i bambini e la guerra di sterminio a Gaza

lo strazio dei bambini lasciati morire di fame

di Caterina Soffici

Rahaf Ayad riesce a malapena a parlare e a muovere braccia e gambe. Le cadono i capelli, ha le
costole sporgenti, crampi e dolori in tutto il corpo, sbatte le palpebre lentamente. Rahaf è una
bambina di dodici anni e questi sono i sintomi di chi sta morendo di fame. A Gaza i bambini
muoiono di fame. Siwar Ashour, è nata a novembre, ha conosciuto solo la guerra. Ora ha sei mesi e
sua mamma Najwa Aram ha 23 anni. L’ha partorita nell’unica stanza rimasta di una casa distrutta,
dove vivono in 11. La foto di Najwa ci appare oggi sui telefonini, è diventata virale, come si dice.
Ha fatto il giro del mondo, crea scandalo e indignazione. Per quanto? Un giorno? Poi ce ne
dimenticheremo e scrolleremo altre immagini e altre storie.
Non si possono vedere i bambini morire di fame. Le organizzazioni umanitarie dicono che sono
70mila a rischio. Le storie di Rahaf e di Siwar sono due tra le tante. In verità due delle poche che ci
arrivano da Gaza, perché Israele ha sigillato la Striscia e da due mesi non entra un chicco di grano.
Sono storie che parlando di aiuti umanitari sequestrati, 5mila camion dell’Unrwa bloccati. Storie che
raccontano di un sacco di farina da 25 chili che prima della guerra costava 8 dollari e 30 centesimi e
oggi ne costa 416. Ma tanto nessuno ha più soldi e di farina non ce n’è. Così i bambini hanno
crampi allo stomaco e Rahaf dice che si sente il corpo bruciare dall’interno e chiede disperatamente
un pezzo di pollo, un uovo. Ma non c’è pollo e non ci sono uova. Non c’è più niente. Non ci sono
neanche gli ospedali dove andare a morire e i medici spiegano che morire di fame significa avere il
sangue avvelenato, insufficienza renale, danni al fegato, infezioni batteriche e microbiche e
l’immunità che cala a zero. Questo è quello che sta accadendo.
E quindi smettiamola di parlare di guerra in maniera generica. Che quando parliamo di guerra
pensiamo ai soldati, alle armi e ai droni. I professionisti e la geopolitica non ci raccontano di
bambini che muoiono di fame. E qui invece vogliamo parlare di bambini che muoiono sotto gli
occhi impotenti dei genitori.
I bambini non ci devono entrare. E quindi chiamiamo le cose con il loro nome. Quello in atto a
Gaza è un assedio che sta provocando una carestia. Assedio e carestia, due parole antiche, che
vengono direttamente dalla Bibbia. Le parole cambiano la narrazione. La carestia è fame, la fame è
un killer silenzioso, non fa rumore come una bomba, ma uccide lo stesso e Israele sta usando la
fame come un’arma. L’uso della fame come metodo di guerra è un crimine di guerra secondo il
diritto internazionale. È proibito dalla Convenzione di Ginevra e da tutti protocolli. Anche il
mandato di arresto del Tribunale penale internazionale per Benjamin Netanyahu (emesso lo scorso
anno) cita tra le accuse di usare la fame come metodo di guerra, ma Israele nega che ci sia un
problema di carestia, che c’è cibo a sufficienza nella Striscia, che acqua e farina non mancano. Il
piano sarebbe quello di “militarizzare” il controllo degli aiuti, facendoli filtrare a piacimento, perché
non finiscano nella mani di Hamas. È il fallimento ultimo di qualsiasi politica umanitaria, del
concetto stesso di aiuto umanitario, che deve essere imparziale e raggiungere chi ne ha bisogno, a
prescindere da qualsiasi altra considerazione. Rappresenta un valore etico che non dovrebbe essere
mai violato. Ma le convenzioni tra popoli civili e il diritto non sembrano avere più alcun peso.
Quanto pesa una lacrima? si domandava in una poesia Gianni Rodari. “La lacrima di un bambino
capriccioso pesa meno del vento, quella di un bambino affamato pesa più di tutta la Terra”.

il nuovo papa e la de-occidentalizzazione della chiesa

Leone XIV, la sua grande sfida:

