fermiamoci!

presa di coscienza

«Prossimo, nel comandamento biblico centrale dell’amore per il prossimo, non è chi è vicino, ma sono gli altri, gli altri estranei»

J.B. Metz 

da Altranarrazione

Fermiamoci. Smettiamola di collaborare con un’organizzazione economico-sociale che devasta sia l’umanità sia il pianeta. Nulla giustifica l’ingiustizia nemmeno la propria sopravvivenza. Il fine infatti non giustifica i mezzi anche se a scuola ci hanno insegnato il contrario. Ci ritroviamo su un campo di battaglia con la lista dei nemici da abbattere. Ci mettono fretta, non abbiamo il tempo di verificare colpe e responsabilità. Agiamo su sentenze emesse da altri.

Fermiamoci. Smettiamola di invidiare i ricchi e il loro benessere sporco del sangue dei poveri, il vuoto in cui si alienano i personaggi famosi e le deformazioni ontologiche a cui si espongono gli arrampicatori sociali. Non c’è cosa più avvilente di un oppresso che desidera diventare come il suo padrone. La liberazione non consiste nel mettersi al posto dell’oppressore ma nel costruire una convivenza pacifica in cui ogni essere umano possa esprimersi e così realizzarsi. È utopia che attende volontà.

Fermiamoci. Smettiamola di obbedire agli ordini che contrastano con la nostra coscienza. Dobbiamo formarci con spirito di iniziativa, da autodidatti, evitando di abbeverarci ai pozzi avvelenati dal Sistema. Dobbiamo uscire dal pantano del gossip, dall’insulto alla morale rappresentato dal calcio milionario e dedicarci alla preghiera e all’analisi. Abbandoniamo la stampa prezzolata e riflettiamo sulla lettera ai giudici di don Milani e sui discorsi di Calamandrei. Abbandoniamo le trasmissioni-spazzatura e leggiamo le omelie di Oscar Romero e i testi di Ignacio Ellacuría. Perché se non conosciamo le lettere dei condannati a morti della resistenza non conosciamo la libertà e non la meritiamo. Perché se non conosciamo il martirio di Iqbal Masih non conosciamo la dignità e non la meritiamo.

Fermiamoci. Smettiamola di produrre debito, non solo finanziario, ma soprattutto ecologico e umanitario. Saremo ricordati dalle generazioni future per le nostre discariche difficilmente trasportabili in musei (e comunque non molto attraenti per i turisti), per aver sostituito il plancton con la plastica e per aver spostato i campi di concentramento e di sterminio in mare.

image_pdfimage_print

i verbi della chiesa

appunti per la chiesa:

uscire, scendere, condividere

uscire

Usciamo perché preferiamo la ricerca all’autoreferenzialità. Non temiamo di essere messi in discussione, non diffondiamo certezze, perché siamo graffiati dal dubbio e camminiamo circondati dall’oscurità. Portiamo esperienza e lottiamo, spesso senza riuscirci, per custodire la speranza. A volte perdiamo la fede (nell’accezione di fiducia) vicino al cartone di un senzatetto o nella baracca di un impoverito dal quel Sistema osannato -dietro compenso- da manipolatori o -gratuitamente- da sudditi in senso ontologico. Abbiamo bisogno di dialogo, non cerchiamo contenitori da riempire con le nostre risposte. Sentiamo di dover esplorare ambiti sconosciuti, di scoprire parole nuove o di allargarne il significato. Ogni contributo è necessario, ogni frammento di verità è sacro, per questo ascoltiamo le voci diverse dalle nostre e da quelle che ci danno ragione. Poi dopo accurato discernimento tratteniamo solo ciò che ci avvicina a Dio.

scendere

Rifiutiamo privilegi e differenze sociali perché ci facciamo garanti della possibilità dell’altro. Interrompiamo logiche di morte, partecipando alle lotte di liberazione degli oppressi. Non rivendichiamo posti, ci mettiamo alla scuola degli ultimi e ci prendiamo la responsabilità di esporci di persona. Non siamo classe dirigente, ma popolo. Non siamo maestri, ma pellegrini. Non diamo ordini, ma soffriamo-insieme per far avanzare il Regno di Dio. Eliminiamo le linee verticali, sostituendole con quelle orizzontali. Ritorniamo nella dimensione della testimonianza, abbandonando quella dell’apologia. Andiamo in missione annunciando la Buona Novella della Giustizia (l’opzione per i poveri) e della Misericordia (l’Amore che ricolma l’abisso del peccato), dimenticando il contro-Vangelo elaborato da menti umane. Scegliamo il paradigma alternativo e capovolto di Dio. Scegliamo il mistero, non la spiegazione. Scegliamo l’inaudito, non l’elaborato.

condividere

Rinneghiamo l’accumulo e la proprietà esclusiva dei beni. Smascheriamo l’ipocrisia della ricchezza ripulita con qualche ostentata elemosina e dell’opulenza giustificata con la povertà di spirito. Chiediamo un concilio per organizzare la restituzione dei beni e per rinunciare ad ogni forma di potere e di connivenza con le attuali strutture economico-sociali di peccato. Chiediamo ai poveri di indicarci la strada della santità e dimostriamo la stoltezza del mondo (1), vivendo la follia delle beatitudini. Guardiamo al bisogno di ciascuno e non troveremo pace fino a quando ci sarà mancanza, espropriazione, emarginazione. Ci sentiamo i custodi dei figli del Dio vivente, riscattati a caro prezzo, non amministratori di cose, anche se opere d’arte. Avendo ricevuto vita e amore, gratuitamente da Dio, desideriamo agire nello stesso modo.

