il commento al vangelo

ECCO, CONCEPIRAI UN FIGLIO E LO DARAI ALLA LUCE

commento al vangelo della solennità della Immacolata Concezione di Maria (8 dicembre) di p. José María CASTILLO

Castillo

Lc 1,26-38

Al sesto mese l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di  Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».  A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato  grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore  Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo  ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha  concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del  Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

1. È un fatto che la festa dell’Immacolata Concezione è una delle celebrazioni più importanti istituite e conservate dalla Chiesa per quanto riguarda Maria,  la madre di Gesù. La devozione e la pietà del popolo cristiano verso Maria sono elemento costitutivo ed importante nella spiritualità di molti cattolici  e di non poche istituzioni e congregazioni religiose a partire dal Medioevo. Una spiritualità che si è intensificata nei secoli XIX e XX, soprattutto in  occasione delle definizioni dogmatiche dell’Immacolata (1854) e dell’Assunzione (1950). In questi secoli hanno avuto rilievo speciale le apparizioni della  Vergine e i numerosi santuari che richiamano migliaia di fedeli.

2. La esemplarità di Maria, madre di Gesù, così come di lei parlano i vangeli, è più importante di tutto quello che possono esprimere le immagini popolari  ed i libri di pietà mariana. Non si tratta solo dell’umiltà di una giovane che di sé pensa di essere una “schiava” (Lc 1,38) nei confronti del Signore
e della vita. Maria aveva un sentimento profondo: essere una persona umile, che apparteneva al gradino più basso della scala sociale in Israele (la tapéinosis,  Lc 1,48) (W. Grundmann). Ed a partire da tale condizione pronuncia il suo Magnificat, l’inno che “evoca i pericoli del potere e della proprietà”. E che annuncia la trasformazione che farà il Signore: abbattere i potenti ed esaltare quelli che non contavano nulla (Lc 1,52-53) (F. Bovon).

3. A partire da queste convinzioni Maria ha educato Gesù, il figlio delle sue viscere. Gli ha contagiato quello che lei viveva e sentiva così fortemente.
Questo è l’aspetto più evangelico e geniale che possiamo ammirare in Maria Immacolata.

il possibile fallimento di papa Francesco

sta fallendo il papa?

José María CASTILLO

Castillo

c’è gente che si fa questa domanda. Anzi ci sono non poche persone che non se la pongono neanche. Perché sono quelle che hanno già la risposta. E ce l’hanno chiara e sicura, nel senso che, come pensano loro, effettivamente è così. Non si tratta, quindi, del fatto che Francesco sta per fallire. Si tratta del fatto che Francesco ed il modello di papato che rappresenta hanno già fallito. Ossia, questo papa non ha rinnovato la Chiesa. E non la sta neanche rinnovando

Per la semplice ragione – dicono i difensori del fallimento – che la teologia di Francesco è poca e povera. A questo si aggiunge il fatto che non ha cambiato neanche un solo canone del Codice di Diritto Canonico. E le nomine di alti incarichi nella Curia non sono state determinanti perché le cose cambino. E non ha potuto farla finita con le salde e solide convinzioni dei cardinali che si oppongono alla sua maniera di esercitare il ministero di Successore di Pietro. Allora, dopo quasi tre anni di papato, dove ci porta quest’uomo? A una nuova e più grande disillusione per la riforma della Chiesa, pensano o temono non poche persone.
Alla fine, non so se sto esagerando. Nè sono qualcuno per affermare con certezza se hanno o non hanno ragione i “profeti di sventura”, come direbbe Giovanni XXIII. La domanda che certamente credo che possa (e debba) porre è questa: chi sono quelli che affermano con certezza che questo papa ha fallito? Certamente una cosa simile non la dicono i poveri, gli ammalati, i bambini, quelli che sono rimasti senza lavoro, la gente che vive nei quartieri di periferia, coloro che scappano dalle guerre, dalle carestie, dai paesi nei quali si vedono sfruttati o in situazioni di insicurezza, di paura e di disperazione. Perché sarà così?
Affermare con certezza che questo papa ha fallito è, nè più nè meno, desiderare che fallisca. E quindi, desiderare che le cose continuino ad essere, nella Chiesa, come stavano nei papati precedenti. O forse – all’estremo opposto – quello che alcuni desiderano è che la Chiesa cambi, dal giorno alla notte, a colpi di decisioni dottrinali e legali, che obblighino un’infinità di persone a pensare in maniera diversa da come la pensavano fin da quando erano bambini. Ma un papa può fare una cosa simile in due o tre anni?
Mettiamo i piedi per terra. Il papa, chiunque sia, non può essere agente di divisione, ma modello di tolleranza, rispetto e comunione. Ma questo, in una Chiesa così divisa e frammentata come quella che abbiamo, non si consegue se non a partire dalla bontà e dalla misericordia. Esercitare il papato non è fare politica. E, men che mai, imporre decisioni che, nel migliore dei casi, si sopportano, ma non si integrano nella vita delle persone.
Le persone nelle loro vite integrano e fanno loro non quello che si impone loro per obbligo, ma quello che li attrae per seduzione. Il giorno che una notevole maggioranza vedrà nel Vangelo un “progetto di vita” che allevia pene, promuove felicità e dà senso alle nostre vite, in questo giorno la Chiesa adempirà al suo compito in questo mondo e sarà diversa. Ebbene, questo, nè più nè meno, è quello che papa Francesco sta tentando di fare. Ed è quello che ha l’intenzione di fare, se, tra l’altro, glielo permettiamo di fare.

