o si cambia o si muore dice L. Boff

 

la chiesa e il mondo al bivio: o si cambia o si muore

intervista a Leonardo Boffboff

Claudia Fanti 

 

Una vita intera al servizio della causa della liberazione: quella dei poveri e quella del “grande povero” che è il nostro pianeta devastato e ferito. È il loro duplice -– e congiunto – grido, infatti, a occupare il centro della riflessione di Leonardo Boff, tra i padri fondatori della Teologia della Liberazione e massimo esponente del nuovo paradigma ecoteologico, di quel percorso, cioè, che si sviluppa nell’ascolto del nuovo racconto sacro trasmesso dalla scienza, con la sua rivelazione della natura profondamente olistica e relazionale del cosmo (un cammino di ricerca di cui i libri Grido della Terra, grido dei poveri e Il Tao della Liberazione rappresentano indiscutibilmente le espressioni più alte, ma che è possibile seguire anche in molti suoi interventi settimanali, disponibili ogni venerdì nel portale Servicios Koinonia: http://www.servicioskoinonia.org/boff/).

Una riflessione, quella di Boff, che, nell’attento ascolto della profezia contenuta nella stessa voce dell’universo, prende enormemente sul serio le tante minacce di distruzione lanciate contro Gaia, il pianeta vivente che è la nostra casa comune, ma nello stesso tempo è attraversata da un potente soffio di speranza: la speranza che l’evoluzione sia plasmata in modo tale da convergere verso livelli di complessità e di autocoscienza sempre maggiori e che dunque il caos attuale sia generatore di nuove possibilità, l’annuncio di un livello più elevato nella storia dell’essere umano e del pianeta, di quell’unica entità indivisibile Terra-umanità che gli astronauti per primi hanno colto, con emozione e reverenza, guardando il nostro pianeta azzurro e bianco dallo spazio esterno. Cosicché lo scenario attuale, pur così drammatico, non sarebbe una tragedia, ma una crisi, una crisi che mette alla prova, purifica e spinge al cambiamento, annunciando un nuovo inizio per l’avventura umana.

Di questo e di molto altro abbiamo parlato con Leonardo Boff, in visita in Italia per un ciclo di incontri, a partire dalle prospettive della Chiesa sotto il pontificato di Francesco, su cui il teologo brasiliano, tra i più duramente perseguitati dal Vaticano, ha scommesso fin dalla sua nomina (v. Adista Documenti, n. 18/13), considerandolo l’espressione di un nuovo progetto di mondo e di un nuovo progetto di Chiesa. Di seguito l’intervista.

Una buona novella per i nuovi tempi

Intervista a Leonardo BoffBoff L.

 

Qual è la tua lettura dell’attuale fase della Chiesa?

Penso che papa Francesco rappresenti un progetto di mondo e un progetto di Chiesa. Rappresenta un progetto di mondo che è antitetico rispetto alla parola d’ordine imperiale “un solo mondo, un solo impero”, a cui l’enciclica Laudato si’ risponde con la sua proposta di “un solo mondo e un solo progetto collettivo”, esprimendo la possibilità di dialogo, di incontro tra i popoli, di rinuncia all’uso della violenza come strumento per la risoluzione dei conflitti (perché non basta essere a favore della pace, bisogna essere anche contro la guerra). E rappresenta un progetto di Chiesa che è riconducibile a Francesco d’Assisi, caratterizzato dalla rivoluzione della tenerezza, dalla misericordia, dalla vicinanza agli esseri umani. Un progetto le cui opzioni di base non sono date, fondamentalmente, dalla dottrina, ma dall’incontro personale, sia con Cristo che con le persone. Si tratta di una visione di Chiesa assolutamente diversa da quella di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, i quali concepivano la Chiesa come una fortezza assediata dai nemici, contro i quali era necessario difendersi: è la visione di una Chiesa come casa aperta, ospedale da campo, impegnata ad accogliere tutti, indipendentemente dalle loro connotazioni morali, con misericordia e con comprensione, riscattando con ciò la tradizione di Gesù che è anteriore ai vangeli e che è fatta di amore incondizionato. Penso che questo rappresenti una novità nella Chiesa, una rottura. Roma non ama questa parola. Ma è una realtà: papa Francesco ha de-paganizzato la figura del papa, considerato finora un faraone (è significativo che abbia rinunciato alla mozzetta, il simbolo del potere assoluto dell’imperatore). E ha affermato di voler guidare la Chiesa nell’amore e non nel potere. Con il potere, l’amore svanisce. Quando c’è l’amore, c’è vicinanza, comprensione, misericordia. Questa, per me, è la grande rottura operata da questo papa.

E intorno al papa cosa si sta muovendo?

Papa Francesco si trova dinanzi a due tipi di opposizione. Il primo è quello della vecchia cristianità di cultura europea, con tutti i simboli del potere sacro. Il papa si è spogliato dei simboli del potere, se ne è andato ad abitare a S. Marta, si mette in fila per mangiare (così, come ha detto scherzando a un’amica comune, Clelia Luro, è più difficile avvelenarlo!). Il secondo tipo è dato dall’opposizione laica di chi, specialmente negli Stati Uniti, non vuole saperne niente di dialogo o di ecologia, sposando la prospettiva della dominazione occidentale, quella dell’attuale globalizzazione, che in realtà è l’occidentalizzazione del mondo secondo lo stile di vita nordamericano, una sorta di hamburgerizzazione di tutte le culture.

Il papa inaugura un altro modello di cristiano. Io credo che la sua visione sia centrata sulla consapevolezza che Gesù non è venuto per creare una nuova religione, ma è venuto per insegnare a vivere. A vivere nell’amore e nella misericordia. Il nucleo del messaggio di Gesù, la sua intenzione originaria, è l’unione del “Padre nostro” e del “pane nostro”. Il Padre nostro, Abbà, è un volo verso l’alto, l’insopprimibile fame di trascendenza, e il pane nostro esprime la fame reale di milioni di persone, quella che occorre saziare perché abbia senso parlare di Padre nostro e di Regno di Dio. È a questo messaggio che si oppongono quanti vogliono un cristianesimo dottrinario, dogmatico, sistematizzato, tutto disciplina e ordine e potere.

La rottura di cui parli si esprime soprattutto su un piano simbolico. Sul terreno della dottrina, però, non si vedono né si prevedono molte novità…

Io penso che anche su questo terreno il papa abbia operato una rottura. Prima, ad esempio, i temi legati alla morale familiare erano tabù: nessuno poteva parlarne, né i vescovi, né i teologi. E uno dei criteri per le nomine episcopali era dato proprio dall’assenza di una qualsiasi critica relativa al celibato o alla dottrina morale. La novità è che Francesco ha aperto il dibattito su questi temi: non era mai successo che un papa consultasse le basi. Inoltre, sta dando molto valore alla collegialità. Nella sua enciclica, per esempio, egli cita diversi episcopati, anche privi di una grande tradizione teologica, come quelli del Paraguay o della Patagonia. Ed è un fatto estremamente singolare e rivoluzionario che egli abbia invitato a Roma i rappresentanti dei movimenti popolari di tutto il mondo – riunendosi poi nuovamente con loro a Santa Cruz, in Bolivia – per analizzare le cause delle attuali sofferenze: non ha chiamato sociologi, politologi, scienziati, ma quanti sentono il dolore sulla propria pelle. E ha evidenziato due aspetti essenziali: la centralità della terra, del lavoro e della casa e il fatto che non bisogna aspettare che i cambiamenti vengano dall’alto, perché, ha spiegato il papa, la salvezza viene dal basso: sono i poveri organizzati i veri profeti del cambiamento. Tutto ciò era inimmaginabile a Roma prima di papa Francesco.

Non c’è il rischio che tutto questo finisca con il prossimo pontificato?

Il rischio esiste. Ma la mia tesi è che, dal momento che in Europa vive solo il 25% dei cattolici e che la parte restante si trova nel Terzo Mondo, questo papa inaugurerà una genealogia di papi del Sud del mondo, dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, provenienti, cioè, da altri ambienti culturali ed ecclesiali, più liberi dal peso delle tradizioni e più legati alle esperienze popolari di lotta per i diritti umani, per la terra, per la dignità. Io penso che si sia chiuso il ciclo della Chiesa europea e occidentale e che sia cominciato quello di una Chiesa planetaria. E ora la Chiesa è chiamata a de-occidentalizzarsi, a de-patriarcalizzarsi, a decentrarsi. Poiché il mondo è uno solo, io sostengo che i ministeri dovrebbero essere collocati in diverse regioni del pianeta: quello per i diritti umani in America Latina, quello per l’inculturazione in Africa, quello per il dialogo interreligioso in Asia. E che qui debba restare solo un piccolo gruppo incaricato dell’amministrazione generale, lasciando che tutto si svolga attraverso skype, per teleconferenza. Perché la Chiesa deve adeguarsi alla nuova fase dell’umanità. Questa esigenza di decentramento è uno dei due punti che ho evidenziato in una lettera che ho scritto al papa. L’altro punto è la richiesta di convocazione di un’assemblea delle religioni con l’obiettivo di comprendere quale debba essere il contributo delle diverse tradizioni spirituali per la salvezza della vita sul pianeta e della civiltà umana. Ma, per prima cosa, occorre realizzare una riforma interna della Chiesa.

Su questo terreno, tuttavia, non si registrano molti passi avanti…

Penso che il papa non abbia voluto adottare un approccio frontale. A questo proposito, credo che sia stato un errore scegliere per il Sinodo un tema controverso come quello della morale familiare. Perché è un tema che divide. Sono cause universali come l’ecologia, la pace, la lotta alla fame e alla devastazione della biodiversità che possono unire la Chiesa. Questo tema, invece, sembra fatto apposta per mettere il papa alle corde. Quello che Francesco sta facendo è conservare la dottrina tradizionale, ma aprendo il dibattito e lanciando segnali rispetto alla possibilità che questa dottrina cambi. E io, nella lettera che gli ho scritto, gli chiedo di usare a favore dei diritti e della giustizia quella «potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa» che gli riconosce il Codice di Diritto Canonico.

Ma come può conciliarsi questo con una dimensione di collegialità?

L’obiettivo è il cambiamento della Chiesa. Non bastano le riforme, ci vuole una vera rivoluzione. La collegialità è un ottimo strumento per governare la Chiesa, ma non per cambiarla. La funzione del papa è quella di essere il grande protagonista del cambiamento: dispone degli strumenti necessari, se vuole può usarli. E sarà forse obbligato a farlo, per far capire ai cardinali ribelli che lo stanno sfidando che la Chiesa sarà diversa, perché è chiamata a fare i conti con la nuova fase della Terra e dell’umanità. Il tempo delle nazioni è giunto al termine. Inizia il tempo dell’umanità “planetizzata”, della casa comune. E per questo tempo la Chiesa non è preparata. Perché è eccessivamente occidentale, eccessivamente clericale, eccessivamente dottrinaria, eccessivamente centrata su un paradigma ellenistico. Quello che serve è il modello di una Chiesa veramente globalizzata, un’immensa rete di comunità che si incarnano in molte culture e assumono molti volti e in cui il ruolo del papa è quello del pellegrino che anima le Chiese alla fede e alla speranza, strumento di comunione e non di governo, il quale dovrà essere invece affidato alle Conferenze episcopali nazionali e continentali.

Cosa è possibile attendersi dal Sinodo sulla famiglia?

