bene me e te. Strettamente parlando per me libertà è amore. È quello che ha detto Sant’Agostino, credo che abbia ragione. Tutti noi, sia che crediamo in Dio sia che non crediamo, siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio e Dio è amore, è libero amore. Noi siamo loving beings (esseri che amano e che sono amati), e quando uno ama è libero. Quando invece ci comportiamo con violenza, con risentimento, senza fiducia, siamo pieni di emozioni negative, siamo bloccati nell’amore, chiusi all’amore, non siamo liberi».

Però nella tradizione della Chiesa l’amore è insegnato come puro sacrificio…
L’amore è anche sacrificio, e le donne si sentono a loro agio perché per loro l’amore è mettere gli altri davanti a se stesse. Qualcosa che si può solo fare in modo vero e autentico. Se in fondo al cuore tu non ti senti di farlo non puoi farlo. La vera sfida è comportarsi in conformità al proprio sentire, a quello che si è veramente in profondità, e accettare di dire: “Vorrei amarti così ma non ci riesco, non ora”. La vera sfida è essere autentici. Se non ci riesco, devo avere il coraggio di dirmelo e partire da questa consapevolezza per cercare di crescere. È importante rispettare la mia verità perché altrimenti fallisco, e se fallisco mi porto dietro solo risentimento. L’amore non è un dovere, Dio non vuole il sacrificio. Noi mischiamo amore e dovere ma Isaia dice:  “Dio non vuole sacrificio. Amore è gioia, è una festa , è buono solo se libero” ».

Come l’amore di Maria?
«Maria è una donna veramente libera. È stata capace di guardare, di relazionarsi con Dio, da una posizione di parità. Quando Dio le chiede se vuole avere un figlio da Lui, se vogliono un figlio insieme, la prima reazione di Maria è di stupore. Come possiamo immaginare questa interazione tra Dio e un essere umano, una donna? Dio le dice. “Io non sono Dio perché detto delle regole, perché ti dico cosa devi e cosa è giusto fare, perché sono l’adulto; ma semplicemente perché sono la vita stessa. Tu e io possiamo interagire solo se lo desideriamo, se lo desideri”. Dio ci ha dato la dignità e la scelta».

Due le figure femminili di riferimento nel Vangelo: Maria Maddalena e Maria di Nazareth…
«Io ti ho risposto su Maria di Nazareth attraverso la mia esperienza. Ma se tu mi chiedi come nella tradizione Maria Maddalena e Maria di Nazareth possano essere interpretate è un’altra storia. Forse tu non lo sai, io sono cresciuta in una famiglia atea. Ho letto per la prima volta il Vangelo a 15 anni: ne rimasi impressionata. La mia seconda lettura è stata Gesù Cristo il liberatore di Leonardo Boff. Nessun racconto di Dio quando ero una bambina. Andavo in Chiesa solo per battesimi e comunioni. Dalle mie letture posso dirti che la tradizione vuole Maria come una donna sottomessa ma nel vangelo Maria è descritta come una giovane donna che sa cosa vuole, che prende decisioni che la riguardano, che dice sì a Dio. Leonardo Boff, nel suo libro, dipinge Maria come una donna capace di essere la compagna di Dio. Maria vuole essere incinta di Dio. È straordinario il suo desiderio. Sappiamo che una donna può rimanere incinta di un uomo che non ama, ma spiritualmente non si può. Non si può stuprare una donna spiritualmente; fisicamente si, ma non spiritualmente. Dio non s’impone a lei con la forza, Dio chiede a Maria e Maria dice sì e rimane incinta perché si amano. Per me è molto bello perché è quello che Dio vuole con ognuno di noi: rendere spiritualmente incinta o incinto ognuno di noi per portare Dio nel mondo. Io credo che il Dio (lui o lei) cristiano non si vuole imporre, è un Dio che esiste nello spazio e nel tempo se noi gli diamo la vita come Maria».

Ma allora l’uomo, il maschio, può dare la vita?
«Sì, certo, perché noi siamo queer e diamo la vita. Tutti gli immaginari femminili possono applicarsi anche agli uomini, e viceversa, perché, come diciamo nella Chiesa, Maria è un modello per tutti, non solo per le donne. Maria è la perfezione dell’umanità, e Gesù anche: entrambi per gli uomini e per le donne. Gesù è fonte di ispirazione per tutti e così Maria. Gesù è Dio e Maria non è Dio ma è ciò che l’umanità può essere quando è piena di Dio e dunque è come Dio. Non c’è una gerarchia. Dio dice: “Io non vi chiamo miei servi ma miei amici”. Io credo che questo sia una liberazione: non abbiamo un Dio che sta sopra e che opprime. Dio ha tutto il potere, ma non lo usa per opprimere, bensì per incoraggiare. Ci salva più e più volte dalla nostra paura di meritarci la morte».

 Sei favorevole al matrimonio Gay?
«Si, perché le identità sessuali non vanno considerate come scatole chiuse che Dio vuole complementari le une con le altre e che devono restare per sempre così, fissate in ruoli definiti e separati. Vivo nel mondo e vedo persone dello stesso sesso che si amano e mi chiedono: “Perché dovrebbe essere sbagliato?”. Sembrano felici, si amano davvero. Perché dunque non dovrebbero essere benedetti? Perché non dentro alla Chiesa? Perché non dobbiamo esultare di fronte all’amore qualunque forma assuma? Certo, se c’è rabbia e risentimento, se si agisce con violenza nella coppia non va bene, ma questo può succedere in qualsiasi coppia, che sia etero o omosessuale. Il punto centrale è come due persone stanno insieme. Certo, da coppie etero possono nascere bambini e da coppie omosessuali no; ma non credo che questo sia l’aspetto fondamentale del matrimonio. Io amo molto i bambini (ne volevo nove) e credo siano importantissimi; ma il punto centrale della vita di coppia per me è un altro. Il segreto del matrimonio è essere due che provano a essere uno e poi tornano ad essere due. È come Dio nella Trinità: siamo uno ma siamo anche separati. Questo si può esperire anche in una vita comunitaria, in modi molto differenti. Nella coppia si raggiunge la massima intimità tra due persone; non è facile, ma è una forma di cammino a due. Si cresce in questo cammino e si mostra agli altri come l’amore possa trasformare la realtà e quali miriadi di relazioni siano possibili tra esseri umani. Tutto questo è molto affascinante».

Come definisci l’autodeterminazione? Credi sia un diritto?
«Sì, credo sia un diritto; ma andrei cauta nell’usare la lingua dei diritti. Attualmente sto studiando la filosofa Simone Weil, che ha scritto molto su questo tema, in modo per me convincente. Lei sostiene che sarebbe oggi necessario sostituire la parola “diritto” con la parola “dovere”. Non parliamo del dovere di essere sottomessi a un’autorità; ma di doveri verso coloro che hanno dei bisogni, che sono in sofferenza. Questo credo sia un sano sostentamento per la società. Noi riteniamo che i diritti siano la base di una società libera, bene. Ma poi la filosofa Hannah Arendt chiede: “Chi ha diritto ad avere diritti?”. Ci sono persone che non hanno diritto di avere diritti. Immagina una ragazza di 12 anni costretta a prostituirsi: dove sono i suoi diritti? Dovrebbe averne. Invece molte persone non hanno diritti; dunque noi gli raccontiamo bugie. Noi diciamo che la dignità delle persone viene dal fatto che abbiamo dei diritti. Quella ragazza non li ha, nella pratica, nella sua vita reale. Dunque di cosa parliamo? Il problema è che i diritti non sono reali. Nella vita reale questa ragazza ha dei bisogni, non dei diritti. E allora iniziamo a parlare dei bisogni e, forse, riusciremo a cambiare qualcosa. Certo, il tema dei diritti è un tema forte, mentre se si parla di bisogni sembra di tornare indietro; ma bisogna guardare in faccia la realtà. Forse la domanda filosofica che dovremmo porci è questa: “Perché ci sembra negativo avere dei bisogni?”. Io non voglio sminuire il discorso della dignità ma voglio veramente prendere sul serio i problemi di questa giovane ragazza e per farlo devo parlare una lingua che per lei abbia un senso. Per lei ha senso capire di cosa ha bisogno, mentre se le parlo di diritti si sente senza dignità e non può capire cosa vuole».

