il commento al vangelo della domenica

Dio per noi è un tesoro o soltanto una fatica?

il commento di E. Ronchi al vangelo della diciassettesima domenica del tempo ordinario – anno A

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra (…)».

Il regno dei cieli è simile a un tesoro. Tesoro: parola magica, parola da innamorati, da avventure, da favole, ma anche da Vangelo. Accade con Dio ciò che accade a chi trova un tesoro o una perla: un capovolgimento totale e gioioso che travolge l’esistenza, qualcosa che fa la differenza tra prima e dopo.Ebbene, anche nei nostri giorni disillusi e scontenti, in questa epoca di “passioni tristi” il vangelo osa proporre, come una manciata di luce, la storia di una passione felice, che crede nell’esito buono della storia, comunque buono. Perché nel mondo sono in gioco forze più grandi di noi, che lavorano per seppellire tesori, far emergere perle; sorgenti alle quali possiamo sempre attingere, che non vengono mai meno e che “sono per noi”.Un uomo trova un tesoro e pieno di gioia va. La gioia è il primo tesoro che il tesoro regala. Entrare nel Vangelo «è come entrare in un fiume di gioia» (papa Francesco), respirare un’aria fresca e carica di pollini. Dio instaura con noi la pedagogia della gioia! Nel libro del Siracide è riportato un testo sorprendente: Figlio, per quanto ti è possibile, trattati bene… Non privarti di un solo giorno felice (Sir 14.11.14). È l’invito affettuoso del Padre ai suoi figli, il volto di un Dio attraente, bello, solare, il cui obiettivo non è essere finalmente obbedito o venerato da questi figli sempre ribelli che noi siamo, ma che adopera tutta la sua pedagogia per crescere figli felici. Come fanno ogni padre e madre. Figlio non privarti di un giorno felice! Prima che chiedere preghiere, Dio offre tesori. E il vangelo ne possiede la mappa. Quell’uomo va e vende quello che ha. Il contadino e il mercante vendono tutto, ma per guadagnare tutto. Non perdono niente, lo investono. Fanno un affare. Così sono i cristiani: scelgono e, scegliendo bene, guadagnano. Non sono più buoni degli altri, ma più ricchi: hanno un tesoro di speranze, di coraggio, di libertà, di cuore, di Dio. «Cresce in me la convinzione di portare un tesoro d’oro fino che devo consegnare agli altri» (S. Weil). Tesoro e perla sono i nomi che dà al suo amore chi è innamorato. Con la carica di affetto e di gioia, con la travolgente energia, con il futuro che sprigiona. Due nomi di Dio sulla bocca di Gesù. Il Vangelo mi incalza: Dio per te è un tesoro o soltanto una fatica? È la perla della tua vita o solo un dovere?Mi sento contadino fortunato, mercante ricco perché conosco il piacere di credere, il piacere di amare Dio: una festa del cuore, della mente, dell’anima. Non è un vanto, ma una responsabilità! E dico grazie a Colui che mi ha fatto inciampare in un tesoro, in molte perle, lungo molte strade, in molti giorni della vita.

(Letture: 1 Re 3, 5.7-12; Salmo 118; Romani 8, 28-30; Matteo 13, 44-52)

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il commento al vangelo della domenica

da occhi d’ombra a occhi di mattino

il commento di E. Ronchi al vangelo della sedicesima domenica del tempo ordinario – anno A


 In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò (…).