è solo tattica pastorale quella di papa Francesco o dietro c’è un pensiero teologico?

 

La Teologia di Francesco

di José María Castillo
in “www.religiondigital.com” del 3 febbraio 2015

 

Castillo

 

 

Come è ben noto, non tutti i cattolici sono in accordo con il papa Francesco. E si sa anche che tra coloro che si oppongono a questo papa sono molti quelli che, in un modo o nell’altro, si lamentano del fatto che l’attuale Sommo Pontefice della Chiesa cattolica non è un papa “teologo”, ma un papa “pastore”. Cioè, secondo il parere di coloro che fanno queste serie obiezioni a papa Francesco, in questo momento la Chiesa si vede governata non dalla teologia, ma dalla pastorale. Ma dove va una Chiesa senza teologia? In questo consiste una delle accuse più forti che non pochi oppositori di questo papa fanno e ci pongono. Che dire su questo problema fondamentale? Il professore Gerhard Ludwig Müller, che ha scritto il suo enorme trattato di Dogmatica nell’università di Monaco ed attualmente è il cardinale prefetto della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, afferma che “la teologia è sempre l’illuminazione scientifica della confessione e della prassi di fede che Dio è presente nella creazione e si autocomunica nella sua parola, nella storia e nella persona di Gesù Cristo” (2ª ed., Barcelona, Herder, 2009, p. 20 [trad. it., Dogmatica cattolica. Per lo studio e la prassi della teologia, San Paolo Edizioni, Alba, 1999]). È evidente che nè la persona nè la parola di papa Francesco si accordano a questa definizione di teologia presentata dalla Dogmatica del cardinale Müller. Se un bel giorno la gente ascoltasse Francesco parlare in questo modo, sicuramente saremmo in molti a chiederci: “Che gli succede?”. È evidente che, dal punto di vista della “dogmatica” di Müller (e di quello che questa “dogmatica” rappresenta), Francesco non è un papa teologo. Ma questo vuol dire che Francesco è un papa senza teologia? La domanda che ho appena posto si potrebbe formulare in altro modo chiedendosi: Gesù è stato – per quello che riferiscono su di lui i vangeli – un profeta senza teologia? Sembra che la cosa più ragionevole sia rispondere che la saggia ed ampia definizione del cardinale Müller si realizza nel Gesú terreno che troviamo nella teologia narrativa dei vangeli. Questo ci porta direttamente ad una conclusione: esiste una teologia speculativa, che ci propone idee, teorie, concetti. Come esiste una teologia narrativa, che presenta una maniera di vivere. Entrambe le teologie si trovano già nel Nuovo Testamento. Quella speculativa nell’apostolo Paolo; quella narrativa nei vangeli. Certo, è importante conoscere, accettare ed avere le idee molto chiare sulle verità teologiche che sono a fondamento della religione di redenzione presentataci da Paolo. Ma è certo che ci serviranno a poco i profondi “insegnamenti teologici” di Paolo, se non facciamo nostro “il modo di vivere” che ci presenta il Vangelo, la maniera di vivere di Gesù che troviamo in ogni racconto dei vangeli. È evidente che papa Francesco, nei suoi insegnamenti e nel suo stile di esercitare il papato, sembra – a prima vista – più un papa pastore che un papa teologo. Ma non è meno certo che lo stile segnatamente pastorale di papa Francesco, senza mettere in discussione la dogmatica della Chiesa, sta evidenziando, con la sua vita e la sua parola, la necessità e l’urgenza che incombe su tutti noi, di assumere e mettere in primo piano nella vita della Chiesa quella che è stata la maniera di vivere che ci presenta ogni pagina del Vangelo. Quello che in definitiva è, nè più nè meno, rendere visibile e tangibile la maniera di vivere di Gesù. Non è questa la “teologia implicita” che non può mai mancare nelle nostre vite? In questo, io credo, consiste l’apporto geniale che papa Francesco sta dando alla Chiesa ed al mondo. ____________________________________________
articolo pubblicato nel Blog dell’Autore in Religión Digital (www.religiondigital.com ) il 3.2.2015 Traduzione a cura di Lorenzo TOMMASELLI

l vangelo del primo dell’anno

 

 

 

I PASTORI TROVARONO MARIA E GIUSEPPE E IL BAMBINO.
DOPO OTTO GIORNI GLI FU MESSO NOME GESU’

 commento al Vangelo del 1 gennaio 2015 (solennità di ‘Maria madre di Dio’) di p. José María CASTILLO

Castillo

 

Lc 2,16-21
[In quel tempo, i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino,  adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro.
Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua,  custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.
I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto,  com’era stato detto loro.
Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù,  come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.