Però tu hai detto che sei per l’autodeterminazione…
«Per me autodeterminazione è la libertà. Essere una persona, essere fatta a immagine e somiglianza di Dio, vuole dire che nessuno può dirmi cosa devo fare, devo muovermi dentro e fuori per trovare la mia verità. Un oggetto lo muovi da un posto a un altro, un soggetto deve muoversi da solo; puoi dargli suggerimenti, consigli, ma poi decide da solo. Cosa penso dell’aborto? Non sono a favore dell’aborto, ma non credo sia giusto che uno Stato abbia il potere di mettere una donna in prigione perché decide (entro un certo periodo) di non portare a termine la gravidanza. Nei primi cinque mesi di gravidanza, quando il bambino è ancora totalmente dipendente dalla madre per vedere la luce e vive grazie alla totale intimità con la madre, è giusto che sia la madre a prendere una decisione. Noi dobbiamo aiutarla a prendere questa decisione, perché in gioco ci sono due vite: quella della madre e quella del feto. Nessuno può forzare una madre in una direzione. Lei deve potere esercitare la sua libertà di scelta».

 

nel nome di Gesù nessuna esclusione

non si escluda nessuno nel nome di Gesù 
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La disputa sulla riammissione ai sacramenti dei divorziati risposati non accenna a sgonfiarsi. Solo di qualche settimana fa è la notizia, per esempio, che la maggior parte dei vescovi tedeschi appoggia la soluzione aperturista prospettata dal card. Walter Kasper nel Concistoro del febbraio 2014 (v. Adista Notizie n. 1/15), ed è prevedibile che all’avvicinarsi del Sinodo di ottobre, incaricato di individuare adeguate linee operative pastorali sul tema della famiglia, il fuoco incrociato si faccia sempre più intenso.

Così è avvenuto in prossimità del Sinodo straordinario dello scorso autunno, quando in tanti, tra cardinali, vescovi e teologi, hanno pensato di mettere nero su bianco le loro aspettative e i loro timori. Tra le iniziative di questo tipo spiccava, sul fronte conservatore capitanato dal prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, card. Gerhard Ludwig Müller, il volume Permanere nella verità di Cristo. Matrimonio e comunione nella Chiesa cattolica (edito in Italia da Cantagalli) che raccoglie le risposte di cinque cardinali e quattro esperti alla “proposta Kasper” di armonizzare fedeltà e misericordia nella pratica pastorale con i divorziati risposati. I nomi dei cinque pezzi da novanta non riservavano particolari sorprese, avendo tutti già preso posizione sulla questione nei mesi antecedenti alla pubblicazione: oltre a Müller, a firmare i saggi che compongono il volume sono Walter Brandmüller, presidente emerito del Pontificio Comitato di Scienze Storiche; Raymond Leo Burke, allora prefetto della Segnatura Apostolica; Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, e Velasio De Paolis, presidente emerito della Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede (v. Adista Notizie n. 32/14). Nel testo i cinque cardinali – come si evince anche dal titolo – fanno largo uso dell’argomento scritturistico per confutare la “proposta Kasper”, ma se è innegabile che Gesù abbia parlato dell’indissolubilità del matrimonio, molto invece c’è da dire circa l’interpretazione di quelle parole.

Ed è precisamente su questo aspetto che pone l’accento il teologo Xavier Alegre in un intervento pubblicato sull’ultimo Quaderno del centro studi Cristianisme i Justícia (dicembre 2014), interamente dedicato al tema della riammissione ai sacramenti dei divorziati risposati, e che, pur non costituendo una risposta al volume di Cantagalli, si inserisce a pieno titolo nel dibattito in corso (oltre a quello di Alegre, il volumetto contiene gli interventi di José Ignacio González Faus, Jesús Martínez Gordo e Andrés Torres Queiruga).

Partendo dall’assunto che i testi non possono mai essere presi alla lettera e che si deve sempre tener conto del contesto nel quale sono stati scritti, Alegre sottolinea che «Gesù nei Vangeli non assume mai un atteggiamento legalista»: «Se qualcosa lo caratterizza, e caratterizza il Dio che vuole rivelare con le sue parole e azioni, questo è la misericordia». Per questo, secondo Alegre, le parole di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio vanno lette alla luce della subalternità della moglie nel rapporto coniugale del tempo: insomma, per denunciare il diritto matrimoniale dell’epoca che consentiva solo al marito di prendere l’iniziativa di divorziare, Gesù «si rifà alla volontà originaria di Dio nella creazione che difendeva, come ideale, l’amore indissolubile tra marito e moglie». Ma affermando un’ideale valido tanto per l’uomo quanto per la donna, prosegue Alegre, Gesù non proclama una legge, bensì un progetto ideale di vita. «Gesù – prosegue il teologo – accoglie incondizionatamente, confidando che l’esperienza della sua accoglienza amorosa aiuterà ad avvicinarsi al Padre». Di fatto, è la sua conclusione, «non partecipiamo all’eucarestia perché siamo buoni, ma affinché lo si possa essere grazie all’unione intima con Gesù».

di seguito, in una traduzione dallo spagnolo da parte di Adista – da cui è preso questo prezioso contributo -, l’intervento di Alegre tratto da Cristianisme i Justícia, il cui volumetto è disponibile integralmente, in spagnolo e catalano, sul sito http://www.cristianismeijusticia.net/es/quaderns. (ingrid colanicchia)

La posizione di Gesù sul matrimonio

di Xavier Alegre

È degno di attenzione il fatto che, secondo i Vangeli, Gesù parlò poco del matrimonio e della sessualità, mentre la denuncia dei pericoli della ricchezza fu un aspetto fondamentale della sua predicazione, soprattutto nel Vangelo di Luca. Sorprende, quindi, che nel Magistero della Chiesa la proporzione sia inversa e soprattutto fa specie il contrasto nel modo in cui il Magistero affronta la morale sociale e la morale sessuale.

In materia di morale sociale, come sottolinea il Catechismo della Chiesa cattolica (n. 2423), «la dottrina sociale della Chiesa propone principi di riflessione; formula criteri di giudizio, offre orientamenti per l’azione». In tutto ciò che riguarda la morale sessuale, invece, dichiara in modo tassativo ciò che è lecito e ciò che non lo è. Tuttavia, niente nella Bibbia giustifica questa diversità di atteggiamento rispetto ai testi relativi a Gesù nei Vangeli.

RIFLESSIONI PREVIE

Se si vuole comprendere quale fu l’atteggiamento di Gesù rispetto al matrimonio e, di conseguenza, cosa Gesù si aspettasse dai suoi seguaci, ieri come oggi (cfr. Rom 15,4), mi sembra importante sottolineare che c’è un presupposto fondamentale di cui tener conto quando si legge un testo biblico: i testi non possono mai essere presi alla lettera, sulla base di una lettura fondamentalista, prescindendo dal contesto letterario e socioculturale nel quale furono scritti. Pertanto, i ricordi di Gesù trasmessici dai Vangeli devono essere interpretati adeguatamente, come qualsiasi altro testo, ancor più se antico.

E ciò implica due cose. In primo luogo, non devono essere letti al di fuori del contesto letterario globale dei Vangeli, poiché «un testo fuori contesto si converte facilmente in un pretesto». Né, in secondo luogo, possono essere letti senza tener presente il contesto storico-sociale e culturale nel quale sono nati, se non vogliamo finire per leggerli a partire dal nostro contesto e dai nostri preconcetti, anziché a partire dalla mentalità biblica.

La Bibbia non corrisponde a un dettato di Dio, ma è, in quanto parola umana, rivelazione di Dio pienamente incarnata nel contesto culturale nel quale i testi furono scritti. Così evidenziò il Concilio Vaticano II nella Costituzione Dei Verbum. Per questo, una rilettura continua, attraverso questa «biblioteca» che è la Bibbia, dei testi fondamentali che rispondono a un’esperienza profonda di Dio in un momento concreto, è il filo conduttore di cui è intessuta la Bibbia. Questa rilettura la troviamo già nell’Antico Testamento a proposito dell’esperienza dell’Esodo e per i cristiani culmina con la rilettura attualizzata dell’Antico Testamento condotta da Gesù di Nazareth (cfr. Mt 5,17-48). E portata avanti dai suoi discepoli nel Nuovo Testamento.