Penso che il Sinodo sarà un fallimento e aumenterà la polarizzazione tra le diverse posizioni. Probabilmente il papa lascerà aperta la discussione, perché, se la chiudesse, dividerebbe la Chiesa. Penso che sia necessario includere le persone che sono più toccate da questi temi, cioè i laici, uomini e donne. Perché il Sinodo è fatto appena da una frazione clericale e celibataria della Chiesa: finché non saranno coinvolte le persone direttamente interessate, non potrà esserci convergenza. E una delle riforme che il papa ha annunciato, ma che fino ad ora non ha realizzato, è proprio l’inclusione delle donne nei centri decisionali. Non si tratta di incrementarne la partecipazione: questa c’è sempre. Si tratta del fatto che siano loro a decidere. Le donne nella Chiesa non contano. E ciò malgrado vi siano a loro favore tre aspetti che sono più forti degli argomenti episcopali: non hanno mai tradito Gesù (gli uomini lo hanno fatto); sono state le prime testimoni dell’evento più grande della fede, che è la resurrezione; e senza una donna non ci sarebbe stata l’incarnazione. E se la Chiesa non ha mai preso sul serio questa centralità, le donne devono lottare per ottenerla e noi teologi dobbiamo dare il nostro aiuto.

Una delle più avanzate frontiere teologiche è quella impegnata nel compito di riformulare la fede cristiana in un linguaggio che sia più accessibile agli uomini e alle donne contemporanei e più compatibile con tutte le recenti acquisizioni scientifiche. Non credi che tra ciò che accettiamo come verità scientifica e ciò che afferma la dottrina tradizionale della Chiesa si sia aperto un fossato che rischia di essere incolmabile?

Io penso che sia necessario tradurre la fede in un nuovo paradigma, perché la Bibbia e l’intera teologia sono state elaborate all’interno di un paradigma occidentale che oggi non è più adeguato alle esigenze planetarie. E il paradigma che oggi sta guadagnando più terreno è quello della nuova cosmologia. Ho tentato di portare avanti questo compito nel mio libro Cristianismo. O mínimo do mínimo (apparso in italiano con il titolo Al cuore del Cristianesimo, Emi, 2013; ndr), pensando il cristianesimo all’interno del processo evolutivo e riformulando il messaggio cristiano in un linguaggio che dovrebbe divenire coscienza collettiva, il linguaggio quotidiano del nuovo paradigma. È questo il grande compito che la Chiesa intera è chiamata a svolgere, coscientemente e collegialmente. Un grande lavoro collettivo di traduzione della fede nel nuovo paradigma che viene dalla fisica quantistica, dalle scienze della vita e della Terra. È la sfida che ho cercato di cogliere scrivendo insieme al cosmologo Mark Hathaway il libro The Tao of Liberation: Exploring the Ecology of Transformation (tradotto in italiano con il titolo Il Tao della Liberazione, Fazi Editore, 2014; ndr): un libro che ha richiesto 13 anni di ricerca e di riflessione e che è il tentativo di utilizzare questa base scientifica per ripensare il concetto di Dio, i concetti di Spirito, di Grazia, di Resurrezione.

Qual è il principale messaggio di speranza che ci trasmette la nuova cosmologia?

Che tutto ha a che vedere con tutto, in tutti i momenti e in tutte le circostanze: tutto è in relazione, come ha riconosciuto lo stesso papa nell’enciclica. La materia non esiste, è solo energia altamente condensata, e tutti abbiamo lo stesso cammino e lo stesso destino. E malgrado tutte le crisi, tutte le traversie, tutte le devastazioni, l’universo va sempre auto-organizzandosi e autocreandosi in direzione di una sempre maggiore complessità. Teilhard de Chardin è stato profetico: esistono tante contraddizioni, si passa attraverso tanta devastazione e a volte sembra che il male prevalga, eppure la vita non è mai stata distrutta. Come ha evidenziato Edward Wilson, la vita non è né materiale, né spirituale: la vita è eterna ed è immersa nel processo dell’evoluzione. Ed è quello che afferma il cristianesimo: che tutto è relazionato e che esiste un fine buono per l’umanità e per l’universo. In altre parole, non andremo incontro alla morte termica, ma a forme sempre più complesse e più alte.

Eppure la teoria della morte termica dell’universo, lo scenario in cui l’espansione accelerata provocherebbe un universo troppo freddo per sostenere la vita, è sostenuta da molti fisici e cosmologi…

Io penso che questa tesi sia stata superata da Ilya Prigogine, il quale ha vinto il Premio Nobel per la chimica per le sue scoperte sulle strutture dissipative, mostrando come l’evoluzione si realizzi nello sforzo di creare ordine nel disordine e a partire dal disordine, cioè come il caos si riveli altamente generativo, trasformandosi in un fattore di costruzione di forme sempre più alte di complessità e di ordine. In contraddizione con la visione lineare propria della fisica classica, ci si muove qui sul terreno della fisica quantistica, con il suo procedere per salti, per accumulazioni di energia. Oggi, pertanto, disponiamo delle basi scientifiche per elaborare una visione che è più adeguata al messaggio di speranza del cristianesimo, quella di un universo come corpo della divinità, un universo che non terminerà con una grande catastrofe, ma con un nuovo cielo e una nuova terra, un salto immenso nella linea di Theilard de Chardin, un’implosione ed esplosione all’interno di Dio. Non un’altra terra, ma questa stessa terra trasfigurata. È come la morte umana, che non è la fine della vita, bensì un luogo alchemico in cui la vita si trasforma e passa a un altro livello, fuori dallo spazio-tempo, ma restando vita.

Al tentativo di articolare Teologia della Liberazione ed ecologia hai dedicato trent’anni di lavoro: un lavoro condotto per tanto, troppo tempo in pressoché totale solitudine, davvero vox clamans in deserto, finché la gravità della crisi ambientale non ha costretto anche la teologia latinoamericana ad assumere la questione tra le proprie priorità. Com’è ti appare ora la situazione?

Negli anni ’80, ho preso consapevolezza della questione ecologica nei seguenti termini: il marchio registrato della TdL è l’opzione per i poveri, contro la povertà e a favore della liberazione e della giustizia sociale. E chi è, oggi, il grande povero? È la Terra! Pertanto, all’interno dell’opzione per i poveri, occorre collocare la Terra, devastata e aggredita. Ma bisogna pensare la Terra non secondo il vecchio paradigma, come una cosa inerte e inanimata, bensì all’interno della nuova cosmologia, come un superorganismo vivo, come Gaia, secondo la teoria di James Lovelock, come la Madre Terra, secondo quanto hanno riconosciuto le stesse Nazioni Unite, che hanno proclamato il 22 aprile come Giornata internazionale della Madre Terra. Mi sono allora dedicato, per alcuni anni, allo studio della cosmologia e ne è nato il libro Ecología: grito de la Tierra, grito de los pobres (tradotto in italiano con il titolo Grido della terra grido dei poveri. Per una ecologia cosmica, Cittadella, 1996). Un’opera che all’epoca non ha praticamente suscitato alcuna reazione tra i teologi, anche se, più tardi, alcuni l’hanno considerata ancor più importante del libro Teologia della liberazione di Gustavo Gutierrez, l’opera che ha segnato l’inizio della TdL, ma che è ancora legata al vecchio paradigma. Io penso che la grande maggioranza dei teologi della liberazione si muovi ancora all’interno del vecchio paradigma. Le difficoltà, è vero, sono molte, perché bisogna studiare le scienze della vita, la fisica quantistica, la nuova antropologia, ma in questo modo si può fare una teologia molto migliore dell’altra, e comprendere assai più in profondità il messaggio cristiano. Io penso che questo sia un compito che va anche oltre la nostra generazione: è il cammino che il cristianesimo è chiamato a percorrere per essere una buona novella per i nuovi tempi. Vino nuovo, otri nuove. Musica nuova, orecchie nuove.

Come ti spieghi che in Brasile molti movimenti popolari, pur facendo propria la lotta contro il riscaldamento globale, difendano progetti ecologicamente devastanti come il pre-sal, l’enorme giacimento di petrolio e gas al largo delle coste brasiliane?

È una contraddizione legata ai Paesi in via di sviluppo. I Paesi del Nord del mondo, infatti, potrebbero mirare alla prosperità rinunciando alla crescita e approfondendo maggiormente dimensioni come quella della spiritualità, dell’arte, ecc. I nostri Paesi, invece, hanno ancora bisogno di crescita, perché il livello di vita dei nostri popoli è molto basso: manca l’acqua, la casa, l’elettricità; occorre investire nella salute e nell’educazione. Così, in Brasile, c’è molta attenzione per questi temi, mentre si trascura la problematica ecologica. Esistono solo piccoli gruppi di ecologisti. Eppure il Brasile potrebbe prescindere totalmente dal petrolio sfruttando l’immensa energia prodotta dal sole. E invece si punta a un progetto come il pre-sal che avrà un impatto devastante sull’oceano, in termini di contaminazione delle acque e di distruzione della biodiversità. Ho discusso varie volte con Lula di tutto questo, ma a suo giudizio è sufficiente che piova due giorni di seguito perché tutto rifiorisca nuovamente. In realtà, però, è il sistema globale che è in crisi e che rischia il collasso. Forse la nostra coscienza si risveglierà quando sentiremo sulla nostra pelle le conseguenze della catastrofe. Come diceva Hegel, l’essere umano non apprende niente dalla storia, ma impara tutto dalla sofferenza. Anche se preferisco Sant’Agostino, il quale riteneva che fossero due le scuole: la sofferenza, che ci offre severe lezioni, e l’amore, che produce gioia e trasformazione. Io penso che trarremo insegnamento dall’amore e dalla sofferenza. Di fronte a noi ci sono solo due strade: o cambiamo o moriremo. Quella che stiamo attraversando è una grande crisi, ma la crisi purifica, obbliga a cambiare strada, prepara forse il terreno per l’avvento di una nuova civiltà centrata sulla vita umana e sulla vita della Terra, una biociviltà, la Terra della buona speranza.

Ma sarà necessario passare per quella che è stata già definita come la sesta estinzione di massa…

Siamo nel pieno dell’Antropocene, l’era in cui l’essere umano – e non un meteorite, né un qualche cataclisma naturale di dimensioni colossali – è diventato la più grande minaccia contro la vita. Edward Wilson ha calcolato che stiamo perdendo ogni anno da 20mila a 100mila specie viventi. È davvero la sesta estinzione di massa e potrebbe anche colpire una buona porzione dell’umanità, soprattutto quella povera e sofferente. In questo caso, spetterà ai sopravvissuti riorganizzare il pianeta su nuove basi. Mikhail Gorbacev, il coordinatore delle attività della Carta della Terra, paragona la situazione della Terra e dell’Umanità a quella di un aereo sulla pista di decollo: arriva un momento critico in cui l’aereo deve decollare, se non vuole schiantarsi in fondo alla pista. E, a suo giudizio, abbiamo già oltrepassato il punto critico e non ci siamo alzati in volo. Ma gli esseri umani sono sorprendenti e capaci di cambiamento. L’evoluzione non è lineare, procede per salti, ed è possibile che l’umanità acquisti consapevolezza e operi il salto necessario, abbracciando una nuova visione che abbia al centro l’intera comunità di vita, anche le piante e gli animali che sono nostri compagni nella casa comune. Dopotutto, l’essere umano ha in sé energie divine, di quel Dio che è sovrano e amante della vita e che non permetterà che la vita scompaia.

Come interpreti l’attuale situazione del Brasile? Ritieni che il governo di Dilma avrà la forza di superare la crisi?

È una situazione molto critica. Strappando alla povertà 40 milioni di brasiliani, il Pt ha commesso l’errore di trasformarli appena in 40 milioni di consumatori, trascurando quel lavoro di coscientizzazione necessario per restituire loro il senso di cittadinanza. Il consumatore, si sa, mira a consumare sempre di più. E se non è possibile si genera un grande malessere collettivo. E questo è un errore che viene sfruttato dall’opposizione. La nostra disgrazia è che non esiste un’alternativa. Nessuno tra le fila dell’opposizione possiede autorità morale e un progetto diverso dal neoliberismo e dall’allineamento agli Stati Uniti. E purtroppo il governo Dilma, venendo meno alle promesse della campagna elettorale, sta scaricando sugli operai e sui pensionati i costi della crisi, risparmiando le grandi imprese e le banche. Occorre tener presente che il Brasile, in virtù dei suoi immensi spazi geografici e delle sue grandi ricchezze naturali, è uno dei luoghi del pianeta che fa più gola al capitale. Siamo in un vicolo cieco. Non esiste in questo momento alcuna soluzione ragionevole. L’unica speranza viene dalla nascita di una grande articolazione dei movimenti di base, i quali si sono recentemente incontrati con Dilma con l’obiettivo di creare una base non parlamentare, ma popolare, per far fronte all’offensiva dell’opposizione, in maniera che su tale base Dilma possa portare avanti progetti sociali in una prospettiva realmente educativa, creando una nuova coscienza di cittadinanza. Ciò permetterebbe al governo di andare avanti, in attesa forse di una nuova candidatura di Lula nel 2018. Anche se per il Pt sarebbe meglio restare un po’ di tempo fuori dal potere, per fare autocritica e riformulare un progetto di Paese.