1. Il “mistero” di questa festività è più profondo di tutto quanto sicuramente possiamo immaginare noi mortali. Se Maria è la madre di Dio, la prima cosa  che logicamente ci dice la Chiesa, all’inizio del nuovo anno, è che Dio ha una madre. E l’ha perché Dio si dà a conoscere a noi e si rende presente in  Gesù. Il motivo di fondo di questa festività risiede nel fatto della “trascendenza di Dio”. Se Dio è il Trascendente, noi umani non possiamo “conoscere”  Dio. Lo possiamo “rappresentare”, ma questa non smetterebbe di essere una mera “rappresentazione” umana. Nella tradizione cristiana ci viene detto che  Dio si è rivelato a noi, si è dato a conoscere a noi in Gesù, la cui madre è stata Maria.
2. La prima cosa che impariamo quest’anno è che Dio non vuole ceti, categorie, piedistalli di gloria che separano, distinguono, dividono, allontanano e  creano persino scontri. Dio è il primo che dà l’esempio di quest’abbassamento e ci dice che il cammino per essere come Lui vuole non è divinizzarsi, ma  umanizzarsi. Perché in questo modo, mediante l’umanizzazione, si è realizzato l’incontro di Dio con gli esseri umani. Nell’essere umano che è stato Gesù  conosciamo Dio e ci mettiamo in relazione con Lui.
3. Dio in Gesù ha avuto una madre. Una semplice ed umile donna di quel villaggio che era Nazareth quando Gesù è venuto a questo mondo. Maria ha educato  Gesù come tutte le mamme educano i loro figli. Maria ha forgiato la sensibilità di Gesù, la sua bontà, la sua fermezza ed anche la sua libertà. Se Gesù  è stato così ammirevole al punto che, comunque sia, ci ha rivelato Dio, quale donna e quale madre ammirevole è stata Maria per essere stata capace di educare
in questo modo Gesù!

il vangelo della domenica

IL BAMBINO CRESCEVA, PIENO DI SAPIENZA

 commento al Vangelo della domenica dopo natale (SACRA FAMIGLIA – 28 dicembre 2014) di p. José María CASTILLO

Castillo

 

 

 

 

Lc 2, 22-40

Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè,  portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del   Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia   di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore. Ora a Gerusalemme c’era
un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo   Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la   morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e,   mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo
riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:
«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo
vada in pace, secondo la tua parola,
perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli:
luce per rivelarti alle genti
e gloria del tuo popolo, Israele».
Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a   Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come   segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i  pensieri di molti cuori». C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser.
Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi   rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo   Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a   lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.
Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla   loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era  su di lui.

1. Questo racconto vuole, prima di tutto, evidenziare la fedeltà dei genitori di Gesù alle osservanze che imponeva la religione di Israele. In una famiglia
così fu educato Gesù. È una cosa che impressiona, se pensiamo alla grande libertà poi avuta da Gesù di fronte a non poche osservanze di quella religione.

2. D’altra parte, in questo testo si parla di “purificazione”. Secondo la Legge di Mosé (Lv 12, 2-8), il parto e la mestruazione rendevano impure le donne.
E, secondo Es 13, 1-2, i maschi primogeniti dovevano essere consacrati al Signore. In non poche cose la religione non accetta la nostra natura e la nostra
umanità così com’è e stabilisce norme e riti per “purificare” quello che secondo le nostre convinzioni Dio ha fatto. Spesso le norme ed i rituali religiosi
pretendono di imporsi alla natura ed all’umanità, in maniera tale che pretendono di essere più importanti di quello che ha fatto Dio. Queste cose generano
resistenza e rifiuto della religione in non pochi ambienti. E così allontanano la gente da Dio, dalla fede, dalla Chiesa….
3. Simeone ed Anna sono persone esemplari in onestà, bontà, desideri di incontro con la salvezza e la soluzione che non diamo a questo mondo forse può
venire da coloro che cercano Dio e credono in Lui. Questo rispetto verso gli anziani, verso la loro esperienza e la loro esemplarità si dovrebbe promuovere
soprattutto in un tempo in cui gli eventi si succedono con tanta rapidità che ci sconcertano. In maniera tale che noi anziani corriamo oramai il pericolo
di non voler imparare dai giovani. Così come i giovani possono anche disinteressarsi della cultura accumulata nell’esperienza degli anziani. Tutti dobbiamo
rispettarci reciprocamente ed imparare gli uni dagli altri.

Gesù era clandestino: la vera storia di Natale

Gesù era clandestino e i suoi genitori varcarono le frontiere in modo irregolare. La vera storia del 25 dicembre e il racconto del compleanno di Gesù bambino.