L’ATTEGGIAMENTO DI GESÙ RISPETTO AL MATRIMONIO SECONDO I VANGELI

Nonostante Gesù abbia parlato poco del matrimonio, sembra innegabile, secondo i Vangeli (e Paolo lo dà per assodato), il fatto che Gesù proclamò che, nel progetto di Dio, il matrimonio era, in principio, indissolubile. E condannò fermamente il divorzio in due testi fondamentali, in origine indipendenti: nel Vangelo di Marco (10,1-12, un testo che raccoglie Matteo 19,1-12), e in una fonte che si è persa, ma che fu raccolta da Matteo e Luca (Mt 5,31-32; Lc 16,18).

Che intendeva Gesù? Per interpretare adeguatamente questi testi, non dobbiamo dimenticare che Gesù, secondo i Vangeli, pronunciò anche molte altre parole radicali: per esempio, ai discepoli che avrebbero dovuto ricoprire un ruolo di leadership nella Chiesa, disse che non avrebbero dovuto farsi chiamare «padri» o «maestri» » (Mt 23,9-10), né avrebbero dovuto indossare abiti speciali o occupare sempre i primi posti nelle riunioni ecclesiali (Mt 23,4-8). E ammonì tutti i cristiani a non fare giuramenti (Mt 5,33-37), a porgere l’altra guancia (Mt 5,38-42) e ad amare i propri nemici (Mt 5,43-48).

È ovvio che la Chiesa non ha preso alla lettera tutte queste parole, e altre simili (come Mc 10,25), ad eccezione di quelle sul divorzio. La domanda che dobbiamo porci, allora, è se è giustificato che le parole relative al divorzio debbano essere interpretate – per fedeltà a Gesù! – alla lettera. Di modo che, per esempio, un divorziato che si risposi e abbia relazioni sessuali con il proprio partner debba essere escluso dalla partecipazione all’eucarestia, come ha interpretato il Magistero della Chiesa cattolica, a differenza di quanto avvenuto nella Chiesa ortodossa (o in quelle evangeliche), in cui è permesso un nuovo matrimonio.

LE INTENZIONI DELLE PAROLE DI GESÙ SUL DIVORZIO

Per rispondere adeguatamente alla domanda su come si debbano interpretare questi testi è necessario guardare alla volontà di Gesù rivelata dai Vangeli, così come è necessario tenere presente il contesto socioculturale e letterario nel quale si collocano le sue parole sul divorzio.

La volontà di Gesù

A differenza di come sono presentati farisei, scribi e sacerdoti ebrei, Gesù nei Vangeli non assume mai un atteggiamento legalista. Se qualcosa lo caratterizza – e caratterizza il Dio che vuole rivelare con le sue parole e azioni – è la misericordia. Perché così è Dio. E così devono essere i discepoli: «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro» (Lc 6,36).

E lo esemplifica nel modo in cui agisce: accogliendo, condividendo la tavola con i peccatori e gli emarginati, criticando quanti si credevano pii, in maniera da rivelare con questo atteggiamento che Dio ama tutti, buoni e cattivi, facendo sorgere il sole tanto sugli uni quanto sugli altri (Mt 5,44-45).

Più che norme concrete, quello che propugna sono atteggiamenti determinati, profondamente umanizzanti. Egli invita alla perfezione come vocazione (Mt 5,48), non come legge. E le leggi, anche quelle più sacre per gli ebrei, come l’obbligo di non lavorare di sabato (Es 20,8-10), non devono essere interpretate alla lettera, poiché sono promulgate da Dio per il bene dell’essere umano (Mc 2,27).

Nella gerarchia dei valori di Gesù, il bene dell’essere umano supera qualsiasi altra legge, per quanto sacra (Mc 3,1-6; Gv 5,1-18). Per questo non va interpretata alla lettera (Mt 5,21-48).

La situazione socioculturale del matrimonio al tempo di Gesù

La concezione del matrimonio nel mondo ebraico di Gesù è radicalmente diversa da quella odierna. Secondo la legge, la relazione tra moglie e marito non era di eguaglianza, né il matrimonio era una scelta libera della coppia, ma rispondeva a determinati interessi, fondamentalmente economici, delle rispettive famiglie. In questo contesto, la donna era chiaramente marginalizzata, appartenendo fino al matrimonio al padre e poi al marito. Quest’ultimo, secondo la concezione più permissiva della scuola del rabbino Hillel, basata su Dt 24,1, poteva separarsi dalla moglie per qualsiasi motivo (per esempio, perché aveva incontrato una donna più giovane e bella). Oppure, secondo la concezione più rigida della scuola del rabbino Shammai, poteva divorziare solo in caso di adulterio. La donna, invece, non poteva prendere l’iniziativa di divorziare per alcun motivo.

In questo contesto sociale, i farisei chiedono a Gesù (secondo Marco 10,1-12, per metterlo alla prova) se è consentito al marito separarsi dalla moglie. Sanno bene che Gesù non è un legalista e che non interpreta mai la Legge in modo fondamentalista ma sempre a favore dei più vulnerabili (e nel caso del divorzio era la moglie a esserlo). E cercano quindi un’occasione per accusarlo di non rispettare la Legge di Dio.

Gesù rifiuta questa casistica destinata a emarginare le donne (al contrario, secondo testi come Luca 8,1-3, permette persino alle donne, contraddicendo quanto sostenevano i rabbini, di essere discepole; cfr. Lc 8,1-3; 10,38-42). Però, per denunciare l’ingiustizia derivante dalla casistica rabbinica, si rifà alla volontà originaria di Dio nella creazione, che difendeva, come ideale, l’amore indissolubile tra marito e moglie (in Marco 10,5-9, cita il testo di Genesi 1,27 e 2,24). È un ideale, spesso utopico, più che mai attuale, oggi, in un matrimonio plasmato fondamentalmente sull’amore della coppia.

Da buon ebreo del suo tempo, Gesù avrebbe dovuto parlare del divorzio solo dal punto di vista dell’uomo, che era l’unico legittimato a divorziare (cfr. Mc 10,2-9). Però Marco, che vive in una cultura romana, in cui l’uomo e la donna sono maggiormente equiparati quanto a possibilità di divorzio, aggiunge i versetti 11-12, esplicitando l’intenzione di Gesù in un nuovo contesto: questo ideale di unione matrimoniale indissolubile è valido tanto per l’uomo quanto per la donna.

Così facendo, Gesù non proclama una legge, ma un progetto ideale di vita. Perché, come sottolinea lo studioso cattolico Gerhard Lohfink, la forma letteraria che il Vangelo utilizza qui non è, anche se lo sembra, quella di un testo giuridico inappellabile, ma quella di un’esortazione e di una sfida «senza dimenticare il suo carattere provocatorio», come accade anche con altre affermazioni di Gesù (per esempio Mt 7,13s; 19,24).

Gesù, pertanto, vuole smascherare l’ingiustizia contro le donne che deriva dal diritto matrimoniale giudaico e anche promuovere (come profeta, non come legislatore) l’amore radicale nella coppia come applicazione concreta del principio di amore per il prossimo (Mt 22,39). Un amore che trova la sua realizzazione in quel principio che è la quintessenza di quanto chiedono la Legge e i profeti: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7,12).

Il contesto letterario delle parole sul divorzio

Ciò che abbiamo detto è confermato dal contesto letterario nel quale gli evangelisti situano le parole di Gesù sul divorzio.

Il primo testo, attribuito a Gesù, lo troviamo in Marco 10,1-12. Oltre a quanto abbiamo visto sul senso della forma letteraria di questo testo, conviene tenere presente il contesto letterario nel quale Marco lo situa. Si trova in un blocco fondamentale del suo Vangelo, nel quale – anche per comprendere meglio ciò che significa per i seguaci di Gesù il fatto che Gesù è il Messia, l’Unto (Mc 8,27-39) –, Marco concretizza i valori fondamentali indicati da Gesù a quanti lo vogliono seguire (cfr. Mc 8,31-10,45), inquadrandoli con tre annunci della morte e resurrezione di Gesù (Mc 8,31; 9,31; 10,32-34). Questi valori, che, se vissuti con radicalità, possono facilmente portare alla croce (Mc 8,34), contengono parole di grande radicalità: che i ricchi, se vogliono essere perfetti, devono dare ai poveri i loro averi (Mc 10,23-27); che è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago piuttosto che un ricco entri nel regno dei cieli (Mc 10,25); che, se la nostra mano o il nostro piede è occasione di scandalo per i piccoli, è preferibile tagliarli (Mc 9,42-48). O che colui che vuole essere il primo e il più grande deve farsi servitore di tutti (Mc 10,42-45). E affinché non si spiritualizzi indebitamente tutto ciò, lo contrappone a ciò che fanno i re e i politici, allora come oggi.