Una parabola leggera e potente che, accolta, può cambiare il nostro rapporto con Dio, portandoci dal negativo al positivo, dallo sguardo giudicante a quello abbracciante, da occhi d’ombra a occhi di mattino. È successo anche a me, tanti anni fa: mi ha fatto uscire dalla fede intesa come un’aula di tribunale, e mi sono felicemente perso in un campo di grano. Questione di sguardo: gli occhi dei servi si fissano sulla zizzania, sul negativo, quelli del padrone riposano sul buon grano. Questione di priorità: vuoi che andiamo a strapparla via? La risposta è netta: no, perché mettete a rischio il grano, che viene prima e vale di più.
Questione di metodo: vuoi che sradichiamo? Il Dio dalla pazienza contadina usa altri modi. Lui non è distruttivo, semina; non distrugge, crea. La voce dell’istinto mi suggerisce di seguire il modo dei servi: sradica subito i tuoi difetti, il puerile, sbagliato, immaturo, difettoso che è in te. Strappa e starai bene. Il vangelo parla con un’altra voce: abbi pazienza, non avere fretta, non demolire. Tu non sei i tuoi difetti, ma le tue maturazioni; non coincidi con la zizzania che hai nel cuore, ma con le tue spighe buone. Abbi venerazione per tutte le energie positive, i semi di vita, di generosità, di bellezza, di pace, di giustizia che Dio ha seminato in te. Fa che emergano in tutta la loro carica, e vedrai la zizzania decrescere. Il padrone del campo è un grande: non teme che la zizzania prevalga, ha fiducia che sarà il grano a vincere. Non si consulta con le sue paure ma con i sogni: il grano che arriva ad altezza del cuore, profumo di pane sulla tavola, profezia di fame saziata. Prospettiva solare, fiduciosa, divina: il male non revoca il bene; è invece il bene che revoca il male nella tua vita. Dobbiamo agire verso noi stessi come Dio verso la creazione: per vincere il buio della notte accende ogni giorno il suo mattino; per vincere l’inverno invia il sole della primavera; per far fiorire la steppa fa volare nell’aria milioni di semi. Così il nostro spirito è capace di cose grandi soltanto se ha forti passioni positive, non grandi reazioni istintive. Ciascuno di noi può adottare verso il campo del cuore questo sguardo positivo e vitale, liberandosi dai falsi esami di coscienza negativi. La nostra coscienza matura, chiara e sincera deve mettere a fuoco non tanto i difetti, ma il bene e il bello che è stato seminato in noi. Poi, il nostro lavoro religioso di fondo sarà far maturare, in noi e negli altri, i semi divini, i talenti, le potenzialità, i germi di cielo. Facciamo che erompano in tutta la loro potenza, in tutta la loro bellezza e vedremo le forze buone spingere la notte più in là.

(Letture: Sapienza 12, 13.16-19; Salmo 85; Rom,ani 8, 26-27; Matteo 13, 24-43).

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la religione berlusconizzata

il berlusconismo e la sua religione

LA PARABOLA DELL’ATEO DEVOTO CHE CREDEVA SOLO NEL SUO IO

Il berlusconismo ha stabilito il primato del successo personale su qualsiasi tensione verso l’altro. L’applauso è diventato la misura del valore di tutto e i cittadini si sono trasformati in spettatori.

BR

Insegna l’antico proverbio: “De mortuis nihil nisi bonum”, vale a dire: “Di chi è appena morto, o si tace o si parla bene”. Di Silvio Berlusconi io non avrei scritto nulla, non avendo per parte mia molto di buono da riconoscergli, laddove “buono” lo intendo nel senso radicale del termine che rimanda al Bene in quanto sommo valore che coincide con la Giustizia e la Verità (concetti che scrivo al maiuscolo per indicare la loro superiorità rispetto al mero interesse privato). Se però, ciononostante, ne scrivo, è per cercare di mettere a fuoco la frase del cantautore Gian Piero Alloisio, talora attribuita a Gaber (cito a memoria): “Non temo Berlusconi in sé, ma il Berlusconi che è in me”. Non parlerò quindi di Berlusconi in sé, bensì del Berlusconi in noi, convinto come sono che quanto dichiarato da Alloisio valga per milioni di italiani, forse per tutti noi, che portiamo al nostro interno, qualcuno con gioia, qualcun altro con fastidio o addirittura con vergogna, quella infezione che è, a mio avviso, il “berlusconismo” …  