È difficile pensare che Lula possa rappresentare il futuro del Brasile…

Lula immagina il Brasile come un’immensa fabbrica da sud a nord in cui tutti lavorano, consumano, comprano casa e macchina. Ma si tratta di un progetto più adatto al XIX secolo che al XXI. Lula è un grande leader, ma la storia ha oggi bisogno di un’altra forma di leadership. E purtroppo non c’è alcuna figura che esprima questa coscienza nuova. A mio giudizio, il Brasile è sia espressione della tragedia dell’umanità – basti pensare all’assassinio sistematico dei giovani neri (ne vengono assassinati 60 al giorno) e alla devastazione della natura – sia laboratorio di speranza, promessa di un’altra forma di abitare il pianeta, secondo una prospettiva bioregionalista – la vera alternativa ecologica alla globalizzazione omogeneizzante – che integra e valorizza i beni e i servizi di ogni ecosistema insieme alla sua popolazione e alla sua cultura.

* Immagine di Valter Campanato (Agência Brasil), tratta dal sito Commons Wikimedia, immagine originale e licenza. La foto è stata ritagliata, le utilizzazioni in difformità della licenza potranno essere per

p. Fabrizio è stato importante nella mia vita

è morto padre Fabrizio Forti

il vescovo: colonna della Chiesa dei poveri

lutto nel mondo della chiesa e del volontariato trentino: si è spento padre Fabrizio Forti

Il frate è stato trovato privo di vita nella sua stanza del convento di Trento. Se n’è andato in silenzio, stroncato nella notte tra sabato e ieri da un malore che lo ha strappato ad un’esistenza dedicata agli altri, alle persone in difficoltà, agli ultimi.

Il religioso, che avrebbe compiuto 67 anni il prossimo 20 ottobre, era nato a Gardolo dove nel 1949.

Padre Fabrizio ieri mattina, come ogni domenica, avrebbe dovuto salire al carcere di Spini, per celebrare la messa per e con i detenuti. Teneva molto a questo suo impegno, per questo quando dal carcere hanno telefonato per chiedere come mai padre Fabrizio non fosse ancora arrivato, in convento a Trento hanno subito capito che poteva essere successo qualcosa di grave.

Quando i confratelli hanno notato la sua auto nel piazzale, hanno subito deciso di intervenire, forzando la porta della sua camera.

Purtroppo, però, non c’era ormai più nulla da fare: il religioso era nel suo letto, privo di vita ed ogni soccorso è stato vano.

Al convento e alla mensa dei Cappuccini, ricordano che da un paio di giorni padre Fabrizio sembrava stare meno bene del solito: piccoli segnali, di fronte ai quali però, per il religioso, gli altri avevano la priorità: «Sei matto? C’è la mensa, c’è da fare: sto già meglio», rispondeva a chi gli chiedeva se non fosse il caso di fermarsi un attimo e riposare.

Padre Fabrizio Forti, gardolòto classe 1949, fin da quando aveva risposto alla «chiamata» vocazionale aveva iniziato a cogliere il messaggio evangelico nel sostegno dei fratelli in difficoltà: «Bisogna innamorarsi: innamorarsi di un Dio che vedi dentro ogni uomo, con le sue diverse povertà. E ogni sera in verità mi sembra di riscoprirmi innamorato», raccontava sette anni fa al collega Diego Andreatta.

Il percorso seguito da padre Fabrizio prima di dedicarsi alla «mensa della Provvidenza» alla Cervara, è stato lungo e sempre segnato dall’attenzione agli ultimi, tra gli altri ed ai percorsi di vita segnati dalle difficoltà. Era stato tra i più convinti sostenitori delle esperienze di comunità di cui era stato tra le anime in Valle di Cembra – a Piazzo prima e Faver poi, con Valle Aperta, realtà alla quale l’allora trentaquattrenne religioso si dedicò intensamente – ed in Valle dei Laghi.

Le parole del vescovo

La scomparsa di padre Fabrizio Forti ci addolora molto. Con lui se ne va prematuramente una colonna di quella Chiesa capace di incarnare il Vangelo dei poveri e il volto misericordioso di Dio Padre Fabrizio si è speso per restituire dignità alle persone, fossero piegate dall’indigenza o condannate al carcere. Ha narrato un Dio che non emette giudizi, ma si prende cura di chi fa più fatica. Dio lo ha chiamato durante il Giubileo della misericordia, quella che lui ha esercitato per tutta la vita con fede tenace. Prego perché le opere e le idee dell’amico Fabrizio possano continuare a portare frutto.

Il dolore di Ugo Rossi

La comunità trentina perde un pilastro, un esempio e un punto di riferimento. Un grande uomo, che ha dedicato la propria vita a dare ristoro e soccorso ai più deboli. Ricorderemo padre Forti come il simbolo di un Trentino umile, solidale, ma anche caparbio ed instancabile nell’impegno verso gli altri. La storia di quest’uomo rappresenta una fulgida testimonianza di vita cristiana, di fede e di generosità, un insegnamento per tutti noi che non dovremo mai dimenticare, aiutando e sostenendo coloro che proseguiranno nella sua opera.

Fu una delle persone più contrarie alla realizzazione dell’inceneritore


L’intervista

 

Bob Dylan un profeta di stampo biblico

LA BIBBIA DI BOB DYLAN

Brunetto Salvarani

“Bob Dylan è un vero profeta, sulla scia dei saggi dell’Antico Testamento”

Seth Rogovoy

È indubbio che il riferimento alla Bibbia rappresenti un punto di riferimento costante lungo tutto il cammino creativo di Bob Dylan, di famiglia ebraica e iniziato alla religione con la cerimonia del bar-mitzvà nel 1954.

Buona parte dei suoi primi successi, a partire dalla celebre Blowin’ in the Wind, s’ispira chiaramente a passaggi dei libri di Ezechiele e Isaia, mentre – secondo Alessandro Carrera – “la sua opera potrebbe essere letta come una sorta di ripetizione della Bibbia, una grande storia di ritorno al paradiso perduto”. Dai suoi ricordi giovanili (nasce a Duluth nel ’41) si può cogliere che il suo sentimento di appartenenza alla comunità ebraica è sfumato e debole. Ha un primo approccio col testo biblico in famiglia, che diventa più sistematico con la frequentazione del rabbino per la preparazione del bar-mitzvà, ma l’ambiente in cui cresce è tutt’altro che facile: con la post-adolescenza si registrano i primi conflitti col padre Abe, il cui carattere autoritario e i costumi borghesi mal si combinano col carattere del figlio, inquieto e ribelle al punto da eleggere a eroi gli interpreti della gioventù bruciata dell’epoca, i vari Dean e Brando.bob-dylan

Dylan non solo rigetta l’educazione familiare ricevuta, ma diverrà un dropout, svincolato da qualsiasi dovere nei confronti di famiglia e società. Ma la Bibbia, nonostante tutto, resta un testo di riferimento capitale e ricorrente nella sua produzione artistica: Dylan legge la Bibbia essenzialmente da poeta, come insuperabile repertorio di metafore e di parabole, o come grande codice della civiltà. Più un riferimento culturale che pietra d’angolo su cui si regge l’universo spirituale dell’artista.

Eppure, a un certo punto del suo percorso Bob praticherà la canzone come atto di fede: sa di avere un pubblico vasto davanti, di possedere un carisma capace di suscitare la massima attenzione possibile. Al riguardo è esemplare la famosa e controversa trilogia cristiana, gli album incisi dal 1979 al 1981, in un momento particolare della sua vita. A metà degli anni Settanta il rapporto con la moglie Sara inizia a deteriorarsi, tra infedeltà del marito, liti e incomprensioni, fino a sfociare in divorzio nel 1977: la crisi ha come esito la conversione alla religione cristiana e, in particolare, alla Vineyard Fellowship, una chiesa evangelica fondata dal pastore Ken Gulliksen, presso la quale passa qualche mese, per cinque giorni la settimana, a studiare la Parola di Dio.

Da qui nascono gli album – Slow train coming, Saved e Shoot of love – in cui Dylan non si risparmia nel cantare la nuova fede, utilizzando spesso le forme musicali del gospel, con brani nel complesso deludenti. Se oggi, al netto delle critiche che piovvero ai tempi sul capo del reborn, del rinato a Cristo, si può convenire sull’ottima cura degli arrangiamenti e sulle capacità vocali sfoggiate nell’occasione, certi testi sono lontani anni luce da precedenti prove: “Quando la distruzione arriverà improvvisa/ e non ci sarà tempo per un ultimo addio/ avete deciso da che parte stare?/ Col paradiso o con l’inferno?/ Siete pronti, siete pronti?”. La canzone, Are you ready?, è inserita in Saved, album con cui Dylan esce definitivamente allo scoperto, usando toni talmente perentori che rischiano di sconfinare nel fondamentalismo. Qui la Bibbia di Bob è implacabile, non fa sconti, richiede una fede “aggrappata a una solida roccia” (da Solid rock).dylan-baez

Per ritrovare canzoni dal sapore biblico ma anche efficaci artisticamente, conviene tornare al Dylan classico, quello degli esordi. Ad esempio, a A hard rain’s a-gonna fall (da Freewheelin’ Bob Dylan del ‘63), scritta al tempo della crisi dei missili a Cuba e che ha ispirato generazioni di musicisti: “Ho visto un bimbo appena nato con lupi selvaggi tutti intorno/ Ho visto un’autostrada di diamanti e nessuno che la percorreva/ Ho visto un ramo nero e sangue ne scorreva/ Ho visto una stanza piena di uomini con martelli insanguinati/ Ho visto una scala bianca tutta ricoperta d’acqua/ Ho visto diecimila persone parlare con lingue spezzate/ Ho visto armi e spade affilate nelle mani di bambini/ E una dura, e una dura, e una dura, e una dura/ e una dura pioggia cadrà”. Il pezzo, che fu letto in chiave di protesta contro la corsa agli armamenti e la paura per una terza guerra mondiale che sembrava prossima, trascende però il suo primo livello di lettura e acquista un significato universale, grazie alla presenza di diversi riferimenti biblici. Innanzitutto l’uso delle numerazioni, tipiche del Primo Testamento (dodici montagne nebbiose, sei strade contorte, sette tristi foreste, dodici oceani morti, diecimila miglia nella bocca di un cimitero, diecimila persone che parlavano, cento tamburini, diecimila persone bisbigliare); poi le immagini, simboliche o meno, degli eventi catastrofici. A hard rain’s a-gonna fall è il primo di una lunga serie di brani in cui Dylan userà toni profetici per dire della malvagità del mondo e della necessità di un cambiamento profondo. Anche nel terzo disco (The times they are a-changin’, ‘64) si trovano canzoni del genere: in When the ship comes in egli canta che “I mari si divideranno/ e le navi si scontreranno/ e le sabbie sulla riva tremeranno./ Poi la marea risuonerà/ e le onde scrosceranno/ e il mattino comincerà a sorgere/ …e le rocce sulla sabbia/ si ergeranno fiere,/ l’ora in cui la nave arriverà in porto/ …i nemici si alzeranno/ con il sonno ancora negli occhi/ e dai letti si scuoteranno…/ …Allora alzeranno le mani/ dicendo ‘Faremo ciò che volete’,/ ma noi dalla prua grideremo ‘i vostri giorni sono contati’./ E come il popolo del Faraone, saranno sommersi dalla marea, e come Golia saranno vinti”.