Gesù era clandestino

la festa dell’Immacolata Concezione

 ECCO, CONCEPIRAI UN FIGLIO E LO DARAI ALLA LUCE

commento al Vangelo di p. José María CASTILLO

Castillo
Lc 1,26-38
[In quel tempo,] l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata  Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La   vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con   te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo.
L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai  un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio   dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa   di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».  Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose   l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua   ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua   parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che   era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore:  vvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

1. Nella festa dell’Immacolata, la Chiesa celebra il fatto che Maria, la madre di Gesù, non sia stata macchiata dal peccato originale. Questo vuole dire  che Maria è stata una donna particolarmente gradita a Dio. Di più non possiamo sapere. Perché il racconto di Adamo ed Eva non è storico, ma mitico, quindi non è esistito il paradiso originale, allora non è stato commesso alcun peccato e quindi questo peccato non si trasmette da padre a figli, come ha detto  Agostino. Inoltre, nessun peccato è una macchia. Quest’idea corrisponde a criteri di magia, non di religione.
2. Questa festa risponde all’ideale di perfezione coltivato dalle teologie dell’antichità e del Medioevo. Poi è stata oggetto di ampie discussioni durate  vari secoli. Fino a che nell’anno 1854 è stato definito dal papa Pio IX che Maria “è stata preservata immune da ogni macchia di colpa originale” (DH 2803).
In definitiva qui si esprimeva l’ideale del puritanesimo greco assunto dalla Chiesa antica, cioè l’ideale secondo il quale “la purezza, più che la giustizia, è lo strumento cardine della salvezza”
(E. R. Dodds).
3. Il vangelo ci insegna che la madre di Gesù è stata una donna semplice, di un popolo povero e perduto. L’idea che Maria aveva di se stessa era che era  una schiava (doÚlh). Schiava “di Dio”. Ma la condizione di schiava in quei tempi era la condizione dei semplici e dei sottomessi. Questo è più importante  della “purezza senza macchia”, per quanto importante sia. La devozione a Maria ci deve portare ad essere come “schiavi”, con una condotta umile e senza  pretese di essere gli eletti o i migliori.

il vangelo della domenica

 


VEGLIATE: NON SAPETE QUANDO IL PADRONE DI CASA RITORNERA’

 

 
Mc 13,33-37
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare.
Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati.
Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».
commento al Vangelo della I DOMENICA AVVENTO ( 30 novembre  2014)di p. Alberto Maggi
p. Maggi
Il capitolo 13 del vangelo di Marco è indubbiamente il più difficile e complesso di tutto il suo vangelo. Ne è cosciente lo stesso evangelista che proprio al versetto 14 scrive “che il lettore comprenda”, perché sa che sta dicendo qualcosa di molto complesso.
A complicare il quadro ci sono le scelte incomprensibili dei liturgisti che, per esempio, nel brano di oggi mutilano il versetto iniziale, quello che aiuta nella comprensione di tutto il brano. Pertanto leggiamo il capitolo 13 del vangelo di Marco, ma iniziamo dal versetto 32, che è stato omesso dai liturgisti.
Gesù, dopo aver parlato della fine di Gerusalemme e della fine di tutti i poteri che schiacciano e umiliano l’uomo, e per questo si richiede la collaborazione dei discepoli, annunzia la fine individuale di ogni suo discepolo.
E dice, “Quanto però a quel giorno e a quell’ora nessuno lo sa, né gli angeli del cielo, né il Figlio, eccetto il Padre”. L’espressione “quel giorno” finora nel vangelo di Marco appare tre volte e sempre in relazione alla morte ed esaltazione di Gesù, cioè alla vittoria di Gesù sulla morte. Questa volta invece è applicataai discepoli per far comprendere che anche la morte dei discepoli non sarà una fine, ma un inizio, non una sconfitta, ma una vittoria.
Ebbene Gesù dice “non vi preoccupate perché il Padre lo sa”. Questo sapere non è un semplice conoscere, ma un sapere per operare. Nel momento della propria fine, anche se drammatica e traumatica come quella di Gesù, ci sarà il Padre che verrà in aiuto ai suoi.
Quindi è un brano che invita alla piena fiducia, a non preoccuparsi. Non è importante conoscere il momento della propria fine, ma sapere che quel momento è nelle mani del Padre. Quindi il messaggio di Gesù è pienamente positivo ed è un invito alla piena fiducia. Detto questo Gesù, con due imperativi dice: “Fate attenzione, vigilate”. Vigilare significa rinunciare a dormire. Il sonno nei Vangeli è l’immagine della rinuncia all’attività. Quindi l’invito è a restare in attività, perché anche se sapete che la vostra fine è nelle mani del Padre, spetta a voi collaborare con un’attività fedele al messaggio della buona notizia.
E poi Gesù dà questa immagine. “E’ come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato …” E qui la traduzione che abbiamo è “dato il potere ai suoi servi”, ma in realtà è “data la sua stessa autorità ai suoi servi”, il termine greco è molto enfatico. Qui il padrone, il signore della casa è Gesù dopo la morte. Gesù non ha servi, lui l’ha detto chiaramente in questo vangelo “Non sono venuto per essere servito, ma per servire”.
Si tratta dei servi della comunità, cioè gli uni a servizio degli altri. Ebbene Gesù, a coloro che mettono la propria vita a servizio degli altri, concede la sua stessa autorità. Cos’è l’autorità? L’autorità nel vangelo di Marco è la capacità di esercitare una funzione divina con la quale si comunica vita.
Attraverso il dono dello Spirito Gesù comunica questa sua autorità, questo Spirito anche ai suoi discepoli. “A ciascuno il suo compito e ha comandato …”, il verbo comandar appare una sola volta in questo Vangelo, riferito ai comandamenti di Mosè, qui invece c’è il comandamento di Gesù. E’ la nuova relazione con Dio, che non è più impostata sulle leggi di Mosè, ma sull’accoglienza del suo amore.
E il comandamento qual è? Il comandamento lo dà il portiere, che in quella cultura era colui che era responsabile della sicurezza di coloro che stavano dietro. E’ una figura collettiva che riguarda l’impegno di tutta la comunità. “… e ha comandato al portiere di vegliare”.  Il verbo “vegliare” verrà ripetuto tre volte e sappiamo che il numero tre significa quello che è completo, quindi una stretta vigilanza.
Gesù invita i componenti della sua comunità ad esercitare una funzione permanente di servizio che li renda riconoscibili. Non un servizio una volta ogni tanto, ma un servizio che sia il distintivo della comunità. Se c’è questo la fine non deve preoccupare perché il Padre viene in soccorso.
E Gesù continua: “Vigilate dunque: voi non sapete quando il signore della casa…” questo signore della casa è contrapposto al signore della vigna di cui Gesù aveva parlato, dove la vigna era l’immagine di Israele. Ebbene ora non c’è più la vigna, immagine di Israele, ma c’è la casa, immagine di familiarità, di umanità, perché il messaggio di Gesù non è più limitato a un popolo, a una nazione, a una religione, ma è un messaggio universale, e la casa è un’immagine che tutta l’umanità può comprendere.