Cosa infetta precisamente il berlusconismo? Risponderò presto, prima però voglio ricordare questa frase di Hegel: “La filosofia è il proprio tempo colto nei pensieri”. Io penso che quello che vale per la filosofia, valga, a maggior ragione, per l’economia e la politica: il loro successo dipende strettamente dalla capacità di saper cogliere e soddisfare il desiderio del proprio tempo. Berlusconi è stato molto abile in questo. Con le sue antenne personali (al lavoro ben prima che installasse a Cologno Monzese le antenne delle sue tv) egli seppe cogliere il desiderio profondo del nostro tempo, ne riconobbe l’anima leggera e se ne mise alla caccia esercitando tutte le arti della sua sorridente e persistente seduzione. Si trasformò in questo modo in una specie di sommo sacerdote della nuova religione che ormai da tempo aveva preso il posto dell’antica, essendo la religione del nostro tempo non più liturgia di Dio ma culto ossessivo e ossessionante dell’Io. Il berlusconismo rappresenta nel modo più splendido e seducente lo spodestamento dell’antica religione di Dio e la sua sostituzione con la religione dell’Io. E il nostro tempo se ne sentì interpretato in sommo grado, assegnando al fondatore i più grandi onori e costituendolo tra gli uomini più ricchi e più potenti non solo d’Italia.

Ho parlato del berlusconismo come di un’infezione, ma cosa infetta precisamente? Non è difficile rispondere: la coscienza morale. Il berlusconismo rappresenta la fine plateale del primato dell’etica e il trionfo del primato del successo. Successo attestato mediante la certificazione dell’applauso e del conseguente inarrestabile guadagno.

Vedete, Dio, prima, lo si poteva intendere in vari modi: nel senso classico del cattolicesimo e delle altre religioni, nel senso socialista e comunista della società futura senza classi e finalmente giusta, nel senso liberale e repubblicano di uno stato etico quale per esempio lo stato prussiano celebrato da Hegel, nel senso della retta e incorruttibile coscienza individuale della filosofia morale di Kant, e in altri modi ancora, tutti comunque accomunati dalla convinzione che esistesse qualcosa più importante dell’Io, di fronte a cui l’Io si dovesse fermare e mettere al servizio. Fin dai primordi dell’umanità il concetto di Dio rappresentò esattamente l’emozione vitale secondo cui esiste qualcosa di più importante del mio Io, del mio potere, del mio piacere (a prescindere se questo “qualcosa” sia il Dio unico, o gli Dei, o l’Urbe, la Polis, lo Stato, la Scienza, l’Arte o altro ancora).

Ecco, il trionfo del berlusconismo rappresenta la sconfitta di questa tensione spirituale e morale. In quanto religione dell’Io, esso proclama esattamente il contrario: non c’è nulla più importante di me. Non è certo un caso che il partito-azienda del berlusconismo non ha mai avuto un successore, e ora, morto il fondatore, è probabile che non faccia una bella fine.

Naturalmente questa religione dell’Io suppone quale condizione imprescindibile ciò che consente all’Io di affermare il suo primato di fronte al mondo, vale a dire il denaro. Il denaro era per il berlusconismo ciò che la Bibbia è per il cristianesimo, il Corano per l’islam, la Torah per l’ebraismo: il vero e proprio libro sacro, l’unico Verbo su cui giurare e in cui credere. Il berlusconismo è stato una religione neopagana secondo cui tutto si compra, perché tutto è in vendita: aziende, ville, politici, magistrati, uomini, donne, calciatori, cardinali, corpi, parole, anime. Tutti hanno un prezzo, e bastano fiuto e denaro per pagare e ottenere i migliori per sé. Chi infatti (secondo la dottrina del berlusconismo) non desidera essere comprato?