la de-occidentalizzazione e la de-patriarcalizzazione della Chiesa

di Leonardo Boff

Confesso che sono rimasto sorpreso dalla nomina del cardinale nordamericano-peruviano Prevost al supremo pontificato della Chiesa. Tutto ciò è dovuto alla mia ignoranza. In seguito, man mano che mi informavo meglio, guardando YouTube e suoi discorsi in mezzo al popolo, in piedi nel mezzo di una città peruviana allagata, e la sua particolare attenzione per la popolazione indigena (la maggior
parte dei peruviani), ho capito che lui può davvero garantire la continuità dell’eredità di papa
Francesco. Non avrà il suo carisma, ma sarà se stesso, più sobrio e timido, ma molto coerente con le
sue posizioni sociali, tra cui le critiche al presidente Trump e al suo vicepresidente.
Non senza ragione papa Francesco lo ha chiamato dalla sua diocesi dei poveri in Perù a ricoprire un
ruolo importante nell’amministrazione vaticana. Leone XIV ha vissuto gran parte della sua vita
fuori dagli Stati Uniti, per molti anni come missionario e in seguito come vescovo in Perù, dove
certamente ha acquisito una grande esperienza di un’altra cultura e della difficile situazione sociale
della maggior parte della popolazione. Ha confessato esplicitamente di essersi identificato con quel
popolo al punto da diventare un peruviano naturalizzato.
Il suo primo discorso pubblico è andato contro le mie aspettative iniziali. È stato un discorso pio,
pronunciato per la Chiesa a porte chiuse. La parola «povero» non è mai apparsa, nè tanto meno i
termini liberazione, le minacce alla vita o il grido ecologico. Il tema forte è stato la pace, in
particolare quella «disarmata e disarmante», una critica delicata a quanto sta accadendo
drammaticamente oggi, come la guerra in Ucraina e il genocidio a cielo aperto di migliaia di
bambini e civili nella Striscia di Gaza. Sembrerebbe che tutto questo non fosse nella coscienza del
nuovo papa. Ma credo che tutto questo tornerà presto, perché queste tragedie sono state così forti
nei discorsi di papa Francesco, suo grande amico, che devono ancora risuonare nelle orecchie del
nuovo papa.
In quanto gesuita, papa Francesco aveva un raro senso della politica e dell’esercizio del potere,
dovuto al famoso «discernimento dello spirito», una categoria centrale della spiritualità ignaziana.
Immagino che abbia visto nel cardinale Prevost un possibile successore. Egli non apparteneva al
vecchio e già decadente cristianesimo europeo; proveniva dal Grande Sud, con l’esperienza
pastorale e teologica maturata nella periferia della Chiesa, in questo caso il Perù, dove è nata e si è
sviluppata la teologia della liberazione con Gustavo Gutiérrez.
Probabilmente, con la sua dolcezza e la sua disponibilità all’ascolto e al dialogo porterà avanti le
sfide affrontate e le innovazioni intraprese da papa Francesco, che non è questo il momento di
elencare.
Ma dovrà affrontare altre sfide, che a mio avviso non sono mai state prese sul serio dai papi
precedenti: come la de-occidentalizzazione e la de-patriarcalizzazione della Chiesa cattolica di
fronte alla nuova fase dell’umanità. Ciò è caratterizzato dalla globalizzazione dell’umanità (non
solo in senso economico, ora sconvolta da Trump), che di fatto sta avvenendo a ritmi sempre più
accelerati in termini politici, sociali, tecnologici, filosofici e spirituali. In questo processo accelerato
la Chiesa cattolica nel suo quadro istituzionale e nella sua struttura gerarchica, appare come una
creazione occidentale. Questo è innegabile.
Dietro tutto questo c’è il diritto romano classico, il potere degli imperatori con i suoi simboli, i suoi
riti e la sua forma di esercizio del potere, accentrati in un’autorità suprema, il papa, «con potestà
suprema, piena, immediata e universale» (canone 331 del Diritto canonico), attributi che, in verità,
corrisponderebbero solo a Dio. E bisogna anche aggiungere la sua infallibilità in materia di fede e
morale. Più lontano non si sarebbe potuto andare. Papa Francesco si è consapevolmente allontanato
da questo paradigma e ha iniziato a inaugurare un altro modello di Chiesa, semplice e povera e in
uscita verso il mondo.
Ciò non ha nulla a che vedere con il Gesù storico, povero, predicatore di un sogno assoluto, il
Regno di Dio, e severo critico di ogni potere. Ma è proprio quello che è accaduto: con l’erosione
dell’Impero romano i cristiani, diventati Chiesa e dotati di un alto senso morale, hanno assunto la
riorganizzazione dell’Impero romano, che è durata per secoli. Ma questa è una creazione della
cultura occidentale. Il messaggio originario di Gesù, il suo Vangelo, non si esaurisce né si identifica
con questo tipo di incarnazione, perché il messaggio di Gesù è quello di un’apertura totale a Dio
come Abbà (padre), di una misericordia illimitata, di un amore incondizionato anche per i nemici, di
compassione per coloro che sono caduti nel cammino della vita e di una vita come servizio agli
altri. L’attuale papa Leone XIV non sarà immune da questa sfida. Vogliamo vedere e sostenere il
suo coraggio e la sua forza nell’opporsi ai tradizionalisti e nel compiere passi nella direzione sopra
menzionata.
Una grande, immensa sfida per ogni papa è quella di relativizzare questo modo di organizzare il
cristianesimo, affinché possa assumere nuovi volti nelle diverse culture umane. Papa Francesco ha
compiuto passi significativi in questa direzione. Il nuovo papa ha accennato a questo dialogo nelle
sue prime parole. Finché non si proceda con decisione verso questa de-occidentalizzazione, per
molti paesi il cristianesimo sarà sempre una cosa occidentale. È stato complice della colonizzazione
dell’Africa, delle Americhe e dell’Asia, e ancora oggi gli studiosi dei paesi colonizzati lo
considerano tale.
Un’altra sfida importante è la depatriarcalizzazione della Chiesa. Ne ho già parlato prima. Nella
guida della Chiesa ci sono solo uomini, celibi e ordinati con il sacramento dell’Ordine Sacro (dai
preti al papa). Il fattore patriarcale è visibile nella negazione del sacramento dell’Ordine alle donne.
Esse costituiscono di gran lunga la maggioranza dei fedeli e sono le madri e le sorelle dell’altra
metà, degli uomini della Chiesa e dell’umanità. Questa esclusione machista ferisce il corpo
ecclesiale e mette a repentaglio l’universalità della Chiesa. Fino a quando alle donne non sarà
consentito l’accesso al ministero, come è accaduto in quasi tutte le Chiese, la Chiesa rivelerà il suo
patriarcato profondamente radicato e la sua impronta su un Occidente che è sempre più un
Accidente nella storia universale.
Inoltre, il mantenimento obbligatorio del celibato (reso legge) rende ancora più radicale il carattere
patriarcale e favorisce l’antifemminismo che si nota in alcuni strati della gerarchia ecclesiastica.
Poiché si tratta solo di una legge umana e storica, e non divina, nulla impedisce che venga abolita e
che sia consentito il celibato facoltativo e che anche uomini sposati possano essere ordinati preti.
Queste e molte altre sfide saranno affrontate dal nuovo papa, mentre il senso evangelico della
partecipazione (sinodalità) e dell’uguaglianza nella dignità e nei diritti di tutti gli esseri umani,
uomini e donne, cresce sempre più profondamente nella coscienza dei fedeli. Perché dovrebbe
essere diverso nella Chiesa cattolica?
Queste riflessioni vogliono essere una sfida permanente a cui devono far fronte coloro che sono
stati scelti per il servizio più alto di animare la fede e di guidare i percorsi della comunità cristiana,
come la figura del papa. Verrà il momento in cui la forza di questi cambiamenti diventerà così
imperiosa che essi si verificheranno. Sarà allora una nuova primavera della Chiesa che diventerà
tanto più universale quanto più universali saranno le domande che accoglierà e contribuirà a dare
risposte umanizzanti.