E poi qui Gesù divide la notte in quattro parti (la sera, mezzanotte, il canto del gallo e il mattino), secondo l’uso romano e non tre secondo l’uso ebraico, per far comprendere che questo messaggio non è più limitato a questa nazione, ma si estende in tutta l’umanità. E’ un messaggio valido per gli uomini di ogni condizione e di ogni latitudine.
E di nuovo l’avviso di Gesù: “Fate in modo che, giungendo all’improvviso… ” – all’improvviso significa un’irruzione che non lascia tempo di cambiare atteggiamento – “.. non vi trovi addormentati” come purtroppo li troverà al momento della cattura nel Getsemani, quando questi discepoli saranno addormentati, incapaci di dare adesione a Gesù nel momento più importante della sua esistenza.
E la conclusione: “Quello che dico a voi lo dico a tutti”, Quel messaggio che Gesù ha lasciato ai suoi discepoli è un messaggio per tutta l’umanità. Il servizio, come distintivo che rende riconoscibile la persona, il discepolo, in maniera permanente, abituale e distinguibile, è quello che permette al Padre di occuparsi dei suoi quando sarà il momento della fine.

il commento vocale di p. Maggi

VEGLIATE:
NON SAPETE QUANDO IL PADRONE DI CASA RITORNERA’


commento al Vangelo di p. José María CASTILLO

Castillo

. L’Avvento è il tempo (4 settimane) che dedichiamo alla preparazione del Natale, il giorno nel quale si ricorda che Dio, in Gesù, si è fatto presente  nella storia. Preparare il Natale è, prima di tutto, aspettare la venuta di Gesù per accoglierlo nelle nostre vite. Il Natale si riproduce e si ripete
tutti i giorni. Perché tutti i giorni Gesù si fa presente nella nostra storia, nella vita di ognuno di noi, in quello che facciamo ed in quello che tralasciamo  di fare. Gesù si fa presente nella bontà, nell’amicizia, nella sincerità, nell’onestà, nel bene che facciamo e nella felicità che comunichiamo per contagio  a coloro che si sentono male, tristi e bisognosi. Così Gesù entra nella storia di ogni persona e nella storia della società e della Chiesa.
2. Ma questo vangelo ci dice qualcosa di molto più forte. L’appello alla vigilanza, che qui ci ricorda Gesù, è la conclusione del discorso che, secondo  Marco, Gesù ha pronunciato prima della sua morte. In questo discorso Gesù ha annunciato due cose: 1) la distruzione totale del Tempio (Mc 13,1-2); 2) la  caduta del sole, della luna e delle stelle (Mc 13, 24-25) che indicano, secondo i profeti (Is 13,34; Ger 4, 20-23; Ez 32,7, etc.), la  fine elenco  rovina dei grandi imperi, dei poteri oppressori dell’umanità. Così il vangelo ci dice che la bontà, l’onestà, l’umanità e l’umiltà, tutto questo ha una
forza così grande che è più potente della religione e della politica. Ci lamentiamo di come va male la Chiesa e del male che fanno i politici. La nostra  bontà senza limiti è la forza che può mettere fine a tutto questa marciume. La cosa importante è che siamo convinti di questo.
3. Preparare il Natale è prima di tutto intensificare la nostra onestà, la nostra umanità, la nostra integrità e la nostra sensibilità davanti alla sofferenza  altrui. Ma per questo abbiamo bisogno di pregare, di rivolgerci a Gesù senza stancarci mai. Solo così saremo vigilanti aspettando il continuo avvento di  Gesù nella storia delle nostre vite e delle vite di tutti.