Curiosamente una delle migliori fra le sue ultime canzoni, del 2000, richiama The times they are a-changin’, sia per il titolo (Things have changed, Le cose sono cambiate) sia per l’approccio, anche qui, da fine del mondo: “Ho camminato sulla cattiva strada per quaranta miglia/ se la Bibbia dice il vero il mondo sta per esplodere”. Una lunga fedeltà, quella alla Bibbia, al di là delle giravolte esistenziali, per il menestrello di Duluth più volte candidato al Nobel per la letteratura(1).

(1) E oggi, 13 ottobre 2016, finalmente insignito di questo riconoscimento…

perdonaci, Omran Daqneesh, bambino di Aleppo, non meritavi di sperimentare la nostra spietatezza!

la foto del bambino di Aleppo

sta circolando moltissimo ed è diventata il simbolo delle atrocità compiute nella battaglia più importante per la guerra in Siria

Da mercoledì sera sta circolando moltissimo sui social network l’immagine di un bambino siriano estratto vivo dalle macerie dopo un bombardamento ad Aleppo e seduto dentro un’ambulanza: il bambino sembra molto disorientato e sotto shock, coperto dalla polvere delle macerie e con una ferita sulla testa. Tecnicamente non è una foto: è un fermo-immagine da un video girato dall’Aleppo Media Centre, un network di Aleppo vicino all’opposizione, ed è stata usata nelle ultime ore per mostrare la gravità e la disperazione che ha raggiunto la battaglia per Aleppo, una città del nord della Siria contesa tra diversi gruppi ribelli e l’esercito del presidente siriano Bashar al Assad. L’immagine del bambino è stata twittata inizialmente da Raf Sanchez, corrispondente in Medio Oriente del Telegraph, e poi condivisa da migliaia di utenti e ripresa dalle più importanti testate internazionali.

bambinoOmran Daqneesh seduto dentro a un’ambulanza dopo un bombardamento su Aleppo, in Siria (Aleppo Media Centre)

Il bambino nell’ambulanza si chiama Omran Daqneesh, ha cinque anni ed è uno dei cinque bambini rimasti feriti mercoledì da un bombardamento aereo compiuto a Qaterji, un quartiere di Aleppo. Non si sa precisamente chi abbia compiuto l’attacco: potrebbero essere stati aerei dell’esercito siriano o gli aerei della Russia (i russi sono alleati con Assad). Nel video da cui è stata presa l’immagine, si vede Omran che viene sollevato da un soccorritore tra le macerie della casa bombardata e poi viene portato all’interno dell’ambulanza, dove rimane impassibile mentre proseguono i soccorsi.

Attenzione: il video contiene immagini che potrebbero impressionare

Il Telegraph ha scritto che Omran è stato curato per una ferita alla testa all’ospedale M10 di Aleppo e poi dimesso quella stessa notte. Raf Sanchez ha twittato un’altra foto di Omran con una fasciatura sulla testa, dopo le cure ricevute «da alcuni medici straordinariamente coraggiosi di Aleppo».

ricordando ogni 2 di agosto l’olocausto dei rom chiamato ‘porrajmos’

in “silenzio per la pace”

con i Rom e i Sinti

nella ricorrenza del Porrajmos

Auschwitz – Birkenau

 2 agosto 1944ricordo

Sotto la scritta “Arbeit macht frei” del cancello di ingresso di Auschwitz, centinaia di ragazzi rom avanzano a passo lento con gli occhi verso il basso. Sarà il sole accecante di una mattina tersa d’azzurro che impedisce di alzare gli occhi, o sarà invece che nessuno riesce a reggere lo sguardo di fronte alla “fabbrica della morte”. È il 2 Agosto, giorno della memoria del genocidio dei Rom e Sinti. La storia che non si trova sui libri di testo: ad Auschwitz, il 16 maggio 1944 , le SS decidono di chiudere il “campo degli zingari” e sterminare l’ultimo gruppo di 4 mila internati, tra uomini, donne e bambini. Dovevano essere condotti nelle camere a gas e bruciati nei forni crematori. Ma trovarono la forza di ribellarsi, con pietre, mattoni e un coraggio sovrumano, che trassero dai loro corpi esili, sui 30 chili circa. Eroicamente arrivarono al 2 Agosto, stremati senza cibo né acqua. Nei racconti dei rom, c’è chi assicura che le famiglie riuscirono a salutarsi per il Pasomilaj, la festa di mezz’estate del 2 agosto. Ma quella stessa notte, le loro voci scomparvero. Per sempre. I nazisti assassinarono tra la notte del 2 e 3 agosto, nelle camere a gas, 2897 persone. Domenica Chancano

( Domenica Chancano 2 agosto 2013)

PORRAJMOS    Auschwitz – Birkenau 2 agosto 1944
ZINGARI UN’ESTATE
Dalle baracche del Zigeuner Camp vedevamo gli ebrei
colonne incamminate diventare colonne verticali di fumo dritto al cielo,
erano lievi
andavano a gonfiare gli occhi e il naso del loro Dio affacciato.
Noi non fummo leggeri.
La cenere dei corpi degli zingari non riusciva ad alzarsi al cielo di Alta Slesia.
In piena estate diventammo nebbia corallina.
Ci tratteneva in basso la musica suonata e stracantata intorno ai fuochi degli accampamenti,
siepe di fisarmoniche e di danze, la musica inventata ogni sera del mondo non ci lasciava andare.
Noi che suonammo senza uno spartito, fummo chiusi dietro le righe a pentagramma del filo spinato.
Noi zingari di Europa, di cenere pesante
senza destinazione di oltre vita da nessun Dio chiamati a sua testimonianza
estranei per istinto al sacrificio bruciammo senza l’odore della santità
senza residui organici di una pietà seguente,
bruciammo tutti interi, chitarre con le corde di budello.
Erri De Luca  erri de luca

Unisciti ai Rom e ai Sinti la notte del 2 agosto e tieni accesa una candela alla finestra

Gruppo In silenzio per la pace                                                                                                                                               Mantova

nel video seguente un documento drammatico e shokkante per ricordare quell’assoluta disumanità chiamata porrajmos

Pharrajimos, il genocidio rom

di Katalin Barsony*
in “il manifesto”

Uno stato d’animo cupo era palpabile fra la folla radunata ieri intorno al memoriale dell’Olocausto di Londra, una pietra posta nel cuore di Hyde Park. A mezzogiorno, circa un centinaio di persone, soprattutto rom ed ebrei provenienti da tutto il paese, si sono riunite per commemorare il Pharrajimos – l’uccisione di oltre mezzo milione di persone, circa un quarto di tutta la popolazione rom e sinti dell’epoca – avvenuta durante la Seconda Guerra Mondiale. In piedi, sono rimaste in silenzio per ricordare sotto la pioggia battente e un cielo plumbeo. Qualcuno teneva in mano uno striscione blu con la scritta: «Stop al razzismo contro i rom». Una manifestazione commemorativa si è tenuta anche a Berlino, di fronte al Reichstag dove c’è il monumento ai rom e ai sinti sterminati dai nazisti. Tuttavia, tra molti rom c’è la sensazione che la loro sofferenza sia stata aerografata dalla storia – un’amnesia che rende oggi le comunità rom più vulnerabili alla discriminazione e all’aggressione. È stata scelta la data del 2 agosto perché quel giorno del 1944, nel campo di Auschwitz-Birkenau, furono uccisi gli ultimi tremila rom internati nello speciale zigeunerlager. Era il «lager degli zingari», che fu la prigione di oltre ventimila persone uccise nelle camere a gas, mentre i bambini venivano sottoposti a esperimenti terrificanti da parte del medico del campo Joseph Mengele. Il 16 maggio di quell’anno i seimila rom rinchiusi lì vennero a sapere che era in programma il loro sterminio per fare spazio a un gruppo appena arrivato di lavoratori internati. Quando le guardie irruppero per condurli al massacro, i rom, anche se indeboliti dalla prigionia, furono pronti a reagire con qualunque strumento potessero trovare a disposizione – pietre, tubi, pezzi di legno. Il comandante del campo richiamò le guardie per impedire che la rivolta si diffondesse oltre lo zigeunerlager. Noi ricordiamo questo atto di ribellione come «il Giorno della Resistenza rom». Nei mesi successivi, le autorità del campo ridussero la popolazione dello zigeunerlager mandando 1.000 dei prigionieri più giovani al campo di Buchenwald e 1.000 donne a Ravensbruck. Lo sterminio, però, era stato solo rimandato: la notte tra l’1 e il 2 agosto le ss rientrarono nel lager e lo fecero con una forza soverchiante. All’interno c’erano tremila rom – prevalentemente giovani, anziani e malati – che furono sopraffatti e immediatamente mandati a morire nelle camere a gas. Ogni anno che passa, la necessità di riconoscere questi eventi si fa più urgente e i mezzi con cui farlo più difficili. Non c’è quasi più nessuno ormai che può ricordarli in prima persona. Non dobbiamo permettere che il 2 agosto 1944 sia relegato alla polvere degli archivi storici. L’ultima testimone oculare conosciuta era Erzsébet Szenesné Brodt, morta poco fa, che fu deportata all’età di 17 anni da Kaposvár, in Ungheria, ad Auschwitz con la madre e la sorella di dieci anni mandate alla camera a gas appena scese dal treno. Intervistata nel 2012 dalla Romedia Foundation, Brodt, che viveva in una baracca vicina allo zigeunerlager, ha ricordato chiaramente quella notte, quando le ss attaccarono con lanciafiamme e cani da assalto. Per il resto della sua vita, ogni volta che ha visto un cane di grossa taglia, ha sentito un brivido per la paura. La commemorazione del 2 agosto come Giorno della Memoria del genocidio dei rom e dei sinti sta avendo qualche riconoscimento istituzionale negli ultimi anni. La Giornata è riconosciuta in Polonia, Ungheria e Ucraina (i sinti fanno parte dell’esodo rom che si è stabilito principalmente in Europa centrale). Ma il processo è faticosamente lento. Il governo della Germania dell’Ovest non riconobbe l’Olocausto dei rom fino al 1982; la Germania riunificata dedicò un monumento ai rom e ai sinti vittime del nazionalsocialismo solo nel 2012. Nell’aprile del 2015, il parlamento europeo ha approvato una risoluzione che istituisce ufficialmente il 2 agosto come il Giorno della memoria dell’Olocausto rom e ha esortato gli stati membri a fare lo stesso ricordando l’attuale situazione di difficoltà dei rom in Europa ed
esprimendo «profonda preoccupazione per l’aumento di un sentimento anti-rom in Europa accompagnato spesso da violente aggressioni». Più di settant’anni dopo il Pharrajimos, i dodici milioni di rom d’Europa sono la minoranza etnica più grande del continente e la più discriminata: l’86% degli italiani, il 73% dei danesi e il 60% dei francesi vedono i rom sfavorevolmente. Il 71% dei rom che vive nell’Europa dell’Est è in profonda povertà ed è minacciato da una parte all’altra del continente dal ritorno di una ideologia violenta e di estrema destra. Per onorare correttamente l’oltre mezzo milione di vittime dell’Olocausto rom e sinti, i rom dovrebbero vedere riconosciuto il loro diritto ad esistere come cittadini europei a pieno titolo e liberi. Quando davanti ai suoi occhi donne e bambini rom venivano spinti nelle camera a gas dalle ss, Erzsébet Brodt promise a se stessa che sarebbe sopravvissuta. «Il mio dovere sarà quello di raccontare a tutti», disse l’ultima testimone di quella tragedia, «È responsabilità di tutti i sopravvissuti battersi perché queste cose non accadano mai più».

