migranti – quante bugie su di loro per le nostre paure rispettabili ma indotte

invasione di migranti?

aumento della criminalità?

bugie dovute al nostro analfabetismo funzionale

gli immigrati sono il 7 per cento della popolazione, ma per gli italiani sono oltre il 25. Inoltre pensiamo che i clandestini siano più dei regolari, mentre sono meno del 10 per cento. E non c’è nessuna invasione

Davanti a uno specchio deformato, anche la più bella delle principesse si vede imbruttita. I bambini si spaventano se si specchiano alle giostre, nel baraccone degli specchi che ingigantiscono, rimpiccioliscono, deformano.

L’Italia, nel riflesso che ne hanno gli italiani, è una principessa imbruttita, arrabbiata, timorosa del futuro, sterilmente orfana o nostalgica di passato, anche perchè gli specchi non hanno memoria. Colpa degli italiani o degli specchi? Colpa dell’ignoranza diffusa o di un’informazione distorta? Colpa dei social che deformano ancora di più una realtà già approssimativa e deformata dai media? O colpa di entrambi, con il condimento di una classe politica che gli specchi sovente li deforma a proprio effimero vantaggio, anche perchè due o tre specchi deformati non fanno uno specchio vero?

In attesa di cambiare specchi o trovare responsabili, basta dare un’occhiata ad alcuni dati di realtà percepita e di realtà reale o realistica (si perdoni la reiterazione), per scoprire come gli specchi deformati siano diventati un riferimento quotidiano delle nostre emozioni/percezioni e quindi influenzino i nostri comportamenti e sempre più le nostre scelte, comprese quelle politiche. In fondo, anche il successo di Matteo Salvini si può spiegare così : lo specchio deformato diventa il riflesso delle parole in libertà, dei barriti xenofobi e sovranisti, della macchina del consenso.
Prendiamo ad esempio i temi più cari al Capitano spiaggiato: sicurezza e migrazioni. Per la stragrande maggioranza degli italiani (64 per cento) gli omicidi sono aumentati negli ultimi vent’anni, mentre invece sono calati in modo vertiginoso  

Prendiamo ad esempio i temi più cari al Capitano spiaggiato: sicurezza e migrazioni.

Per la stragrande maggioranza degli italiani (64 per cento) gli omicidi sono aumentati negli ultimi vent’anni, mentre invece sono calati in modo vertiginoso. Dati ufficiali dimostrano inoltre che omicidi di natura mafiosa, rapine e atti di criminalità sono sostanzialmente diminuiti. In Italia nel 2016 si sono registrati la metà degli omicidi che nella sola città di Chicago. La percezione dell’insicurezza è un fenomeno diffuso in tutte le società occidentali e in particolare in Europa con punte di «deformazione» maggiore proprio in Italia, ma tutti i dati dimostrano una fortissima inversione di tendenza negli ultimi decenni, per non parlare rispetto all’ultimo secolo.
Analoghe considerazioni valgono per i migranti. Gli immigrati sono il 7 per cento della popolazione, ma per gli italiani sono oltre il 25 per cento. Inoltre gli italiani pensano che i clandestini siano più dei regolari, mentre sono meno del 10 per cento. Lo stesso, tra parentesi, si può considerare per il tema dell’invasione che non c’è: gli sbarchi, anche prima della parentesi salviniana al governo, sono complessivamente diminuiti.
Un attento studioso della realtà italiana, Nando Pagnoncelli, presidente dell’Ipsos, racconta che per gli italiani la disoccupazione raggiunge punte del 50 per cento, mentre il tasso reale è del 12 per cento.

Gli italiani si vedono vecchi e impoveriti, quando il Paese resta comunque fra le prime dieci potenze industriali, oltre ad essere fra i più amati e ammirati al mondo per le sue bellezze, la sua arte, il suo stile di vita, la sua gastronomia, la sua umanità, nonostante i crescenti episodi di intolleranza e razzismo

Secondo Pagnoncelli una delle cause della distorsione della realtà è il cosiddetto «analfabetismo funzionale». La metà della popolazione adulta ha un livello d’istruzione molto basso, i laureati sono solo il 14 per cento

E’ possibile, secondo Pagnoncelli, che una delle cause della distorsione della realtà sia il cosiddetto « analfabetismo funzionale ». La metà della popolazione adulta ha un livello d’istruzione molto basso, i laureati sono solo il 14 per cento (media di gran lunga inferiore al resto d’Europa), e secondo diversi indicatori un terzo della popolazione non è completamente in grado di valutare testi scritti e raggiungere un livello di conoscenza e informazione tale da potersi formare proprie opinioni.

In questo quadro deformato e deformante, i media e la politica sembrano sguazzare, anzichè contribuire a invertire la tendenza. Non si tratta di fare pedagogia, ma almeno di informare in modo corretto, di mettere a confronto fatti e dati, di relazionare i nostri problemi a quelli degli altri. Finiremmo così per scoprire che in Italia in fin dei conti si vive meglio che altrove, nonostante innegabili problemi strutturali, economici, sociali. I media italiani, molto più che i media stranieri, tendono invece ad essere ansiogeni, a dare risalto a fatti di cronaca nera molto più che all’estero, a raccontare la politica quasi sempre con una terminologia che richiama scontri, vendette, sfide all’ultimo sangue e che si rispecchia nella realtà deformata e urlata dei talk show.

Nessuno spera che uno specchio magico ci dica chi è la più bella del reame, ma una più consapevole percezione di noi stessi aiterebbe a vederci come siamo, ogni mattina, come quando passiamo al trucco o alla rasatura.

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un nuovo sessantotto? forse sì, era l’ora, benvenuto!

è nato un nuovo Sessantotto

 

di Norma Rangeri

questo movimento, con la sua carica di utopia rigenerante, mette al centro della scena niente di meno che il cambiamento di un modello di sviluppo non più sopportabile per i catastrofici risultati, naturali e sociali