Il berlusconismo ha rappresentato un tale abbassamento del livello di indignazione etica della nostra nazione da coincidere con la morte stessa dell’etica nelle coscienze degli italiani. La quale infatti ai nostri giorni è in coma, soprattutto nei palazzi del potere politico. Ma cosa significa la morte dell’etica? Significa lo spadroneggiare della volgarità, termine da intendersi non tanto come uso di linguaggio sconveniente, quanto nel senso etimologico che rimanda a volgo, plebe, plebaglia, ovvero al populismo in quanto procedimento che misura tutto in base agli applausi, in quanto applausometro permanente che trasforma i cittadini da esseri pensanti in spettatori che battono le mani. Ovvero: non è giusto ciò che è giusto, ma quanto riceve più applausi. Ecco la morte dell’etica, ecco il trionfo di ciò che politicamente si chiama populismo e che rappresenta la degenerazione della democrazia in oclocrazia (in greco antico “demos” significa popolo, “oclos” significa plebaglia).

Tutto questo ha avuto e continuerà ad avere delle conseguenze devastanti. In primo luogo  penso all’immagine dell’Italia all’estero, che neppure dieci Mario Draghi avrebbero potuto ripulire dal fango e dalla sporcizia del cosiddetto Bunga-Bunga.  Ma ancora più grave è lo stato della coscienza morale dei nostri concittadini: eravamo già un paese corrotto e di evasori, ora siamo ai vertici europei; eravamo già tra gli ultimi come indice di lettura, ora siamo in fondo alla classifica.

Ricordo che una volta mi trovavo con un imprenditore all’autodromo di Monza per una convention aziendale e, forse per la vicinanza di Arcore, forse chissà per quale altro motivo, egli prese a parlarmi di Berlusconi. Mi disse che molti anni prima gli aveva indicato una massa di gente lì accanto e poi gli si era rivolto così: “Secondo Lei, quanti sono gli intelligenti là dentro? Il 10 percento? Ecco, io mi occupo del restante 90 percento”. Questa è stata la politica editoriale delle sue tv che hanno portato alla ribalta personaggi fatui ed equivoci e hanno fatto strazio della vera cultura. Il berlusconismo ha di fatto affossato nella mente della gran parte degli italiani il valore della cultura, riducendo tutto a spettacolo, a divertimento, a simpatia falsa e spudoratamente superficiale, a seduzione. Seduzione da intendere nel senso etimologico di sé-duzione, cioè riconduzione a sé di ogni cosa, secondo quella religione dell’Io che è stato il vero credo di Silvio Berlusconi e da cui non sarà facile liberare e purificare la nostra “povera patria” (come la designava, proprio pensando al berlusconismo, Franco Battiato).

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la morte di Bettazzi impoverisce la chiesa e il mondo

Bettazzi

vescovo sui passi del Concilio voleva una Chiesa «serva e povera»


di Filippo Rizzi 
Di Treviso ma figlio della Chiesa di Bologna, fu uomo di fiducia di Lercaro e coltivò una particolare amicizia “teologica” con il cardinale Giacomo Biffi: «Pur diversi, ci volevamo bene»

Monsignor Luigi Bettazzi in una foto d'archivio

 Un padre conciliare che ha sempre visto nel Vaticano II «più pastorale che dogmatico», il compimento di molti dei suoi “sogni” giovanili e il migliore strumento di annuncio della fede ai lontani. Ma anche un’assemblea che per i suoi contenuti e intenti programmatici ha ancora molto da dire con il suo «già e non ancora» al futuro della Chiesa.  

Si può condensare in questa immagine il rapporto con il Concilio del vescovo emerito di Ivrea, Luigi Bettazzi, morto alla soglia dei 100 anni (era nato il 23 novembre 1923) la scorsa domenica mattina ad Albiano di Ivrea. Con Bettazzi, come è stato scritto in questi giorni, scompare l’ultimo padre conciliare italiano (era il vescovo ausiliare del carismatico cardinale di Bologna Giacomo Lercaro): partecipò a 40 anni alla seconda sessione nel 1963 e solo il 4 ottobre di quello stesso anno fu consacrato presule nella Basilica di San Petronio a Bologna.