*attivista e regista rom, direttore esecutivo della Fondazione Romedia con sede a Budapest

la dura vita in un bordello del Bangladesh

 

ecco cosa vuol dire lavorare nel bordello più antico del Bagladesh

Il Bangladesh è uno dei pochi paesi musulmani dove la prostituzione è legale e nel bordello più antico del paese, Kandapara, vivono oltre 700 donne.

Le ragazze vengono impiegate giovanissime, ancora bambine, dai 12 anni di età.

Spesso vengono vendute dalle loro famiglie, troppo povere per mantenerle; oppure, poverissime, entrano nel bordello per saldare dei debiti, ma dopo averli estinti non sono in grado di reintegrarsi nella società, ormai stigmatizzate come prostitute e impossibilitate a trovare un altro lavoro per il resto della loro vita.

Kandapara si trova in Bangladesh, nella regione di Tangail ed è in attività da più di 200 anni

Già dal dodicesimo anno di età le ragazze si prostituiscono, vendute dalle famiglie stesse, o per sfuggire al controllo del marito, oppure per saldare debiti che non possono pagare.

vengono pagate circa 10 euro al giorno e sono obbligate a soddisfare quotidianamente oltre i 15/20 clienti

Non hanno nessun diritto: da quando vengono vendute, diventano di proprietà del gestore del bordello, senza nessuna possibilità di un futuro diverso. Vengono infatti stigmatizzate come prostitute e, fuori da Kandapara, nessuno sarebbe disposto ad assumerle.

ci sono ragazze con figli, che spesso vivono con loro in condizioni misere, di estrema povertà

Sono malnutrite e costrette ad assumere l’Oraxedon, uno steroide che i contadini usano per far ingrassare i bovini, in modo da prendere peso ed avere un aspetto più sano ed attraente per i clienti. Secondo i dati, il 90% delle prostitute ricorre costantemente all’Oradexon, che comporta effetti negativi come il diabete, la pressione alta, gli sfoghi cutanei e il mal di testa.

all’interno del bordello è proibito l’uso del velo, che invece le ragazze sono obbligate ad indossare fuori

Numerose ragazze sono costrette a prostituirsi dal loro stesso marito, che ne gestisce gli affari e i clienti.
A volte hanno la “fortuna” di incontrare clienti che non chiedono di avere rapporti, ma si limitano a parlare, bere il tè o stringere la loro mano: tutte cose normali nella nostra società, ma che diventano una lussuriosa evasione nella rigida cultura bengalese.

il dilagare della prostituzione in Bangladesh è legato alla miseria: più del 50% del paese vive sotto la soglia di povertà

e le donne vendute come schiave del sesso, spesso non hanno nessuna alternativa

“Se riuscissi a fuggire”, dice una di loro, “dove potrei andare? I miei mi hanno sempre detestato e non mi rivogliono indietro. Noi tutte ci dobbiamo rassegnare al fatto che siamo delle schiave e come schiave dobbiamo morire”.

il capitalismo non è più per giovani

i giovani dell’era della crisi che non amano il capitalismo

di Mauro Magatti in “Corriere della Sera”

giovani

Una recente ricerca condotta dall’Institute of Politics della Università di Harvard ha fatto discutere i media americani. Dai dati, risulta infatti che, nei giovani tra i 19 e i 25 anni, solo il 42% degli intervistati sostiene il capitalismo, mentre la maggioranza (51%) ne ha un’opinione negativa. Il Washington Post è arrivato a chiedersi se la crisi non stia cambiando gli orientamenti culturali delle nostre società: forse di fronte a un cambio generazionale destinato a trasformare gli equilibri economici e sociali? Difficile dire come andranno le cose. Certo è che i dati della prestigiosa università sembrano confermare ciò che, da qualche tempo, segnalano anche altri istituti di ricerca: nella testa e nel cuore dei giovani americani (ed europei) sta cambiando qualcosa.

Lontanissimi gli anni della contestazione, ma anche i tempi in cui a spopolare era l’affermazione soggettivistica del proprio Io, i giovani cresciuti nella crisi — specie quelli dotati di un buon livello di istruzione — esprimono sensibilità nuove verso la costruzione di un equilibrio più avanzato tra l’Io e il Noi, tra il sé e l’ambiente circostante. Le ricerche dicono, ad esempio, che i millennials hanno maturato un orientamento critico tanto verso il liberismo sfrenato quanto verso lo statalismo aggressivo. Convinti della bontà dell’economia di mercato, pensano tuttavia che essa vada regolata e difesa dei suoi stessi eccessi e che sia importante il ruolo attivo che lo Stato può svolgere per garantire le condizioni della crescita.

future

Molto sensibili nei confronti della questione ambientale, i ragazzi sono convinti che il tema debba essere preso sul serio: non c’è più tempo per rinviare decisioni necessarie per la sopravvivenza del pianeta. Semplicemente perché sanno che sarà la loro generazione a dover sopportare i costi di una colpevole inazione. Inoltre, i millennials fanno della tolleranza un valore fondamentale e ritengono che la convivenza delle diversità debba diventare un modo ordinario di convivere. Un atteggiamento che li rende anche aperti nei confronti dei migranti, visti più come risorsa che come minaccia. Chi arriva è titolare del diritto a costruirsi una vita migliore. Un diritto che gli stessi giovani vivono sulla loro pelle poiché sanno, per scelta o per necessità, che le loro possibilità di vita non sono legate al posto in cui sono nati. Infine, l’affermazione personale non è contrapposta ai rapporti sociali. Per la propria vita i giovani aspirano a svolgere un’attività che riconosca le loro capacità, ma che al tempo stesso possa recare un vantaggio alla comunità nella quale vivono, al di là del puro reddito economico o della pura strumentalità. E considerano la qualità delle relazioni un ingrediente fondamentale per il proprio benessere. Una sensibilità che nasce da un’esperienza fondamentalmente positiva dei legami familiari, punto di riferimento sicuro e solido in un mondo incerto. Si tratta, come si può vedere, di un pacchetto di orientamenti dotato di una chiara logica interna. Una logica relazionale.

È come se la nuova generazione, di fronte ai guasti lasciati dal modello di sviluppo iperindividualistico degli ultimi decenni, stesse cercando di trovare un nuovo modo di pensare il legame con l’altro, visto come costitutivo e non minaccia della propria libertà. Riconoscendo, in buona sostanza, che non esiste l’Io se non in relazione.sogni

Ovviamente le ricerche non dicono che tutti giovani la pensano in questo modo. E tuttavia esse riconoscono un orientamento prevalente, benché ancora frammentato e soprattutto privo di un discorso pubblico capace di renderlo riconoscibile e riproducibile. Ma, come già accaduto altre volte nella storia (l’ultima volta nel ‘68), anche oggi è probabilmente negli orientamenti di questi giovani che si può intravvedere una via per il nostro futuro. A condizione che, anche politicamente, le generazioni degli adulti e degli anziani siano disposte ad ascoltare le proposte e le istanze di chi ha vissuto la propria adolescenza lontano dei miti della crescita infinita; di chi cioè ha conosciuto sulla propria pelle i guasti e le contraddizioni di un modello in liquidazione. Così, con forme, parole e modalità nuove siamo forse alla vigilia di un nuovo cambio di generazione. Che, possiamo tutti augurarci, potrebbe trasformarsi presto anche in un cambio di paradigma sociale.

due teologie nell’unico racconto della passione di Gesù non armonizzate

non è facile comprendere la passione

di p. José M. Castillo

in “Religión Digital” del 21 marzo 2016

Castillo

Non risulta facile comprendere quello che vediamo e viviamo ogni Settimana Santa. Perché non è facile capire per quale motivo, ogni anno e quando arrivano questi giorni, girano per le nostre strade immagini di dolore, agonia e morte, in processioni di rispetto e di devozione. E – quello che è più stupefacente – esibiamo le immagini del fallimento con troni di esaltazione trionfale, con musica gregoriana, incenso e bande di musica, grancasse e trombe. Tutto questo è l’espressione più eloquente del tentativo incomprensibile di fare, del fallimento più umiliante della vita, il trionfo sognato delle nostre più sublimi illusioni. Perché nell’ambito della religione succede quello che nessuno può immaginare negli altri settori della vita? Non so se questo fenomeno – così chiaramente contraddittorio – si verifichi, con tanta naturalezza, nella storia e nelle pratiche di altre religioni. Nel cristianesimo è un fatto, che ha una storia di secoli ed alcune radici che risalgono alle origini della Chiesa. Ed è il fatto che, comunque rigiriamo la questione, non è facile comprendere la passione di Gesù. Dove sta la chiave del problema? Negli scritti più antichi della Chiesa, nei documenti che chiamiamo Nuovo Testamento, ci sono due teologie, che non si sono integrate debitamente l’una con l’altra, ma sono state pensate e scritte indipendentemente l’una dall’altra. Ed in questioni molto decisive ci dicono cose che non sono facili da armonizzare. La prima di queste teologie (quella che è stata scritta per primo) è stata quella di Paolo (tra gli anni 45 e 55). La seconda è stata quella dei vangeli (dopo l’anno 70, fino agli anni 90). La differenza più ovvia, che si nota tra queste due teologie, è che quella dei vangeli è una “teologia narrativa”, ossia è costruita sulla base di una serie di racconti mediante i quali a noi si spiega la maniera di vivere o il progetto di vita del protagonista di tali racconti, un modesto galileo del sec. I, Gesù di Nazareth. La teologia di Paolo è una “teologia speculativa”, cioè è costruita sulla base di una serie di riflessioni religiose, che non si riferiscono più direttamente all’umile galileo che è stato Gesù, ma al Figlio di Dio, Messia e Signore nostro (Rm 1, 4), che è Cristo, il Risorto che è unito al Padre del Cielo. Detto ciò – e come è logico -, queste due teologie ci offrono due spiegazioni della passione e morte di Gesù. Secondo la teologia dei vangeli, la decisione della morte di Gesù fu presa dall’autorità religiosa (il Sinedrio: sommi sacerdoti, anziani e dottori della Legge). E questa decisione fu approvata dall’autorità politica, il prefetto dell’Impero. Il motivo della condanna a morte è stato religioso (Gesù fu accusato di essere un pericolo per il tempio, di essere e di agire come un bestemmiatore ed un delinquente); ed è stato politico (poiché il governatore ordinò di crocifiggerlo). Secondo la teologia di Paolo, Cristo morì sulla croce non per una decisione umana (una questione che Paolo non cita mai), ma perché “i peccati si espiano con il sangue”, cosa che si riferisce a Cristo che sopporta l’ira di Dio scatenata su tutti i peccatori (Rm 3, 19-20. 25).  Così sul Crocifisso ricadde il giudizio distruttore di Dio, che con la morte di Gesù condannò “il peccato nella carne” (Rm 8, 3). Questo dimostra il fatto che, per Paolo, Gesù si è fatto “maledizione” (Gal 3, 13) e “peccato” (2 Cor 5, 21) per noi. In definitiva, la teologia di Paolo viene ad essere l’accettazione del principio spaventoso che presenta la lettera agli Ebrei: “senza effusione di sangue non vi è remissione” (Eb 9, 22). Riassumendo: la passione di Gesù, secondo la teologia narrativa dei vangeli, si spiega perchè Gesù, nel quale è presente Dio e che ci rivela Dio (Gv 1, 18; 14, 9; Mt 11, 27 par), ha affrontato la sofferenza umana (malattia, povertà, fame, emarginazione, disprezzo, umiliazione, odio…).  Secondo la teologia speculativa di Paolo, la passione di Cristo si spiega perchè Dio ha avuto bisogno del “sacrificio” e dell’“espiazione” dei peccati, per redimere in questo modo l’uomo peccatore.
Ebbene, accettando il fatto che nel Nuovo Testamento si trovano queste due spiegazioni della passione e della morte di Gesù, il problema concreto che si presenta di solito, negli insegnamenti della Chiesa e nella vita dei credenti, sta nel fatto che la spiegazione della passione offerta da Paolo si è costituita, si presenta ed è richiesta alla gente che la si viva come il dogma di fede della nostra salvezza. Mentre la spiegazione della passione presentata dai vangeli viene spiegata alla gente come un criterio di spiritualità per praticare la devozione e la carità cristiana.
Certo, sappiamo che Paolo ha insistito sulla carità e sull’amore cristiano (1 Cor 13, 1-13; Gal 5, 1324; Rm 13, 8-10). Così come sappiamo che i vangeli parlano ripetutamente della fede e della salvezza. Ma si consideri che, quando Gesù parla di “salvezza”, si riferisce alla “cura delle malattie”. Cioè, nei vangeli “salvare” è rimediare alla “sofferenza”. Per questo, quando Gesù diceva a qualcuno: “La tua fede ti ha salvato”, in realtà gli diceva: “La tua salda fiducia in me ti ha curato” (Mc 5, 34; Mt 9, 22; Lc 8, 48; cf. Mc 10, 52; Mt 8, 10. 13; 9, 30; 15, 28; Lc 7, 9; 17, 19; 18, 42). E richiama l’attenzione il fatto che Gesù elogia la fede di un centurione romano (Mt 8, 5-13; Lc 7, 1-10), di una donna cananea (Mt 15, 21-28; Mc 7, 24-30) o di un lebbroso samaritano (Lc 17, 11-19), tutte persone che non avevano la fede nel Dio di Israele. Senza alcun dubbio, l’elemento centrale nella teologia di Paolo è la vittoria sul peccato. Ma, se ci atteniamo alla teologia dei vangeli, l’elemento centrale è la vittoria sulla sofferenza. Detto tutto ciò, mi azzardo a dire che, finchè questa questione non abbia la giusta ed autorevole spiegazione (ed applicazione alla vita), la Chiesa non potrà adempiere al suo ruolo ed alla sua missione nel mondo. In definitiva, con una teologia disarticolata e sgangherata possiamo solo avere una Chiesa ugualmente disarticolata e sgangherata. In altre parole, finché Paolo continuerà ad essere più decisivo di Gesù nella teologia e nella gestione della Chiesa, come Chiesa e come cristiani non andiamo da nessuna parte.
articolo pubblicato il 21.3.2016 nel Blog dell’Autore in Religión Digital