il commento al vangelo della domenica

le 2 parole perfette

il commento di padre Ermes Ronchi

IV Domenica di Pasqua (Anno C)

Gv 10, 27-30

 

Nessuno, mai (v.28). Due parole perfette, assolute, senza crepe. Nessuno, né creature né demoni, neppure le guerre, nessuno ci scioglierà più dall’abbraccio delle mani sue.

Vangelo breve, quattro soli versetti su chi è Dio e chi siamo noi.

Le mie pecore ascoltano la mia voce. Per essere di Dio ci vuole l’ascolto.

Facciamo attenzione al piccolo dettaglio: ascoltano la mia voce, e non le mie parole, perché le pecore non comprendono la lingua del pastore.

Come il neonato che per qualche mese ascolta la madre riconoscendola come unica voce al mondo che lo incanta fin da subito, pur senza capirne il senso.

Con il tono di voce possiamo graffiare, possiamo ferire oppure accarezzare, perché la voce contiene tutto: affetto, devozione, cura, seduzione.

L’ascolto è ospitalità della vita.

È l’esperienza di Maria di Magdala al mattino di Pasqua, del bambino che riconosce la voce al di là della porta e smette di piangere, certo che la mamma arriverà subito.

La voce è il canto amoroso dell’essere: Una voce! L’amato mio! Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline (Ct 2,8). E prima ancora, l’amato chiede il canto della voce dell’amata: la tua voce fammi sentire (Ct 2,14).

Ed ecco come continua il vangelo: io conosco le mie pecore. Gesù mi parla come uno che mi vede da sempre, dal grembo di mia madre. Da quando ero appena una perla di sangue ha seguito ogni mio passo, ha contato ogni mio sospiro.

Perché le pecore ascoltano? Non per costrizione, ma perché la voce è amica. E per questo bellissima, dove ha nido il futuro.

Io do loro la vita eterna Che non è quella cosa interminabile e un po’ noiosa dalla durata indefinita e vaga, che poco ci interessa. La vita eterna è la vita dell’Eterno; vivere la sua vastità, la sua intensità, il suo legame caldo con ogni creatura.

Il vangelo ci dà la sveglia con una immagine di lotta: Nessuno le strapperà dalla mia mano (v.28). Abbiamo in mente la parabola di Luca, il pastore buono che va in cerca della pecora perduta, la trova, se la carica sulle spalle, e torna.

Invece per Giovanni il pastore è un vero guerriero, che come il piccolo Davide difende con la sua fionda il gregge del padre, da lupi e da orsi.

Le sue sono le mani forti di un lottatore contro ladri e predatori, mani vigorose che stringono un bastone, per camminare e lottare.