il vangelo dell’Ascensione commentato da p. Maggi, Casati e Castillo

Mt 28,16-20

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

A ME E’ STATO DATO OGNI POTERE IN CIELO E SULLA TERRA 

Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi

maggi

Può sembrare alquanto strano che proprio per la festa dell’ascensione la liturgia ci presenti un vangelo dove questa non appare. L’ascensione viene narrata nel vangelo di Luca, in quello di Marco, ma non in Matteo. Ebbene il brano è proprio di Matteo, ma perché questo? Perché l’ascensione non è una separazione di Gesù dall’umanità, ma una vicinanza ancora più intensa, non è un’assenza, ma una presenza ancora più viva e partecipata. Ma vediamo il vangelo. E’ il  capitolo 28 di Matteo, dal versetto 16. Sono gli ultimi versetti del vangelo di Matteo, il finale. “Gli undici discepoli”, manca Giuda. Egli ha fatto la sua scelta. Gesù ha detto “Non potete servire Dio e il denaro”, lui ha scelto il denaro che, dome tutti i falsi idoli, distrugge chi lo adora. Quindi Giuda non c’è. “Andarono in Galilea sul monte che Gesù aveva loro indicato”. Ecco questo è abbastanza strano. E’ vero che per tre volte c’è stata l’indicazione che Gesù sarebbe stato visibile in Galilea; non a Gerusalemme. Gesù risuscitato non appare mai in questa città sinistra, luogo dell’istituzione religiosa, segno di morte. La vita è incompatibile con la morte. E per tre volte c’è l’invito ad andare in Galilea, ma mai in nessuno di questi inviti veniva specificato il luogo. Invece qui gli undici vanno a colpo sicuro, “su il monte”, non un monte dei tanti che componevano la Galilea, ma “il monte che Gesù aveva loro indicato”  Qual è questo monte? L’espressione “il monte” è apparsa all’inizio del vangelo, al capitolo 5, per indicare il monte delle beatitudini, dove Gesù ha annunziato il suo messaggio. Le beatitudini erano otto perché otto è il numero della risurrezione – Gesù è risuscitato il primo giorno dopo la settimana – e la cifra otto indica la pienezza di vita capace di superare la morte. Con Gesù la morte non solo non interrompe la vita, ma le permette di liberare tutte le sue energie e di fiorire in una forma nuova, piena e definitiva. Per questo gli undici vanno su il monte che è il monte delle beatitudini. Cosa vuole dire l’evangelista? Che l’esperienza del Cristo risuscitato non è stato un privilegio concesso duemila anni fa a un gruppo di persone, ma una possibilità per tutti i credenti. Basta accogliere il messaggio di Gesù, praticare le beatitudini e fra queste c’era appunto quella che diceva “Beati i puri di cuore perché essi vedranno Dio”. Infatti l’evangelista scrive: “Quando lo videro”, che non riguarda la vista fisica, ma la vista interiore, quella della fede, “si prostrarono”. Quindi vedono Gesù risuscitato, si prostrano, cioè riconoscono in lui la condizione divina. Ma c’è una stranezza, “Essi però dubitarono” Ma di che cosa dubitano? Non che sia risuscitato, dato che lo vedono. Non che Gesù abbia la condizione divina, dato che si prostrano. Di cosa dubitano? Questo verbo “dubitare” appare solo due volte in questo vangelo e la prima volta era al capitolo 14, versetto 31, quando Pietro aveva voluto camminare sul mare, sulle acque, cosa che significava avere la condizione divina. Ma, ben presto, cominciò ad affogare perché si spaventò del vento. Pensava che la condizione divina provenisse da un privilegio concesso dall’alto e non per un impegno da parte dell’uomo di affrontare le avversità. Ebbene quando sta per affogare Gesù lo rimprovera “Uomo di poca fede perché hai dubitato?” Allora qui di cosa dubitano questi discepoli? Dubitano di essere  di raggiungere anch’essi la condizione divina, perché hanno visto cosa costa: l’infamia del tradimento, dell’abbandono e della croce. Sono loro che, quando nell’ultima cena insieme a Pietro avevano assicurato a Gesù che non lo avrebbero rinnegato, invece, appena Gesù è stato arrestato, lo hanno tutti abbandonato. Per questo dubitano, di essere capaci di sopportare quello che Gesù ha sopportato, cioè l’abbandono, il tradimento e l’infamia della croce. Gesù si avvicina a loro e dice che gli è stato dato ogni potere in cielo e in terra, cioè la pienezza della condizione divina, e poi li invia. La relazione con Gesù è una relazione dinamica. L’amore di Dio non si centra su se stesso, ma vuole espandersi. Li manda a fare discepoli tutti i popoli, le nazioni pagane. E come? All’inizio del vangelo Gesù quando aveva chiamato i discepoli aveva detto: “Venite dietro di me e vi farò pescatori di uomini”. Cioè si trattava di togliere gli uomini dall’elemento mortale, l’acqua, per portarli in quello che dava loro la vita. Adesso Gesù dice dove e come. Dove? In tutta l’umanità. Il campo di lavoro dei discepoli di Gesù è tutta l’umanità. Come? Battezzandoli. Il verbo “battezzare” non ha il significato liturgico che poi renderà il verbo battezzare, che significa “immergere”.  “Battezzandoli nel nome”, cioè nella realtà, “del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. Il numero tre indica la pienezza, e qui vuole indicare la triplice realtà della condizione divina, cioè un amore incondizionato e illimitato. Sarebbe a dire: “Andate e ogni persona immergetela, impregnatela di questo amore”. “Insegnando”, ed è l’unica volta in cui Gesù autorizza i suoi discepoli ad insegnare, “a osservare”, letteralmente “a praticare”, “tutto ciò che vi ho comandato”. E l’unica cosa che Gesù ha comandato in questo vangelo, nel quale appare il termine “comando”, sono le beatitudini. La pratica delle beatitudini significa orientare la propria vita al bene degli altri. Questo non può essere insegnato con una dottrina, ma attraverso comunicazioni ed esperienze di vita. Ebbene, se c’è questo, ecco l’assicurazione di Gesù, “Io sono con voi”, infatti all’inizio del vangelo Matteo aveva presentato Gesù come “il Dio con noi”, un Dio che non era da cercare, ma da accogliere, e, con lui e come lui andare verso l’umanità. “Io sono con voi tutti i giorni fino …”, e non è la fine del mondo ma “… alla fine del tempo”. Gesù non sta dando una scadenza ma una qualità di una presenza. Ecco allora ritornando al tema dell’ascensione che non é una separazione di Gesù dagli uomini, ma una presenza ancora più intensa. Non è una lontananza, ma una vicinanza continua, crescente, tutti i giorni.