 

 

 

anche questo, sì, è un padre!

 

 

SE QUESTO E’ UN PADRE

se questo

Noi che viviamo sicuri
Nelle nostre tiepide case,
Noi che troviamo tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Consideriamo se questo è un padre,
Che cammina nella tempesta e nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un nostro sì o un nostro no.
Consideriamo se questo è un padre,
Senza nome, senza casa, senza patria
Senza più forza di ricordare
Lo sguardo vuoto di passato vuoto di futuro
Le labbra sulla sua bimba
Che stringe al grembo freddo
Freddo come una rana d’inverno.
Meditiamo che questo è stato ed è ancora
Comandiamoci queste parole
Scolpiamole nel nostro cuore
Stando in casa andando per via
Coricandoci alzandoci
Ripetiamole ai nostri figli
Così si rinsalderà la nostra casa
Così la gioia ravviverà i nostri corpi
Così nostri figli volgeranno il viso sul nostro
Così ci riconosceranno come padri.

Ignazio Punzi
(ispirata a Se questo è un uomo di Primo Levi)

relazione di don Vito Impellizzeri al CCIT 2016 di Esztergom in Ungheria

CCIT –Esztergom– 2016

basilica1la figura della coscienza del Samaritano lo sguardo dal basso della prossimità culturale

 

di don Vito Impellizzeri

A mio padre, vangelo nascosto

Introduzione

«L’altro è l’inferno» (Sartre)Vito

«Oggi sarai con me in Paradiso» (Gesù)

«La sofferenza, la fame, i disagi finiscono per fare degli uomini dei lupi fra loro: beati quei popoli che riescono a prevenire con l’unico mezzo efficace, la vera profonda leale solidarietà. La società di domani sarà come noi l’avremo voluta oggi» (G. Andrea Trebeschi, Brescia 1897 – Dachau Mauthausen Gusen 24.1.1945)

«Ma un samaritano che era in viaggio, passandogli accanto, lo vide e ne ebbe compassione; avvicinatosi, fasciò le sue piaghe, curò le sue ferite …» (Lc 10,33)

A proposito di misericordia … nell’accompagnare mio papà alle porte del cielo ho imparato il nostro poter essere due domande fondamentali. Certo mi piacerebbe da subito, in questa riflessione, fermarmi sul nostro essere due (ovvero relazione, ad immagine e somiglianza dell’essere relazione di Dio; il nostro essere due aperto al compimento del terzo, di Dio che sceglie di abitare nelle nostre relazioni autentiche di umanità nel suo nome; essere da) e sul nostro essere domanda (ovvero ricerca, desiderio, speranza, apertura, verso la verità, la bellezza, l’unità, il bene, verso Dio; essere per). Ma devo prima raccontare le due domande sentite ripetutamente negli ultimi giorni di mio papà. Domande che abitano come senso e come promessa la mia ricerca, che hanno ricordato alla mia coscienza l’intelligenza nascosta del vangelo nelle pieghe e nella piaghe del quotidiano.

  1. Accompagnandolo in ospedale a fare le visite, ma lo stesso potrebbe avvenire in posta, in un supermercato, o dal dentista, dovunque si crei un legame antropologico reale tra il tempo come attesa e lo spazio come fila e questo attenda la scelta delle relazioni, la prima domanda era sempre la stessa: «Scusate, chi è l’ultimo?». È, a mio semplice modo di vedere, riflesso di vangelo, completamento della domanda con cui Gesù conclude la parabola del Buon Samaritano, perché anche qui la risposta, il riconoscimento presuppone poi che io, cioè colui che pone la domanda, prenda il suo posto, diventi io l’ultimo. E lui diventi colui che è prima di me. Diventi il primo di me. È questa semplice domanda che trasforma gli ultimi in primi. È questa semplice domanda che custodisce l’umanità come riflesso bello di vangelo. È veramente una domanda bella.

  1. Ma, mentre diventati gli ultimi e resi primi quelli davanti a noi, eravamo in attesa del nostro turno, capitava sempre che qualcuno, magari perché conoscesse me, veniva a salutarci. Ed ecco la sua seconda domanda, fatta da mio papà proprio nella sua condizione di anziano con la fatica della memoria e della vita sociale e del senso del raccogliersi del tempo: «Ma, mi conosci?». Questa domanda immediatamente mi ha ricondotto alla pagina evangelica del giudizio sulla carità di Mt 25 e sul criterio del discernimento del Figlio dell’uomo, riguardo il conoscere e amare uniti dalla carità come opera, che permette il riconoscimento come benedizione e beatitudine. Ed ero reso partecipe, coinvolto, immediatamente in bellissimi dialoghi della memoria, in cui il mio giovane amico diceva semplicemente il nome del proprio genitore e del proprio nonno, e mio papà, con una semplicità autenticamente tenera, si faceva lui stesso dono come memoria graziosa (fatta di ricordi e forse di rimpianti) per la sua storia, indicandogli luoghi, fatti, vicende, esperienza, che il giovane stesso non conosceva, ma che ora, finalmente riconosceva, (ma quando noi abbiamo …); in forza del dono della memoria (fate questo in memoria di me) lo rendeva erede di un nome diventato memoria, cioè storia, relazione tra gli uomini oltre la loro stessa morte. Per questo benedetto e non maledetto.

  1. Il mondo come spazio della vera fraternità.

[È dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, Questo sfida l’uomo, anzi lo costringe a darsi una risposta.1 ]

Alcune semplici note ci permetteranno di cogliere la bellezza, la novità e anche la libertà di alcuni passaggi di questo numero del Concilio della misericordia2 intorno alla teologia pastorale dei segni dei tempi. In verità la teologia dei segni dei tempi è considerata da molti fra le più forti eredità del Concilio. Essa segna il cammino contemporaneo della Chiesa e ne manifesta la sua necessaria recezione creativa. Essa rinnova, cambia, forse completa, la percezione della relazione tra Chiesa e Mondo, avviando quel legame di reciprocità che permette al mistero della Chiesa di restare fedele al mistero stesso di Cristo e alla sua incarnazione, fedeltà alla Kenosi, allo scandalo e alla stoltezza della Croce; e allo stesso modo, le permette di restare aperta, come seme e come opera, all’annuncio e alla venuta del Regno di Dio. La Chiesa non può essere pienamente se stessa senza l’alterità del mondo, senza cioè la storia e la famiglia umana, oltre che senza l’alterità di Cristo. Cristo – Chiesa – Mondo, segnata dal suo legame con lo Spirito e con il Regno, e dunque in dissimmetria Spirito – Chiesa – Regno. È il percorso dell’autocoscienza che essa stessa ha percorso nel Concilio. Inoltre da questa eredità (traditio vivens) conciliare passa la fedeltà contemporanea alla natura missionaria della Chiesa. La Chiesa è tutta missionaria. È in gioco la contemporaneità della salvezza, come misericordia e come giustizia, e non solo la sua eternità, come giustizia e come misericordia! La GS ha piena consapevolezza che nella storia le cose non stanno semplicemente cambiando ma si sta entrando, in forza della tecnica e della comunicazione, della intelligenza e creatività umana, in una epoca del cambiamento e allora compie uno sforzo grande, proprio di una grammatica genitoriale della responsabilità e del responsabilizzare: riconosce in questa crisi di crescenza la necessità della crescita personale e sociale dell’uomo ed indica la necessità di non smarrire, di non perdere, il riferimento ai valori perenni dell’umanità che custodiscono la dignità di ogni persona e dell’intera famiglia umana. La scelta di indicare i valori come perenni mostra tutto intero il mistero che lega la Chiesa e il Mondo nel tempo, nella storia, come missione e come memoria. Si tratta dunque della responsabilità di ricordare in ogni cambiamento il permanere della sua dignità e della sua vocazione, del suo compito e del suo destino, della sua identità e della sua responsabilità. Il perenne non è perché nulla cambi, ma perché il cambiamento non smarrisca il senso, il camminare non smetta di essere crescenza. Infatti il Concilio è così libero di affermare la non paura dell’aggiornamento e la necessità della Chiesa di dover farsi trovare adeguata, cioè comprensibile e significativa, ad e per ogni epoca ed ogni generazione. Aggiornamento. Questo non vuol dire perdere i valori perenni, non vuol dire cedere i valori non negoziabili. Anzi. Questi le sono continuamente partecipati dal suo legame vivo e vitale con il Cristo, con l’umano dell’umanità crocifissa e risorta del Figlio di Dio e di ogni uomo partecipe del dolore della croce, con il suo Spirito e con la già presenza del suo Regno non ancora compiuta. Ed è proprio la perennità dei valori a spingere la Chiesa a cercare il dialogo con ogni uomo e in ogni contesto storico e sociale. Incarnazione ed inculturazione. Non c’è nulla di autenticamente umano che non riguardi e soprattutto non interessi la Chiesa. Il Concilio propone una idea di mondo plurale e completa, lo coglie nel suo significato antropologico e sociale, creazionistico e teologico, amartiologico (legato al peccato), storico, cristologico ed escatologico salvifico. Ne afferra l’orizzonte greco di cosmos; quello ebraico e cristiano di creazione e promessa di salvezza ed evento dell’incarnazione; ed anche quello occidentale moderno di storia e natura. Oggi il Concilio aggiungerebbe anche quello postmoderno e mediatico di rete e di comunicazione, fluido. Un piccolo mondo, dove niente è più fuori, extra, lontano, separato, dall’altra parte, nascosto, irraggiungibile. Un mondo raccolto e raggiungibile. I fatti del mondo riguardano tutti e possono ricadere su tutti. Nessuna guerra è più molto lontana. Il mondo raccolto, lo spazio piccolo, il tempo comunicazione, diviene oggi il luogo della responsabilità etica dell’uomo, giudicato e purificato dalla croce e continuamente rinnovato e ricreato dal suo spirito nell’evento della risurrezione escatologica. La GS sorprende anche per la sua tensione universalistica. In un mondo realmente globale e raccolto in rete la Chiesa sente forte la necessità di voler raggiungere tutti, di voler contattare interamente la famiglia umana e fare appello ad ogni singola e libera coscienza. Unico diventa il destino dell’umana società senza diversificarsi più in tante storie separate. Papa Francesco, seguendo le orme del Concilio, nella Laudato sii parla del mondo come casa comune e propone un’ecologia integrale. Dal Concilio è stata riconosciuta e assunta, cioè imparata, del cammino veritativo dell’uomo il valore forte che la modernità riconosce e attribuisce al soggetto e alla libertà. Il trittico che tutti abbiamo imparato in Occidente dalla rivoluzione francese libertà – uguaglianza – fraternità non risulta più contrario alla fede e alla vita cristiana. Si può dialogare. Resta il disagio però che da subito il trittico è stato ridotto nella modernità politica a dittico e il tema della fraternità è sparito dal riferimento al guadagno politico della modernità. Ora, per noi, la fraternità è proprio il contributo del cristianesimo ad una cultura occidentale che vuole assumersi in modo adulto il peso di una libertà che matura come responsabilità e di un soggetto che si riconosce e si costituisce nella sua identità proprio grazie all’alterità, all’altro. Il Concilio dimostra semplicemente la struttura dell’identità del soggetto legata all’alterità attraverso il ricorso alle dinamiche del micro sociale (padri-figli e uomo-donna) e del macro sociale (solidarietà, partecipazione). La socializzazione padri e figli e uomo-donna evidenzia le due polarità fondamentali che strutturano la condizione umana come intrinsecamente chiamata alla socialità; in senso così storico-temporale, come susseguirsi di generazioni, e in senso di contemporaneità orizzontale come essenziale espressione della creatura umana nella polarità di identità – differenza e identità – dialogo. Il macro sociale testimonia solidarietà, partecipazione, unità, conflitto, pluralismo, comunicazione. Sempre seguendo il cammino tracciato e avviato dal Concilio Papa Francesco afferma:

In questo modo, si rende possibile sviluppare una comunione nelle differenze, che può essere favorita sola da quelle nobili persone che hanno il coraggio di andare oltre la superficie conflittuale e considerano gli altri nella loro dignità più profonda. Per questo è necessario postulare un principio che è indispensabile per costruire l’amicizia sociale: l’unità è superiore al conflitto. La solidarietà, intesa nel suo significato più profondo e di sfida, diventa così uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita. Non significa puntare al sincretismo, né all’assorbimento di uno nell’altro, ma alla risoluzione su di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in contrasto.3

La storia dunque è il luogo specifico e il teatro di realizzazione dell’uomo come singolo e come comunità sociale. Ma il Concilio, proprio secondo la prospettiva dell’unità, assume una decisa prospettiva trinitaria, legge in tale chiave proprio l’ Intersoggettività.

[Iddio che ha cura paterna di tutti, ha voluto che tutti gli uomini formassero una sola famiglia e si trattassero tra loro come fratelli. Iddio abbia voluto per se stesso, non possa trovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé.4 ]

Ognuno deve considerare il prossimo, nessun eccettuato, come un altro se stesso. Il “come” dei sinottici, è in realtà la misura trinitaria della socialità umana, cioè il porre l’altro sullo stesso piano di sé, come il Padre e il Figlio, la stessa dignità. E deve considerare il prossimo come l’alterità di Dio. Amare Dio e amare il prossimo non possono essere disgiunti come comandamento, in ragione del fatto che il comandamento rileva, cioè assume a norma di comportamento, ciò che l’amore rivela: l’inseparabilità tra Dio e il prossimo. Inseparabilità realizzata in Cristo. È il mistero più profondo che abita l’incarnazione, lì dove inizia la misericordia.

[La Chiesa ha riconosciuto che l’esigenza di ascoltare questo grido deriva dalla stessa opera liberatrice della grazia in ciascuno di noi,pesanti inefficaci.5 ]

Il dialogo è la forma concreta che la vita e la missione della Chiesa sono chiamate oggi ad assumere, con una reale e bella spiritualità del dialogo. Questo comporta la conversione dello sguardo: «chi è il diverso?» Diverso, cioè di(s)vertere: volgersi via da. Il diverso è l’altro in quanto diverge, in quanto cioè è percepito allontanarsi da me perché ha preso una strada che guarda altrove rispetto a quella da me intrapresa. E invece l’altro è il volto che guarda verso di me, il volto che rivela me a me stesso, come anch’io un volto capace di incontro. “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza” promessa di reciproco riconoscimento, l’altro non è estraneo ma fratello! L’alterità, la prossimità, nel legame di amore e verità, intesa e assunta come fraternità è ciò che vorrei provare a mostrare come il compito dell’uomo e del cristianesimo con il confronto con la teologia di K. Rahner. Provando in questo modo ad argomentare il passaggio antropologico, prima considerato connaturale e semplice come pratica, tra prossimo e fratello perché fondato sulla condizione universale di figlio. La rinuncia pratica e politica della modernità alla dimensione universale di fraternità ha oggi contribuito, in ragione anche dei drammi, dei contrasti e delle paure in atto, a discuterla, nonostante l’appello continuo alla condizione universale di figliolanza. Per di più, da sempre, l’esperienza domestica ci racconta la fatica e il dramma quotidiano di relazioni di figliolanza e di fraternità vissute in contraddizione e in contrasto. Ognuno conosce la storia di Caino. Se già la naturale fraternità per nascita fa fatica ad essere considerata criterio e norma per relazioni e per scelte, oggi, una fraternità universale costruita sul comune e filiale senso di Dio come Padre e Creatore, fa veramente fatica ad essere praticamente condivisa come il criterio guida per affrontare ed assumere i drammi, i contrasti e le contraddizioni in atto nella scena politica del mondo. Il legame di identità antropologico fratello-figlio oggi non è più scontato come dato universalmente condiviso. Qui il cristianesimo, e non solo lui con la forza del comandamento dell’amore al prossimo Forse non nella sua forma riflessa ma certamente nella sua forma pratica. Occorre testimoniare e raccontare l’umano che comune attraverso uno sguardo che sa cogliere nel diverso uno specifico esercizio di umanità, un peculiare dono per sé e per gli altri. Io per primo o mi rivolgo verso di lui e così si può accendere la compassione e la misericordia. Compatire, cioè portare insieme i pesi gli uni degli altri, gioendo per le gioie dell’altro e soffrendo con lui per la prova che lo angustiano. Patire insieme il peso e la grazia di essere creati ad immagine e somiglianza di Dio per diventare insieme suoi figli nella concretezza difficile, ardua e complessa della nostra esistenza. L’insegnamento e la prassi di Gesù dischiudono in profondità l’atteggiamento della compassione, della kenosi. Amare significa farsi l’altro, mettersi nella sua pelle (è la proposta di una globalizzazione dal basso) ascolto disarmato, vuoto di sé; fraternità. Dio in persona viene ad abitare in mezzo agli uomini, là ove si accende il mutuo riconoscimento.

[L’unione della famiglia umana viene molto rafforzata e completata dall’unità della famiglia dei figli di Dio, il compimento della sua missione.6 ]

  1. La fraternità: totalità del compito di tutto l’uomo e del cristianesimo.

Eccomi al secondo momento di questo percorso: Non c’è alcun amore a Dio che non sia in se stesso già amore al prossimo e che attraverso l’esercizio dell’amore al prossimo non raggiunge il suo fine. Riflesso l’argomentare di Rahner della Prima Lettera di Giovanni. Solo chi ama il prossimo può sapere chi è veramente Dio, e solo chi ama Dio veramente può riuscire ad entrare in relazione con l’altro uomo, senza renderlo un mezzo per la propria autoaffermazione, in maniera riflessa oppure no. Dio non è il concorrente dell’uomo, bensì colui che rende comprensibile l’uomo, colui che gli dà la sua vera radicale dignità e significazione, essendo nel più intimo dell’uomo e nel contempo superandolo infinitamente. L’esistenza in Dio è la più profonda interiorità dell’uomo. In quanto viene amato in/per Dio, l’uomo è amato nel suo essere e nel suo significato ultimo, e in quanto si apre veramente all’amore al prossimo gli è data la possibilità di uscire da se stesso per amare Dio.

Il secondo passo sta nel comprendere come l’amore al prossimo presenti una vera dimensione storica che deve concretizzarsi nell’azione. C’è veramente una storicità dell’amore cristiano verso il prossimo. Le sfide attuali sono sotto lo sguardo di tutti: comunicazione, ecologia, finanza, migrazioni, terrorismo, gender, democrazia, dignità e difesa della donna, dialogo, pluralismo, fondamentalismi religiosi; queste sfide pongono la questione se abbia senso e contenga promessa intendere l’amore al prossimo come fraternità.

Di fatto, grazie alla comunicazione oggi siamo di fronte ad una umanità che nel suo insieme tende a diventare sempre più unità. Mondiale, globale, sono parole del quotidiano di ciascuno, spesso abbinate a crisi o conseguenze, basti pensare alle situazioni di conflitto o alle sfide ambientali. Viviamo nella situazione di una umanità che si fa sempre più vicina e unita. Ciò non significa naturalmente che questo mondo umano che diviene sempre più uno sia anche più armonico e tranquillo. Anzi. In un mondo in cui le singole storie dei popoli e le singole culture non sono più separate da spazi vuoti e da terre di nessuno, le situazioni di un conflitto divengono persino più pericolose che non nei tempi passati. C’è oggi nell’umanità una forza centripeta che costringe i singoli spazi storici e culturali a convergere verso uno spazio esistenziale comune a tutti gli uomini, ad es. la questione dei diritti universali dell’uomo. Ma anche c’è una nuova interiorità dell’uomo. Una nuova percezione di se. Sta cambiando decisamente la coscienza soggettiva e la sua relazione con il bene (e il male). Questa nuova condizione globale cambia anche la percezione della Chiesa, oggi tutti percepiamo la Chiesa nella sua dimensione mondiale, fa quasi nostalgia l’espressione usata da Papa Francesco la sera della sua elezione, di un papa venuto dalla fine del mondo!

Stoltezza della croce. Vera sapienza cristiana. Domanda che scuote le coscienze. La fraternità si rivela secondo Rahner come forma concreta dell’amore verso Dio. Il fratello diventa la porta, autenticamente umana, che porta Dio. Il fratello è la porta santa. Emerge chiaramente allora il senso e la promessa con cui Francesco ha voluto ampliare il segno della porta santa nel Giubileo della misericordia ponendovi luoghi come Lampedusa, il Centro Africa e la mensa dei poveri. Quando si comprende veramente l’unità che deve esserci tra l’amore verso Dio e verso il prossimo allora quest’ultimo passa dalla situazione di richiesta di una prestazione particolare e ben limitata alla condizione di un totale impegno di vita, in cui da tutta la nostra persona si richiede qualcosa, esigendola oltre misura. È il compiersi della trascendenza secondo la carità. È autentica libertà da noi stessi. In altri termini con fraternità, nella sua necessaria unità con la risposta d’amore verso Dio, si esprime la totalità del compito di tutto l’uomo e del cristianesimo. Secondo il padre gesuita è una parola da difendere e orientare verso la coscienza. In modo che torni a trovare residenza nella coscienza comune dell’umanità raccolta globalmente. Papa Francesco oggi in qualche modo rappresenta tangibilmente e percettibilmente la coscienza dell’intera umanità che vive più che mai oggi in unità e comunicazione. Rappresenta la coscienza del mondo.

Da questa impostazione della questione del recupero della logica agapica integrale della fraternità ne conseguono alcune conseguenze. Innanzitutto una teologia politica deve derivare necessariamente dall’essenza di questa fraternità cristiana. Oggi viviamo in una società del cambiamento. È un nuovo ambito per il compito della fraternità. L’ambito della politica vera e propria, della responsabilità per le premesse socio-strutturali che consentono una vita degna dell’uomo e sanamente possibile. Spiritualità fraterna e mistica della fraternità secondo l’EG, capaci di avviare il costituirsi di strutture di misericordia, alternativa alle strutture di peccato e alla logica del potere.