E se abbiamo capito male e ci restano dei dubbi, Gesù coinvolge il Padre: nessuno può strapparle dalla mano del Padre (v.29).

Nessuno, mai (v.28). Due parole perfette, assolute, senza crepe. Nessuno, né creature né demoni, neppure le guerre, nessuno ci scioglierà più dall’abbraccio delle mani sue. Legame forte, non lacerabile. Nodo amoroso che nulla scioglie.

L’eternità è la sua mano che ti prende per mano.

E beato chi sa fare volare queste parole lontano, verso tutti gli agnellini minacciati del mondo.

il commento al vangelo della domenica

UNA RESA?
il commento di E. Ronchi al vangelo della terza domenica di pasqua
I sette discepoli sono tornati là dove tutto aveva avuto inizio, al loro mestiere di prima, alle parole di sempre: vado a pescare, veniamo anche noi.
L’ultimo incontro con il Risorto avviene nella normalità del quotidiano.
L’infinito scende alla latitudine di casa. Il cerchio delle azioni di tutti i giorni è il luogo dove incontrare colui che se n’è andato dai recinti del sacro e abita il “profano”: l’infinito è nella vita, e la vita è infinita.
L’abbandonato ritorna da coloro che sanno solo abbandonare, e invece di chiedere loro di inginocchiarsi, è lui che si inginocchia davanti al fuoco di brace, come una madre che si mette a preparare il cibo per i suoi di casa, come un amico. È il suo stile: tenerezza, umiltà, cura. Amici, vi chiamo, non servi.
E chiede: portate un po’ del pesce che avete preso! Così il pesce di Gesù e il tuo finiscono insieme, e non li distingui più.
In questo clima di amicizia e semplicità, seduti all’alba attorno a poche braci, il dialogo sublime tra Gesù e Pietro.
Gesù, maestro di umanità, usa il linguaggio più semplice, pone domande risuonate sulla terra infinite volte, sotto tutti i cieli, in bocca a tutti gli innamorati che non si stancano di sapere: mi ami? Mi vuoi bene?
Semplicità estrema di parole che non bastano mai, perché la vita ne ha fame; di domande e risposte che anche un bambino capisce perché è quello che si sente dire dalla mamma tutti i giorni.
Il linguaggio del sacro diventa il linguaggio delle radici profonde della vita. La vera religione non è mai separata dalla vita.
E sono tre domande, sempre uguali, sempre diverse:
1. Simone di Giovanni, mi ami più di tutti? Pietro risponde con un altro verbo, quello più umile, più nostro, verbo dell’amicizia e dell’affetto: ti voglio bene. E non si misura con gli altri.
2. Seconda domanda: Simone di Giovanni, tu mi ami? Pietro mantiene il profilo basso di chi conosce bene il cuore dell’uomo, e risponde ancora con quel nostro verbo così umano: ti sono amico.
3. Nella terza domanda succede qualcosa di straordinario. Gesù adotta il verbo di Pietro, si abbassa, si avvicina, lo raggiunge là dov’è: Simone, mi vuoi bene? Dammi affetto, se l’amore è troppo; amicizia, se l’amore ti mette paura. Pietro, un po’ d’amicizia posso averla da te? E mi basterà, perché io cerco la sincerità del cuore.
Gesù rallenta il passo sul ritmo del nostro, la misura di Pietro diventa più importante delle sue esigenze; così è l’amore vero, che mette il tu prima dell’io. Pietro sente il pianto salirgli in gola: vede Dio mendicante d’amore, Dio delle briciole, cui basta così poco, solo la verità di un cuore sincero.
E credo che nell’ultimo giorno, anche se per mille volte l’avrò deluso o tradito, il Signore per mille volte mi chiederà come a Simone:
Mi vuoi bene?
E io non dovrò fare altro che rispondere, per mille volte, solo questo:
Sì, ti voglio bene!

un grande grazie a papa Francesco

 

«Signore Gesù, Tu che sei la luce del mondo,

ti ringraziamo per il dono di papa Francesco,

grazie per la sua testimonianza di semplicità

grazie per la sua attenzione agli ultimi, ai poveri, ai dimenticati

grazie per la capacità di parlare a tutti

grazie per il coraggio di andare controcorrente

grazie per la sapienza di chiamare bene il bene e male il male.

Signore Gesù, tu che ci hai fatto scoprire la misericordia,

insegnaci a capire e seguire la lezione di perdono

che ha contraddistinto tutta la vita di papa Francesco.

Aiutaci a capire che non esiste peccato,

che il Padre buono non perdoni.

E se qualche colpa papa Francesco ha commesso,

tu abbine misericordia in virtù della forza del suo amore.

Signore Gesù che sei amico e fratello di tutti,

grazie per l’umiltà di papa Francesco

grazie per l’insegnamento che non c’è nessun uomo

che possa essere considerato superiore agli altri

grazie per gli abbracci ai malati e ai dimenticati

grazie per averci fatto capire con papa Francesco

che dobbiamo amare chi nessuno ama.

