il commento al vangelo della domenica

Il dono più prezioso dei Magi? Il loro stesso viaggio


Il dono più prezioso dei Magi? Il loro stesso viaggio
il commento di E. Ronchi al vangelo della Epifania 

Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. […]

Epifania, festa dei cercatori di Dio, dei lontani, che si sono messi in cammino dietro a un loro profeta interiore, a parole come quelle di Isaia. «Alza il capo e guarda». Due verbi bellissimi: alza, solleva gli occhi, guarda in alto e attorno, apri le finestre di casa al grande respiro del mondo. E guarda, cerca un pertugio, un angolo di cielo, una stella polare, e da lassù interpreta la vita, a partire da obiettivi alti. Il Vangelo racconta la ricerca di Dio come un viaggio, al ritmo della carovana, al passo di una piccola comunità: camminano insieme, attenti alle stelle e attenti l’uno all’altro. Fissando il cielo e insieme gli occhi di chi cammina a fianco, rallentando il passo sulla misura dell’altro, di chi fa più fatica. Poi il momento più sorprendente: il cammino dei Magi è pieno di errori: perdono la stella, trovano la grande città anziché il piccolo villaggio; chiedono del bambino a un assassino di bambini; cercano una reggia e troveranno una povera casa. Ma hanno l’infinita pazienza di ricominciare. Il nostro dramma non è cadere, ma arrenderci alle cadute. Ed ecco: videro il bambino in braccio alla madre, si prostrarono e offrirono doni. Il dono più prezioso che i Magi portano non è l’oro, è il loro stesso viaggio. Il dono impagabile sono i mesi trascorsi in ricerca, andare e ancora andare dietro ad un desiderio più forte di deserti e fatiche. Dio desidera che abbiamo desiderio di Lui. Dio ha sete della nostra sete: il nostro regalo più grande. Entrati, videro il Bambino e sua madre e lo adorarono. Adorano un bambino. Lezione misteriosa: non l’uomo della croce né il risorto glorioso, non un uomo saggio dalle parole di luce né un giovane nel pieno del vigore, semplicemente un bambino. Non solo a Natale Dio è come noi, non solo è il Dio-con-noi, ma è un Dio piccolo fra noi. E di lui non puoi avere paura, e da un bambino che ami non ce la fai ad allontanarti. Informatevi con cura del Bambino e poi fatemelo sapere perché venga anch’io ad adorarlo! Erode è l’uccisore di sogni ancora in fasce, è dentro di noi, è quel cinismo, quel disprezzo che distruggono sogni e speranze. Vorrei riscattare queste parole dalla loro profezia di morte e ripeterle all’amico, al teologo, all’artista, al poeta, allo scienziato, all’uomo della strada, a chiunque: Hai trovato il Bambino? Ti prego, cerca ancora, accuratamente, nella storia, nei libri, nel cuore delle cose, nel Vangelo e nelle persone; cerca ancora con cura, fissando gli abissi del cielo e gli abissi del cuore, e poi raccontamelo come si racconta una storia d’amore, perché venga anch’io ad adorarlo, con i miei sogni salvati da tutti gli Erodi della storia e del cuore.

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macché ‘buonismo’! l’elogio dei buoni sentimenti

