ai poveri, giudicati parassiti, non si perdona neanche la loro povertà – messaggio per la giornata mondiale dei poveri

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

III GIORNATA MONDIALE DEI POVERI

Domenica XXXIII del Tempo Ordinario
17 novembre 2019

La speranza dei poveri non sarà mai delusa

1. «La speranza dei poveri non sarà mai delusa» (Sal 9,19). Le parole del Salmo manifestano una incredibile attualità. Esprimono una verità profonda che la fede riesce a imprimere soprattutto nel cuore dei più poveri: restituire la speranza perduta dinanzi alle ingiustizie, sofferenze e precarietà della vita.

Il Salmista descrive la condizione del povero e l’arroganza di chi lo opprime (cfr 10, 1-10). Invoca il giudizio di Dio perché sia restituita giustizia e superata l’iniquità (cfr 10, 14-15). Sembra che nelle sue parole ritorni la domanda che si rincorre nel corso dei secoli fino ai nostri giorni: come può Dio tollerare questa disparità? Come può permettere che il povero venga umiliato, senza intervenire in suo aiuto? Perché consente che chi opprime abbia vita felice mentre il suo comportamento andrebbe condannato proprio dinanzi alla sofferenza del povero?

Nel momento della composizione di questo Salmo si era in presenza di un grande sviluppo economico che, come spesso accade, giunse anche a produrre forti squilibri sociali. La sperequazione generò un numeroso gruppo di indigenti, la cui condizione appariva ancor più drammatica se confrontata con la ricchezza raggiunta da pochi privilegiati. L’autore sacro, osservando questa situazione, dipinge un quadro tanto realistico quanto veritiero.

Era il tempo in cui gente arrogante e senza alcun senso di Dio dava la caccia ai poveri per impossessarsi perfino del poco che avevano e ridurli in schiavitù. Non è molto diverso oggi. La crisi economica non ha impedito a numerosi gruppi di persone un arricchimento che spesso appare tanto più anomalo quanto più nelle strade delle nostre città tocchiamo con mano l’ingente numero di poveri a cui manca il necessario e che a volte sono vessati e sfruttati. Tornano alla mente le parole dell’Apocalisse: «Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo» (Ap 3,17). Passano i secoli ma la condizione di ricchi e poveri permane immutata, come se l’esperienza della storia non insegnasse nulla. Le parole del Salmo, dunque, non riguardano il passato, ma il nostro presente posto dinanzi al giudizio di Dio.

2. Anche oggi dobbiamo elencare molte forme di nuove schiavitù a cui sono sottoposti milioni di uomini, donne, giovani e bambini.

Incontriamo ogni giorno famiglie costrette a lasciare la loro terra per cercare forme di sussistenza altrove; orfani che hanno perso i genitori o che sono stati violentemente separati da loro per un brutale sfruttamento; giovani alla ricerca di una realizzazione professionale ai quali viene impedito l’accesso al lavoro per politiche economiche miopi; vittime di tante forme di violenza, dalla prostituzione alla droga, e umiliate nel loro intimo. Come dimenticare, inoltre, i milioni di immigrati vittime di tanti interessi nascosti, spesso strumentalizzati per uso politico, a cui sono negate la solidarietà e l’uguaglianza? E tante persone senzatetto ed emarginate che si aggirano per le strade delle nostre città?

Quante volte vediamo i poveri nelle discariche a raccogliere il frutto dello scarto e del superfluo, per trovare qualcosa di cui nutrirsi o vestirsi! Diventati loro stessi parte di una discarica umana sono trattati da rifiuti, senza che alcun senso di colpa investa quanti sono complici di questo scandalo. Giudicati spesso parassiti della società, ai poveri non si perdona neppure la loro povertà. Il giudizio è sempre all’erta. Non possono permettersi di essere timidi o scoraggiati, sono percepiti come minacciosi o incapaci, solo perché poveri.

Dramma nel dramma, non è consentito loro di vedere la fine del tunnel della miseria. Si è giunti perfino a teorizzare e realizzare un’architettura ostile in modo da sbarazzarsi della loro presenza anche nelle strade, ultimi luoghi di accoglienza. Vagano da una parte all’altra della città, sperando di ottenere un lavoro, una casa, un affetto… Ogni eventuale possibilità offerta, diventa uno spiraglio di luce; eppure, anche là dove dovrebbe registrarsi almeno la giustizia, spesso si infierisce su di loro con la violenza del sopruso. Sono costretti a ore infinite sotto il sole cocente per raccogliere i frutti della stagione, ma sono ricompensati con una paga irrisoria; non hanno sicurezza sul lavoro né condizioni umane che permettano di sentirsi uguali agli altri. Non esiste per loro cassa integrazione, indennità, nemmeno la possibilità di ammalarsi.

Il Salmista descrive con crudo realismo l’atteggiamento dei ricchi che depredano i poveri: “Stanno in agguato per ghermire il povero…attirandolo nella rete” (cfr Sal 10,9). È come se per loro si trattasse di una battuta di caccia, dove i poveri sono braccati, presi e resi schiavi. In una condizione come questa il cuore di tanti si chiude, e il desiderio di diventare invisibili prende il sopravvento. Insomma, riconosciamo una moltitudine di poveri spesso trattati con retorica e sopportati con fastidio. Diventano come trasparenti e la loro voce non ha più forza né consistenza nella società. Uomini e donne sempre più estranei tra le nostre case e marginalizzati tra i nostri quartieri.

3. Il contesto che il Salmo descrive si colora di tristezza, per l’ingiustizia, la sofferenza e l’amarezza che colpisce i poveri. Nonostante questo, offre una bella definizione del povero. Egli è colui che “confida nel Signore” (cfr v. 11), perché ha la certezza di non essere mai abbandonato. Il povero, nella Scrittura, è l’uomo della fiducia! L’autore sacro offre anche il motivo di tale fiducia: egli “conosce il suo Signore” (cfribid.), e nel linguaggio biblico questo “conoscere” indica un rapporto personale di affetto e di amore.

Siamo dinanzi a una descrizione davvero impressionante che non ci aspetteremmo mai. Ciò, tuttavia, non fa che esprimere la grandezza di Dio quando si trova dinanzi a un povero. La sua forza creatrice supera ogni aspettativa umana e si rende concreta nel “ricordo” che egli ha di quella persona concreta (cfr v. 13). È proprio questa confidenza nel Signore, questa certezza di non essere abbandonato, che richiama alla speranza. Il povero sa che Dio non lo può abbandonare; perciò vive sempre alla presenza di quel Dio che si ricorda di lui. Il suo aiuto si estende oltre la condizione attuale di sofferenza per delineare un cammino di liberazione che trasforma il cuore, perché lo sostiene nel più profondo.

4. È un ritornello permanente delle Sacre Scritture la descrizione dell’agire di Dio in favore dei poveri. Egli è colui che “ascolta”, “interviene”, “protegge”, “difende”, “riscatta”, “salva”… Insomma, un povero non potrà mai trovare Dio indifferente o silenzioso dinanzi alla sua preghiera. Dio è colui che rende giustizia e non dimentica (cfr Sal 40,18; 70,6); anzi, è per lui un rifugio e non manca di venire in suo aiuto (cfr Sal 10,14).