È dunque tenendo presente questo contesto che dobbiamo interpretare le parole di Gesù sul divorzio. Il secondo testo (Mt 5,31-32 o Lc 16,18) Matteo lo colloca all’interno del discorso della montagna (Mt 5-7) che, in nessun caso, vuole essere un Codice di diritto canonico o una proposta di legge immutabile, ma un ideale dinamico di vita cristiana, impegnata a favore del progetto di Dio (quello che Gesù chiama il Regno di Dio). Luca lo colloca nel cammino verso Gerusalemme (Lc 9,51-19,28), in un ampio testo in cui il terzo evangelista presenta i grandi valori cristiani che, se vissuti con la stessa radicalità di Gesù, finiscono – in un mondo tanto ingiusto, allora come oggi – per condurre alla croce. Un testo che, tra le altre cose, contiene dure critiche contro i ricchi che non vogliono condividere (Lc 12,13-21; 16,1-13.19-31), fino all’affermazione che non si può servire Dio e mammona (Lc 16,13). Questo contesto non permette in nessun caso di interpretare tali testi come leggi immutabili.

Reinterpretazione delle parole sul divorzio in Matteo e Paolo

La conferma la troviamo nel Vangelo di Matteo e nella Prima Lettera di Paolo ai Corinzi, dove le parole di Gesù sul divorzio non sono interpretate alla lettera, come una legge assoluta e senza eccezione, ma vengono attualizzate in rapporto alle nuove situazioni che stavano vivendo le loro comunità.

Per questo, Matteo aggiunge al versetto 5,32 (che non sembra parola di Gesù poiché non si trova in nessun altro testo del Nuovo Testamento) un’eccezione alla proibizione di divorzio: la sua comunità lo accetta in caso di adulterio (o di «impurità legale» per il matrimonio ebraico, secondo alcuni studiosi).

Paolo, in 1Cor 7,10-11, ricorda alla sua comunità, come un ordine del Signore, che moglie e marito non devono separarsi e che, se lo fanno, non devono risposarsi, poiché sembra considerare la possibilità di una riconciliazione (…). Tuttavia non la considera una norma assoluta, poiché accetta almeno un caso concreto in cui il divorzio e le nuove nozze appaiono qualcosa di legittimo: si tratta del caso in cui è un non credente a volersi separare. In questo caso il o la credente è libero (…). Questa eccezione è stata chiamata nella Chiesa “privilegio paolino”.

CONCLUSIONE

Stando così le cose, quale deve essere oggi l’atteggiamento di una Chiesa che vuole essere fedele a Gesù rispetto ai divorziati risposati? Bisogna escluderli dalla partecipazione all’eucarestia a meno che non rispettino alcune condizioni, come quella di non avere rapporti sessuali?

Indipendentemente dal fatto che ci sia stato o meno peccato nel processo di separazione – in alcuni casi è ovvio che non c’è stato e in altri forse sì – dobbiamo tenere presente, per quanto abbiamo visto nei Vangeli, che Gesù accoglie incondizionatamente, confidando che l’esperienza della sua accoglienza amorosa aiuterà ad avvicinarsi al Padre. Di fatto, se andò a mangiare a casa di Zaccheo, non è perché questi aveva chiesto perdono per i suoi peccati e si era riconciliato con il popolo di Dio (Lc 19,1-10). Né pose condizioni ai peccatori invitati alla sua mensa (Mc 2,15-17). Partecipare all’eucarestia è sempre dono e grazia per tutti. E chi pensa di essere senza peccato scagli la prima pietra (Gv 8,1-11). Non partecipiamo all’eucarestia perché siamo buoni, ma affinché si possa esserlo grazie all’unione intima con Gesù.

D’altra parte, con che diritto ci permettiamo di giudicare? E lo stesso vale per gay e lesbiche, un tema che qui non abbiamo potuto trattare ma che allo stesso modo richiederebbe una rilettura e una reinterpretazione dei testi biblici alla luce del contesto socioculturale e letterario nel quale sono collocati.

Dopo quanto abbiamo visto, sembra ovvio che non si possa giudicare ed emarginare i divorziati – neppure se risposati – in nome di Gesù, così come ci è rivelato nei Vangeli. I testi evangelici, letti nel loro contesto, non danno luogo alla loro condanna e ancor meno alla loro esclusione dall’eucarestia: poiché non è questo il senso dei testi che troviamo nei Vangeli.

Inoltre, ogni cristiano deve tenere ben presente l’avvertimento di Gesù che il giudizio sulle persone compete solo a Lui. Ed è giusto che sia così, poiché è ovvio che Egli ci ama. Al contrario, Gesù ci ha ammonito a non cercare di sradicare dalla comunità ciò che si pensa possa essere zizzania, poiché corriamo il pericolo di sradicare con la zizzania anche il grano (Mt 13,24-30.36-43). E ci ha anche invitato a fare molta attenzione nel giudicare gli altri poiché Dio ci giudicherà con lo stesso metro che abbiamo utilizzato per loro (Mt 7,1-2).

Fonte: Adista n. 8/2015
Link: http://www.adistaonline.it/index.php?op=articolo&id=54763

al sinodo è in ballo una nuova chiesa

piazza_san_pietro-vaticanoIl sinodo. Una nuova chiesa

di Marco Marzano
in “santalessandro” – settimanale diocesi di Bergamo – (http://www.santalessandro.org) del 12 ottobre 2014

 

L’oggetto del confronto, talvolta molto aspro, in atto in questi giorni al Sinodo della famiglia non è solo la questione della riammissione dei divorziati all’eucaristia o l’atteggiamento della Chiesa verso l’omosessualità e le coppie di fatto. In gioco c’è il futuro dell’intera istituzione, il suo assetto interno e il suo rapporto con il mondo e la società moderni. Se a prevalere fosse infatti l’opinione di coloro che rifiutano ogni cambiamento nella dottrina e nella prassi pastorale, si accentuerebbe nel futuro la fisionomia di Chiesa che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno di fatto incoraggiato durante i loro pontificati: un’organizzazione sostanzialmente autoritaria e monarchica, con un capo (il papa) che decide tutto e per tutti, sposando sempre e comunque la fedeltà ad una tradizione considerata come un feticcio immutabile. Un’organizzazione nostalgica dell’epoca presecolarizzata, lontana dallo spirito dei tempi, dal “mondo”, dalla sensibilità e dagli orientamenti profondi delle grandi masse dei contemporanei, destinata inevitabilmente a svolgere, nella nostra società, il ruolo di raccogliere ed assistere non solo le ridotte truppe dei fedelissimi della tradizione, ma anche molte delle “vittime” della modernità, coloro che non ce l’hanno fatta a convivere con la cultura della libertà e della scelta e che per questo cercano rifugio in mondi artificiali e “protetti” come quelli delle sette, anche di quelle cattoliche. Un cattolicesimo che potremmo definire “di resistenza”, “difensivo”, settario perché inevitabilmente separato e in conflitto con la cultura del suo tempo, orgogliosamente geloso della propria minoritaria diversità, di un’alterità rigidissima e irriducibile rispetto al resto dell’umanità. All’estremo opposto di questa forma di Chiesa sta il cattolicesimo che anche Papa Francesco sembra intenzionato, pur con molta gradualità, a promuovere: un’istituzione maggiormente democratica, nella quale non vi è, malgrado l’enorme pressione mediatica in questa direzione, un “uomo solo al comando”, ma nella quale si discute, ci si divide, ci si confronta, si cerca di accantonare la sicumera e l’arroganza di chi giudica e ci si mette in ascolto del prossimo, accettando anche, come inevitabile conseguenza, di dare di sé, come Chiesa, un’immagine meno monolitica e più frammentata, meno ordinata e più plurale. In questa settimana, anticipata dal gigantesco e inedito sondaggio sul tema del sinodo tra i fedeli di tutto il mondo, la “filosofia dell’ascolto” è divenuta realtà, e non solo negli infuocati dibattiti tra gli illustri partecipanti all’assemblea, un fatto comunque senza precedenti nella chiesa-caserma dell’ultimo mezzo secolo dove il dissenso era inammissibile e inesistente, ma anche nelle voci autentiche che sono giunte dalla grande periferia della Chiesa, dalla base cattolica. Non si erano mai sentite in un sinodo pronunciare parole come quelle dei cattolici brasiliani Arturo ed Hermelinda, sposati da quarantuno anni e con tre figli: “i metodi contraccettivi naturali – hanno detto i due responsabili regionali dell’Equipe di Notre Dame – sono buoni, ma nella cultura attuale ci sembrano privi di praticità, tanto che anche le coppie cattoliche nella grande maggioranza non rifiutano l’utilizzazione di altri metodi contracettivi”. Un’altra coppia, gli australiani Pirola, ha raccontato di loro amici che hanno un figlio gay e hanno accettato di conoscere e di accogliere in famiglia il suo compagno. I Pirola hanno poi candidamente ammesso di trovare sconcertanti i documenti della Chiesa dedicati alla famiglia: “Sembrano provenire – hanno detto i due coniugi – da un altro pianeta, sono redatti in un linguaggio difficile e non così terribilmente rilevanti per le nostre esperienze. Molte espressioni sono antiquate e presentano concetti che non necessariamente invitano le persone ad avvicinarsi a Cristo e alla Chiesa”. Parole dure, taglienti come una lama che si infila nel costato per molti di coloro che le hanno udite nell’assemblea. E tuttavia un esercizio di quella parresia che il papa ha invocato all’apertura del
Sinodo, di quel pronunciare verità scomode che a prima vista sembra ferire e sconvolgere, ma che in definitiva consiste in un gesto di amore per gli altri, uno dei più grandi che si possano compiere. E in quella sala forse il segno dell’inizio di un tempo nuovo per la Chiesa Cattolica.