In modo travolgente e libero, un’onda giovanissima ha invaso pacificamente le piazze, in Italia e nel mondo, facendoci assistere a qualcosa di nuovo. Slogan tipo «abbiamo l’acqua alla gola» spiegano bene la sensazione da ultima spiaggia che viene denunciata perché il possibile infarto del Pianeta invia segnali pressanti di apocalittiche distruzioni.
E se siamo con l’acqua alla gola il tema merita di essere messo al centro della politica del futuro come l’unica alternativa.
La giovane Greta è il volto di una ragazzina svedese che è riuscita a dare un clamoroso fischio di avvio alla battaglia di un movimento che nasce nelle democrazie occidentali, come quello del ’68 del secolo scorso, con cui ha in comune l’estensione, i luoghi della partecipazione giovanile, la grande capacità di mobilitazione, la forza unificante degli slogan, l’idiosincrasia da parte degli adulti.
Le diversità invece sono generazionali (i teenagers oggi gli universitari ieri), politiche (non vengono presi di mira i governi reazionari ma tutti i governi incapaci di affrontare i temi ambientali), ideologiche (nel ’68 venivano acclamati i personaggi simbolo delle lotte di classe, oggi c’è una ragazzina con grandi capacità comunicative). E mediatiche. Anzi, forse questa è la differenza più forte con il passato. La potenza della rete mette insieme proposte, idee, iniziative in brevissimo tempo riescono a mobilitare milioni di persone.
I ragazzi che contestavano 50anni fa avevano contro i governi e la repressione, volevano scardinare il potere (baronale, politico, aziendale), i ragazzi che protestano adesso sanno invece che le controparti non possono restare indifferenti nei confronti di chi lotta per salvare il Pianeta. I veri nemici saranno dunque le grandi potenze mondiali, le multinazionali, incapaci di trovare alternative all’attuale modello di crescita economica.
Questi ragazzi sanno benissimo cosa significa fermare la corsa verso la distruzione dell’ambiente, sanno cosa dice la scienza e sono forse gli unici che prendono sul serio le Conferenze sul clima, gli studi internazionali sui rischi che corre il mondo in cui si troveranno a vivere nel 2050, quando nemmeno trentenni avranno davanti scenari assai più foschi dei nostri.
La straordinaria forza delle manifestazioni interpella un governo appena nato che dovrebbe saper corrispondere alla domanda politica delle giovani generazioni, le prime a essere penalizzate, sotto ogni aspetto, rispetto alla generazione precedente. Non sarà facile per l’arretratezza culturale del nostro paese, a cui ha contribuito anche una sinistra novecentesca che storicamente, nella battaglia per un altro modello di sviluppo, non ha mai affrontato la questione ecologica. Se ne sono accorti tutti quando è esplosa la tragedia dell’Ilva di Taranto, quando la contraddizione tra lavoro e salute ha messo in evidenza la ruggine della vecchia cassetta degli attrezzi.
A questo punto non importa da dove si comincia dal momento che c’è assai poco da conservare e molto da cambiare. Questo movimento, con la sua carica di utopia rigenerante, mette al centro della scena niente di meno che il cambiamento di un modello di sviluppo non più sopportabile per i catastrofici risultati, naturali e sociali. La battaglia in difesa della Terra presuppone nuovi modelli produttivi, nuovi comportamenti individuali e collettivi, nuovi protagonisti sociali, nuovi obiettivi. E prima lo capiamo meglio sarà.
C’è un altro aspetto, in questo caso di palese disinformazione, sugli scioperi per il clima, quando si imputa la dimenticanza dei popoli più poveri del Pianeta.
Come se non fosse abbastanza chiaro che i paesi saccheggiati dalle loro materie prime, spesso con la forza delle guerre, sono le prime vittime di un’economia rovinosa per territori e persone.
Questo impetuoso movimento arriva in un momento di passaggio anche per le sorti di una Unione europea che con le sue ricette economiche è riuscita a creare disuguaglianze crescenti e con la sua scarsa lungimiranza sulle politiche migratorie ha gonfiato le vele delle destre xenofobe. E induce alla speranza il fatto che già un’altra Europa è in prima fila, in un continente forte di una presenza storica di un movimento ecologista, sempre più popolare anche a livello elettorale

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per papa Francesco è più cristiano dire ‘prima gli ultimi’ che ‘prima i nostri’

il papa sui migranti

il motto dei veri cristiani è

«prima gli ultimi»


Il Messaggio del Santo Padre per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 2019, che si celebrerà il prossimo 29 settembre, sul tema “Non si tratta solo di migranti”

Foro Osservatore Romano

il testo del Messaggio del papa per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 2019, che si celebrerà in prossimo 29 settembre

Cari fratelli e sorelle,

la fede ci assicura che il Regno di Dio è già presente sulla terra in modo misterioso (cfr CONC. ECUM. VAT. II, Cost. Gaudium et spes, 39); tuttavia, anche ai nostri giorni, dobbiamo con dolore constatare che esso incontra ostacoli e forze contrarie. Conflitti violenti e vere e proprie guerre non cessano di lacerare l’umanità; ingiustizie e discriminazioni si susseguono; si stenta a superare gli squilibri economici e sociali, su scala locale o globale. E a fare le spese di tutto questo sono soprattutto i più poveri e svantaggiati.

Le società economicamente più avanzate sviluppano al proprio interno la tendenza a un accentuato individualismo che, unito alla mentalità utilitaristica e moltiplicato dalla rete mediatica, produce la “globalizzazione dell’indifferenza”. In questo scenario, i migranti, i rifugiati, gli sfollati e le vittime della tratta sono diventati emblema dell’esclusione perché, oltre ai disagi che la loro condizione di per sé comporta, sono spesso caricati di un giudizio negativo che li considera come causa dei mali sociali. L’atteggiamento nei loro confronti rappresenta un campanello di allarme che avvisa del declino morale a cui si va incontro se si continua a concedere terreno alla cultura dello scarto. Infatti, su questa via, ogni soggetto che non rientra nei canoni del benessere fisico, psichico e sociale diventa a rischio di emarginazione e di esclusione.

Per questo, la presenza dei migranti e dei rifugiati – come, in generale, delle persone vulnerabili – rappresenta oggi un invito a recuperare alcune dimensioni essenziali della nostra esistenza cristiana e della nostra umanità, che rischiano di assopirsi in un tenore di vita ricco di comodità. Ecco perché “non si tratta solo di migranti”, vale a dire: interessandoci di loro ci interessiamo anche di noi, di tutti; prendendoci cura di loro, cresciamo tutti; ascoltando loro, diamo voce anche a quella parte di noi che forse teniamo nascosta perché oggi non è ben vista.

«Coraggio, sono io, non abbiate paura!» (Mt 14,27). Non si tratta solo di migranti: si tratta anche delle nostre paure. Le cattiverie e le brutture del nostro tempo accrescono «il nostro timore verso gli “altri”, gli sconosciuti, gli emarginati, i forestieri […]. E questo si nota particolarmente oggi, di fronte all’arrivo di migranti e rifugiati che bussano alla nostra porta in cerca di protezione, di sicurezza e di un futuro migliore. È vero, il timore è legittimo, anche perché manca la preparazione a questo incontro» (Omelia, Sacrofano, 15 febbraio 2019). Il problema non è il fatto di avere dubbi e timori. Il problema è quando questi condizionano il nostro modo di pensare e di agire al punto da renderci intolleranti, chiusi, forse anche – senza accorgercene – razzisti. E così la paura ci priva del desiderio e della capacità di incontrare l’altro, la persona diversa da me; mi priva di un’occasione di incontro col Signore (cfr Omelia nella Messa per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, 14 gennaio 2018).

«Se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani?» (Mt 5,46). Non si tratta solo di migranti: si tratta della carità. Attraverso le opere di carità dimostriamo la nostra fede (cfr Gc 2,18). E la carità più alta è quella che si esercita verso chi non è in grado di ricambiare e forse nemmeno di ringraziare. «Ciò che è in gioco è il volto che vogliamo darci come società e il valore di ogni vita. […] Il progresso dei nostri popoli […] dipende soprattutto dalla capacità di lasciarsi smuovere e commuovere da chi bussa alla porta e col suo sguardo scredita ed esautora tutti i falsi idoli che ipotecano e schiavizzano la vita; idoli che promettono una felicità illusoria ed effimera, costruita al margine della realtà e della sofferenza degli altri» (Discorso presso la Caritas Diocesana di Rabat, 30 marzo 2019).

«Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione» (Lc 10,33). Non si tratta solo di migranti: si tratta della nostra umanità. Ciò che spinge quel Samaritano – uno straniero rispetto ai giudei – a fermarsi è la compassione, un sentimento che non si spiega solo a livello razionale. La compassione tocca le corde più sensibili della nostra umanità, provocando un’impellente spinta a “farsi prossimo” di chi vediamo in difficoltà. Come Gesù stesso ci insegna (cfr Mt 9,35-36; 14,13-14; 15,32-37), avere compassione significa riconoscere la sofferenza dell’altro e passare subito all’azione per lenire, curare e salvare. Avere compassione significa dare spazio alla tenerezza, che invece la società odierna tante volte ci chiede di reprimere. «Aprirsi agli altri non impoverisce, ma arricchisce, perché aiuta ad essere più umani: a riconoscersi parte attiva di un insieme più grande e a interpretare la vita come un dono per gli altri; a vedere come traguardo non i propri interessi, ma il bene dell’umanità» (Discorso nella Moschea “Heydar Aliyev”di Baku, Azerbaijan, 2 ottobre 2016).

«Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli» (Mt 18,10). Non si tratta solo di migranti: si tratta di non escludere nessuno. Il mondo odierno è ogni giorno più elitista e crudele con gli esclusi. I Paesi in via di sviluppo continuano ad essere depauperati delle loro migliori risorse naturali e umane a beneficio di pochi mercati privilegiati. Le guerre interessano solo alcune regioni del mondo, ma le armi per farle vengono prodotte e vendute in altre regioni, le quali poi non vogliono farsi carico dei rifugiati prodotti da tali conflitti. Chi ne fa le spese sono sempre i piccoli, i poveri, i più vulnerabili, ai quali si impedisce di sedersi a tavola e si lasciano le “briciole” del banchetto (cfr Lc 16,19-21). «La Chiesa “in uscita” […] sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 24). Lo sviluppo esclusivista rende i ricchi più ricchi e i poveri più poveri. Lo sviluppo vero è quello che si propone di includere tutti gli uomini e le donne del mondo, promuovendo la loro crescita integrale, e si preoccupa anche delle generazioni future.

«Chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (Mc 10,43-44). Non si tratta solo di migranti: si tratta di mettere gli ultimi al primo posto. Gesù Cristo ci chiede di non cedere alla logica del mondo, che giustifica la prevaricazione sugli altri per il mio tornaconto personale o quello del mio gruppo: prima io e poi gli altri! Invece il vero motto del cristiano è “prima gli ultimi!”. «Uno spirito individualista è terreno fertile per il maturare di quel senso di indifferenza verso il prossimo, che porta a trattarlo come mero oggetto di compravendita, che spinge a disinteressarsi dell’umanità degli altri e finisce per rendere le persone pavide e ciniche. Non sono forse questi i sentimenti che spesso abbiamo di fronte ai poveri, agli emarginati, agli ultimi della società? E quanti ultimi abbiamo nelle nostre società! Tra questi, penso soprattutto ai migranti, con il loro carico di difficoltà e sofferenze, che affrontano ogni giorno nella ricerca, talvolta disperata, di un luogo ove vivere in pace e con dignità» (Discorso al Corpo Diplomatico, 11 gennaio 2016). Nella logica del Vangelo gli ultimi vengono prima, e noi dobbiamo metterci a loro servizio.

«Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Non si tratta solo di migranti: si tratta di tutta la persona, di tutte le persone. In questa affermazione di Gesù troviamo il cuore della sua missione: far sì che tutti ricevano il dono della vita in pienezza, secondo la volontà del Padre. In ogni attività politica, in ogni programma, in ogni azione pastorale dobbiamo sempre mettere al centro la persona, nelle sue molteplici dimensioni, compresa quella spirituale. E questo vale per tutte le persone, alle quali va riconosciuta la fondamentale uguaglianza. Pertanto, «lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo» (S. PAOLO VI, Enc. Populorum progressio, 14).

«Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio» (Ef 2,19). Non si tratta solo di migranti: si tratta di costruire la città di Dio e dell’uomo. In questa nostra epoca, chiamata anche l’era delle migrazioni, sono molte le persone innocenti che cadono vittime del “grande inganno” dello sviluppo tecnologico e consumistico senza limiti (cfr Enc. Laudato si’, 34). E così si mettono in viaggio verso un “paradiso” che inesorabilmente tradisce le loro aspettative. La loro presenza, a volte scomoda, contribuisce a sfatare i miti di un progresso riservato a pochi, ma costruito sullo sfruttamento di molti. «Si tratta, allora, di vedere noi per primi e di aiutare gli altri a vedere nel migrante e nel rifugiato non solo un problema da affrontare, ma un fratello e una sorella da accogliere, rispettare e amare, un’occasione che la Provvidenza ci offre per contribuire alla costruzione di una società più giusta, una democrazia più compiuta, un Paese più solidale, un mondo più fraterno e una comunità cristiana più aperta, secondo il Vangelo» (Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2014).

Cari fratelli e sorelle, la risposta alla sfida posta dalle migrazioni contemporanee si può riassumere in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Ma questi verbi non valgono solo per i migranti e i rifugiati. Essi esprimono la missione della Chiesa verso tutti gli abitanti delle periferie esistenziali, che devono essere accolti, protetti, promossi e integrati. Se mettiamo in pratica questi verbi, contribuiamo a costruire la città di Dio e dell’uomo, promuoviamo lo sviluppo umano integrale di tutte le persone e aiutiamo anche la comunità mondiale ad avvicinarsi agli obiettivi di sviluppo sostenibile che si è data e che, altrimenti, saranno difficilmente raggiunti.

Dunque, non è in gioco solo la causa dei migranti, non è solo di loro che si tratta, ma di tutti noi, del presente e del futuro della famiglia umana. I migranti, e specialmente quelli più vulnerabili, ci aiutano a leggere i “segni dei tempi”. Attraverso di loro il Signore ci chiama a una conversione, a liberarci dagli esclusivismi, dall’indifferenza e dalla cultura dello scarto. Attraverso di loro il Signore ci invita a riappropriarci della nostra vita cristiana nella sua interezza e a contribuire, ciascuno secondo la propria vocazione, alla costruzione di un mondo sempre più rispondente al progetto di Dio.

È questo l’auspicio che accompagno con la preghiera invocando, per intercessione della Vergine Maria, Madonna della Strada, abbondanti benedizioni su tutti i migranti e i rifugiati del mondo e su coloro che si fanno loro compagni di viaggio.

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il commento al vangelo della domenica


📖 Il ricco e il povero Lazzaro 

il commento di E. Bianchi al vangelo della ventiseiesima domenica del tempo ordinario (29 settembre 2019):

Lc 16,19-31

In quel tempo, Gesù disse ai farisei:”C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. 20Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: «Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma». Ma Abramo rispose: «Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi». E quello replicò: «Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento». Ma Abramo rispose: «Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro». E lui replicò: «No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno». Abramo rispose: «Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti»».

Dopo la parabola dell’economo ingiusto ascoltata domenica scorsa (cf. Lc 16,1-8), oggi ci viene proposta una seconda parabola di Gesù sull’uso della ricchezza, contenuta sempre nel capitolo 16 del vangelo secondo Luca: la parabola del ricco e del povero Lazzaro.

“C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e bisso, banchettando splendidamente ogni giorno”. Di costui non si dice il nome, ma viene definito dal suo lusso e dal suo comportamento. I ricchi devono farsi vedere, devono imporsi e ostentare: da allora fino a oggi non è cambiato nulla, e chi pensa di essere potente e ricco, anche nella chiesa, vuole esibire i segni del potere e osa addirittura affermare che i segni che porta e di cui si riveste sono a gloria a Dio…

L’altra dimensione con cui i ricchi nell’antichità si facevano vedere era il loro banchettare con ostentazione. Per gli altri uomini la festa è un’occasione rara, per i poveri è impossibile, mentre per i ricchi ogni giorno è possibile festeggiare. Ma festeggiare cosa? Se stessi e la loro situazione privilegiata, senza mai pensare alla condivisione. Questo ricco, in particolare, mai aveva invitato i poveri, mai si era accorto del povero presente davanti alla sua porta, e dunque mai aveva praticato quella carità che la Torah stessa esigeva. Ma qual è la malattia più profonda di quest’uomo? Quella che papa Francesco, in una sua omelia mattutina, ha definito mondanità: l’atteggiamento di chi “è solo con il proprio egoismo, dunque è incapace di vedere la realtà”.