Signore Gesù tu che sei il maestro della pace,

insegnaci a capire, come ha sempre detto papa Francesco

che non esiste nessuna guerra giusta

che ogni conflitto è sempre una sconfitta

che sparare in nome di Dio è una bestemmia

che bisogna cercare anche il più piccolo appiglio

per trasformare i pensieri bellicosi in sogno di pace.

Signore Gesù che ami la vita come nessuno,

insegnaci, come ha testimoniato papa Francesco

che non esiste nessuna esistenza

che non valga la pena di essere vissuta

che siamo tutti amati da Dio come figli unici

che ogni vita va custodita e difesa sempre

dal concepimento alla sua fine naturale.

Signore Gesù tu che ci chiedi di pregare sempre,

fa che impariamo sull’esempio di papa Francesco

il valore del dialogo tra le Chiese e le religioni

insegnaci a ripulire il nostro vocabolario

dalle parole che dividono e feriscono,

guidaci ad essere una comunità di credenti

che mettono Dio e non l’uomo al centro.

Signore Gesù tu che hai amato i poveri,

insegnaci a essere, come papa Francesco

uomini e donne che vivono l’essenziale

persone libere dalle schiavitù delle mode

e capaci di guardare agli altri non per ciò che hanno

ma per quello che sono e possono diventare

alla luce della speranza che nasce dalla fede.

Signore Gesù tu che ci aspetti tutti nel tuo Regno,

stringi nel tuo abbraccio papa Francesco,

e a noi che piangiamo la sua scomparsa

e sentiamo il vuoto della sua assenza

insegna a custodirne le parole e i gesti

perché forti del suo esempio e della sua testimonianza

sappiamo riconoscere in Te l’unico re della nostra vita.

Amen

il commento al vangelo della domenica

pasqua di risurrezione
SHOMER MA MI-LLAILAH
(Sentinella quanto manca della notte?)
Luca 24,1-12
il commento di E. Ronchi al anelo della domenica di pasqua
Era ancora notte, e loro si sono messe per strada.
“Il primo giorno, al mattino presto, esse si recarono al sepolcro”. La notte durerà ancora ma il mattino sta venendo (Is 21,12).
È notte anche per noi, davanti al mostro evidente del male assoluto che si chiama guerra.
Luca non scrive il soggetto di questo andare, ma lo sappiamo tutti che sono loro, le donne, quelle che ci raccontano la morte e le sette parole di Gesù in croce, che hanno raccolto il suo grido, che l’hanno profumato ancora una volta con oli aromatici per contrastare, come possono, come sanno, la morte.
Davanti alla pietra rovesciata e al vuoto angosciante, per le donne non c’è subito la fede, si alza solo l’immensa domanda: cos’è questo?
La fede non è immediata, è un lavorìo, un esile filo, scalpello su dura pietra, e comincia con il domandare: cos’è questo che accade?
Sono necessari due angeli e una nuova annunciazione. Dice Luca che sono sfolgoranti, quasi vestiti di lampi, di scampoli di luce: perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui. È risorto.
Una cascata di bellezza, un’abbagliante luce che da un nome a Gesù: “Colui-che è-vivo!”: quello che avete visto chiudere nella roccia, quell’uomo che vi ha aperto orizzonti infiniti, è vivo.
La differenza tra fede e non fede non è Gesù, è la Pasqua di Gesù!
Non è un fantasma, non è un ricordo: è lui!
Lui c’è, ma non qui; è altrove, è più avanti, cercatelo dappertutto ma non fra le cose morte, non nei cimiteri, è in giro per le strade, per gli occhi, per i cuori, bussa alle case, aspetta che gli si apra e i suoi teli profumano di sole.
Lo incontri, ci inciampi addosso, lo urti, ti tocca, ti parla, ti abbraccia.
E’ risorto! E lo dicono con un verbo umile e concreto: Si è svegliato. Non sanno come dire la risurrezione, e allora Luca, Marco, Matteo usano i verbi del mattino, quando riprendiamo vita, lavori, amori, gioie e fatiche. Si è svegliato, svegliamoci da questa vita assopita!
Svegliati, alzati. Guarda, ascolta, immagina cieli nuovi e apri le tue braccia!
Noi siamo così, come quelle donne, siamo creature di desiderio e di stupore. E’ illogica la Pasqua, è tutto contro ogni ragione, quella mattina.
Ma la vita non si misura da quanti respiri facciamo, si misura da tutti quei momenti che ci tolgono il respiro.
Nella mattina di Pasqua, tra donne, profumi e parole di angeli c’è un’armonia di segni cosmici nuovi, di partenze al levar del sole, dentro il profumo del giardino, nell’intrecciarsi armonioso della prima stagione dell’anno, il primo plenilunio, il primo giorno della settimana, la prima ora del giorno.
Non vediamo la luce, è ancora notte, “c’è ancora il suono che fa il silenzio” (F. Guccini), ma il giorno nuovo viene.
Il dolore è a un passo, ma è a un passo anche l’amore, stupendamente vivo.