la grande attesa del sinodo

Il sinodo sulla famiglia sta per aprirsi tra forti aspettative e dubbi sullo svolgimento

di Dennis Coday
(in “ncronline.org” del 26 settembre 2014)

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La prima importante iniziativa del pontificato di papa Francesco si aprirà il 5 ottobre a Roma, quando Francesco riunirà il Sinodo dei vescovi per discutere sulla vita familiare nella società contemporanea. Il tema è “le sfide pastorali della famiglia nel contesto dell’evangelizzazione”, e i membri del sinodo saranno interrogati sulle nuove vie da trovare per migliorare l’applicazione pastorale degli insegnamenti della chiesa, i modi di spiegarlo, e i modi per aiutare i cattolici a viverlo. Il Sinodo proseguirà fino al 15 ottobre. L’interesse e le aspettative per questo sinodo sono state molto forti, in parte a causa dell’inchiesta basata sul questionario di 39 domande inviato l’anno scorso dal Vaticano ai vescovi di tutto il mondo e alle loro conferenze episcopali. Una lettera dal segretariato del sinodo chiedeva ai vescovi di consultare “immediatamente” e “il più ampiamente possibile” i fedeli nelle loro diocesi e parrocchie su temi come la contraccezione, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, il divorzio e altri argomenti riguardanti la vita familiare. L’intenzione era quella di ottenere una consultazione importante a livello locale. Lo svolgimento molto differenziato della consultazione causò grande stupore tra molti laici cattolici, cosa per cui molti si chiesero se il sinodo sarebbe stato un mero laboratorio di discussione tra vescovi. Gli osservatori vaticani mettono in risalto tre aspetti che potrebbero rendere questo sinodo diverso da quelli precedenti. Innanzitutto, ci si aspetta che Francesco partecipi attivamente come presidente del sinodo. L’argomento è stato scelto esplicitamente da Francesco. Lo ha promosso fin dal primo incontro con il segretariato del sinodo tre mesi dopo la sua elezione e ne ha fatto un punto chiave della sua esortazione apostolica Evangelii Gaudium (“La gioia del vangelo”) lo scorso novembre. La necessità di un aiuto misericordioso alle famiglie in difficili circostanze è un tema frequente delle sue omelie e dei suoi interventi. Quando Giovanni Paolo II era presente alle assemblee sinodali, leggeva e pregava col suo breviario. Papa Benedetto XVI era un osservatore silenzioso. Francesco, invece, agli incontri è solito rivolgersi agli oratori con domande, battute e commenti. In secondo luogo, il segretariato del sinodo sta cercando di strutturare gli interventi in maniera da incoraggiare la discussione. Gli interventi formali devono essere presentati per iscritto prima dell’inizio del sinodo. Per la prima metà del sinodo, i partecipanti devono limitarsi ad interventi di quattro minuti e sono invitati a toccare un solo punto. Sono inoltre invitati a rispondere ad altri interventi. Questi brevi discorsi sono pensati per stimolare la discussione nelle sessioni in piccoli gruppi che costituiscono la seconda metà del sinodo e dovranno essere il cuore dell’incontro. Lo stile dell’incontro dei vescovi segue il modello che Francesco era solito proporre fin dal tempo in cui era membro della Conferenza episcopale latinoamericana, specialmente quando diresse un’assemblea generale ad Aparecida, in Brasile, nel 2007. Infine, il sinodo non deve portare a conclusioni né a fare proposte. Deve discutere sulle esperienze delle famiglie attuali. Invece di un’esortazione, ci si aspetta che il sinodo produca un resoconto delle discussioni che sarà inviato alle diocesi in tutto il mondo in preparazione di un altro sinodo il prossimo anno. Qualsiasi cambiamento nelle pratiche della Chiesa su matrimonio e vita familiare non sarà introdotto ora, ma nel prossimo anno. Il Vaticano ha pubblicato la lista dei partecipanti al sinodo il 9 settembre. La lista comprende 250 persone, compresi i membri votanti e gli esperti e gli uditori non votanti. I membri votanti comprendono 114 rappresentanze delle conferenze episcopali nazionali, 13 capi delle chiese cattoliche orientali e 25 capi delle congregazioni e dei consigli vaticani.

Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

Il papa ha  nominato 26 padri sinodali. Quasi tutti sono europei, 14 sono cardinali. Tra gli esperti e gli uditori non votanti vi sono 14 coppie sposate, la maggior parte delle quali svolgono incarichi all’interno della Chiesa, nei ministeri della vita familiare o come canonisti o esperti di teologia morale. Una suora irlandese è l’unica donna religiosa invitata al sinodo. Le regole del sinodo permettono all’Unione dei Superiori Generali, il gruppo che rappresenta la leadership delle congregazioni religiose maschili in tutto il mondo, di inviare tre delegati, mentre il corrispettivo femminile, l’Unione internazionale delle Superiore Generali, non è rappresentata. Annunciando la lista dei partecipanti in Vaticano, il cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Sinodo dei vescovi nominato da Francesco, affermava che “l’aggiornamento della istituzione del sinodo” rientrava nella “dinamica di rinnovamento della Chiesa ordinato da Francesco”. “Questo progetto… sviluppa un modo nuovo e rinnovato, con azioni concrete”, disse Baldisseri. Data la lista dei partecipanti, tuttavia, alcuni sono stati in difficoltà nel trovare “un modo nuovo e rinnovato”. Il gruppo riformatore irlandese di Noi Siamo Chiesa si è dichiarato “estremamente deluso” della lista dei partecipanti. “È spettacolare e vergognoso che non sia presente neppure una persona cattolica irlandese sposata per parlare delle esperienze vissute in famiglia e per consigliare il sinodo che è incaricato specificamente di offrire soluzioni alle gravi sfide che si trovano ad affrontare le famiglie nel nostro mondo contemporaneo”, ha detto il portavoce del gruppo, Brendan Butler, in una dichiarazione il 16 settembre. Nell’aprile scorso, Noi Siamo Chiesa irlandese aveva scritto all’ufficio di Baldisseri suggerendo Mary McAleese, ex presidente irlandese, e la teologa laica Gina Menzies “come qualificate e idonee rappresentanti irlandesi al sinodo”. Butler ha dichiarato che l’ufficio del sinodo non ha risposto alla loro richiesta. Sul sito online di NCR, il giorno successivo all’annuncio di Baldisseri, il gesuita Thomas Reese aveva definito la lista dei partecipanti “una delusione per coloro che speravano nella riforma della Curia e per coloro che speravano che i laici sarebbero stati ascoltati al sinodo”. L’attuale legge canonica riguardante i sinodi stabilisce che “vi partecipano anche i capi degli uffici della Curia romana”, ma Reese nota che tale legge permette al papa di nominare ulteriori vescovi e osservatori laici e presbiteri. “La partecipazione al sinodo di membri della curia rischia di non far percepire che essi dovrebbero essere lì a servizio, non come persone che definiscono la linea”, scriveva Reese. “Potrebbero partecipare al sinodo come “staff”, ma non come membri con diritto di voto. In massima parte, dovrebbero essere osservatori e non persone con diritto di parola. Hanno tutto il resto dell’anno per consigliare il papa. Questo è il momento in cui spetta ai vescovi provenienti dal resto del mondo esprimere le loro opinioni. Se Francesco e il Consiglio dei cardinali non intendono cambiare la composizione del Sinodo dei vescovi, è difficile credere che vogliano realmente “sistemare” la Curia romana. Reese si poneva domande anche sulle nomine dei 38 uditori. “Molti osservatori sono dipendenti della Chiesa cattolica o capi di organizzazioni cattoliche…  è difficile sostenere che rappresentino tutti i cattolici. Certamente non li rappresentano alcuni che pensano che la pianificazione familiare naturale sia il grande regalo della Chiesa ai laici. E coloro che sono dipendenti della Chiesa potrebbero temere di perdere il posto di lavoro se dicessero la verità”. Mentre la lista dei partecipanti è densa di membri della curia e di altre persone riluttanti ad allontanarsi dall’insegnamento tradizionale della chiesa sulla famiglia, Robert Mickens, da lungo tempo osservatore vaticano, fa notare che Francesco ha anche nominato degli alleati per un approccio nuovo, in particolare l’arcivescovo Victor Emanuel Fernandez, rettore della Pontificia Università Cattolica d’Argentina, e il cardinale tedesco Walter Kasper. Francesco ha nominato vescovo il teologo Fernandez, cinquantaduenne, in uno dei suoi primi atti da papa. “È ben noto che Fernandez è stato il principale estensore dell’esortazione apostolica del papa”, dice Mickens. Il documento era un invito ad un approccio misericordioso verso le persone
che vivono situazioni matrimoniali irregolari, come altre che vengono considerate al di fuori delle regole previste dagli insegnamenti morali della Chiesa. “Il vescovo argentino dovrebbe essere un alleato chiave per il papa nel suo sforzo di introdurre una risposta e una prassi di misericordia per i divorziati risposati cattolici”, ha detto Mickens. Nel frattempo, Kasper viene visto come il teologo di Francesco. Francesco lo designò a pronunciare il discorso di apertura al concistoro dello scorso febbraio, e Kasper sfruttò l’opportunità per argomentare a favore di una maggiore apertura verso i divorziati risposati cattolici. Da allora, Kasper ha compiuto effettivamente un “tour di promozione” della sua idea in tutto il mondo. L’idea di Kasper è stata ben accolta da molti vescovi. Padri sinodali dalla Germania, dall’Austria e dal Belgio sono disposti a puntare ad una maggiore apertura verso le famiglie in situazioni “irregolari”. Ma Kasper ha anche incontrato un’agguerrita resistenza. Proprio a pochi giorni dall’inizio del sinodo, cinque cardinali – compreso Gerhard Müller, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e Raymond Burke, prefetto della Segnatura Apostolica – hanno insieme scritto un libro in cui difendono la dottrina della Chiesa su divorzio e successivo matrimonio. Permanere nella verità di Cristo: matrimonio e comunione nella Chiesa cattolica” sarà pubblicato negli USA da Ignatius Press. Questi cardinali saranno al sinodo. “Questo dovrebbe rendere più dinamica l’atmosfera dell’incontro”, ha detto Mickens. Se Francesco può dominare queste discussioni lo dobbiamo ancora vedere. Mickens spera che la gente non si precipiti a dare giudizi. Francesco ha detto più di una volta che vuole sviluppare il Sinodo dei vescovi come una delle componenti importanti della governance della chiesa universale. Ma si tratta in gran parte di “un lavoro in corso d’opera, ancora alle prime battute”, ha detto Mickens.

le proprietà di molti monsignori: ma che ci devono fare?

Cardinali milionari: la mappa delle proprietà private del clero

Appartamenti, ville, vigneti, uliveti, boschi. I risultati di mesi di ricerche catastali sui patrimoni personali di oltre cento alti prelati: una collezione di fortune private (regolarmente dichiarate al fisco), alla faccia dell’umiltà e alla modestia di Papa Francesco
di Paolo Biondani

Cardinali milionari: la mappa delle proprietà private del clero

Beati i poveri, perché di essi è il regno dei cieli, insegnava Gesù di Nazareth nel  Discorso della Montagna. Dopo duemila anni di predicazioni nel nome di Cristo, però, sulla terra continuano a passarsela meglio i ricchi. Non solo i laici, agnostici o miscredenti. Anche tra i cattolici più devoti c’è chi ostenta patrimoni invidiabili. E perfino tra gli alti prelati di Santa Romana Chiesa ora spunta una specie di club dei milionari: cardinali e vescovi che sono proprietari di grandi fortune private. Palazzi, appartamenti, monolocali, fabbricati rurali, capannoni, cantine, fattorie, agrumeti, uliveti, frutteti, boschi e pascoli sterminati.

Si tratta di ricchezze assolutamente lecite, spesso frutto di lasciti testamentari o eredità familiari, che non si possono in alcun modo accostare alle fortune illegali accumulate da quelle pecore nere che, ieri come oggi, non sono mai mancate neppure nelle greggi cattoliche. Dopo l’avvento di Papa Bergoglio, il pontefice che ha scelto di ispirarsi già dal nome a San Francesco d’Assisi e che non perde occasione per richiamarsi alla «Chiesa dei poveri», ammonire che «San Pietro non aveva il conto in banca», scagliarsi contro «il peccato della corruzione» e «certi preti untuosi, sontuosi e presuntuosi» che sfoggiano «macchine di lusso», però, anche in Vaticano c’è chi comincia a chiedersi quante ricchezze personali possiedano i prelati più potenti. Chi riuscirà a passare dall’evangelica cruna dell’ago?

A regalare le prime risposte documentate è il nuovo libro-inchiesta di Mario Guarino (“Vaticash”, ed. Koinè), il giornalista investigativo che più di vent’anni fa svelò molti segreti di Silvio Berlusconi quando era solo “il signor tv”. Dopo aver ripercorso i vecchi e nuovi intrighi ecclesiastici, dall’Ambrosiano allo Ior, dalle collusioni mafiose alle cricche edilizie e finanziarie, Guarino espone i risultati di mesi di ricerche catastali sui patrimoni personali di oltre cento alti prelati, con dati aggiornati all’aprile 2014. Una collezione di fortune private regolarmente dichiarate al fisco, che non ha nulla a che fare, dunque, con le polemiche sulle leggi di favore per le istituzioni religiose o sull’esenzione dalle tasse riservata ai beni degli enti ecclesiastici. Nessuno scandalo giudiziario, insomma: solo un viaggio ragionato, tra citazioni dei vangeli e appelli all’umiltà e alla modestia di Papa Francesco, alla scoperta delle fortune immobiliari, schedate nei pubblici registri del catasto italiano, che fanno capo alle persone fisiche di cardinali e vescovi. Un’inchiesta giornalistica che sfata e riserva parecchie sorprese.  