Poi ne consegue che mistero è la totalità dell’esistenza umana. Dio ed uomo sono mistero. L’amore del prossimo fa sì che uno entri nell’altro. Tale amore consegna l’uomo che ama all’altro, non soltanto in questo o quella sua caratteristica bensì nella sua totalità, come soggetto, con l’ampiezza illimitata della sua coscienza e del suo essere libero, con il suo perdersi in Dio. E allo stesso modo questo amore del prossimo è pronto ad accogliere l’altro come un soggetto denso di incalcolabile mistero. L’amore per il prossimo è il vicendevole compenetrarsi dei due misteri, in cui è presente il mistero per eccellenza Dio che rende così irriconoscibili i limiti tra questi due soggetti. In terzo luogo, secondo la proposta di Ranher la grazia si rivela come attraverso l’amore al prossimo, la fraternità, Dio stesso si fa norma interiore nello scambio tra due soggetti. La realtà bella ed universale, per tutti, è che l’antropologia della fraternità cristiana riesce a dire dell’uomo comune e semplice questa sua dignità infinita. La fraternità avvolta e sostenuta dal mistero assoluto di Dio infinito è per tutti. Per l’uomo che vive il quotidiano, fatto di spazi vuoti di infinito.

Terza ed ultima conseguenza è il rischio della libertà, amare nel senso vero e proprio della parola. La fraternità che è sorretta dall’amore verso Dio e che in questo amore trova il suo compimento, è la cosa più grande che ci sia. E proprio in quanto tale rappresenta la possibilità che viene offerta ad ogni uomo nella semplicità del quotidiano.

  1. Il perdono e le strutture di misericordia.

[la sua risurrezione non è una cosa del passato; contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo. che si chiama senso del mistero.]7]

Il termine misericordia conosce possibili chiavi semantiche:

  • miseror, avere pietà verso chi è misero, e cor, il cuore che sente questa pietà.

  • Rahim, rehem, esedh, emeth: viscere materne, grembo materno, bontà originaria, completa fedeltà, ma anche verità.

  • Eleos, oiktirmos, splanchena: misericordia, compassione, commozione, viscere materne.

«Misericordia io voglio e non sacrificio» ci ricorda il profeta Osea (6,6); spesso nella pratica però a noi sembra il contrario. Ora volere, desiderare, sentire misericordia significa entrare nella relazione che lega la madre con il figlio, in quella relazione talmente interiore che sente e riconosce il muoversi della vita, che è in te, ma che non è tua, e non sei semplicemente tu; ma è più intimo di te a te stesso, ti abita e si nutre di te. Il figlio ti rende madre (padre). È un dono reciproco, vicendevole: in te, il tuo corpo, la tua libertà, il tuo amare ha donato la vita, è diventata un’altra vita. Vita da vita, amato da amare. Un amore così grande che è capace di sopportare e attraversare il dolore del parto. Il parto diventa benedizione e non più maledizione quando il grido della madre cede il passo al pianto del bambino, quel pianto cancella tutte le prove, tutte le paure e le angosce, il bambino si rivela il senso e la promessa di quel grande dolore attraversato. L’amore diventato per un momento dolore ora si compie come amato, diventa il nome nuovo, diventa la umanità nuova, diventa figlio mio, figlia mia. Ma la madre e il padre possono solo gestire l’amore diventato dolore e poi amato come compimento del parto. Un dolore più grande è la drammatica somiglianza tra l’uomo, nella sua altissima dignità di amare, e Dio stesso: è la perdita del figlio. Quando un figlio perde il padre o la madre, la parola di senso e di dolore umano non tace ma riconosce la condizione di orfano, ma quando un fratello perde suo fratello, o un padre e una madre perdono un figlio, la parola umana di senso e di dolore tace, non vuole essere consolata, non riconosce quella nuova condizione. Il silenzio, il nome non nuovo di sé, ma il nome dell’amato diventato morto, diventato pianto, ricordo, memoria, gratitudine, rimpianto, diventa il quotidiano. Chi non conosce il dolore grande del sentire il figlio come perduto non può sentire la misericordia; perché non può provare la gioia più grande ovvero sentire il figlio come ritrovato. È la dracma perduta, è la pecora perduta, è il figlio perduto, il loro ritrovamento genera la vera gioia, la festa. Ma chi non ha perso nessuno, non attende nessuno, non spera per nessuno, forse non vive per nessuno. La domanda più bella sulla risurrezione e sul senso della vita io la ho avuta posta due volte da due bambini in circostanze drammatiche: Pier Claudia, dopo la morte della sorellina Eva a soli 7 anni mi ha chiesto «quando anch’io andrò in cielo, mia sorella sarò cresciuta come me e la riconoscerò o sarà rimasta piccola a 7 anni?»; Giuseppe a 9 anni, dopo la morte del suo papà mi ha chiesto «Zio, ma la risurrezione vuol dire che io rivedrò mio papà?». Il dolore per la perdita dell’amato mostra l’altissima dignità dell’uomo, mostra che l’amore è più forte della morte, mostra che l’amore è la vocazione di ogni uomo, mostra che la misericordia, la restituzione della vita dell’amato, la restituzione della vita del figlio è la dignità umana e divina, mostra che la misericordia è atto di risurrezione, di restituzione della vita del/al figlio e della vittoria della vita sulla morte. Mostra la ragione per cui il Figlio di Dio nella sua umanità crocifissa ha perdonato i suoi uccisori. Ma chi non conosce il dolore per la perdita dell’amato a fatica conosce la misericordia e riconosce il grido del perdono, senso e promessa del pianto del figlio restituito alla vita. La restituzione del figlio alla vita è il senso e la promessa della misericordia. È la gioia. Questo non contraddice ma include, lega, pone in relazione di reciprocità la misericordia e la giustizia di Dio. Secondo la misura smisurata della dignità divina, infinita, delle creature. La vendetta è vendicativa, ma la giustizia no, è giusta! Se non riconosco alcun legame essenziale con la persona da giudicare, penso di avere davanti a me soltanto un altro, cioè di fatto uno che sta fuori di me e vale meno di me, che per giunta è reo di qualche colpa. Così sarò portato a vedere non più la sua umanità e il legame prezioso che ci unisce, bensì solo le sue prestazioni negative o positive. E, prima ancora, sarò portato a credere che il male non riguardi me ma l’altro. O, semmai, mi immaginerò spontaneamente come colui che deve decidere se perdonare o no. Invece figlio o figlia è chi, nascendo a vita nuova, scopre che i cosiddetti altri sono fratelli e sorelle, e in tale scoperta si apre alla relazione viva con Dio padre e madre (se vuole). La giustizia della misericordia non è bendata ma guarda e vede bene il volto di ciascuno. È la ragione più alta di ogni razionalità. È intelligenza suprema, poiché sa vedere ogni cosa e ogni creatura per quello che è. Sa riconoscere il valore di ognuno anche e proprio quando sembra distrutto. È una logica superiore ad ogni altra logica. È la luce dell’amore vero. I processi vitali della misericordia sono la prossimità fedele che non tradisce e si ferma per prendersi cura; il perdono; il sapere bene che il malvagio nel compiere il male ha distrutto la sua libertà perché si è reso schiavo del peccato. Misericordia è restituzione della libertà: la sua seconda e nuova libertà è suscitata dall’amore misericordioso di Dio che vuole ritrovare nel malvagio un figlio. Una forza di guarigione, di liberazione dal male, di risurrezione. È rompere il legame tra uomo e male. Il principio di misericordia è «perdona loro perché non sanno quello che fanno». La misericordia è dunque amore/dolore, intelligenza dell’anima e processo di maturazione dell’unità spirituale della persona. Gesù stesso ha attraversato il conflitto e provocato situazioni di conflitto (diatriba sul ripudio e tradimento di Giuda) mostrando una percorribile via della non violenza, con il dialogo di misericordia/giustizia e la verità/carità, alternativa alla via del potere. Emerge chiaramente anche la tenerezza politica della misericordia: cura del bene comune e riscatto degli esclusi, alternativa alla cultura dello scarto e del ricatto, si tratta di costruire strutture di misericordia (Moltmann) per una società decente, generare un mondo nuovo con la logica messianica dell’etica concreta agapica. La misericordia deve venire dal basso (dove sono le vittime, dove si alza il grido, dove Dio si incarna) è non è paternalismo pietistico e patetico ma è riscatto e rottura. Il disagio di ricordare che nel Getsemani Gesù diede ai discepoli tempo e libertà e persino spazio proprio, lì collocò nell’ora dell’uomo. Ed essi si addormentarono.

Conclusione

Conosciamo la vicenda di Babele. (Gen. 11, 1-9)

Centoquaranta rampe di scale furono addossate alla torre, settanta a Oriente e settanta a Occidente. Quelle a Oriente servivano per salire e quelle a Occidente per scendere. Così il formicaio si rivelava più che mai insensato. Le formiche cercano e scelgono sulla superficie della terra provviste indispensabili alla sopravvivenza durante l’inverno, e le trasportano nelle loro abitazioni scavate nel suolo. Gli abitanti delle tre città prendevano da terra mattoni fatti con la terra e li trasportavano in alto, sempre più in alto, con fatica sempre maggiore e senza potersi fermare a riprendere fiato, perché la minima sosta rischiava di bloccare il flusso dei portatori provocando incidenti. Ormai occorreva più di un anno per arrivare in cima e un anno esatto per tornare giù. Se un uomo si feriva o cadeva da quell’altezza, nessuno ci faceva caso, ma se si rompeva o andava perduto un mattone, tutti piangevano perché sarebbero dovuti passare più di due anni prima di poterlo sostituire. L’unica pausa in quel moto perpetuo aveva luogo in cima alla torre, dove prima di attaccare la discesa i portatori di mattoni si fermavano a cementarli con la calce e a lanciare nugoli di frecce contro il cielo. Facendo bene attenzione a non guardare mai verso terra per paura delle vertigini. Gli angeli tornarono dall’Eterno:

  • Guardali! Sono arrivati tanto in alto che non ce la fanno a guardare il panorama.

Li vedo, disse l’Eterno rattristato, si sono trasformati in macchine puntante in un’unica direzione. Li ho lasciati fare fin’ora perché non si ingannano e non si uccidono, ma che pace è questa in cui si è perso il valore della vita umana? Venite, scendiamo fra questi sciocchi, confondiamo le loro lingue e costringiamoli a pensare».8

  • Non apparirebbe del tutto diversa la vita cristiana se noi intendessimo spontaneamente la massima salva la tua anima con salva il tuo prossimo?

  • Noi siamo disposti a prendere sul serio la beatitudine del povero, del misericordioso, dell’operatore di pace e il consegnarsi di Gesù come reale esperienza di compimento della nostra esistenza?

  • Siamo disposti ad accogliere che nell’amore cristiano, quale si attesta alle origini, l’amore del nemico è il principio di ogni amore ecclesiale?

  • Scusate, chi è l’ultimo, perché io possa prendere il suo posto?

  • Ma mi conosci? Ogni volta che lo hai fatto al più piccolo dei miei/tuoi fratelli lo hai fatto a me

1 Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, n. 4

2 Espressione scelte da Piero Coda per una sua recente pubblicazione: Piero Coda , Il Concilio della misericordia. Sui sentieri del Vaticano II, Città Nuova, Roma 2015, pp. 407. Testo chiave per l’elaborazione di questo mio primo paragrafo.

3 Francesco, Evangelii Gaudium, Città del Vaticano 2013, n. 228

4 Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, n. 24

5 Francesco, Evangelii Gaudium, Città del Vaticano 2013, nn. 188-189.

6 Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, n.42

7 Francesco, Evangelii Gaudium, nn. 276.278-279

8 G. Limentani, Gli uomini del libro, Adelphi, Milano 1975, pp.82-84

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