Si possono costruire tanti muri e sbarrare gli ingressi per illudersi di sentirsi sicuri con le proprie ricchezze a danno di quanti si lasciano fuori. Non sarà così per sempre. Il “giorno del Signore”, come descritto dai profeti (cfr Am 5,18; Is 2-5; Gl 1-3), distruggerà le barriere create tra Paesi e sostituirà l’arroganza di pochi con la solidarietà di tanti. La condizione di emarginazione in cui sono vessati milioni di persone non potrà durare ancora a lungo. Il loro grido aumenta e abbraccia la terra intera. Come scriveva Don Primo Mazzolari: «Il povero è una protesta continua contro le nostre ingiustizie; il povero è una polveriera. Se le dai fuoco, il mondo salta».

5. Non è mai possibile eludere il pressante richiamo che la Sacra Scrittura affida ai poveri. Dovunque si volga lo sguardo, la Parola di Dio indica che i poveri sono quanti non hanno il necessario per vivere perché dipendono dagli altri. Sono l’oppresso, l’umile, colui che è prostrato a terra. Eppure, dinanzi a questa innumerevole schiera di indigenti, Gesù non ha avuto timore di identificarsi con ciascuno di essi: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Sfuggire da questa identificazione equivale a mistificare il Vangelo e annacquare la rivelazione. Il Dio che Gesù ha voluto rivelare è questo: un Padre generoso, misericordioso, inesauribile nella sua bontà e grazia, che dona speranza soprattutto a quanti sono delusi e privi di futuro.

Come non evidenziare che le Beatitudini, con le quali Gesù ha inaugurato la predicazione del regno di Dio, si aprono con questa espressione: «Beati voi, poveri» (Lc 6,20)? Il senso di questo annuncio paradossale è che proprio ai poveri appartiene il Regno di Dio, perché sono nella condizione di riceverlo. Quanti poveri incontriamo ogni giorno! Sembra a volte che il passare del tempo e le conquiste di civiltà aumentino il loro numero piuttosto che diminuirlo. Passano i secoli, e quella beatitudine evangelica appare sempre più paradossale; i poveri sono sempre più poveri, e oggi lo sono ancora di più. Eppure Gesù, che ha inaugurato il suo Regno ponendo i poveri al centro, vuole dirci proprio questo: Lui ha inaugurato, ma ha affidato a noi, suoi discepoli, il compito di portarlo avanti, con la responsabilità di dare speranza ai poveri. È necessario, soprattutto in un periodo come il nostro, rianimare la speranza e restituire fiducia. È un programma che la comunità cristiana non può sottovalutare. Ne va della credibilità del nostro annuncio e della testimonianza dei cristiani.

6. Nella vicinanza ai poveri, la Chiesa scopre di essere un popolo che, sparso tra tante nazioni, ha la vocazione di non far sentire nessuno straniero o escluso, perché tutti coinvolge in un comune cammino di salvezza. La condizione dei poveri obbliga a non prendere alcuna distanza dal Corpo del Signore che soffre in loro. Siamo chiamati, piuttosto, a toccare la sua carne per comprometterci in prima persona in un servizio che è autentica evangelizzazione. La promozione anche sociale dei poveri non è un impegno esterno all’annuncio del Vangelo, al contrario, manifesta il realismo della fede cristiana e la sua validità storica. L’amore che dà vita alla fede in Gesù non permette ai suoi discepoli di rinchiudersi in un individualismo asfissiante, nascosto in segmenti di intimità spirituale, senza alcun influsso sulla vita sociale (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 183).

Recentemente abbiamo pianto la morte di un grande apostolo dei poveri, Jean Vanier, che con la sua dedizione ha aperto nuove vie alla condivisione promozionale con le persone emarginate. Jean Vanier ha ricevuto da Dio il dono di dedicare tutta la sua vita ai fratelli con gravi disabilità che spesso la società tende ad escludere. È stato un “santo della porta accanto” alla nostra; con il suo entusiasmo ha saputo raccogliere intorno a sé tanti giovani, uomini e donne, che con impegno quotidiano hanno dato amore e restituito il sorriso a tante persone deboli e fragili offrendo loro una vera “arca” di salvezza contro l’emarginazione e la solitudine. Questa sua testimonianza ha cambiato la vita di tante persone e ha aiutato il mondo a guardare con occhi diversi alle persone più fragili e deboli. Il grido dei poveri è stato ascoltato e ha prodotto una speranza incrollabile, creando segni visibili e tangibili di un amore concreto che fino ad oggi possiamo toccare con mano.

7. «L’opzione per gli ultimi, per quelli che la società scarta e getta via» (ibid., 195) è una scelta prioritaria che i discepoli di Cristo sono chiamati a perseguire per non tradire la credibilità della Chiesa e donare speranza fattiva a tanti indifesi. La carità cristiana trova in essi la sua verifica, perché chi compatisce le loro sofferenze con l’amore di Cristo riceve forza e conferisce vigore all’annuncio del Vangelo.

L’impegno dei cristiani, in occasione di questa Giornata Mondiale e soprattutto nella vita ordinaria di ogni giorno, non consiste solo in iniziative di assistenza che, pur lodevoli e necessarie, devono mirare ad accrescere in ognuno l’attenzione piena che è dovuta ad ogni persona che si trova nel disagio. «Questa attenzione d’amore è l’inizio di una vera preoccupazione» (ibid., 199) per i poveri nella ricerca del loro vero bene. Non è facile essere testimoni della speranza cristiana nel contesto della cultura consumistica e dello scarto, sempre tesa ad accrescere un benessere superficiale ed effimero. È necessario un cambiamento di mentalità per riscoprire l’essenziale e dare corpo e incisività all’annuncio del regno di Dio.

La speranza si comunica anche attraverso la consolazione, che si attua accompagnando i poveri non per qualche momento carico di entusiasmo, ma con un impegno che continua nel tempo. I poveri acquistano speranza vera non quando ci vedono gratificati per aver concesso loro un po’ del nostro tempo, ma quando riconoscono nel nostro sacrificio un atto di amore gratuito che non cerca ricompensa.

8. A tanti volontari, ai quali va spesso il merito di aver intuito per primi l’importanza di questa attenzione ai poveri, chiedo di crescere nella loro dedizione. Cari fratelli e sorelle, vi esorto a cercare in ogni povero che incontrate ciò di cui ha veramente bisogno; a non fermarvi alla prima necessità materiale, ma a scoprire la bontà che si nasconde nel loro cuore, facendovi attenti alla loro cultura e ai loro modi di esprimersi, per poter iniziare un vero dialogo fraterno. Mettiamo da parte le divisioni che provengono da visioni ideologiche o politiche, fissiamo lo sguardo sull’essenziale che non ha bisogno di tante parole, ma di uno sguardo di amore e di una mano tesa. Non dimenticate mai che «la peggiore discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale» (ibid., 200).

I poveri prima di tutto hanno bisogno di Dio, del suo amore reso visibile da persone sante che vivono accanto a loro, le quali nella semplicità della loro vita esprimono e fanno emergere la forza dell’amore cristiano. Dio si serve di tante strade e di infiniti strumenti per raggiungere il cuore delle persone. Certo, i poveri si avvicinano a noi anche perché stiamo distribuendo loro il cibo, ma ciò di cui hanno veramente bisogno va oltre il piatto caldo o il panino che offriamo. I poveri hanno bisogno delle nostre mani per essere risollevati, dei nostri cuori per sentire di nuovo il calore dell’affetto, della nostra presenza per superare la solitudine. Hanno bisogno di amore, semplicemente.