Gli ultimi superstiti tra i pastori di quella storica assise (composte da circa 2.500 vescovi) voluta da Giovanni XXIII e conclusa da Paolo VI sono oramai solo quattro: il messicano José de Jesús Sahagún de la Parra, 101 anni (1° gennaio 1922) e ultimo testimone della sessione di apertura nell’11 ottobre 1962; Victorinus Youn Kong-hi, della Corea del Sud, 98 anni (8 novembre 1924); l’indiano Alphonsus Matthias, 95 anni (22 giugno 1928); e il cardinale nigeriano Francis Arinze, 90 anni (1° novembre 1932).

Ma Bettazzi è stato, fino a domenica scorsa, soprattutto l’ultimo testimone della firma del “Patto delle Catacombe” il 16 novembre 1965, pochi giorni prima della conclusione del Vaticano II, l’8 dicembre dello stesso anno. A quello storico incontro avvenuto alle Catacombe di Domitilla a Roma, dopo una solenne celebrazione eucaristica, erano presenti figure carismatiche come Hélder Pessoa Câmara e José Maria Pires.  

Successivamente, al Patto aderirono molti altri padri conciliari dei diversi continenti che condividevano la sfida di una «vita di povertà» e il desiderio di una Chiesa «serva e povera», come aveva suggerito Giovanni XXIII.

«L’impegno, denominato “il Patto delle Catacombe”, fu poi firmato da centinaia di vescovi e fu affidato a Lercaro, che lo portò a Paolo VI – ha raccontato lo stesso Bettazzi alcuni anni fa – insieme al risultato delle sue consultazioni che, fra l’altro, suggerivano la soppressione dell’esercito pontificio e un distacco dai legami tradizionali con l’aristocrazia romana, mentre indicavano, come primo indice di povertà, nel mondo attuale, la trasparenza dei bilanci».

È significativo ancora oggi tornare con la mente al primo intervento di Bettazzi sulla «collegialità episcopale» nell’Aula di San Pietro durante la seconda sessione del Vaticano II nel 1963. L’intervento di Bettazzi fu salutato con stima e vivo apprezzamento e per questo annotato nei suoi diari (Quaderni del Concilio, Jaca Book, 2009) da un teologo del rango di Henri de Lubac.

E fu lo stesso giovane ausiliare di Lercaro a rievocare il senso del suo contributo: «Preparato dal centro bolognese di don Giuseppe Dossetti e dal professor Giuseppe Alberigo, voleva dimostrare che la collegialità era nella prassi della Chiesa romana; il cardinale Giacomo Lercaro, per cui era stato preparato, per vari motivi, non era stato in grado di farlo. Lo rielaborai e lo esposi in assemblea concludendo che la parola “collegio” contestata da alcuni, perché presso i romani indicava un’assemblea di uguali, era invece usata nella liturgia di san Mattia, inserito nel “collegio degli apostoli”».  

Bettazzi ha lasciato la sua “impronta” indiretta su testi conciliari come il documento sui laici Apostolicam Actuositatem e la Costituzione pastorale sul mondo contemporaneo la Gaudium et spes. Quest’ultimo testo rappresentò per il giovane presule un’autentica bussola di orientamento per la sua futura vita di pastore nel post-Concilio soprattutto durante il suo lungo governo della diocesi di Ivrea dal 1966 al 1999 e per i suoi 17 anni alla guida di Pax Christi (1968-1985).

È giusto ricordare che Bettazzi fu uno dei motori, a conclusione del Concilio Vaticano II nel 1965, per l’avvio della causa di canonizzazione del “suo” papa Giovanni XXIII. A testimoniarlo sono le annotazioni del grande teologo domenicano francese Yves Marie Congar nel volume da poco ripubblicato dalla San Paolo Diari del Concilio, 1960-1966.