«Non dobbiamo aver timore di manifestare buoni sentimenti»: se lo dice un Papa, siamo nell’ordinario evangelico. Ma se lo dice un presidente della Repubblica, significa che i “buoni sentimenti” sono un argomento politico di rilevanza come minimo insolita. Perché di solidarietà, tolleranza, socialità si è spesso sentito dire, lungo i decenni, nei discorsi di fine anno dal Quirinale; ma esplicitamente di “bontà” come bene prezioso per la comunità, e non tassabile, mai si era sentito. Perché la “bontà” meriti una così solenne tutela da parte del primo cittadino del Paese, è cosa piuttosto nota. C’è una causa contingente, quasi fresca di cronaca. Nella manovra bruscamente approvata nei giorni scorsi alle Camere una manina governativa aveva introdotto aggravi fiscali a carico di Terzo Settore e non-profit. Insomma, del volontariato. Difficile determinare se quella manina fosse più gialla o più verde, ovvero se si sia trattato di uno dei tanti svarioni imputabili alla superficialità grillina o uno dei tanti sgarbi attribuibili al brutalismo salviniano. Svarione o sgarbo che fosse, la frase più breve ed esplicita di tutto il discorso di Mattarella (“vanno evitate tasse sulla bontà”) mette di fatto la parola fine alle furiose polemiche dei giorni scorsi. Un provvedimento del genere non può passare, e il governo se ne era reso conto già da prima che il presidente parlasse agli italiani — buoni e cattivi — prima del cenone di San Silvestro. Ma c’è una ragione non contingente, diciamo così “d’epoca”, a dare ancora più peso alle parole di Mattarella. “Bontà” è diventata, negli ultimi anni, una parola impronunciabile. Non che fosse, anche in passato, semplice da usare: in età adulta solo uno sciocco o un vanitoso potrebbe dire “io sono buono” senza imbarazzo. È la vita a insegnarci quanto complicata sia la nostra tessitura sentimentale e psichica. C’è una immodestia implicita, nel vantarsi virtuosi, e dunque si preferisce non farlo. Ma da un certo punto in poi (da quando, diciamo, il neologismo ” buonista”, carico di disprezzo, si è sovrapposto tout court a “buono”) la bontà ha rischiato di diventare qualcosa di molto peggio di una vanteria fuori luogo. È diventata un genere di lusso, come il caviale e i sigari cubani. Un vizio per chi non ha cose più urgenti a cui pensare, e dunque poteva ben crogiolarsi nel piacere di “sentirsi buono”. Questo pregiudizio infetto, e infettante, è lentamente dilagato. Fino allo scherno intollerabile nei confronti delle giovani volontarie in Africa “che si fanno rapire”; alle accuse di traffici speculativi, o di malapolitica, contro le Ong che soccorrono i migranti naufraghi; con una complessiva attribuzione del solidarismo a gruppi di perdigiorno e di ipocriti, di anime belle o di furbacchioni. Fino al supremo scandalo “buonista”, che sarebbe quello di accudire “gli stranieri”, per puro vezzo politico, piuttosto che prendersi cura “degli italiani”: come se Terzo Settore e non-profit non svolgessero prima di tutto (non anche; prima di tutto!) un potente, capillare servizio di assistenza e di soccorso ai poveri, ai diseredati e ai soli di casa nostra. Il presidente ci ricorda ciò che già sapevamo: che la bontà, per quanto accidentato sia il suo percorso, non solo esiste. Ma è uno dei cardini della “comunità di vita” alla quale tutti apparteniamo. La bontà “la rende migliore”, questa comunità. Così come — è implicito — la rendono peggiore “l’astio, l’insulto, l’intolleranza, che creano ostilità e timore”. E insicurezza, ha aggiunto il presidente. L’insicurezza come prodotto non del “buonismo”, così come predica la narrazione di destra al governo del Paese. Ma del suo preciso contrario: l’insicurezza come prodotto della mancanza di “buoni sentimenti”. È probabile che il presidente della Repubblica sappia che il suo è stato un discorso anticonformista: perché niente è più conformista, nell’Italia odierna, dell’astio. Mattarella è forte di una popolarità si spera non solamente istintiva, ovvero non legata solamente all’istituzione che incarna, la sola che in questo momento garantisce il bisogno di sentirsi comunità in una società profondamente divisa. Si spera, insomma, che le sue parole in difesa dei “buoni sentimenti” siano intese anche nel loro significato politico, che è profondo e che è preciso. Non come se sortissero da un film di Frank
Capra (si sa, durante le Feste…), ma dal Palazzo più importante, e meno vacillante, di questo Paese.

Il cardine della bontà

di Michele Serra
in “la Repubblica” del 2 gennaio 2019

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