Accanto al ricco mondano, alla sua porta, sta un altro uomo, “gettato” là come una cosa, coperto di piaghe. Non è neanche un mendicante che chiede cibo, ma è abbandonato davanti alla porta della casa del ricco. Nessuno lo guarda né si accorge di lui, ma solo dei cani randagi, più umani degli esseri umani, passandogli accanto gli leccano le ferite. Questo povero ha fame e desidererebbe almeno ciò che i commensali lasciano cadere dalla tavola o buttano sul pavimento ai cani (cf. Mc 7,28; Mt 15,27). La sua condizione è tra le più disperate che possano capitare a quanti sono nella sofferenza. Eppure Gesù dice che costui, a differenza del ricco, ha un nome: ‘El‘azar, Lazzaro, cioè “Dio viene in aiuto”, nome che esprime veramente chi è questo povero, un uomo sul quale riposa la promessa di liberazione da parte di Dio.

In ogni caso, sia il ricco sia il povero condividono la condizione umana, per cui per entrambi giunge l’ora della morte, che tutti accomuna. Un salmo sapienziale, già citato altre volte, presenta un significativo ritornello: “L’uomo nel benessere non comprende, è come gli animali che, ignari, vanno verso il mattatoio” (cf. Sal 49,13.21). Il ricco della parabola non ricordava questo salmo per trarne lezione e neppure ricordava le esigenze di giustizia contenute nella Torah (cf. Es 23,11; Lv,19,10.15.18, ecc.) né i severi ammonimenti dei profeti (cf. Is 58,7; Ger 22,16, ecc.). Di conseguenza, era incapace di responsabilità verso l’altro, di condivisione. Il vero nome della povertà è condivisione, al punto che Gesù si è spinto fino ad affermare: “Fatevi degli amici con il denaro ingiusto, perché, quando questo verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne” (Lc 16,9). Ma questo ricco non l’ha capito…

Quando muore Lazzaro, il suo nome mostra tutta la sua verità, perché il funerale del povero (che forse non c’è stato materialmente, perché l’avranno gettato in una fossa comune!) è officiato dagli angeli, che vengono a prenderlo per condurlo nel seno di Abramo. La vita di Lazzaro non si è dissolta nel nulla, ma egli è portato nel regno di Dio, dove si trova il padre dei credenti, di cui egli è figlio: colui che era “gettato” presso la porta del ricco, ora è innalzato e partecipa al banchetto di Abramo (cf. Mt 8,11; Lc 13,28). Il ricco invece ha una sepoltura come gli si conviene, ma il testo è laconico, non precisa nulla di un suo eventuale ingresso nel Regno.

Ecco infatti, puntualmente, una nuova situazione, in cui i destini dei due uomini sono ancora una volta divergenti, ma a parti invertite. Ciò che appariva sulla terra viene smentito, si mostra come realtà effimera, mentre ci sono realtà invisibili che sono eterne (cf. 2Cor 4,18) e che dopo la morte si impongono: il povero ora si trova nel seno di Abramo, dove stanno i giusti, il ricco negli inferi. Alla morte viene subito decisa la sorte eterna degli esseri umani, preannuncio del giudizio finale, e le due vie percorse durante la vita danno l’esito della beatitudine oppure quello della maledizione. A Lazzaro è donata la comunione con Dio insieme a tutti quelli che Dio giustifica, mentre al ricco spetta come dimora l’inferno, cioè l’esclusione dal rapporto con Dio: egli passa dall’avere troppo al non avere nulla.

Nelle sofferenze dell’inferno, il ricco alza i suoi occhi e “da lontano” vede Abramo e Lazzaro nel suo grembo, come un figlio amato. Egli ora vive la stessa condizione sperimentata in vita dal povero, ed è anche nella stessa posizione: guarda dal basso verso l’alto, in attesa… Non ha potuto portare nulla con sé, i suoi privilegi sono finiti: lui che non ascoltava la supplica del povero, ora deve supplicare; si fa mendicante gridando verso Abramo, rinnovando per tre volte la sua richiesta di aiuto. Comincia con l’esclamare: “Padre Abramo, abbi pietà di me”, grido che durante la vita non aveva mai innalzato a Dio, “e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché sono torturato in questa fiamma”. Chiede insomma che Lazzaro compia un gesto di amore, che lui mai aveva fatto verso un bisognoso.

Ma Abramo gli risponde: “Figlio, durante la tua vita hai ricevuto i tuoi beni, mentre Lazzaro i suoi mali; ora egli qui è consolato, tu invece sei torturato”. Un modo schematico ma efficace per esprimere come il comportamento vissuto sulla terra abbia precise conseguenze nella vita oltre la morte: il comportamento terreno è già il giudizio, da esso dipendono la salvezza o la perdizione eterne (cf. Mt 25,31-46). Così la beatitudine rivolta da Gesù ai poveri e il “guai” indirizzato ai ricchi (cf. Lc 6,20-26) si realizzano pienamente. Poi Abramo continua servendosi dell’immagine dell’“abisso grande”, invalicabile, che separa le due situazioni e non permette spostamenti dall’uno all’altro “luogo”: la decisione è eterna e nessuno può sperare di cambiarla, ma si gioca nell’oggi…

Qui il racconto potrebbe finire, e invece il testo cambia tono. Udita la prima risposta di Abramo, il ricco riprende la sua invocazione. Non potendo fare nulla per sé, pensa ai suoi famigliari che sono ancora sulla terra. Lazzaro potrà almeno andare ad avvertire i suoi cinque fratelli, ad ammonirli prospettando loro la minaccia di quel luogo di tormento, se vivranno come l’uomo ricco. Ma ancora una volta “il padre nella fede” (cf. Rm 4,16-18) risponde negativamente, ricordandogli che Lazzaro non potrebbe annunciare nulla di nuovo, perché già Mosè e i Profeti, cioè le sante Scritture, indicano bene la via della salvezza. Le Scritture contenenti la parola di Dio dicono con chiarezza come gli uomini devono comportarsi nella vita, sono sufficienti per la salvezza. Occorre però ascoltarle, cioè fare loro obbedienza, realizzando concretamente quello che Dio vuole!

Ma il ricco non desiste e per la terza volta si rivolge ad Abramo: “Padre Abramo, se qualcuno dai morti andrà dai miei fratelli, saranno mossi a conversione”. Abramo allora con autorità chiude una volta per tutte la discussione: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neppure se qualcuno risorge dai morti saranno persuasi”. Parole definitive, eppure ancora oggi molti cristiani faticano ad accoglierle, perché sono convinti che le Scritture non siano sufficienti, che occorrano miracoli straordinari per condurre alla fede…

No, i cristiani devono ascoltare le Scritture per credere, anche per credere alla resurrezione di Gesù, come il Risorto ricorderà agli Undici: “Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi” (Lc 24,44). Egli stesso, del resto, poco prima aveva detto ai due discepoli in cammino verso Emmaus: “‘Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i Profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?’. E, cominciando da Mosè e da tutti i Profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,25-27). Non a caso anche nella professione di fede il cristiano confessa che “Cristo morì secondo le Scritture, fu sepolto ed è risorto il terzo giorno secondo le Scritture” (1Cor 15,3-4). Le Scritture testimoniano ciò che si è compiuto nella vita e nella morte di Gesù Cristo, testimoniano la sua resurrezione. Se il cristiano prende consapevolezza delle parole di Gesù (cf. Lc 24,6-7) e ascolta le Scritture dell’Antico Testamento, giunge alla fede nella sua resurrezione.