Come certamente singolare è stata la sua amicizia intrattenuta con il venerabile il vescovo don Tonino Bello. «Lo indicai – raccontò a chi scrive – come mio successore per la sua attenzione ai poveri e agli ultimi alla guida di Pax Christi al cardinale presidente della Cei di allora, Anastasio Alberto Ballestrero. E la proposta fu accettata».

Un rapporto di stima e di confronto soprattutto teologico fu quello che Bettazzi intrattenne con il cardinale Giacomo Biffi, conosciuto a Parigi nel lontano 1951, di cui rammentava spesso l’«esemplare omelia» tenuta ai funerali di don Giuseppe Dossetti a Bologna nel 1996. «Pur nelle diversità di vedute ecclesiali – confidava – ci siamo voluti bene e gradì molto la mia ultima visita prima della sua morte nel 2015. Ci salutammo e benedicemmo da amici».  

Un ultimo spezzone significativo e originale della lunga vita di Bettazzi, originario di Treviso, ma da sempre figlio della Chiesa di Bologna, era il poter presiedere, ogni anno, finché le forze l’hanno sostenuto, la Messa ogni 4 agosto («Quasi sempre la prima Eucaristia mattutina», raccontano i frati predicatori) nella Basilica patriarcale di San Domenico.

Qui infatti venne ordinato prete il 4 agosto 1946 dall’allora cardinale di Bologna, Giovanni Battista Rocca di Corneliano. E qui tornò per i suoi 75 anni di Messa nel 2021 con l’attuale cardinale arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi. «Il mio essere qui a Bologna ogni anno – amava ripetere – è per ringraziare il Signore di essere sacerdote per sempre».

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il commento al vangelo della domenica

il nostro Dio semina vita e futuro ovunque 

il commento di E. Ronchi al vangelo della quindicesima domenica del tempo ordinario – anno A

Quel giorno Gesù (…) parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada (…). Un’altra parte cadde sul terreno sassoso (…). Un’altra parte cadde sui rovi (…). Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto (…).Egli parlò loro di molte cose con parabole.

Magia delle parabole: un linguaggio che contiene di più di quel che dice. Un racconto minimo, che funziona come un motore: lo leggi e accende idee, evoca immagini, suscita emozioni, ti mette in viaggio. Gesù osserva la vita e nascono parabole. Osserva un seminatore, e nel suo gesto intuisce qualcosa di Dio. Prendeva storie di vita e le faceva diventare storie di Dio.  
E le racconta galleggiando sulle acque del lago, sopra una barca, da quel pulpito oscillante, a pochi metri da riva. C’è ancora una piccola baia nelle vicinanze di Tabgha, a circa due chilometri da Cafarnao, identificata dall’archeologo Bargil Pixner osb, come quella della predicazione di Gesù dalla barca: le sue rive formano un pendio simile a un anfiteatro. L’acustica è ottima. Pochi mesi fa ho sostato, durante un trekking con un gruppo di amici, proprio su quel punto della riva; a lungo, in silenzio, come perduto nella folla enorme di allora, che faceva ressa, proprio qui, attorno a me. Si è aperta una breccia nel tempo, un by-pass di millenni: mi pareva di vederlo, forse, seduto sulla barca, anche se all’orecchio non giungeva nient’altro che il brivido del silenzio, di un amore senza parole. Ritorno alla sorgente, alla viva voce di Gesù: “il seminatore uscì a seminare”.  
Non “un”, ma “il” seminatore, che con il seminare si identifica, che altro non fa che lanciare semi divini, dare vita, fecondare. Seminatore: uno dei più bei nomi di Dio. Un illogico seminatore, che spera anche nei sassi, nelle spine, nel calpestio della strada; un prodigo inguaribile. Un sognatore che vede vita e futuro ovunque, convinto che persino la sterpaglia possa trasformarsi in giardino. Dalle immagini di Gesù emerge una visione emozionante del mondo: questa nostra storia è grembo, la terra è gravida, intorno è tutto un germinare, spuntare, accestire, granire, maturare. Il Regno si specchia nella primavera della fiducia nella vita crescente. Il seminatore, che diresti distratto o sprovveduto, è invece il nostro Dio che vuole abbracciare l’imperfezione del campo, e nessuno è escluso. Siamo feriti, opachi, duri, spinosi, non finiti, tutti, ma lui abbraccia la nostra imperfezione, perché vede noi oltre noi, ci vede come grembo, storia incamminata, vede primavere nei nostri inverni, e spighe future, profezia di fame saziata. Infatti il verbo centrale della parabola è “portò frutto”. L’etica del Vangelo è un’etica del frutto, non della perfezione; una morale della messe abbondante, non di un’illusoria assenza di problemi o difetti. Ogni cuore, anche il mio, il mio contorto cuore, è un pugno di terra atto a dare vita ai semi di Dio.