Monsignor Liberio Andreatta è da molti anni il responsabile dell’Opera romana pellegrinaggi (Orp), l’agenzia vaticana per il turismo religioso, che organizza i viaggi di milioni di pellegrini verso mete di culto come Assisi, Fatima o Medjugorje. Nato nel 1941 in provincia di Treviso, il religioso proviene da una famiglia molto in vista e oggi risulta titolare di un notevolissimo patrimonio personale: a suo nome, il catasto italiano rilascia ben 38 fogli di visure immobiliari. Monsignor Andreatta infatti possiede a titolo personale svariate centinaia di ettari di terreni, coltivati a uliveti, frutteti, boschi da taglio e castagneti, sparsi tra la Maremma e le campagne di Treviso. Nella provincia natia, precisamente a Crespano del Grappa, possiede anche un edificio di 1432 metri quadrati e, insieme ad alcuni parenti, ha altri tre immobili in usufrutto. Inoltre risulta proprietario di una serie di fabbricati rurali tra Fibbianello e Semproniano, sulle colline toscane attorno a Saturnia. Stando ai registri catastali, ha accresciuto il suo patrimonio anche in tempi recenti, acquistando tra il 2008 e il 2011 altre centinaia di ettari di uliveti in Maremma.

Grande possidente, specializzato però nell’edilizia residenziale, è anche l’attuale arcivescovo di Palermo, il cardinale Paolo Romeo, nato nel 1938 ad Acireale: nella sua cittadina d’origine risulta aver acquistato, dal 1995 al 2013, otto appartamenti e quattro monolocali in via Felice Paradiso, oltre ad alcune abitazioni per complessivi 22 vani e altri due monolocali in corso Italia. Le visure catastali, inoltre, attribuiscono all’arcivescovo la proprietà di altri nove appartamenti (più un monolocale) in otto diversi stabili in via Giuliani; tre abitazioni e due monolocali in via Kennedy; altri cinque appartamenti (il più grande di 15 vani) in via San Carlo; un altro edificio residenziale e tre monolocali in altre strade sempre di Acireale, dove è intestatario di un ulteriore appartamento in via Miracoli. Nella stesso comune siciliano, il cardinale possiede anche decine di ettari di terreni seminativi, oltre a un vastissimo agrumeto che però è in comproprietà con alcuni familiari.

Più diversificato il patrimonio personale del cardinale Camillo Ruini: l’ex presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei), nato a Sassuolo nel 1931, è proprietario di tre appartamenti e tre monolocali a Modena, in via Fratelli Rosselli. A Reggio Emilia possiede un ulteriore appartamento, più un monolocale e un seminterrato. Insieme a una sorella, inoltre, è cointestatario di un’abitazione (con pertinenze immobiliari) nella natia Sassuolo. Il catasto infine attribuisce all’ex rappresentante dei vescovi italiani la proprietà di altri tre appartamenti e un monolocale a Verona.

Il cardinale Fiorenzo Angelini, nato a Roma nel 1916, storico sponsor di Giulio Andreotti ed ex responsabile della sanità vaticana, si accontenta invece della proprietà di due appartamenti su due piani a Roma, per complessivi 16,5 vani, in via Anneo Lucano, zona Monte Mario.

Molto meglio se la passano alcuni prelati che hanno assunto cariche importanti negli ultimi anni. L’arcivescovo ciellino Ettore Balestrero, nato a Genova nel 1966, che si schierò al fianco del cardinale Tarcisio Bertone nella contesa sullo Ior, è un poliglotta che ha girato il mondo e ora è nunzio apostolico in Colombia. Eppure conserva numerose proprietà in Italia, tra cui una residenza di dieci vani a Roma, in via Lucio Afranio, alle spalle dell’Hotel Hilton Cavalieri, altre quattro unità immobiliari a Genova tra le vie Tassorelli e Pirandello (la più grande è di 9,5 vani) e un appartamento in nuda proprietà a Stazzano, nell’Alessandrino, dove però possiede anche molti terreni agricoli e boschi da taglio.

Monsignor Carlo Maria Viganò, nato a Varese nel 1941, che sotto papa Ratzinger si era conquistato la fama di incorruttibile moralizzatore, proviene da una famiglia più che benestante: insieme a un familiare è comproprietario di circa mille ettari di terreni a Cassina de’ Pecchi, vicino a Milano. Nello stesso comune possiede inoltre quattro appartamenti e tre fabbricati.

Anche il vescovo Giorgio Corbellini, nato a Travo (Piacenza) nel 1947, attuale presidente dell’Autorità d’informazione finanziaria (Aif, cioè l’antiriciclaggio) dopo le dimissioni di Attilio Nicora, appartiene a una famiglia ricca. Con alcuni parenti è comproprietario, sulle colline di Bettola (Piacenza), di circa 500 ettari di boschi, due fabbricati e altre centinaia di ettari di pascoli e terreni seminativi. Inoltre possiede tre appartamenti e un fabbricato nel suo paese natale.

Il cardinale Domenico Calcagno, nato a Parodi Ligure (Alessandria) nel 1943, ha dovuto lasciare in gennaio la commissione di vigilanza sullo Ior, mentre mantiene dal 2011 la carica di presidente dell’Apsa, l’ente che amministra gli immobili dello Stato vaticano. Ma anche il suo patrimonio privato non è trascurabile: il catasto italiano gli attribuisce, tra l’altro, un appartamento di 6,5 vani in via della Stazione di San Pietro e altri quattro edifici residenziali nel suo paese natale. Inoltre, insieme a due parenti, è comproprietario di oltre 70 ettari di campi e vigneti in Piemonte.

I terreni agricoli sono un bene-rifugio molto apprezzato anche da altri prelati. L’arcivescovo Michele Castoro, presidente dal 2010 della fondazione che controlla tra l’altro il grande ospedale di San Giovanni Rotondo, possiede 43 ettari di terreni a Gravina di Puglia, oltre a vari fabbricati rurali e a due appartamenti (il più grande di 12,5 vani). Ad Altamura, dove è nato nel 1952, risulta inoltre comproprietario, con cinque familiari, di altri 63 ettari di vigneti. Mentre l’ex decano dei cerimonieri pontificali, monsignor Paolo Camaldo, possiede insieme a due parenti nella natia Basilicata, tra Lagonegro e Rivello, un totale di 281 ettari di campi e vigneti.

Il libro di Guarino riporta correttamente che decine di cardinali italiani anche con ruoli di prim’ordine, come Angelo Bagnasco, Pio Laghi, Giovan Battista Re o Angelo Sodano, non hanno alcuna proprietà immobiliare.

Nullatenente risulta, come molti altri, anche l’ex segretario di Stato, Tarcisio Bertone, criticato però per la scelta di una lussuosa abitazione intestata al Vaticano: un attico di circa 700 metri quadrati a Palazzo San Carlo, ricavato dall’accorpamento di due residenze (la prima di un monsignore morto nel 2013, l’altra di una vedova convinta a sgomberare). Va ricordato che Papa Francesco vive in un semplice bilocale di 70 metri quadrati, così come monsignor Pietro Parolin, il nuovo segretario di Stato vaticano.

Gli archivi del catasto gettano nuova luce anche sulle ricchezze personali di alcuni dei personaggi più controversi della Chiesa siciliana. Monsignor Salvatore Cassisa, l’ex vescovo di Monreale più volte inquisito dai magistrati di Palermo ma sempre assolto in Cassazione, risulta tuttora contitolare, insieme a una parente, di due immobili per complessivi 18 vani a Palermo. Con altri familiari, inoltre, ha un appartamento in comproprietà e tre in usufrutto a Erice, che si aggiungono a 26 ettari di terreni e 14 unità immobiliari (per complessivi 54 vani) a Trapani.