 

commento al vangelo di don Angelo Casati

 

Casati

 

 

 

 

 

Un pastore della chiesa riformata, il pastore Paolo Ricca, scrivendo in questi giorni dell’Ascensione, diceva che “un po’ dappertutto l’Ascensione è diventata o tende a diventare la cenerentola delle feste cristiane”.

Ascensione, festa cenerentola. E si chiedeva perché, come mai?

Eppure dell’Ascensione si parla ampiamente nelle Sacre Scritture. A confronto per esempio col Natale, molto più ampiamente. Eppure vedete quanta importanza diamo al Natale, e quanta meno all’Ascensione. Perché? Come mai?

“La risposta” -scrive Paolo Ricca- “non è difficile: l’Ascensione è poco festeggiata perché la Chiesa esita a far festa nel momento in cui il suo Signore “se ne va”. La Chiesa festeggia volentieri il Signore che viene, ma non il Signore che parte; acclama colui che appare, ma non colui che scompare”.

Con l’Ascensione Gesù diventa invisibile.

L’invisibilità fa problema: mi ha colpito questa citazione di Dietrich Bonhoeffer, che scriveva: “L’invisibilità ci uccide”.

Sì, questo è un pericolo. Non è forse vero che nell’invisibilità ci si allontana a volte? Abbiamo perfino coniato un proverbio: “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”.

Quasi a dire che quando viene meno la visibilità -lontano dagli occhi- viene meno anche il rapporto la relazione.
E non è proprio questo quello che accade sul monte degli Ulivi, e cioè l’andare lontano dagli occhi? E’ scritto: “Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo…”.

Lontano dagli occhi. Ma ci chiediamo, lontano anche dal cuore questo Signore?

Ecco, la storia che seguì -e la storia che segue è certo quella narrata negli Atti degli Apostoli, ma anche quella narrata nei secoli successivi, è la storia anche dei discepoli di oggi- ebbene, la storia che segue contiene una sfida al proverbio, sta a dimostrare che la lontananza dagli occhi di Gesù, la sua invisibilità, non l’ha cancellato dal nostro cuore.
“L’invisibilità” -scrive Paolo Ricca- “non significa assenza, ma un altro tipo di presenza, quella dello Spirito con il quale Gesù paradossalmente è più vicino di prima ai suoi discepoli: prima stava “con loro”, adesso dimora “dentro” di loro”.

L’Ascensione rovescia il proverbio: “lontano dagli occhi, vicino nel cuore”.

Vorrei aggiungere che paradossalmente quella visibilità di Gesù a cui, a volte, guardiamo con nostalgia, la visibilità del passato, quando le folle lo toccavano, quando la donna peccatrice lo ungeva e lo profumava, quella visibilità era anche un ostacolo.

Un ostacolo perché tratteneva Gesù: lo tratteneva in un piccolo paese, nei confini che delimitavano la sua azione: quante migliaia di persone lo videro, lo ascoltarono? Poche senz’altro.

Da quando è asceso al cielo, pensate quante storie di uomini e di donne -miliardi, miliardi di storie e noi siamo una di queste storie- quante storie di uomini e di donne hanno stretto un legame con questo invisibile Signore. Voi mi capite, che Gesù -lontano dai nostri occhi- viva, viva con la sua presenza, con la sua parola, con la sua luce, con la sua consolazione, nei nostri cuori.