(Letture: Isaia 55, 10-11; Salmo 64; Romani 8, 18-23; Matteo 13, 1-23)

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il commento al vangelo della domenica

nel cuore di Dio l’alfabeto della vita

il commento di E. Ronchi al vangelo della quattordicesima domenica del tempo ordinario – ano A 

In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza (…).«Ti rendo lode, Padre, perché hai rivelato queste cose ai piccoli».

Il Vangelo registra uno di quegli slanci improvvisi che accendevano di stupore le parole di Gesù: i piccoli, i bambini, le donne, i poveri lo capiscono subito. In tutta la Bibbia l’economia della piccolezza esce diretta del cuore di Dio e attraversa come uno spartiacque la nostra storia: Dio scommette su coloro sui quali il mondo non scommette.   
E Gesù ne è felice. Nonostante il brutto momento: Giovanni il Battista è arrestato, i capi religiosi e politici lo braccano, i villaggi attorno al lago, dopo la prima ondata di entusiasmo, si sono allontanati. Ed ecco che in quell’aria di sconfitta, Gesù, anziché deprimersi, si stupisce, si incanta di Dio: una meraviglia. Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro: le sue mani, dove appoggiare la stanchezza e riprendere il fiato del coraggio. Imparate da me… Andare da Gesù è andare a scuola di vita. Quest’uomo senza poteri ma regale, libero come il vento, che nessuno ha mai potuto comprare o asservire e fonte di libere vite, insegna a vivere bene.  
Imparate da me che sono mite e umile di cuore…Il maestro è il cuore. Andare tutti a scuola di cuore! Tutti a imparare il cuore di Dio! Dove c’è l’alfabeto della vita. Dio stesso non è un concetto, ma il cuore dolce e forte della vita. Imparate da me, dal mio modo, delicato, senza violenza e senza arroganza. Il mio giogo è dolce e il mio peso è leggero. Un giogo: che cosa è oltre che un oggetto da museo della civiltà contadina? Oltre il ricordo degli animali da tiro, la loro grande fatica? È una metafora che non sentiamo amica: abbiamo fatto di tutto per scuoterceli di dosso, i gioghi. Gesù però dice: il mio giogo, un giogo che rimane suo, non ce lo butta addosso, con il duro della vita. Il giogo resta il suo, lui continua aggiogato allo stesso legno.  
A me dice: «amico d’avventura, siamo in due; non sei solo, inchiodato alla fatica del vivere, del prenderti cura di qualcuno; siamo insieme allo stesso solco, allo stesso aratro». Don Tonino Bello immaginava: «Siamo angeli con un’ala soltanto e possiamo volare solo abbracciati». Gesù è l’altra mia ala, il mio ‘cireneo’, aggiogato ai miei amori, alla mia fatica, ai miei sogni, il vero maestro che non dà ulteriori obblighi, ma ulteriori ali. Prendete il mio giogo, cioè prendete su di voi l’antica novità del vangelo, che è ossigeno, che non ferisce mai ciò che sta al cuore dell’uomo, non proibisce mai ciò che all’uomo dà gioia e vita. E coglierete la legge profonda, la corrente calda che scorre sotto tutte le pagine del libro dell’esistenza, le feconda, le colora. E le fa profumare d’universo.