Un vero mistero (errore della burocrazia o qualcosa di peggio?) riguarda don Agostino Coppola, l’ex parroco di Carini che fu arrestato e condannato come complice dei mafiosi corleonesi di Luciano Liggio nella sanguinosa stagione dei sequestri di persona. Gettata la tonaca e sposatosi, si era visto sequestrare tutti i beni scoperti dai giudici di Palermo e Milano, tra cui una villa da un miliardo di lire, prima di morire nel 1995. Eppure l’ex sacerdote, che celebrò le nozze in latitanza di Totò Riina, compare tuttora come proprietario di 83 ettari di uliveti e 14 di agrumeti a Carini. A nome del defunto e dei suoi familiari è registrato pure il possesso perpetuo (con l’antico sistema dell’enfiteusi) di altri 49 ettari di campagne e due fabbricati a Partinico. Terreni concessi al prete mafioso, stando ai dati del catasto siciliano, da due proprietari istituzionali: il Demanio statale e l’Amministrazione del fondo per il culto.

una chiesa sganciata da ogni potere

V. Mancuso riflette su un modo evangelico di essere chiesa

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soltanto se ha il coraggio e la determinazione, tutta evangelica, di prendere le distanze, non solo dal potere mafioso, ma da ogni tipo di potere, sia esso economico, finanziario, politico, militare, si può dire che la chiesa comincia a configurarsi secondo l’evangelico: “tra voi non sia così”

“In Calabria la processione si ferma davanti alla casa del boss, a Milano davanti alle banche e ai consigli di amministrazione, a Roma davanti ai palazzi della politica, e così via in ogni altra città di questo mondo. La questione quindi è molto semplice e consiste nel dovere della Chiesa di rinnovarsi in radice, mostrando di non voler più sedere accanto ai poteri costituiti per venirne a sua volta riconosciuta e legittimata quale potere, ma di non avere altra finalità se non esercitare la contraddizione profetica che fu del suo Fondatore rispetto alla logica dei poteri di questo mondo”

le connivenze che Bergoglio vuole spezzare

di Vito Mancuso

in “la Repubblica” del 9 luglio 2014

Non esiste potere che non ami il riconoscimento e l’alleanza con altri poteri, sempre a condizione ovviamente che siano analoghi a sé quanto a potenza e che operino su piani diversi. Così il potere politico ama il riconoscimento del potere economico, il potere culturale il riconoscimento di quello sportivo, il potere cinematografico il riconoscimento di quello musicale, e così via in un circolo di molteplici, gradite e ricercate legittimazioni reciproche. È una logica che vale, da sempre, anche per il potere ecclesiastico, come appare dai vescovi e dai cardinali immancabilmente presenti nelle occasioni importanti della vita pubblica. Il riverente omaggio da parte della processione della Madonna alla casa del boss di Oppido Mamertina, provincia di Reggio Calabria, si inquadra esattamente in questa logica: esso non è stato altro che un pubblico riconoscimento di un potere costituito da parte di un altro potere costituito. È quanto in quei territori avviene da decenni, per non dire da secoli, con benefici da entrambe le parti, con un potere che consolida l’altro nelle menti della popolazione risultandone a sua volta consolidato. Papa Francesco non vuole più continuare questa politica connivente e oggi denuncia ciò che fino a ieri altri uomini di Chiesa quasi negavano. Si tratta di un’ottima notizia, sia per il cristianesimo sia per la società civile, ma deve essere chiaro che non si metterà fine a questa prassi solo scaricando la responsabilità sui preti e i cattolici delle regioni ad alta densità mafiosa. Infatti la logica che sottostà alla processione di Oppido Mamertina non è diversa da quella che ha portato papa Pio XI a firmare i concordati con l’Italia fascista del 1929 e con la Germania nazista del 1933, e poi papa Pio XII con la Spagna franchista del 1953. Quando vennero firmati i Patti lateranensi con Mussolini il fascismo aveva già abbondantemente mostrato il suo volto criminale e liberticida, basti pensare alla marcia su Roma del 1922, all’assassinio di Matteotti del 1924 e all’assunzione di responsabilità del Duce nel 1925; quando venne firmato il concordato con Hitler il suo antisemitismo era noto a tutti, come in quegli anni non cessavano di denunciare teologi come Barth e Bonhoeffer; e non parliamo di quanto fosse noto il vero volto di Francisco Franco nel 1953. La Chiesa cattolica però non esitò a fermare la sua processione davanti ai palazzi di quei dittatori sanguinari, ricevendone benefici e riconoscimenti e potendosi continuare a sedere tra i poteri forti d’Italia, di Germania e di Spagna. Sono solo esempi recenti di un fenomeno politico che la Chiesa cattolica ha spesso praticato nella sua lunga storia, a partire dall’epoca costantiniana, e che continua a praticare ancora oggi. Durante il potere berlusconiano l’azione del cardinal Bertone, per diversi anni numero due della gerarchia cattolica e da sempre fedelissimo di papa Benedetto XVI, che lo scelse in prima persona, è stata esattamente in questa prospettiva e oggi l’appartamento spaziosissimo che Sua Eminenza regala a se stesso in Vaticano è per la sua coscienza una giusta ricompensa per i servizi prestati alla Chiesa del potere amica dei potenti. Da tutto ciò consegue che quanto papa Francesco sta chiedendo ai cattolici delle regioni italiane infettate dalla mafia non riguarda solo i cattolici di quelle regioni, ma mette in discussione lo stile complessivo di essere Chiesa in tutto il mondo: se non si deve fermare la processione davanti alla casa del boss, neppure vi devono essere altri connubi, magari meno scandalosi, ma non per questo meno reali, con i poteri forti dei diversi territori su cui la Chiesa opera nel nome del suo fondatore. Infatti la ‘ndrangheta in quelle zone della Calabria, così come la camorra in alcune zone della Campania e la mafia in alcune zone della Sicilia non è semplice criminalità, neppure è riducibile a una criminalità organizzata in modo particolarmente efficace come potrebbero esserlo e ahimè lo sono alcune mafie straniere attive in Italia; è piuttosto un vero e proprio potere, che prima che sui corpi agisce nelle menti, vorrei dire nelle anime, delle popolazioni. Papa Francesco sta dicendo cose straordinarie e sta facendo gesti altrettanto straordinari: ma per non rimanere solo comunicazione-spettacolo, la sua azione si deve tradurre in scelte concrete che vanno a incidere sulla tradizionale politica di appartenenza ai poteri forti che la Chiesa cattolica, nel mondo intero, esercita da secoli. In Calabria la processione si ferma davanti alla casa del boss, a Milano davanti alle banche e ai consigli di amministrazione, a Roma davanti ai palazzi della politica, e così via in ogni altra città di questo mondo. La questione quindi è molto semplice e consiste nel dovere della Chiesa di rinnovarsi in radice, mostrando di non voler più sedere accanto ai poteri costituiti per venirne a sua volta riconosciuta e legittimata quale potere, ma di non avere altra finalità se non esercitare la contraddizione profetica che fu del suo Fondatore rispetto alla logica dei poteri di questo mondo.

 

 

c’è un posto per le donne nella chiesa di papa Francesco?

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le donne cercano il loro posto nella chiesa

aria nuova nella chiesa di papa Francesco, maggiore spazio alle persone rispetto alle tradizioni irrigidite, alle strutture ossificate fino al punto di schiacciare le persone

maggiore spazio alle persone soprattutto a quelle che tradizionalmente sono state più trascurate, ignorate, bocciate, subordinate, emarginate, silenziate anche da un mondo teologico storicamente e tradizionalmente maschile

riusciranno nella chiesa di papa Francesco le donne e le teologhe a trovare il loro spazio da protagoniste? papa Francesco è disposto  a mettersi in ascolto della teologia elaborata dalle donne?

tante sono le questioni e ampia la problematica  legate a questo ambito: si offrono qui di seguito (utilizzando l’apporto prezioso di ‘finesettimana’) tre contributi per illustrare alcune delle attese che il mondo femminile oggi vive per cercare e trovare il proprio posto nella chiesa:

 

Lo spostamento del baricentro dalla dottrina alla prassi (la dottrina e il culto si inverano nella pratica della giustizia) richiedono un ripensamento complessivo della vita delle nostre comunità. Ripensare l’intera struttura ministeriale della chiesa, il rapporto sacro potere. Papa Francesco è disposto a mettersi in ascolto della teologia elaborata dalle donne?

In un mondo teologico storicamente e tradizionalmente maschile, in cui sono sempre stati gli uomini a creare dottrina, morale, leggi, spiritualità, a celebrare i sacramenti e a trasmettere il Vangelo, la sapienza femminile è rimasta inespressa, complice anche una misoginia – strisciante ma non troppo – di cui la teologia maschile si è fatta portatrice

Un interessante numero della rivista bimestrale “Legendaria” dedica  un notevole spazio al tema delle donne nella chiesa. Ha chiesto a 7 donne, credenti e non credenti di rivolgerea papa Francesco 3 domande. Già avevamo riportato quella di Mariella Gramaglia apparsa anche sul neoquotidiano “pagina99”. 1)Perché non riconoscere al femminismo il molto che ha fatto per le donne? 2)perché gli ecclesiastici esercitano una superiore autorità nei confronti battezzati? 3) che fare nei confronti della povertà diffusa livello mondiale?
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