il commento al vangelo della domenica

E L’ASINO?
il commento di E. Ronchi al vangelo della domenica delle Palme
Il racconto della passione e morte di Gesù è la lettura più bella e regale che si possa fare. La croce è l’immagine più pura e alta che Dio ha dato di se stesso. «Per sapere chi sia Dio devo solo inginocchiarmi ai piedi della Croce» (Karl Rahner).
Mentre stiamo per ripercorre i giorni supremi della nostra storia, il primo brano del vangelo che ci viene incontro riferisce la festa che circonda Gesù mentre scende dal Monte degli Ulivi e si avvia verso Gerusalemme, a dorso d’asino.
Ad ogni ritorno della settimana santa riemerge dalla memoria un dialogo di molti anni fa con un monaco trappista dell’abbazia di Orval, in Belgio. Un giorno, mentre lo aiutavo nel suo lavoro, ad un certo punto gli chiesi: «Mi permetta una domanda, padre: le è mai successo di stancarsi di Dio? Di averne abbastanza della comunità, dei voti, delle esigenze del vangelo? Le è mai successo?
A me, sì. Cosa possiamo fare quando ci si stanca di Dio?». Pensavo che mi avrebbe risposto qualcosa tipo: quanto sei indietro nella fede! Come è possibile stancarsi di Dio? O con una delle tante frasi fatte che ho ascoltato sulla bocca di tanti…
Lui invece mi guardò con occhi profondi e dolci, e cominciò a parlarmi di san Bernardo e di un suo commento al vangelo dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme. Ricordo solo l’essenziale, ed era questo: «nel giorno che noi chiamiamo delle palme, nel corteo che accompagna Gesù giù dal Monte degli Ulivi, c’è chi canta, chi applaude, chi fa ala e stende i mantelli, chi agita rami di palma, un giardino che cammina. Alcuni sono più vicini a Gesù, camminano al suo fianco, altri sono più indietro e lontani. Aria di festa per tutti…, ma c’è un personaggio che non partecipa a quell’atmosfera gioiosa, una creatura che fa più fatica di tutti, doppia fatica, e si stanca: è l’asino su cui è seduto Gesù, con il suo puledro, che sente tutto il peso di quella strada ripida, sotto la soma di quell’uomo sconosciuto che trasporta; eppure non si ferma, continua a salire. L’asino è quello che fa fatica più di tutti, ma è anche il più vicino a Gesù. Ne sente il calore, e la vicinanza. Così succede anche noi» mi diceva «quando facciamo fatica, oppure sentiamo il peso della preghiera, della vita secondo il vangelo, del ministero, della comunità, quando non abbiamo più voglia, possiamo pensare all’asino del corteo delle Palme, forse siamo come quella creatura i più vicini a Cristo: stiamo portando lui e il peso del vangelo, lui e le fatiche della missione. Portiamo pietre d’angolo per un mondo nuovo. L’importante è non arrendersi, perché poca strada ancora e ormai ecco Gerusalemme».
Perseverare, perché -diceva don Lorenzo Milani- : Fino a che c’è fatica c’è speranza”.

il commento al vangelo della domenica

ECCO FACCIO UN CUORE NUOVO, PER TE
Gv 8,1-11
il commento di E. Ronchi al vangelo della quinta domenica di quaresima
Una trappola ben congegnata: ‘che si schieri, il maestro, o contro Dio o contro l’uomo’. Gli condussero una donna… e la posero in mezzo.
Donna senza nome, che per scribi e farisei non è una persona, è il suo peccato; anzi è una cosa, che si prende, si porta, si mette di qua o di là, dove a loro va bene. Si può anche mettere a morte. Sono gli integralisti che mettono Dio contro l’uomo, e la religione diventa omicida.
“Maestro, secondo te, è giusto uccidere…?” Quella donna ha sbagliato, ma la sua uccisione sarebbe ben più grave del peccato che vogliono punire.
Gesù si chinò e scriveva col dito per terra…: e ci invita, quando tutti attorno gridano, a una pausa, a tacere, a mettersi ai piedi non di un codice penale ma del mistero della persona.
“Chi di voi è senza peccato getti per primo la pietra contro di lei”.
Gesù butta all’aria tutto il vecchio ordinamento legale con una battuta sola, con parole definitive e così vere che nessuno può ribattere. E se ne andarono tutti.
Allora Gesù si alza, ad altezza del cuore della donna, ad altezza degli occhi, per esserle più vicino; si alza con tutto il rispetto dovuto a un principe, e la chiama ‘donna’, come farà con sua madre: Nessuno ti ha condannata? Neanch’io lo faccio. Eccolo il maestro vero, che non s’impalca a giudice, che non condanna e neppure assolve, fa un’altra cosa: le consegna il futuro che serve per vivere. Va’ e d’ora in poi non peccare più: ha fiducia in lei, spera in lei, vede in noi il santo prima del peccatore.
Il Signore sa sorprendere ancora una volta il nostro cuore fariseo: non chiede alla donna di confessare il peccato, non di espiarlo, neppure le domanda se è pentita. È una figlia a rischio della vita, e tanto basta a Colui che è venuto non per giudicare ma per salvare. La prima legge di Dio è che ogni suo figlio viva! Non si interessa di rimorsi, ma di futuro: infatti non le domanda da dove viene, ma dove è diretta; non le chiede conto del suo passato, ma del suo domani. E intinge la penna, come uno scriba sapiente, nella luce e non nelle ombre di quella creatura con il suo inconfondibile colpo d’ala. Il rabbi le dice: Va’, esci dal tuo passato e vai verso il tuo cuore nuovo, e porta lo stesso perdono a chiunque incontrerai.
Le scrive nel cuore la parola ‘futuro’. Le dice: ‘Donna, tu sei capace di amare ancora, tu puoi amare bene, amare molto. Questo farai…’.
Gesù apre le porte delle nostre prigioni, o prigionieri li rimette in cammino nel sole. Lui sa bene che solo uomini e donne perdonati e amati possono seminare attorno a sé perdono e amore. I due soli doni che non ci faranno più vittime.
Che non faranno più vittime, né fuori né dentro di noi.