9. A volte basta poco per restituire speranza: basta fermarsi, sorridere,  ascoltare. Per un giorno lasciamo in disparte le statistiche; i poveri non sono numeri a cui appellarsi per vantare opere e progetti. I poveri sono persone a cui andare incontro: sono giovani e anziani soli da invitare a casa per condividere il pasto; uomini, donne e bambini che attendono una parola amica. I poveri ci salvano perché ci permettono di incontrare il volto di Gesù Cristo.

Agli occhi del mondo appare irragionevole pensare che la povertà e l’indigenza possano avere una forza salvifica; eppure, è quanto insegna l’Apostolo quando dice: «Non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili. Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio» (1 Cor 1,26-29). Con gli occhi umani non si riesce a vedere questa forza salvifica; con gli occhi della fede, invece, la si vede all’opera e la si sperimenta in prima persona. Nel cuore del Popolo di Dio in cammino pulsa questa forza salvifica che non esclude nessuno e tutti coinvolge in un reale pellegrinaggio di conversione per riconoscere i poveri e amarli.

10. Il Signore non abbandona chi lo cerca e quanti lo invocano; «non dimentica il grido dei poveri» (Sal 9,13), perché le sue orecchie sono attente alla loro voce. La speranza del povero sfida le varie condizioni di morte, perché egli sa di essere particolarmente amato da Dio e così vince sulla sofferenza e l’esclusione. La sua condizione di povertà non gli toglie la dignità che ha ricevuto dal Creatore; egli vive nella certezza che gli sarà restituita pienamente da Dio stesso, il quale non è indifferente alla sorte dei suoi figli più deboli, al contrario, vede i loro affanni e dolori e li prende nelle sue mani, e dà loro forza e coraggio (cfr Sal 10,14). La speranza del povero si fa forte della certezza di essere accolto dal Signore, di trovare in lui giustizia vera, di essere rafforzato nel cuore per continuare ad amare (cfr Sal 10,17).

La condizione che è posta ai discepoli del Signore Gesù, per essere coerenti evangelizzatori, è di seminare segni tangibili di speranza. A tutte le comunità cristiane e a quanti sentono l’esigenza di portare speranza e conforto ai poveri, chiedo di impegnarsi perché questa Giornata Mondiale possa rafforzare in tanti la volontà di collaborare fattivamente affinché nessuno si senta privo della vicinanza e della solidarietà. Ci accompagnino le parole del profeta che annuncia un futuro diverso: «Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia» (Ml 3,20).

Dal Vaticano, 13 giugno 2019

Memoria liturgica di S. Antonio di Padova

Francesco

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radici bibliche del razzismo? l’analisi del biblista Maggi

nella bibbia le radici profonde del razzismo?

la riflessione di Alberto Maggi

“Si trovano nella Bibbia le radici profonde del razzismo, pianta venefica che intossica gli uomini generando persone che, chiuse nel proprio angusto confine mentale, si sentono minacciate da tutto ciò che è più ampio, diverso

 Costoro ritengono di essere superiori nei confronti di chi non appartiene al loro mondo, alla loro cultura, mentre in realtà sono razzisti proprio perché intimamente si sentono inferiori e per questo odiano l’altro, come espresso brillantemente in un aforisma da André Gide: “Meno è intelligente il bianco, più gli sembra che sia stupido il negro”

Le origini del razzismo si trovano nelle primissime pagine della Sacra Scrittura, nel Libro della Genesi, dove si narra di Noè e dei suoi tre figli Sem, Cam, e Iafet, e della loro discendenza che si sparpagliò per la terra, dividendosi in aree geografiche ben distinte. Di questi tre figli, due, Sem e Iafet furono benedetti dal padre, mentre il terzo, Cam, fu maledetto. L’autore sacro racconta che Noè, piantata una vigna, bevve il vino, si ubriacò e si spogliò, restando completamente nudo nella sua tenda. Cam, vista la nudità del genitore andò a raccontarlo ai suoi fratelli, che si premurarono di ricoprire il loro padre. Quando Noè smaltì la sbornia, saputo quanto Cam aveva fatto, irritato, ne maledì il figlio, Canaan, rendendolo per sempre schiavo dei suoi fratelli: “Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli” (Gen 9,18-27).

È evidente che l’autore non intendeva redarre una cronaca degli avvenimenti, né riportare un fatto storico, ma presentare in luce negativa i legittimi abitanti della terra di Canaan, che gli israeliti avevano occupato, sentendosi in questo legittimati dal volere divino. Eppure da questa fragile narrazione nacque la giustificazione della schiavitù e della segregazione razziale, dell’apartheid, tenacemente difesa proprio da confessioni cristiane di matrice evangelica riformata, per le quali tutto quel che è scritto nella Bibbia è indiscutibilmente Parola di Dio, e come tale eterna e immutabile. Ma senza una scala di gerarchia del valore dei testi sacri, e senza la distinzione tra quel che è l’intento teologico dell’autore, i generi letterari e l’ambiente culturale nel quale si è espresso, si rischia di attribuire a Dio ogni efferatezza compiuta dagli uomini. Sicché per secoli si è creduto che la Sacra Scrittura giustificasse la superiorità di alcune popolazioni sulle altre, per questo ritenute inferiori, e ciò fu sostenuto fino la fine degli anni ’80 in Sud Africa, per giustificare l’apartheid, che venne finalmente smantellata non tanto grazie ai politici ma ai teologi che hanno alla fine compreso la mancanza di un qualsiasi appiglio nei sacri testi. La Chiesa riformata olandese, la principale confessione sudafricana, arrivò a comprendere che la Bibbia non è un manuale politico, e pertanto non se ne possono dedurre modelli politici. E la segregazione razziale, fondata sui testi sacri, da credo indiscutibile si rivelò essere un’eresia teologica. Ma ormai il danno era stato fatto.

Ci si può chiedere come sia stato possibile tutto questo, come si sia potuto usare la Parola di Dio per causare sofferenza anziché alleviarla, uccidere anziché comunicare vita. La storia delle chiese è costellata da crimini perpetrati in nome di Dio, della sua volontà espressa nella Bibbia, basta solo pensare alle migliaia di  donne torturate e bruciate perché considerate streghe, poiché era scritto: “Non lascerai vivere colei che pratica la magia” (Es 22,17). Se si inorridisce nel veder come in passato si siano fatte soffrire tante persone in nome della presunta volontà di Dio, c’è da chiedersi se forse anche oggi, nella Chiesa, non s’impongano pesi impossibili da portare “perché c’è scritto nella Bibbia”.