Questa parabola ci scuote, scuote soprattutto noi che viviamo nell’abbondanza di una società opulenta, che sa nascondere così bene i poveri al punto di non accorgersi più della loro presenza. Ci sono ancora mendicanti sulle strade, ma noi diffidiamo delle loro reale miseria; ci sono stranieri emarginati e disprezzati, ma noi ci sentiamo autorizzati a non condividere con loro i nostri beni. Dobbiamo confessarlo: i poveri ci sono di imbarazzo perché sono “il sacramento del peccato del mondo” (Giovanni Moioli), sono il segno della nostra ingiustizia. E quando li pensiamo come segno-sacramento di Cristo, sovente finiamo per dare loro le briciole, o anche qualche aiuto, ma tenendoli distanti da noi. Eppure nel giorno del giudizio scopriremo che Dio sta dalla parte dei poveri, scopriremo che a loro era indirizzata la beatitudine di Gesù, che ripetiamo magari ritenendola rivolta a noi. Siamo infine ammoniti a praticare l’ascolto del fratello nel bisogno che è di fronte a noi e l’ascolto delle Scritture, non l’uno senza l’altro: è sul mettere in pratica qui e ora queste due realtà strettamente collegate tra loro che si gioca già oggi il nostro giudizio finale.

fonte: Monastero di Bose

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ricchi di cobalto ma condannati a morire di fame

tutto il mondo vuole il cobalto, tutto il cobalto è in Congo perché quindi in Congo muoiono di fame?

il paradosso di uno dei Paesi più ricchi di materie prime al mondo, con una ricchezza enorme e una popolazione allo stremo

congo cobalto
  Congo, una raffineria di cobalto

Scavare una latrina nel cortile di casa e trovare un tesoro. Non è una favola di altri tempi. È quello che può accadere nella Repubblica democratica del Congo. Un Paese, uno scandalo geologico come lo definiscono in molti, dove puoi trovare tutto quello che ti serve, in termini di materie prime. Un territorio popolato da circa 80 milioni di persone che vivono, per oltre il 50% in stato di povertà assoluta, ma così ricco da poter sfamare l’Europa intera e non riuscirebbe, neppure così, ad esaurire le sue scorte di riserve naturali.

Costruire una latrina e trovare un tesoro. E’ quando è accaduto a un poliziotto di Kolwezi, una città mineraria abitata da mezzo milione di persone, nella parte meridionale del paese. L’ufficiale di polizia, come racconta Michael J. Kavanagh sul New Tork Times, nel 2014 ha deciso che la sua famiglia aveva bisogno di una nuova latrina.

I bambini che scavano a mani nude, la città svuotata

Pala in mano inizia a scavare nel cortile di casa e poco sotto, nemmeno tanti metri sotto, trova qualcosa che potrebbe cambiargli la vita. La terra scintilla: un cumolo di cobalto si presenta ai suoi occhi. Uno dei minerali più importanti al mondo. Kavanagh torna in quei luoghi nel 2015 e lo scenario che ha di fronte è di tutt’altra natura. Non più una città tranquilla dove ognuno degli abitanti si ingegnava con il proprio mestiere. No, le case cadevano a pezzi, e il territorio sembrava essere stato bombardato, crivellato, ferito. Un’immensa area di buchi profondi fino a 25 metri.

Leggi anche: A chi serve il Cobalto

Un luogo dove, tutti, si sono ingegnati a trovare fortuna con la ricerca del cobalto e del rame. I bambini non hanno altra attività se non quella di scavare a mani nude la cruda terra, entrare in questi buchi per portare alla luce un minerale che, appena estratto non ha nessun valore, non lo ha per quei bambini che scavano senza sicurezza, che spesso vengono inghiottiti dagli smottamenti della terra senza che nessuno se ne accorga o li reclami. Un minerale, tuttavia, che acquista valore appena arriva a un porto internazionale che lo trasporta nel mondo civilizzato. La dove serve. E a farla dai padroni, in questa attività, sono le aziende cinesi che si sono accaparrate i diritti di estrazione senza assicurare un salario giusto ai minatori, privi di ogni diritto che lavorano sette giorni su sette, che piova o ci sia il sole.

Perché tutti vogliono il cobalto

Il cobalto è un componente essenziale delle batterie ricaricabili delle automobili e nei telefoni cellulari. La rivoluzione dell’auto elettrica può essere grazie a quel minerale. La Repubblica democratica del Congo è il più grande produttore al mondo, con circa la metà di tutte le riserve conosciute. Eppure questo minerale finisce nelle mani di Pechino con ricadute per la popolazione che lo estrae praticamente nulle. Ad avvantaggiarsene, oltre alla Cina, sono i governanti del Congo che, in una sorta di bulimia di denaro, se ne spartiscono i profitti.

Quello che è capitato al poliziotto, può capitare a chiunque. Magari invece del cobalto trova un filone d’oro, oppure un giacimento di diamanti. Magari di uranio. E, come per la corsa all’oro, le aeree dei ritrovamenti diventano la meta di disperati in cerca di fortuna. Ma non solo. Sono la meta delle multinazionali, degli stati di mezzo mondo che vogliono approfittare delle risorse del Congo. La Repubblica democratica del Congo è un non luogo.

O meglio, è il luogo delle guerre fratricide, vendute come tribali, ma combattute proprio per le risorse minerarie. Come è stata la guerra che ha portato al potere Desiré Kabila padre, a cui è succeduto il figlio, denominata la prima Guerra Mondiale d’Africa. In sette paesi africani si sono contesi pezzi di territorio. Le aeree di più intenso conflitto corrispondevano a quelle più ricche di risorse naturali. Una guerra che ha provocato più di 4 milioni di morti, la maggior parte per fame e non per armi da fuoco. Il paese è arretrato di 100 anni.

La Repubblica democratica del Congo è un non luogo

Alla fine della guerra sono stato in questo paese e ho potuto constatare che la popolazione non aveva nulla. Molte organizzazioni hanno cominciato a ripristinare, innanzitutto, dispensari e ospedali, ma nessuno vi accedeva. Mi sono chiesto il perché. Sono andato nella boscaglia per capire ed ecco il risultato: la gente si vergognava ad andare in ospedale perché non aveva di che coprirsi, i vestiti erano un lusso. In quello stesso viaggio, nel 2003, ho incontrato un vecchio amico, Lino, nella capitale Kinshasa.

Era appena arrivato dalla città di Kikiwit. La strada che porta da Kinshasa a Kikiwit, circa 600 chilometri, l’avevamo percorsa insieme nel 1993 e ci avevamo impiegato circa 8 ore. Dieci anni dopo Lino ha impiegato 15 giorni per lo stesso percorso. La rete viaria completamente distrutta. Ma alle aziende minerarie non servono le strade, si muovono con aerei e elicotteri. Non solo. Paesi come l’Uganda sono diventati improvvisamente esportatori di oro. Il Ruanda del preziosissimo coltan che si trova solo in Congo.