il commento al vangelo della domenica

FIGLIO DI DOMANI
Luca 15,11-32
il commento di E. Ronchi al vangelo della quarta domenica di quaresima
Un padre aveva due figli.
Un incipit che causa subito tensione, perché nella Bibbia le storie di fratelli non sono mai facili, raccontano di violenza e menzogne, di riconciliazioni mancate. La fraternità non è un dato da cui partire, ma un progetto da costruire.
Io voglio bene al figlio prodigo. Quante volte i ribelli in realtà sono solo dei richiedenti amore. Il ragazzo se ne va, un giorno, con la sua parte di “vita”, di eredità, in cerca di felicità, e crede di trovarla nelle cose. Il padre lo lascia andare, anche se teme che si farà male. Un uomo saggio.
Ma quella che sembrava la vita ideale, si rivela un lento morire; si dissangua di umanità, fino a ritrovarsi solo e affamato in una porcilaia.
Allora rivede la sua casa, la casa del padre, la sente profumare di pane.
Ci sono persone con così tanta fame che per loro Dio non può che avere la forma di un pane (Gandhi).
Qualcosa gli si muove dentro, rientra in sé e decide di tornare. La vita gli ha insegnato a volare raso terra, lui non chiederà di essere il figlio di ieri, ma uno dei servi di adesso.
Non torna perché ha capito, ma perché ha fame. Ma al Padre importa solo che tu ritorni verso casa.
Il padre lo vide da lontano e gli corse incontro.
L’uomo cammina, Dio corre.
L’uomo si avvia, Dio è già arrivato.
E ci ha già perdonato in anticipo di essere come siamo, prima che apriamo bocca.
Non domanda: da dove vieni, ma: dove sei diretto?
Non chiede: perché l’hai fatto? Ma: vuoi ricostruire la casa?
Non si lancia in un: te l’avevo detto! Ma: hai fame?
Non è esperto in rimorsi quel padre, ma in abbracci.
Il perdono di Dio non libera il passato, fa di più:
libera il futuro, ci rende figli nuovi.
Non ci sono personaggi perfetti nella Bibbia, li cerchi invano, è piena di gente che cambia strada e idee, di ripartenze sotto il vento delle passioni, ma poi alla fine sotto il vento di Dio.
L’ultima scena gira attorno all’altro figlio, che non sa sorridere, che non ha la musica dentro, che non ha la festa nel cuore.
Il ragazzo bravo in tutto è triste, come se fosse ai lavori forzati; per lui la bella vita era l’altra, quella del fratello.
Ma il padre nella sua casa vuole figli, e non servi ubbidienti; esce e lo prega di entrare: vieni, è in tavola la vita!
Il ragazzo avrà capito? Sarà entrato? Si saranno guardati, abbracciati? Non ci viene detto.
Ed ecco la grande domanda: perché neppure l’ombra di un castigo? È giusto il padre della parabola? Dio è così? Così eccessivo, così tanto, così oltre?
Sì, è l’immensa rivelazione per la quale Gesù darà la vita: Dio è solo amore.
E l’amore non è giusto, è sempre oltre, è centuplo, è eccedenza. E sempre un po’ fuorilegge.
Così è il mio Dio, il Dio di Gesù, il Dio che ancora m’innamora.