La Sacra scrittura non va solo letta, ma interpretata, altrimenti la Parola, anziché trasmettere vita, rischia di comunicare solo morte “perché la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita” (2 Cor 3,6). Per questo Gesù ai suoi discepoli non si è limitato a leggere i testi sacri, così come erano, ma li interpretava (“E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò [lett. interpretò] loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui”, Lc 24,27). Gesù insegna che la Scrittura va interpretata con il medesimo Spirito che l’ha ispirata: l’amore incondizionato del Creatore per le sue creature (Lc 6,35). Quando ciò non avviene il testo resta come nascosto (“quel medesimo velo rimane, non rimosso, quando si legge l’Antico Testamento, perché è in Cristo che esso viene eliminato”, 2 Cor 3,14). Il Cristo è pertanto la chiave di spiegazione della Scrittura, e il criterio interpretativo offerto da Gesù è che tutto quel che concorre al bene, alla libertà, alla felicità dell’uomo viene da Dio, quel che limita o si oppone al bene dell’uomo in nessuna maniera ha origine divina. Per questo, con Gesù non trova alcuna giustificazione il razzismo, la segregazione, l’esclusione, le chiusure. Anche al suo tempo c’era lo slogan “prima noi!”, sbandierato da quelli che presumevano essere un popolo preferito, ma Gesù risponde con un “tutti insieme” (Mt 15,27). L’amore del Padre non si riversa sugli aventi diritto, i privilegiati, ma su chi ha bisogno, pagani compresi. E Gesù ha rischiato il linciaggio per testimoniare questo amore quando, nella sinagoga di Nazaret, ha ricordato come in occasione di una grande carestia l’azione del Signore non si rivolse al popolo eletto, ma sui pagani, perché lui guarda chi ha più bisogno e non chi vanta più diritti (Lc 4,25-27). Gesù ha dato la sua vita per gli “uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione” (Ap 5,9; 7,9). Il vangelo è un messaggio universale per tutta l’umanità. Quel che divide, separa, emargina non viene mai da Dio, perché come scrive Paolo, “Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti” (Col 3,10; Gal 3,28).
Questo amore universale fece fatica a essere compreso dai seguaci di Gesù; pensavano anch’essi di essere una casta eletta (“si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo”, At 11,47), e a malincuore dovettero costatare che “anche ai pagani Dio ha concesso che si convertano perché abbiano la vita!” (At 11,18). Anche l’ostinato Pietro, che resisteva tenacemente all’invito del Signore di accogliere i pagani, arroccandosi sulla separazione razziale (“Voi sapete che a un giudeo non è lecito aver contatti e recarsi da stranieri”), accolse finalmente Cornelio, centurione romano, con queste liberanti parole: “ma Dio mi ha mostrato che non si deve chiamare profano o impuro nessun uomo” (At 10,28). Pietro pensava di dover convertire i pagani, ma è stato un pagano che ha convertito lui, facendogli comprendere la buona notizia del suo Signore.

Pertanto, l’unica razza presente nei vangeli è quella delle vipere, serpenti velenosi, immagine delle pie persone, degli “scribi e farisei ipocriti” tanto devoti con Dio quanto disinteressati al bene degli uomini, ai quali va il severo rimprovero del Signore: “Serpenti, razza di vipere, come potrete sfuggire alla condanna della geènna?” (Mt 23,33).

L’AUTORE – Alberto Maggi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme. Fondatore del Centro Studi Biblici «G. Vannucci» a Montefano (Macerata), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere.
Maggi ha pubblicato diversi libri, tra cui: Chi non muore si rivede – Il mio viaggio di fede e allegria tra il dolore e la vitaRoba da preti; Nostra Signora degli eretici; Come leggere il Vangelo (e non perdere la fede)Parabole come pietreLa follia di Dio e Versetti pericolosi, L’ultima beatitudine – La morte come pienezza di vita, Di questi tempi Due in condotta.

Qui tutti gli articoli scritti da Alberto Maggi per ilLibraio.it.

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il commento al vangelo della domenica

i capelli del vostro capo sono tutti contati

 

non abbiate paura

 

il commento di E. Ronchi al vangelo della trentatreesima domenica del tempo ordinario  (novembre 2019):

In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». […]

Dov’è la buona notizia su Dio e sull’uomo in questo Vangelo di catastrofi, in questo balenare di spade e di pianeti che cadono? Se ascoltiamo con attenzione, ci accorgiamo però di un ritmo profondo: ad ogni immagine della fine si sovrappone il germoglio della speranza. Lc 21,9: quando sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, non è la fine; ai vv.16-17: sarete imprigionati, traditi, uccideranno alcuni, sarete odiati, ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto; e ancora ai vv.25-28: vi saranno segni nel sole, nella luna, nelle stelle, e sulla terra angoscia e paura: ma voi risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina. Ad ogni descrizione di dolore, segue un punto di rottura, dove tutto cambia, un tornante che apre l’orizzonte, la breccia della speranza: non vi spaventate, non è la fine; neanche un capello…; risollevatevi…. Al di là di profeti ingannatori, al di là di guerre e tradimenti, anche quando l’odio dovesse dilagare dovunque, ecco quella espressione struggente: Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto; raddoppiata da Matteo 10,30: i capelli del vostro capo sono tutti contati, non abbiate paura. Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra. Non c’è nessuna cosa che sia eterna. Ma l’uomo sì, è eterno. Si spegneranno le stelle prima che tu ti spenga. Saranno distrutte le pietre, ma tu ancora sarai al sicuro nel palmo della mano di Dio. Non resterà pietra su pietra delle nostre magnifiche costruzioni, ma l’uomo resterà, frammento su frammento, e nemmeno un capello andrà perduto; l’uomo resterà, nella sua interezza, dettaglio su dettaglio. Perché Dio come un innamorato ha cura di ogni dettaglio del suo amato. Ciò che deve restare scolpito nel cuore è l’ultima riga del Vangelo: risollevatevi, alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina. In piedi, a testa alta, occhi liberi e luminosi: così vede noi discepoli il Vangelo. Sollevate il capo, guardate oltre: la realtà non è solo questo che si vede, viene un Liberatore, esperto di vita. Il Signore che è «delle cose l’attesa e il gemito, che viene e vive nel cuore dell’uomo» (Turoldo), sta alla porta, è qui, con le mani impigliate nel folto della vita, porta luce nel cuore dell’universo, porta il dono del coraggio, che è la virtù degli inizi e del primo passo; porta il dono della pazienza, che è la virtù di vivere l’incompiuto in noi e nel mondo. Cadono molti punti di riferimento, nel mondo, ma si annunciano anche sentori di primavera. Questo mondo porta un altro mondo nel grembo. Ogni giorno c’è un mondo che muore, ma ogni giorno c’è anche un mondo che nasce.

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i lager di oggi e la morte della nostra umanità

dove muore l’umanità

di Francesca Mannocchi
in “L’Espresso” del 3 novembre 2019

 