E da ultimo è anche vero che questa festa dell’Ascensione -lo faceva notare ancora Paolo Ricca- proprio perché sottrae il Signore ai nostri sguardi, ci fa vivere i nostri giorni anche come attesa. Perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno, allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo.

Vivere l’attesa. Non è facile imparare l’attesa. Aspettare Dio. Anche nella religione a volte abbiamo più l’aria di chi possiede, che lo sguardo curioso di chi attende.

Scrive P. Tillich:
“Penso al teologo, che non aspetta Dio perché lo possiede rinchiuso in un edificio dottrinale.
Penso all’uomo di chiesa, che non aspetta Dio perché lo possiede rinchiuso in una istituzione.
Penso al credente, che non aspetta Dio rinchiuso nella sua propria esperienza.
Non è facile sopportare questo non avere Dio, questo aspettare Dio…”.

E’ quello che ci insegna la festa dell’Ascensione.

croce

l commento del teologo Castillo:

 

Si legge nel Vangelo di oggi, festa dell’ASCENSIONE:
“Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato”
.”Questo finale del vangelo di Matteo (scritto dopo il 70 d.c., anno della distruzione di Gerusalemme) è la proiezione di un desiderio provocato dalla emarginazione religiosa causata dai conquistatori romani; il desiderio di trasformarsi nella religione universale, che si impone alle altre religioni e che, con il passare del tempo, è stata – con il papato – il prolungamento del preteso imperialismo universale di Roma. Ebbene, in problematiche di «religione», le pretese di universalità si traducono
inevitabilmente in violenza, divisioni, sfide, conflitti, desideri di dominio e di prepotenza.
Un «dio» che pretende di essere universale, per questo stesso motivo pretende
ugualmente di annullare gli altri «dèi», frutto di culture millenarie e costitutive dell’identità di milioni di esseri umani. Non sarebbe più ragionevole intendere e vivere l’esperienza religiosa come l’ha intesa (con il discorso delle beatitudini) e vissuta il Gesù terreno? Non sarebbe, per questo stesso motivo, più logico vivere la fede in Gesù come fede nella bontà, nel rispetto, nella tolleranza, nell’aiuto di tutti per tutti, quali che siano le forme concrete di convinzioni e di pratiche religiose che ogni popolo ed ogni cultura vive in concreto? Ecco una delle questioni più serie che ci pone la festa dell’Ascensione del Signore ”

(P. Josè Maria Castillo).

p. Josè Maria Castillo su Papa Francesco ‘sconcertante’

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un papa ‘sconcertante’

una bella riflessione del teologo spagnolo Josè Maria Castillo (teologo progressista in genere molto esigente e pungente nel richiedere coerenza evangelica alla chiesa istituzionale) su papa Francesco: non richiede da lui ‘rivoluzioni’ che non può fare, né gli impone di non svolgere il suo ruolo, in fondo di “colui che deve riaffermare con autorità i principi non-negoziabili”; richiede da lui l’essenziale per un papa: uno che “dovrà sconcertarci come aveva fatto Gesù, al di là del potere e dei benpensanti, a favore dei poveri, degli oppressi e dei rifiutati dal mondo e dalle religioni istituzionalizzate”.

“…quello che importa è che Papa Francesco sia un uomo libero e deciso. Il mondo ha bisogno di un uomo così appassionato del Vangelo, che sconcerti tutti quelli che nel papato cercano un uomo di potere e di comando. Il Papa deve risultare sconcertante. Il giorno che il Vaticano sarà il ‘punto di incontro’ di tutti quelli che soffrono, in questo giorno la Chiesa avrà incontrato il buon Papa di cui ha bisogno.
Cosa ha fatto papa Francesco per dare tanta speranza a tanti milioni di esseri umani in così poco tempo?
Molto semplice. Ha preso sul serio il Vangelo.
… Gesú è stato un uomo che ha vissuto e parlato in una maniera tale che è risultato sconcertante per quanti lo hanno conosciuto e si sono avvicinati a lui. Quello è stato lo sconcerto che produce la bontà. Gesú ha sconcertato Giovanni Battista che aspettava un messia minacciante e castigatore dei peccati e dei peccatori, ma è venuto a sapere che Gesù si dedicava ad alleviare la sofferenza degli emarginati ed a farsi amico di pubblicani e di gente di mala vita, lottando contro il dolore umano.
Gesú ha fatto tanto bene perché ha sconcertato molto. In una società corrotta e deforme, una persona che si adatta a quello che si fa e che quindi non sconcerta nessuno, è una persona che passa la sua vita senza infamia e senza lode, se la passa bene e lascia tutto come stava.
Papa Francesco non ha fatto altro che iniziare. E ci deve ancora sconcertare molto di più. Una Chiesa che è arrivata quasi al limite della sua decomposizione, ha bisogno di molto sconcerto per risalire dal pozzo nel quale era precipitata. Ma questo si realizzerà a costo di molto sconcerto”.

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