la nascita di Israele è una storia coloniale

la nascita di Israele è una storia coloniale accettarlo è doloroso ma serve alla pace

di Anna Foa
in “La Stampa” del 20 marzo 2025

Il libro dello studioso di origine palestinese Rashid Khalidi, Palestina. Cento anni di colonialismo, guerra e resistenza, ci racconta la storia di questo secolare conflitto visto dalla parte dei palestinesi.
Khalidi, la cui famiglia apparteneva agli strati più elevati dell’élite palestinese, è nato nel 1948 a New York City, dove suo padre era un alto funzionario dell’Onu. Un suo pro-prozio era stato un importante funzionario sotto il governo ottomano, a lungo sindaco di Gerusalemme. Studioso di  rilievo, docente all’università di Chicago e alla Columbia, Rashid Khalidi è stato anche attivamente
coinvolto nelle vicende politiche: era a Beirut durante la guerra del Libano del 1982, e ha partecipato attivamente alle trattative tra palestinesi e israeliani a Madrid e a Washington.
In questo libro, Khalidi fa ampio uso tanto dei documenti pubblici che delle memorie famigliari
oltre che della sua stessa esperienza politica. Ne risulta una scrittura affascinante in cui l’uso
rigoroso delle fonti documentarie si mescola con quello delle memorie famigliari e personali.
Il filo rosso che percorre il libro, che caratterizza la storia secolare del conflitto, è il “colonialismo”.
Tutta la storia del conflitto, dalla nascita del sionismo ad oggi, è infatti analizzata nell’ottica
coloniale. Come già per Edward Said, il grande studioso autore di “Orientalismo”, quella della
nascita di Israele è per Khalidi una storia coloniale, sia pure di un colonialismo diverso da quello
che ha caratterizzato le potenze europee nei secoli XIX e XX. Quello “di insediamento”,
caratterizzato dall’insediamento di coloni e dall’espulsione più o meno ampia dei precedenti abitanti.
L’analisi in chiave coloniale dell’intera storia di Israele è così il filo rosso del libro. Altri studiosi,
dando maggior rilievo agli elementi di rinascita nazionale presenti inizialmente nel sionismo, fanno
invece risalire la caratterizzazione coloniale ad anni più recenti, il 1948 con la Naqba (la cacciata
dei palestinesi con la guerra) o il 1967 con l’inizio dell’occupazione. Comunque lo si voglia
interpretare, questo del colonialismo resta un tema su cui nessuno studioso serio può fare a meno di
soffermarsi e su cui il libro di Khalidi apre una discussione importante e, credo, necessaria. Questa
coloniale non è, vorrei sottolinearlo, un’interpretazione adottata solo dalla storiografia palestinese,
ma da molti studiosi israeliani e americani, la maggior parte dei quali ebrei. Inoltre, lungi dal trarre
dall’etichetta coloniale la conseguenza della necessità di distruggere lo Stato di Israele, Khalidi
immagina scenari per il futuro che non sono molto diversi da quelli di una buona parte degli
studiosi post-sionisti israeliani, sostenitori di un’Israele che non sia più lo Stato degli ebrei, ma uno
Stato democratico in cui tutti, ebrei e non ebrei, godano degli stessi diritti.
Decisa è anche, nel libro, la valutazione negativa della cosiddetta stagione di Oslo, le trattative fra
israeliani e palestinesi che dalla conferenza di Madrid a quella del 2000 di New York hanno portato
al fallimento della nascita di uno Stato, ai cui negoziati pure Khalidi aveva partecipato.
Particolarmente netto il giudizio negativo sugli accordi di Oslo e sull’incapacità di negoziare dei
vecchi dirigenti dell’OLP, troppo a lungo lontani dalla situazione reale della Palestina.
Infatti Khalidi non si limita a condannare in maniera netta la politica israeliana, che vede in tutta la
sua storia politica, sia con i governi laburisti che con quelli del Likud, come volta a creare uno Stato
fondato sull’oppressione dei palestinesi, e nella cui volontà di pacificazione non crede. La sua
critica, in molti casi durissima, è anche rivolta alle organizzazioni palestinesi, tanto l’OLP che
Hamas, che vede oscillare fra l’incapacità di darsi dei progetti politici e la scelta del terrorismo e
della violenza. Questa scelta, scrive, «oltre a sollevare gravi questioni legali e morali e a privare i
palestinesi di un’immagine mediatica positiva, a livello tattico si è dimostrata enormemente
controproducente».
In quest’ottica, nessuna indulgenza per il 7 ottobre nella postfazione al libro, scritta nella primavera
del 2024 (mentre il testo si fermava al 2019). La lettura del secolo di guerra, una guerra sempre per
lui asimmetrica, in cui i palestinesi sono sempre visti come i più deboli tra i due contendenti, non lo
spinge a giustificare il terribile attacco terroristico del 7 ottobre, ma piuttosto a riflettere sulle
possibilità che si aprono anche dopo questa data. Il trauma collettivo seguito in Israele al 7 ottobre
ha portato ad esacerbare le attitudini verso i palestinesi della società israeliana, spingendone molta
parte a sostenere il governo di estrema destra, afferma. Una nuova fase è iniziata, particolarmente
letale e distruttiva, in cui tuttavia si riconoscono ancora le tracce della storia precedente. La pace
che Khalidi auspica, anche se la vede sempre più allontanarsi nel tempo, è «una pace fondata
sull’ammissione delle dolorose realtà storiche e sullo smantellamento delle strutture di oppressione,
basata sulla giustizia, sulla parità di diritti e sul riconoscimento reciproco». Uno scenario su cui
anche gli israeliani che si oppongono a questa guerra e a questo governo non possono che
concordare.

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