Alla fine di aprile Naisa Saed Musa e suo figlio Abdallah sono scappati dal quartiere di Qasr Bin Gashir, a sud di Tripoli per fuggire dalle bombe di Haftar. La guerra era iniziata da poche settimane, e Naisa e Abdallah cercavano riparo. È una storia di strazio la loro, una storia in cui le parole d’ordine sono comuni a quelle di decine di altre vite di passaggio in Libia: guerra, fuga, morte, speranza di una vita migliore, e poi tortura, estorsione, prigionia. Durante il nostro primo incontro, lo scorso aprile, Naisa e il figlio avevano trovato riparo in un edificio nel quartiere di Garden City, in centro a Tripoli, gestito dalla Mezzaluna Rossa libica. Una scuola adibita a riparo per famiglie di migranti, per lo più sudanesi ed eritrei, scappati dai quartieri sotto assedio o evacuati dai centri di detenzione prossimi alla linea del fronte. Abdullah portava addosso i segni delle torture subite durante i mesi di detenzione in mano alle milizie a Sebha, mostrava i segni dei ferri ardenti che gli hanno marchiato la pelle mentre i miliziani ricattavano sua madre chiedendo soldi e sua madre piangeva, per la disperazione di essere bloccata in un paese in guerra dopo essere fuggita dal Sudan. In cerca di pace per sé e per l’unico figlio che le resta. C’era poco cibo nella scuola di Garden City, pochi aiuti, poca acqua. Ma c’era almeno un tetto. E dei bagni. Ma il riparo è durato poche settimane, perché la guerra produce conseguenze dirette e indirette e il proprietario dell’edificio ha privato la Libyan Red Crescent dell’utilizzo dell’edificio assecondando il malcontento dei cittadini libici convinti che i migranti privassero gli sfollati locali degli aiuti che toccavano a loro. Così, da allora, quelle famiglie messe alla porta vivono in strada. Qualcuno ha un materasso, qualcuno no. Qualcuno si ripara sotto il cavalcavia. Naisa e Abdullah oggi dormono lì, insieme a loro 14 famiglie, 15 bambini, alcuni nati da pochi mesi. Molte donne sole. Asaad al-Jafeer, lavora con la Libyan Red Crescent, aiutava le famiglie a Garden City. Cerca di aiutarli anche in strada. «È una situazione insostenibile. Gli uomini rischiano di essere rapiti, e costretti a combattere dalle milizie. Le donne, rischiano di essere abusate sessualmente», dice mostrando i materassi sporchi a terra, e i secchi di acqua sporca anch’essa – che sostituisce un bagno che non c’è. Per usare un bagno le donne e i bambini vanno in moschea. Almeno per lavarsi, una volta ogni tanto. Asaad al-Jafeer dice di sollecitare da mesi le Nazioni Unite, ma di non ricevere risposta. «Le responsabilità delle Nazioni Unite sono enormi in Libia. Li vedi in televisione, gridare che non vogliono più vedere persone morire in mare. Mi chiedo quale sia la differenza tra vederli morire in mare e lasciarli morire in strada. Si riempiono la bocca di parole come “diritti umani”. Qui ci sono gli umani, i diritti dove sono?». L’ufficio di registrazione dell’Unhcr è proprio dall’altra parte della strada. Le famiglie hanno deciso accamparsi lì per essere più vicine alla sede dell’Agenzia delle Nazioni Unite, e bussare e provare a chiedere informazioni. A chiedere a che punto sono le pratiche, chiedere di essere aiutate. A chiedere di essere evacuati, portati via da un paese in guerra. Perché in Libia si combatte e di notte, dalla strada, si sentono e si vedono i bombardamenti dei quartieri vicini. Così ogni giorno le donne si mettono in fila di fronte alla sede di Unhcr, mostrano i loro fogli di registrazione, ma tornano sempre a mani vuote sui loro materassi sporchi. Vicino ai secchi d’acqua con il logo dell’Oim. Con la paura di morire sotto una bomba. Perché, dice Asaad, «a Tripoli ormai non c’è un posto dove non potrebbe avvenire un bombardamento. Queste persone hanno deciso di vivere qui perché c’è una base militare e pensano così di proteggersi dalle milizie ma le basi militari sono le prime a essere bombardate da Haftar, pensa cosa significhi essere una donna sola con un marito rapito e una bambina di sei mesi che da quando è nata dorme in strada».
Naima, 25 anni, era a Qasr bin Gashir quando è iniziata la guerra, sua figlia era nata da sei giorni, suo marito rapito dalle milizie per la seconda volta. Il quartiere era immediatamente diventato un teatro di scontro tra milizie contrapposte, proprio il centro di detenzione di Qasr bin Gashir era stato assaltato da milizie che hanno ferito alcuni dei migranti detenuti. È stato solo il primo degli attacchi che hanno colpito i centri dove vengono imprigionati i migranti. Naima viveva nella stessa area, è scappata via, sola con una neonata. Di suo marito da allora ha perso le tracce. La prima volta che le milizie l’hanno rapito è stato portato a Sebha e costretto a lavorare per un gruppo armato finché la sua famiglia in Sudan non ha trovato il modo di pagare un riscatto sufficiente per farlo liberare. Non ha mai voluto parlare delle violenze subite, quando l’hanno liberato, non ha mai più camminato bene con la gamba sinistra. E delle cicatrici sulla schiena non ha mai dato spiegazione a sua moglie. Oggi, dopo il secondo rapimento, Naima è sola e vive come le altre famiglie in mezzo alla strada, con sua figlia che ora ha sei mesi: «sono spaventata perché so che non c’è un posto dove possiamo scappare. Vado ogni giorno alla sede di Unhcr e chiedo aiuto, e così pure alla polizia libica e così pure alla sede di Oim. Voglio sapere se mio marito sia vivo, se sia finito in un centro di detenzione. Sono arrivata al punto di sperare che sia in prigione ma vivo, piuttosto che temere che sia stato costretto a combattere e sia morto e io potrei non saperlo mai». Poi culla la sua bambina, Naima, e guarda una donna, incinta di nove mesi, sola anche lei e che come lei vive sotto un ponte, e dice: «Piangiamo continuamente. Sappiamo che nessuno ci aiuterà, come nessuno ha aiutato i sopravvissuti di Tajoura». Il due luglio scorso alle 11 e 30 di sera, un bombardamento ha colpito il centro di detenzione di Tajoura, a Tripoli. Dentro c’erano 600 persone. Il bilancio di quell’attacco fu drammatico, 53 migranti morti, almeno 130 feriti. Mohammed era lì quella notte, è scappato dal Ghana un anno fa, due tentativi di attraversare il mare, per due volte intercettato dalla Guardia costiera libica e riportato indietro. È sopravvissuto al bombardamento del centro di detenzione, è scappato correndo sopra i cadaveri di altri sfortunati come lui, si è nascosto per evitare che le milizie lo forzassero a combattere e un mese fa ha provato ad attraversare il mare di nuovo, ma la Guardia costiera libica lo ha catturato e portato indietro. Oggi si trova nel centro di detenzione di Trik al Sikka, a Tripoli, uno dei centri nominalmente gestiti dal ministero dell’Interno libico che ha un ufficio preposto alla gestione delle facility, il Dcim, Department anti illegal migration. Benvenuti all’inferno gridano uomini e bambini al di là di due cancelli di grate, Benvenuti all’inferno. Gridano, implorano, pregano di essere portati via. Perché il centro è luogo di abuso. Perché – dicono – c’è una stanza chiusa a chiave col lucchetto, dove vengono tenuti quelli che i giornalisti e le organizzazioni umanitarie non devono vedere. Vediamo la stanza, vediamo i lucchetti. Chiediamo – invano – che qualcuno li apra. Mohammed ha vissuto abusi per mesi, sia nei centri di detenzione legali sia in quelli illegali, al confine sud, nel deserto e sulla zona costiera. Li ha subiti anche a Tajoura, dove – dice – «i miliziani potevano entrare indisturbati nonostante fosse un edificio sotto il controllo del governo. I guardiani sono minacciati o in accordo con le milizie, e molte volte i guardiani di notte aprivano le porte ai miliziani che portavano via indisturbati gruppi di migranti per ridurli a schiavi, o per minacciare le loro famiglie in cambio di denaro». Oggi Mohammed indossa ancora i vestiti della notte in cui è stato catturato dalla Guardia costiera, sui suoi abiti ci sono i segni del sale. Sono passate tre settimane, ha perso le scarpe in mare e da allora è scalzo. Nel centro di detenzione di Trik al Sikka ci sono circa 300 persone, la quasi totalità nella sezione maschile, che è una gabbia, di fatto, ci sono reti ovunque, anche nell’area esterna. Ci sono sei bagni per tutti. Tre sono intasati. A terra uomini malati che non ricevono cure, un ragazzo invalido che non riesce a muovere nessuna delle due gambe. In fondo all’unica stanza qualcuno prega, gli altri stesi su materassi luridi consumano il passare del tempo e gridano quando si sente un rimbombo da lontano. Sono bombe, perché a sette chilometri c’è la linea del fronte. Mohammed ha gli occhi di una persona che ha visto la morte, due volte, ed è vivo, solo apparentemente. Ha gli occhi di un reduce, e un filo di forza che è l’istinto di sopravvivenza, il ricordo di sua moglie e dei suoi figli. «L’ultima volta che ci siamo parlati è stata la notte che ho provato ad imbarcarmi», racconta, «poi quando mi hanno portato qui i soldati mi hanno portato via i pochi soldi che mi erano rimasti e il telefono. Mia moglie non sa dove sia, né se io sia vivo o morto».