Nella Repubblica democratica del Congo si trova di tutto: legno, rame, cobalto, coltan, diamanti, oro, zinco, uranio, stagno, argento, carbone, manganese, tugsteno, cadmio, petrolio. Materie prime che fanno gola a mezzo modo e che rappresentano una “condanna a morte” per molti degli abitanti del paese.

Ricchissimo di materie prime, e povero

Solo se i governanti investissero le royalty ricavate dalle estrazioni minerarie del paese, gli oltre 80 milioni di abitanti potrebbero vivere nel benessere, invece no. L’autosufficienza alimentare in molte aeree del paese è un miraggio. Le terre coltivate rappresentano solo il 4% del totale, nonostante il 75% della popolazione attiva si occupa di agricoltura, per lo più di sussistenza. Invece l’economia del paese è tradizionalmente orientata alle esportazioni, fortemente dipendente dalle commodities primarie.

Quello che interessa davvero è l’enorme ricchezza costudita dal sottosuolo congolese. Quello che vi cammina sopra un po’ meno. E, del resto, questo è un vecchio adagio del dittatore Mobutu Sese Seko, che in un’intervista a un quotidiano francese diceva: “Quello che c’è sotto terra è mio, quello che si muove sulla terra è mio, quello che c’è nelle acque è mio, quello che vola nel cielo è mio, l’intervistatore osservava: “Cosa rimane al popolo?, e Mobutu divertito rispondeva: “Il multipartitismo”, diremmo noi la democrazia. Ma con quella non si mangia: il pil pro-capite è di circa 450 dollari, uno tra i più bassi al mondo, e l’indice di sviluppo umano è 0,433 che colloca la Repubblica democratica del Congo al 176esimo posto al mondo.

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l’equilibrata decisione della corte costituzionale sull’accompagnamento del malato estremo alla morte

“decisione equilibrata

ora subito una legge”

intervista a Giovanni Maria Flick

a cura di Silvia Truzzi
in “il Fatto Quotidiano” del 26 settembre 2019

L’anno di tempo concesso dalla Corte costituzionale al Parlamento per intervenire sul fine vita è scaduto inutilmente. Anche se ieri, mentre la Corte era riunita in vista della decisione giunta in serata, in Senato è stato presentato un disegno di legge firmato da parlamentari delle forze di governo. La Consulta intanto però ha deciso, ritenendo non punibile, a determinate condizioni, “chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio”

Abbiamo chiesto un parere su questa controversa decisione a Giovanni Maria Flick, Guardasigilli del governo Prodi e presidente emerito della Consulta, che nei mesi scorsi è stato ascoltato in Parlamento proprio su questo tema

Professore, che pensa di questa apertura della Corte costituzionale all’aiuto al suicidio?

Bisogna ovviamente attendere la motivazione per capirne i profili tecnici e il significato, oltre il messaggio, peraltro chiaro, del comunicato. Al di là di quei profili, mi sembra una decisione ragionevolmente equilibrata. Precisiamo: non si tratta di una liberalizzazione del suicidio mediante aiuto del terzo, ma di un caso eccezionale. L’Avvocatura dello Stato aveva chiesto che la Corte dichiarasse l’inammissibilità perché serve “una disciplina generale della materia”.

D’accordo?

Pienamente. Anche perché questa è stata, fino a poco tempo fa, la prassi consolidata della Corte: non sostituirsi al legislatore ma chiederne l’intervento, come nel caso del sovraffollamento delle carceri, quando la Corte aveva lanciato un monito al legislatore che entro certi limiti le ha dato retta. In altri casi il monito è stato ignorato. Capisco tuttavia che in una situazione drammatica la Consulta non abbia voluto che operasse la proibizione legislativa generica. Però è toccato di nuovo alla Corte supplire al compito che dovrebbe spettare al legislatore.

Il disegno di legge presentato al Senato è fuori tempo massimo?

Non c’è un tempo massimo o minimo. Molti, tra cui il sottoscritto, erano rimasti perplessi di fronte a una manifestazione di leale collaborazione da parte della Corte (l’anno “concesso” al Parlamento per provvedere) che poteva, anche vista la brevità del tempo a disposizione, sembrare una “pressione”.

I medici, in particolare quelli cattolici, sono sul piede di guerra e sostengono che l’aiuto al suicidio sia contrario al loro codice deontologico: il giuramento d’Ippocrate è più forte della legge?

Non mi pare proprio. Tra la prescrizione deontologica e la legge non può che prevalere la legge. Semmai si tratta di verificare la possibilità di un ricorso alla Consulta stessa perché valuti se non si comprime in modo eccessivo l’autonomia professionale dei medici, riconosciuta dalla Costituzione. Sarà sempre possibile l’obiezione di coscienza, che di fatto rende inapplicabile in molte regioni la normativa sull’interruzione volontaria di gravidanza. Se, come sembra, la decisione della Corte richiede la presenza del sanitario, la previsione dell’obiezione di coscienza mi sembra inevitabile. Si tratta in fondo di una situazione simile a quella dell’aborto terapeutico per il quale l’articolo 546 del codice penale è stato dichiarato incostituzionale nella parte in cui non prevede che la gravidanza possa venire interrotta quando la prosecuzione della gestazione comporti un danno o un pericolo grave e altrimenti non evitabile, per la salute della madre. Nella sua audizione alla Camera lei ha detto: “Indubbiamente la differenza fra chi può e chi invece non può darsi la morte da solo e difficile da accettare”.

Cosa significa?


Una scelta di questo tipo comporta molti interrogativi: in primo luogo la necessità per la Corte di “creare” un sistema ragionevolmente complicato e comunque sempre modellato su una specifica situazione concreta. In secondo luogo il riferimento, implicito, all’autodeterminazione, che può finire per svalutare il principio di solidarietà. Accompagnare una persona alla morte deve avvenire in un contesto in cui è fondamentale la solidarietà; l’enfasi eccessiva dell’autodeterminazione – a parte il carattere elitario di questo concetto – può far dimenticare l’esigenza di solidarietà (…“In fondo lo ha chiesto lui”…). La Corte non ha risposto al quesito, che le è stato sotto posto (il rapporto tra il bene vita e l’autodeterminazione) ma a un altro quesito: l’alternativa tra chi può darsi la morte da solo e chi no, la distinzione tra la situazione di Piergiorgio Welby e quella di Dj Fabo.

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la forza rivoluzionaria della misrericordia secondo il vescovo Zuppi

io, vescovo di strada, vi spiego la “misericordia rivoluzionaria”

  

il vescovo di Bologna Matteo Zuppi, già assistente spirituale di Sant’Egidio, ha spiegato a Rimini il ruolo della Chiesa in un’epoca di svolte epocali

«Non esiste un bene cattolico, perché il bene comune è di tutti, e dobbiamo cercarlo insieme agli altri, anche ai musulmani. La misericordia è la vera rivoluzione. A patto che non sia declinata al ribasso»

 

Copertina

La misericordia deve essere “rivoluzionaria”, e la Chiesa deve aprirsi per cercare il bene comune, che non è un bene solo cattolico (perché non esiste) ma un bene di tutti. Sono stati questi alcuni dei significativi passaggi dell’intervento al Meetgin di Rimini di monsignor Matteo Maria Zuppi, romano, 60 anni, dal 2012 vescovo ausiliare di Roma ma per molti anni parroco a Trastevere ed esponente della Comunità di Sant’Egidio. Il “prete di strada”, nominato a sorpresa da papa Francesco vescovo di Bologna, che gira per la città con la sua semplice utilitaria ed è stato il primo esponente dell’episcopato a salire sul palco del 1° maggio per salutare i lavoratori, era chiamato a parlare del Convegno ecclesiale di Firenze e delle ricadute sulla Chiesa italiana, ma ha in realtà spaziato toccando molti temi sociali, con un intervento che ha ricevuto numerosi applausi dalla platea.