(Letture: Zaccaria 9, 9-10; Salmo 144; Romani 8,9.11-19; Matteo 11,25-30)

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il commento al vangelo della domenica

possediamo soltanto ciò che doniamo agli altri


Possediamo soltanto ciò che doniamo agli altri
il commento di E. Ronchi al vangelo della tredicesima domenica del tempo ordinario – anno A
In quel tempo, Gesù̀ disse ai suoi apostoli: «Chi ama padre o madre più̀ di me non è degno di me; chi ama figlio o figlia più̀ di me non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà̀ tenuto per sè́ la propria vita, la perderà̀, e chi avrà̀ perduto la propria vita per causa mia, la troverà (…)».
Chi ama la propria famiglia più di me, non è degno di me. Ma allora chi è degno di te, Signore, della tua altissima pretesa? Padre madre fratello figlia… sono le persone a me più care, indispensabili per vivere davvero. Sono loro che ogni giorno mi spingono ad essere vero, autentico, a diventare il meglio di ciò che posso diventare. Ma la sua non è una competizione di emozioni, da cui sa che non uscirebbe vincitore se non presso pochi eroi, o santi o profeti dal cuore in fiamme. Eppure lo sappiamo che nessuno coincide con il cerchio della sua famiglia. Anche già per unirsi a colei che ama, l’uomo lascerà il padre e la madre!
Il Vangelo, croce e pasqua, un’eternità di luce, non si spiegano interessandosi solo della famiglia, e neppure una storia di giustizia, un
mondo in pace. Bisogna rompere il piccolo perimetro e far entrare volti e nomi nel cerchio del proprio sangue, generare diversamente vita e futuro; staccarsi, perdere, spezzare l’eterna ripetizione di ciò che è già stato. Chi avrà perduto, troverà. Perdere la vita, non significa farsi uccidere: una vita si perde solo come si perde un tesoro, donandola. Noi possediamo, veramente, solo ciò che abbiamo donato ad altri. Come la donna di Sunem della prima lettura, che d’impulso dona al profeta Eliseo piccole porzioni di vita, piccole cose: un letto, un tavolo, una sedia, una lampada, e riceverà in cambio una vita intera, un figlio, insieme al coraggio del futuro. Risento l’eco delle parole di Gesù: Chi avrà perduto la sua vita per causa mia la troverà. Gesù parla di una causa per cui vivere, che vale più della stessa vita. E Lui, che l’ha perduta per la causa dell’uomo, l’ha ritrovata. Infatti il vero dramma dei viventi è non avere niente e nessuno per cui valga la pena mettere in gioco e spendere la propria vita. E a noi, spaventati dall’impegno di dare vita e di seguire una causa che valga più di noi stessi, Gesù aggiunge una frase dolcissima: chi avrà dato anche solo un bicchiere d’acqua fresca non perderà il premio. Croce e acqua, il dare tutto e il dare quasi niente. I due estremi di uno stesso movimento, un gesto vivo, significato da quell’aggettivo così evangelico: fresca! L’acqua, fresca dev’essere! Vale a dire procurata e conservata con cura, l’acqua migliore che hai, acqua affettuosa, bella, con dentro l’eco del cuore. La vita nell’acqua: stupenda pedagogia di Cristo, secondo cui non c’è nulla di troppo piccolo per chi vuol bene. Dove amare non equivale ad emozionarsi o a tremare per una creatura, ma si traduce con l’altro verbo sempre di corsa, semplice e concreto, fattivo, urgente di mani limpide e allegre come acqua fresca: il verbo dare.
(Letture: 2 Re 4,8-11.14-16a; Salmo 88; Romani 6,3-4.8-11; Matteo 10,37-42) 
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