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il commento al vangelo della domenica

vita eterna

non durata ma intensità senza fine


Vita eterna, non durata ma intensità senza fine
Ermes Ronchi commenta il vangelo della trentaduesima domenica del tempo ordinario (10 novembre 2019):

[…] Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. […]

I sadducei si cimentano in un apologo paradossale, quello di una donna sette volte vedova e mai madre, per mettere alla berlina la fede nella risurrezione. Lo sappiamo, non è facile credere nella vita eterna. Forse perché la immaginiamo come durata anziché come intensità. Tutti conosciamo la meraviglia della prima volta: la prima volta che abbiamo scoperto, gustato, visto, amato… poi ci si abitua. L’eternità è non abituarsi, è il miracolo della prima volta che si ripete sempre. La piccola eternità in cui i sadducei credono è la sopravvivenza del patrimonio genetico della famiglia, così importante da giustificare il passaggio di quella donna di mano in mano, come un oggetto: «si prenda la vedova… Allora la prese il secondo, e poi il terzo, e così tutti e sette». In una ripetitività che ha qualcosa di macabro. Neppure sfiorati da un brivido di amore, riducono la carne dolorante e luminosa, che è icona di Dio, a una cosa da adoperare per i propri fini. «Gesù rivela che non una modesta eternità biologica è inscritta nell’uomo ma l’eternità stessa di Dio» (M. Marcolini). Che cosa significa infatti la «vita eterna» se non la stessa «vita dell’Eterno»? Ed ecco: «poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio», vivono cioè la sua vita. Alla domanda banale dei sadducei (di quale dei sette fratelli sarà moglie quella donna?) Gesù contrappone un intero mondo nuovo: quelli che risorgono non prendono né moglie né marito. Gesù non dice che finiranno gli affetti e il lavoro gioioso del cuore. Anzi, l’unica cosa che rimane per sempre, ciò che rimane quando non rimane più nulla, è l’amore (1 Cor 13,8). I risorti non prendono moglie o marito, e tuttavia vivono la gioia, umanissima e immortale, di dare e ricevere amore: su questo si fonda la felicità di questa e di ogni vita. Perché amare è la pienezza dell’uomo e di Dio. I risorti saranno come angeli. Come le creature evanescenti, incorporee e asessuate del nostro immaginario? O non piuttosto, biblicamente, annuncio di Dio (Gabriele), forza di Dio (Michele), medicina di Dio (Raffaele)? Occhi che vedono Dio faccia a faccia (Mt 18,10)? Il Signore è Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Dio non è Dio di morti, ma di vivi. In questa preposizione «di», ripetuta cinque volte, in questa sillaba breve come un respiro, è inscritto il nodo indissolubile tra noi e Dio. Così totale è il legame reciproco che Gesù non può pronunciare il nome di Dio senza pronunciare anche quello di coloro che Egli ama. Il Dio che inonda di vita anche le vie della morte ha così bisogno dei suoi figli da ritenerli parte fondamentale del suo nome, di se stesso: «sei un Dio che vivi di noi» (Turoldo).

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il rischio di banalizzare il male quotidiano del razzismo

il razzismo quotidiano

se è normale dire “negro”

di Luigi Manconi

Una delle più futili sciocchezze che si sentono in giro si manifesta nella falsa ingenuità della domanda: ma perché non posso chiamare negro un negro?

L’ ultimo a esercitarsi in questo classico dilemma della semantica è stato Luca Castellini, capo riconosciuto degli ultrà del Verona. Ma è stato preceduto da numerosi giornalisti e intellettuali della destra che trovano in quell’interrogativo il gusto civettuolo di una presunzione di anticonformismo (d’altra parte, viviamo in tempi in cui a dirsi fuori dal coro sono i più gregari tra i coristi). I più sofisticati, si fa per dire, tra quei giornalisti e quegli intellettuali, precisano pomposamente: «Li abbiamo sentiti, nei film americani, i negri chiamarsi l’un l’altro nigger . E poi, al gay pride, si appellano tra loro checca o finocchia».

Ma, santa pazienza, come non comprendere che all’interno di una comunità, piccola o grande, quelle denominazioni esprimono reciproco affetto e confidenza condivisa, mentre — se utilizzate all’esterno — segnalano ostilità e disprezzo?

D’altra parte, sono i diretti interessati a patirne l’uso malevolo e a chiederne l’interdizione. Tutte le lotte per l’emancipazione hanno avuto come preliminare posta in gioco il diritto a nominarsi, a darsi il proprio nome e a decidere come essere chiamati dagli altri. È un processo lungo, e dunque, non stupisce nemmeno che — come ancora sottolineano gli intellettuali di destra, per così dire sofisticati — nelle traduzioni dei libri americani di 70 anni fa compaia il termine negro (il racconto autobiografico Ragazzo Negro di Richard Wright e il ricorso allo stesso termine nella traduzione italiana de Il Buio oltre la Siepe ).

Le culture e i linguaggi cambiano e maturano e diventano, o dovrebbero diventare, più rispettosi delle minoranze e anche, sì, delle loro suscettibilità. Non c’entra nulla il politically correct :

c’entra quel minimo di intelligenza e di civiltà che può agevolare la convivenza e disinnescare i conflitti tra diversi.

Ma il nostro ultrà-semiologo ha altro da dire. Intanto, sulla controversa questione dello ius soli e dello ius culturae (che ovviamente qui non c’entra, perché il giocatore del Brescia è figlio adottivo di genitori italiani): «Balotelli ha la cittadinanza italiana, ma non è del tutto italiano». E poi, l’affondo: «Mi viene a prendere la “Commissione Segre”, perché chiamo uno negro? Mi vengono a suonare il campanello?».

Attenzione: non sentite qui l’eco fedele di gran parte dei commenti critici nei confronti dell’istituzione di quell’organismo contro l’antisemitismo e il razzismo, promosso dalla senatrice a vita Liliana Segre? Non è lo stesso ragionamento, proprio lo stesso, di Giorgia Meloni e di Matteo Salvini e di molti esponenti di Forza Italia, quando denunciano la “Commissione Segre”, quasi fosse un tribunale liberticida contro le idee irregolari? Gli oppositori hanno volutamente confuso le finalità di un organismo che ha funzioni di documentazione, ricerca, testimonianza e discussione su quei fenomeni con il ruolo di una commissione d’inchiesta che ha, invece, funzioni inquirenti e che dispone degli stessi poteri della magistratura ordinaria. Ma questo episodio, in apparenza poco rilevante, la dice lunga sulla questione del razzismo. Va chiarito subito, e una volta per tutte, che l’Italia non è un Paese razzista. Certo, cresce il numero dei razzisti e degli atti di razzismo, ma ciò non è in alcun modo sufficiente perché si faccia ricorso a quell’etichetta. E già quella domanda (l’Italia è un paese razzista? Macerata è una città razzista?), oltre a essere scema, è profondamente errata e contiene una qualche tonalità razzistica: perché tende ad attribuire a un’intera comunità nazionale o locale i comportamenti di un gruppo, o anche di molti gruppi, o di minoranze magari aggressive o atteggiamenti di connivenza da parte di alcuni settori di popolazione.