A partire dall’inizio, quando il prelato ha voluto ricordare la tragedia del terremoto di questa notte, facendo recitare al pubblico un Padre Nostro e un’Ave Maria. Zuppi (che finì sui giornali ai tempi delle polemiche su monsignor Luigi Negri, accusato di aver criticato la sua nomina a vescovo) è poi passato ad analizzare, lodandolo, il tema del Meeting “Tu sei un bene per me”, affermando che «la solitudine è la grande minaccia di questi tempi di individualizzazione, in cui si diffida di tutto e ci si infastidisce della concretezza dell’altro», soprattutto, ha continuato il vescovo di Bologna, «del profugo, del diverso».

Zuppi ha poi proseguito invitando a cercare «un bene non solo soggettivo e individuale, ma un bene che è di e per tutti, insieme agli altri, anche ai musulmani», sottolineando come «non esiste un bene cattolico, perché il bene comune è di tutti, e dobbiamo cercarlo con gli altri con intelligenza, umiltà e visione. Dobbiamo accettare la sfida della ricostruzione, come 70 anni fa», ha aggiunto, riprendendo le parole del presidente Mattarella a Rimini, «perché tanto bene comune è stato distrutto, a iniziare dalla speranza, e la responsabilità di queste macerie sono tante: dissennatezza, ignavia, indifferenza, presunzione e furto, non solo di soldi ma anche di speranza».

Riprendendo i temi del convegno di Firenze, l’arcivescovo ha poi toccato il tema della misericordia, declinandola però secondo l’accezione data dalla poetessa e mistica francese Madeleine Delbrêl, che scrisse di una «misericordia rivoluzionaria»: i cristiani, cioè, non si devono modellare a misericordia al ribasso, riducendosi a essere medici, infermieri o operatori sociali; devono rifiutare la misericordia del giusto mezzo, da burocrati. La chiesa – ha detto – «è come una madre ansiosa alla porta di un ospedale dove degli estranei curano i suoi figli».

La conclusione del suo intervento ha riguardato la necessità che i cristiani diano una scossa al loro agire, senza perdersi in contrapposizioni tra conservatori e progressisti: «La vicenda della Siria e di Aleppo e dei suoi cristiani ci ammoniscono, ci sfidano a essere più svegli, più forti e uniti per avere una misericordia rivoluzionaria che cambia le cose, lascia un’impronta. La misericordia fa entrare nella storia».

« Siamo di fronte a una svolta epocale», ha continuato, «e non possiamo essere mediocri, anche nella Chiesa. La contrapposizione non è tra conservatori e progressisti ma tra la Chiesa prima di pentecoste, chiusa, che non si misura con il mondo, e una Chiesa piena del fuoco dell’amore che la spinge a uscire a parlare tutte le lingue dei cuori degli uomini».

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i vescovi italiani chiamati da papa Francesco ad assumersi le loro responsabilità pastorali

 il tempo del Sinodo

di Alberto Melloni

Il caso 
Il tempo del Sinodo 
di Alberto Melloni
Pubblicato su “La Repubblica”
il 23 settembre 2019
dopo l’ età ‘ruiniana’ di deresponsabilizzazione dei vescovi, il convegno di Firenze del 2015 aveva aperto un cammino – interrotto però di nuovo: papa Francesco chiama i vescovi italiani ad assumersi le loro responsabilità pastorali
Il «probabile Sinodo della Chiesa italiana» – definito così dal Papa – è a uno snodo decisivo.
Il Consiglio di presidenza della Cei che si riunisce oggi dovrà decidere se avviare almeno un pensiero su questo tema e farlo «sparire» (cito il Papa), come ha fatto col discorso bergogliano del 2015 a Firenze: «Entrato nell’ alambicco delle distillazioni intellettuali» e «finito senza forza, come un ricordo».
Da maggio la Cei sa che non potrà rimettersi ai voleri del Papa.
Quando Francesco ha capito che i vescovi, per ossequio e malavoglia, lo potevano seguire ha reagito con una bacchettata severissima. Con un gelido comunicato il Papa ha fatto intendere che se si trattava di fare un Sinodo per conformismo, lui – primate d’ Italia – preferiva “frenare”.
E da una settimana sanno che il tema non è cancellato dalla loro agenda.
Giovedì scorso La Civiltà Cattolica (le cui bozze si leggono in Segreteria di Stato) è tornata sul Sinodo con un saggio di padre Bartolomeo Sorge.
L’ anziano gesuita ha evocato il primo convegno della Chiesa italiana su “Evangelizzazione e promozione umana”, che nel 1976 fu molto partecipato e vivo: però, proprio perché fatto al posto di un Sinodo, risultò incapace di impedire una lacerante politicizzazione della fede; e ha scritto che, dopo l’ età ruiniana di deresponsabilizzazione dei vescovi, il convegno di Firenze del 2015 aveva aperto un cammino – interrotto però di nuovo.
Cammino – chioso io – che se non diventerà sinodale, non saprà resistere alla divisione della Chiesa che è l’ obiettivo delle destre palesi e occulte; con ricadute che non riguardano il “voto cattolico”, ma la democrazia.
Non si tratta infatti di decidere se chiamare Sinodo un convegno, se metterci “più laici e più donne” per decorare il nulla. Si tratta del modo di dire la fede delle chiese locali e della responsabilità “pastorale” (nel senso di Papa Giovanni) dei vescovi.
I quali vescovi da anni si accontentano di rinviare la questione Sinodo come fosse un pallino gesuita o la leva per migliorare gli incassi politici alla prossima crisi o riscrivere liste di valori su cui riaggregare le destre confuse o cantare in coro la lisa canzone del “bene comune”.
Senza un atto di responsabilità sulla “sinodalità dall’ alto e dal basso” i vescovi perderanno autorevolezza: e di vescovi autorevoli hanno bisogno la Chiesa e il Paese. Lo si è capito quando mezz’ Italia ha visto che Giuseppe Conte era stato più severo dei vescovi davanti all’ abuso blasfemo delle devozioni cattoliche più dolci.
O quando Andrea Orlando, annunciando la sua scelta di lavorare nel partito, li ha surclassati nell’ indicare nella società il luogo in cui stare, per una lotta al cancro dell’ odio e della paura che deve ancora iniziare.
Il “probabile Sinodo per la Chiesa italiana” ne è parte perché è lo snodo liturgico in cui il rinnovamento interiore della Chiesa cattolica nella fedeltà al Vangelo può annaffiare le tante radici della democrazia italiana. E Dio sa se non son secche
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sulla misericordia nei confronto della estrema sofferenza

il diritto di chi soffre

di Luigi Manconi
in “la Repubblica” del 23 settembre 2019

Di chi è la mia vita?

Al di là delle risposte troppo semplici, che risultano fatalmente inadeguate, l’interrogativo evoca quella dimensione in ombra della morte che rivela la nostra fragilità già nel pensarla. E richiama questioni delicatissime che, tuttavia, la politica e il diritto non possono ignorare perché riguardano le aspettative più profonde dei membri della collettività: la possibilità di ridurre al minimo le sofferenze fisiche e psichiche che accompagnano le patologie e il declino del corpo. Finora la politica è stata a dir poco pavida, il diritto più lungimirante. Domani, la Consulta dovrà esprimersi sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’Assise di Milano, il 14 febbraio 2018 in occasione del processo a carico di Marco Cappato, accusato di aver sostenuto il proposito di togliersi la vita di Fabiano Antoniani e di aver materialmente agevolato il compimento di quell’atto. In discussione è la legittimità costituzionale dell’art. 580 del Codice Penale, laddove viene equiparata la condotta di istigazione e quella di aiuto al suicidio, prevedendo la medesima sanzione (dai 5 ai 12 anni di reclusione). E ciò anche quando l’agevolazione materiale al suicidio non abbia in alcun modo influito sulla volontà dell’interessato. La Corte Costituzionale, un anno fa, decise di posticipare l’udienza di 11 mesi, così da «consentire al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina». Giustamente, in quanto compito della politica dovrebbe essere quello di comporre opzioni anche radicalmente alternative e di realizzare compromessi che, senza umiliare i valori di alcuno, individuino un terreno comune di principi condivisi e di norme che li tutelino. Una base circoscritta di regole essenziali, che salvaguardino ciò che hanno in comune le molte e differenti culture che costituiscono la società nazionale. Ciò non è stato fatto perché il Parlamento non ha avuto la capacità di raggiungere una minima intesa su un testo. E la ragione consiste nel fatto che la materia richiama il tema cruciale dell’autonomia individuale e mette in gioco le idee più intime di ciascuno a proposito delle “cose ultime”: ovvero la concezione della vita e della morte, della sofferenza e della cura, della relazione col proprio destino e con gli altri. L’abdicazione della politica ha imposto un intervento della Consulta, che si esprimerà nelle prossime ore seguendo, prevedibilmente, la traccia anticipata nell’ordinanza dell’ottobre del 2018: in determinate circostanze e per garantire beni costituzionalmente protetti, quali la dignità della persona e il principio di autodeterminazione, la tutela della vita può incontrare dei limiti. Ne consegue la non equiparazione tra la fattispecie dell’istigazione e quella dell’assistenza al suicidio, una volta accertato che la decisione di morire sia il frutto della volontà dell’individuo. Se questa fosse la sentenza della Consulta, sarebbe un importante passo avanti. Un tale esito, lungi dal chiudere la controversia pubblica, è destinato a renderla più acuta. Una settimana fa il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha detto: «Va negato che esista un diritto a darsi la morte: vivere è un dovere, anche per chi è malato e sofferente. Il suicidio da parte del malato è un atto di egoismo, un sottrarsi a quanto ognuno può ancora dare». L’affermazione del cardinale va considerata con serietà perché pone l’accento sull’idea della vita come relazione. Idea che non è, certo, esclusiva della cultura cattolica, che appartiene a non credenti e credenti e che si ritrova, per esempio, in alcune splendide pagine di Emmanuel Lévinas: «l’esistente acquista significato solo in relazione all’Altro». L’esatto contrario di una concezione nichilista e privatistica del fine vita, troppo spesso rimproverata con superficialità ai laici. Ma, con tutto il rispetto verso l’autorità morale del cardinale Bassetti, il concetto che ne fa derivare – la vita come dovere – mi sembra debole, perché trascura la centralità ineludibile del soggetto, che, in questo caso, è colui che soffre: il più meritevole della massima tutela. Il dovere non può essere inteso solo come obbligazione verso l’altro, fino a ignorare il rispetto di sé. Il paziente affetto da patologie irreversibili ha un dovere verso se stesso: quello di sottrarsi a dolori non lenibili e a
un’ulteriore decadenza del corpo e dello spirito. La sopravvivenza non accompagnata da esperienza, relazione e scambio, può non considerarsi vita. Accettare questo degrado per una sorta di responsabilità altruistica assomiglia troppo a una condanna. E quel dovere appare piuttosto come un atto di ubbidienza verso un’autorità esterna, che vale, ovviamente, solo per coloro che credono che un’autorità esterna di natura escatologica esista e sovradetermini le nostre vite. Qui si torna all’assunto che ispira la dottrina e la morale cattolica in materia: la vita è un dono di Dio e solo Dio può disporre di essa. Ma è stato proprio un autorevole esponente di quella stessa cultura (Vittorio Possenti) a evidenziare come, se così fosse, si tratterebbe della singolare anomalia di un dono che resta proprietà del donatore. D’altra parte, quel che risulta improprio è il ricorso al termine “egoismo”: ciò che sembra chiedersi al paziente è una sorta di eroismo e una vocazione al martirio che presuppongono qualcosa di super-umano. Mentre la misericordia, che è virtù non solo cristiana, di fronte a un corpo umiliato da dolori intollerabili chiede che quei dolori siano fatti cessare e che quel corpo trovi linimento e riposo. Eppure è proprio questo a costituire il grande rimosso della discussione pubblica e perfino della sensibilità quotidiana: la sofferenza del malato, quella che urla senza trovare ristoro. Per dirla, con un verso del filosofo cattolico Eugenio Mazzarella, il dolore sentito «dall’altra parte del muro ogni notte

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ceccardi

 

32 anni, si è scatenata contro il libro del giornalista bolognese con parole furenti: “Mettere in favoletta la bambina che sta ad accattonare al semaforo e farla passare come un modello positivo nei libri di scuola, non è poetico, è criminale”. Roba da fare un’interrogazione in Parlamento ha accennato la Ceccardi perché “l’accattonaggio ai semafori si insegna già in prima elementare”.

In realtà la storia di Dorin è un racconto di civiltà dove nessuno insegna a chiedere l’elemosina ma dove la piccola bambina che vende rose e fazzoletti al semaforo si presenta come una cittadina modello che “lava e pulisce tutti i giorni il semaforo perché lo possano vedere bene bene anche da lontano e se qualcuno attacca un adesivo o fa una scritta sul semaforo, lei si arrabbia moltissimo. Quando si rompe una lampadina telefona in Comune, fa la voce da mamma e dice: Presto, c’è un semaforo rotto. Correte subito

alla deputata leghista è l’umanità. Scrive la Ceccardi sul suo profilo Facebook: “La storia della piccola zingarella diventa quindi un esempio positivo per i più piccoli, dove, chi regala due spiccioli alla piccola rom è bravo, e chi invece non lo fa, è brutto e cattivo. È paradossale che si rovesci completamente la realtà e che situazioni al confine tra la legalità e l’illegalità siano prese come esempio positivo per formare le nuove generazioni”.

Sì, è vero. Di una cosa ha ragione la Ceccardi: il libro di Taddia insegna a sorridere a Dorin, a dirle una buona parola non sempre a darle delle monete ma non a trattarla male. Ma forse è proprio questo che irrita un leghista duro e puro: mai mettersi nei panni degli altri. Non so se la deputata leghista abbia mai fatto volontariato in un campo rom o si sia mai trovata a girare con dei bambini “zingari” (così li chiama lei) in una città. A me e a Taddia, in gioventù è capitato e vi assicuro che è lo sguardo che si appiccica su di te a non mollarti più. “Dorin piange quando la gente è cattiva con lei o con i suoi genitori. Quando le persone al semaforo la offendono, dicono parolacce, la mandano via con dei gestacci e le urlano che è una ladra. Allora le scappa una lacrima che conserva dentro una bottiglietta speciale”. Sicuramente anche le parole della Ceccardi hanno fatto scappare una lacrima a Dorin e, forse, anche a Federico Taddia.

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