Insomma, è il cortocircuito tra i discorsi irresponsabili di una quota consistente della classe politica e il senso comune di una collettività, sottoposta a continui stress e percorsa da angosce profonde, a costituire la vera insidia. E a rappresentare un incentivo per una tensione quotidiana che si riversa su chi è, allo stesso tempo, il più prossimo e il più diverso. Questo è ciò che accade all’interno delle fasce più deboli della società, dove, più e prima che il razzismo — e sarebbe un errore chiamarlo così — si diffonde la xenofobia: alla lettera la paura, la diffidenza, l’ostilità verso lo sconosciuto e l’ignoto.

È questo che produce un’intolleranza minuta e ordinaria, fatta di soperchierie che colpiscono nella stessa misura stranieri emarginati e italiani vulnerabili (l’episodio di Chioggia è solo l’ultimo di una lunga serie).

E se tutto questo non deve ancora indurci a definire razzista l’Italia, sarebbe assai pernicioso sottovalutarlo. E l’attenzione va indirizzata innanzitutto su ciò che ne rappresenta la radice culturale e di senso comune. Ascoltiamo ancora l’ultrà-semiologo Castellini: «Prendiamo in giro il giocatore pelato, quello con i capelli lunghi, il giocatore meridionale e il giocatore di colore, ma non lo facciamo con istinti politici o razzisti». Qui, non abbiamo solo l’eco, bensì una vera e propria parafrasi di quanto detto qualche settimana fa da Salvini: «Se uno odia il prossimo per il colore della pelle, per la squadra di calcio, per la religione….se uno dice crepa, è grave a prescindere, sia che lo dice a un cristiano, a un ebreo, a un buddhista, ad un valdese, a un protestante, ad un Hare Krishna, a un islamico. Non c’è l’insulto più grave, e l’insulto meno grave. Se uno aggredisce una persona, può aggredire un uomo, una donna, un bianco, un nero, un giallo, un fucsia, è un delinquente». In queste parole c’è — nitidissimo — una sorta di Manifesto della Banalizzazione della Storia. Qui tutto è uguale a tutto: l’antisemitismo e l’odio per la squadra avversaria. Non esistono le grandi tragedie storiche, e non esistono vittime e carnefici, dal momento che il tifoso ultrà di una squadra può essere, a distanza di poche settimane, e a campi invertiti, l’aggressore o l’aggredito. Il fine di una simile operazione è l’azzeramento delle responsabilità dei regimi e delle ideologie, ma anche dei despoti e dei dittatori (non troppo diversi, per l’ostilità che suscitano, da arbitri incompetenti o corrotti): e l’appiattimento dei drammi individuali e collettivi, mortificati a tenzoni e giochi di ruolo. Ma quando la storia viene ridotta a un presente indistinto, amorale e fantasmatico, è la comunità degli uomini che inizia ad andare in rovina.

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il commento al vangelo della domenica

 

📖 “Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”

il commento di E. Bianchi al vangelo della trentunesima domenica del tempo ordinario (3 novembre 2019):

Lc 19,1-10

In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. 1Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

Oggi il vangelo ci narra l’incontro tra Gesù e Zaccheo. È un testo che raccoglie in sé nel frammento numerosi fili che attraversano la trama complessiva del vangelo secondo Luca. Gesù è sulla via che dalla Galilea sale verso Gerusalemme, la meta del viaggio da lui intrapreso con grande decisione (cf. Lc 9,51). Una tappa di questo viaggio è la città di Gerico, zona di confine della provincia romana della Giudea. Mentre Gesù sta attraversando Gerico, entra in scena un altro personaggio. Egli è “un uomo”, questa la sua qualità primaria: l’evangelista la evidenzia subito, per chiarire ciò che il protagonista principale del racconto, Gesù, vede in lui. Gesù sa andare oltre l’opinione comune, è capace di sentire in grande, di vedere in profondità: vede un uomo dove gli altri vedono solo un delinquente, coglie in ogni suo interlocutore la condizione di essere umano, senza alcuna prevenzione. Il suo nome è Zakkaj, che significa “puro, innocente”: ironia della sorte oppure un altro particolare che ci dice tra le righe ciò che solo Gesù sa vedere in lui? Quanto al suo mestiere, non è solo un pubblicano, ma un “capo dei pubblicani”, l’emblema per eccellenza del pubblico peccatore, arricchitosi grazie a un’ingiusta condotta.

Zaccheo è consapevole di essere peccatore, di non avere meriti da vantare. Non può affermare, come un altro ricco: “Ho osservato i comandamenti fin dalla giovinezza” (cf. Lc 18,21). Umiliato da questa condizione di disprezzato da tutti, ha nel cuore un grande desiderio di conoscere il profeta e maestro Gesù, nella speranza che l’incontro con lui possa cambiare qualcosa nella sua vita. Lo mostra il suo comportamento: “Cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura”. Anche noi, come lui, andiamo a Gesù e lo cerchiamo non in un’inesistente perfezione, in uno splendore candido e luccicante, ma con i nostri propri limiti, le nostre particolarissime tare e oscurità. O accettiamo di andarci in questo modo, oppure, mentre sogniamo di farci belli per accoglierlo, la vita ci scorre alle spalle senza che ce ne rendiamo conto e così manchiamo inesorabilmente l’ora decisiva dell’incontro con il Signore!

Certo, occorrono desiderio, passione per Gesù, in modo da assumere con intelligenza questi limiti e poter portare anche quelli a lui. Tale passione traspare dal comportamento di Zaccheo: “Corse avanti precedendo Gesù e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomoro, perché stava per passare di là”. Quest’uomo passa avanti a Gesù: è un unicum nei vangeli, dove il discepolo sta sempre dietro a Gesù (cf. Lc 7,38; 9,23; 14,27), alla sua sequela. Tale gesto apparentemente sfrontato narra in modo icastico la verità di una parola paradossale di Gesù: “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio” (Mt 21,31). Per raggiungere il suo scopo, inoltre, Zaccheo non esita a rendersi ridicolo agli occhi altrui. Si immagini la scena: un uomo noto, che ha un certo potere, il quale si arrampica su un albero… Ed ecco un improvviso ribaltamento: “Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo, lo vide e gli parlò”. Zaccheo desidera vedere e scopre di essere visto da Gesù: in questo incrocio c’è tutto il senso della vita cristiana. Noi vogliamo vedere Gesù, ma è lui che ci vede, ci ama in anticipo, ci chiama e ci offre la vita in abbondanza. D’altra parte, se è vero che l’iniziativa è di Gesù ed è gratuita, si innesta però su una disponibilità dell’uomo, a cui spetta la responsabilità di predisporre tutto all’entrata di Gesù nella sua vita: se Zaccheo quel giorno non fosse salito sull’albero, per Gesù sarebbe rimasto un anonimo in mezzo alla folla!

Qui è necessario sostare pazientemente sulle parole di Gesù. Certo, nella realtà la scena deve essersi svolta con una fretta dettata dall’urgenza del momento. Ma nel narrare questo episodio Luca dosa sapientemente le parole, per permettere al lettore di ogni tempo di comprendere il valore paradigmatico di questo incontro: “Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo rimanere, dimorare a casa tua”.

“Zaccheo”: Gesù lo chiama con il suo nome proprio.
“Scendi”. È come se gli dicesse: “Torna a terra, aderisci alla terra: lo straordinario ti è servito per un momento, ma ora fa ritorno alla tua condizione quotidiana!”.
“Subito, in fretta”: non c’è tempo da perdere, l’occasione è da afferrare senza indugio!
“Oggi”: non ieri né domani. Parola chiave in Luca, dalla nascita di Gesù quando gli angeli annunciano ai pastori: “Oggi, nella città di David, è nato per voi un Salvatore” (Lc 2,11); all’inizio della sua attività pubblica, quando nella sinagoga di Nazaret pronuncia quella brevissima omelia: “Oggi questa Scrittura si compie nei vostri orecchi” (Lc 4,21); poi alcune altre volte, fino all’ora della croce, quando Gesù dice al “buon ladrone”: “Oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,43). Sempre noi incontriamo Gesù oggi!
“Devo, è necessario”: altra parola chiave (deî, che compare per ben 18 volte in questo vangelo, da Lc 2,49 fino a Lc 24,44). Esprime il modo in cui Gesù, nella sua piena libertà, va incontro alla necessitas umana e divina della passione, compiendo la volontà di salvezza di Dio per tutti gli uomini.
“Rimanere, dimorare” (non semplicemente “fermarmi”), come avviene per il Risorto con i discepoli di Emmuas (cf. Lc 24,29).
“A casa tua”: entrare nella casa di un altro significa condividere con lui l’intimità; nello specifico, essendo Zaccheo un peccatore pubblico, questo auto-invito di Gesù significa compromettersi in modo scandaloso con il suo peccato.

Esaminate nel loro insieme, queste parole di Gesù mostrano anche una grande delicatezza. Gesù non dice: “Scendi subito perché voglio convertirti”, oppure, come forse avrebbe fatto il Battista: “Convertiti, fai frutti degni di conversione (cf. Lc 3,8), poi scendi e vedremo il da farsi”. No, chiede a Zaccheo di essere suo ospite. Ovvero, si fa bisognoso, si “spoglia” per entrare in dialogo con lui, parla il suo linguaggio, quello di chi era abituato a dare banchetti e ad accogliere persone in casa propria per fare affari. E qui sta per compiere l’affare della sua vita!

E così siamo giunti non solo al centro del nostro testo, ma al cuore di una verità che, se ci crediamo davvero, può cambiare la nostra vita: non è la conversione che causa il perdono da parte di Dio, di Gesù, ma è il perdono che può suscitare la conversione! Si pensi alla parabola del Padre prodigo d’amore (cf. Lc 15,11-32): il figlio minore, trovandosi in difficoltà, si era preparato il discorso di circostanza, ma le sue parole gli muoiono in bocca quando vede il padre che, “mentre è ancora lontano, lo vede, è preso da viscerale compassione, gli corre incontro, gli si getta al collo e lo bacia” (cf. Lc 15,20). È in questo momento che è convertito, non in base a un suo programma di conversione! Con il suo comportamento Gesù rivela un volto di Dio che ci offre gratuitamente il suo perdono: se lo accogliamo, potremo anche convertirci, non viceversa!

Lo dimostra la reazione di Zaccheo, che “scende in fretta e lo accoglie pieno di gioia”, gioia che è un tratto caratteristico della vita del discepolo di Gesù (cf. Lc 6,23; 8,13, ecc.). Con questa annotazione il testo potrebbe concludersi: nel mistero del faccia a faccia tra Gesù e Zaccheo si compirà la salvezza per la vita di quest’uomo. Ma ecco che, come spesso è accaduto a Gesù, i benpensanti non sopportano la sua libertà e non tollerano che egli si rivolga di preferenza ai peccatori manifesti, narrando così il desiderio di Dio di “salvare tutti gli umani” (cf. 1Tm 2,4), a partire da quelli additati come “perduti” (cf. Lc 15,6.9.24.32). Più volte nel vangelo secondo Luca Gesù è disprezzato dagli uomini religiosi, che mormorano per il suo sedere a tavola con i peccatori (cf. Lc 5,30; 15,1-2). Nel nostro brano si registra addirittura una condanna generalizzata: “Tutti mormoravano: ‘È entrato in casa di un peccatore!’”. Resta sempre la possibilità di uno sguardo cattivo, che continua a vedere in Zaccheo solo il peccatore e in Gesù solo un falso maestro…

La prima reazione a queste voci di condanna è di Zaccheo, che sta in piedi, nella sua bassa statura, e parla con risolutezza. Gesù non ha detto nulla a Zaccheo sulla sua ingiusta condotta di capo dei pubblicani, ma la fiducia accordatagli da questo rabbi gli è sufficiente per comprendere che deve cambiare radicalmente. Zaccheo allora, restituito alla sua soggettività, parla rivolto a Gesù, che chiama “Signore” (grande confessione di fede!), senza curarsi dei falsi giusti che li accusano. Costoro peccano nel loro cuore e con il loro occhio cattivo; lui si impegna a compiere un gesto concreto che riguarda le sue ricchezze, e soprattutto riguarda gli altri, i destinatari del suo peccato: “Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto”, ben oltre il dovuto secondo la Legge. Il gesto di quest’uomo è all’insegna della giustizia e della condivisione: questo il modo di impiegare le ricchezze per un discepolo di Gesù.

A questo punto Gesù, rivolto al solo Zaccheo, fa un commento articolato in due momenti. Prima dice: “Oggi la salvezza è avvenuta in questa casa, perché anch’egli è figlio di Abramo”, cioè non solo un uomo, ma anche un membro della comunità di fede, un figlio suscitato dalle pietre del peccato (cf. Lc 3,8). E come si manifesta la salvezza, come avviene la storia di salvezza? Nella salvezza delle storie di coloro che Gesù incontra. Sì, l’accoglienza della salvezza è ormai direttamente accoglienza di Cristo stesso, è esperienza di chi incontra Gesù, mette in lui la sua fiducia e si lascia da lui salvare.

Lo esprime bene il commento finale: “Il Figlio dell’uomo” – ossia Gesù stesso che parla di sé in terza persona, prendendo una misteriosa distanza da sé – “è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”. È una parola che ne ricorda altre di Gesù: “Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori” (Lc 5,32); o la conclusione della parabola già citata: “Bisognava fare festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15,32). Di più, è un detto straordinario, che ricapitola e rilancia in avanti questo brano, illuminando la nostra vita quotidiana. Ci dice infatti che, come è entrata quel giorno nella vita e nella casa di Zaccheo, così la salvezza portata dal Signore Gesù può entrare ogni giorno, ogni oggi, nelle nostre vite. Il Signore ci chiede solo di aprire il nostro cuore all’annuncio che ha la forza di convertire le nostre vite: egli “è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”, è venuto a offrirci di vivere con lui, anzi di venire lui a dimorare in noi. Davvero ciascuno di noi dovrebbe confessare: “Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io” (1Tm 1,15)!

Il suo cercarci e il suo salvarci sono la nostra indicibile gioia, la fonte della nostra possibile conversione. Anche quando ci sentiamo perduti, mai dobbiamo disperare dell’amore misericordioso del Signore Gesù, più tenace di ogni nostro peccato, più profondo di ogni nostro abisso: con lui la salvezza è la possibilità di ricominciare a camminare veramente liberi sulle strade della vita. Ciò che è accaduto quel giorno a Zaccheo, può accadere anche a noi, oggi, grazie all’incontro con Gesù. Questo oggi è sempre di nuovo possibile: niente e nessuno può opporsi al perdono di Dio in Gesù Cristo, che ci consente di ricominciare ogni giorno.
fonte: Monastero di Bose

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