 

cfr. 1Corinzi 1, 17-31

image_pdfimage_print

800 anni fa l’incontro di Francesco d’Assisi col sultano

San Francesco d'Assisi incontra il Sultano d'Egitto AL-Kamil nell'anno 1219

san Francesco d’Assisi incontra il Sultano d’Egitto AL-Kamil nell’anno 1219

lettera del papa a 800 anni dall’incontro tra san Francesco e il Sultano

Non cedere alla violenza, soprattutto sotto pretesti religiosi, ma promuovere la pace e il dialogo: così il Papa in una Lettera al card. Sandri, suo inviato alle celebrazioni dell’ottavo centenario dell’incontro tra San Francesco d’Assisi e il Sultano

Sergio Centofanti 

 la Lettera (in latino) di Papa Francesco al card. Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, suo inviato speciale alle celebrazioni dell’ottavo centenario dell’incontro tra San Francesco d’Assisi ed il Sultano Al-Malik Al-Kamel, che si svolgeranno in Egitto dall’1 al 3 marzo.

Francesco, uomo di pace

Il Papa ricorda il Poverello d’Assisi come un “uomo di pace” che esortava i suoi frati a salutare le persone come chiesto da Gesù: “Il Signore ti dia la pace”. San Francesco – scrive il Papa – aveva compreso col cuore che tutte le cose sono state create da un solo Creatore, l’unico che è buono, e che “tutti gli uomini hanno in Lui un Padre comune”. Pertanto, “desiderava portare a tutti gli uomini, con animo lieto e ardente, la notizia”  dell’amore ineffabile del “Dio onnipotente e misericordioso”, che “vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tm 2,3-4). Per questo motivo, invitava i frati che si sentivano chiamati da Dio ad andare tra i saraceni e gli altri non cristiani, nonostante i pericoli.

Il Poverello d’Assisi davanti al Sultano

Francesco stesso – ricorda il Papa – prendendo con sé un compagno, di nome Illuminato, partì per l’Egitto nel 1219. A Damietta, nei pressi del Cairo, incontrò il Sultano. Davanti alle domande del capo saraceno, “il servo di Dio Francesco, rispose con cuore intrepido che era stato inviato non da uomini, ma da Dio altissimo, per mostrare a lui e al suo popolo la via della salvezza e annunciare il Vangelo della verità”. E “il Sultano, vedendo l’ammirevole fervore di spirito e la virtù dell’uomo di Dio, lo ascoltò volentieri” (San Bonaventura, Legenda Maior, 7-8).

“Un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo”

Il Papa esorta il card. Sandri a portare il suo “saluto fraterno” a tutti, cristiani e musulmani. Auspica che nessuno ceda alla tentazione della violenza, soprattutto “sotto qualche pretesto religioso”, ma piuttosto, che si realizzino “progetti di dialogo, di riconciliazione e di cooperazione” che “portino gli uomini alla comunione fraterna”, diffondendo la pace e il bene secondo le parole del profeta Isaia: “Un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra”. Il Papa conclude la lettera benedicendo quanti parteciperanno a questo “memorabile evento” e “tutti i promotori del dialogo interreligioso e della pace”

La visita negli Emirati 800 anni dopo l’incontro di Damietta

All’inizio di febbraio, il Papa si è recato negli Emirati Arabi Uniti proprio in coincidenza con l’ottavo centenario dell’incontro tra San Francesco e il Sultano e ad Abu Dhabi ha firmato, con il Grande Imam di Al-Azhar Ahamad al-Tayyib, il Documento sulla “Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la convivenza comune”.

Durante l’incontro interreligioso al Founder’s Memorial ha affermato: “Con animo riconoscente al Signore, nell’ottavo centenario dell’incontro tra San Francesco di Assisi e il sultano al-Malik al-Kāmil, ho accolto l’opportunità di venire qui come credente assetato di pace, come fratello che cerca la pace con i fratelli. Volere la pace, promuovere la pace, essere strumenti di pace: siamo qui per questo”.

Il cristiano parte armato solo della sua fede e del suo amore

Francesco d’Assisi, a otto secoli di distanza, resta una profezia per tutta l’umanità: nel pieno delle crociate si è recato disarmato, con in mano solo il Vangelo, tra i nemici dei cristiani dell’epoca. Papa Francesco, nella Messa celebrata nello Zayed Sports City di Abu Dhabi il 5 febbraio scorso ha spiegato la beatitudine della mitezza ricordando le istruzioni di San Francesco ai frati che si recavano presso i Saraceni e i non cristiani: «Che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani» (Regola non bollata, XVI)”. Il Papa aveva concluso: “In quel tempo, mentre tanti partivano rivestiti di pesanti armature, San Francesco ricordò che il cristiano parte armato solo della sua fede umile e del suo amore concreto. È importante la mitezza: se vivremo nel mondo al modo di Dio, diventeremo canali della sua presenza; altrimenti, non porteremo frutto”.

image_pdfimage_print

il commento al vangelo della domenica


la “differenza cristiana” 
il commento di E. Bianchi al vangelo della settima domenica (24 f3bbraio 2019) del tempo ordinario:

Lc 6,27-38

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli :« A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Da’ a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro. E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro. Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. 36Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio».

Alla proclamazione delle beatitudini, nel vangelo secondo Luca come in quello secondo Matteo, segue da parte di Gesù un discorso indirizzato a quella folla che era venuta ad ascoltarlo quando era disceso con i Dodici dalla montagna (cf. Lc 6,17). In Luca questo insegnamento è più breve e ha una tonalità diversa. In esso non è più registrato il confronto, anche polemico, con la tradizione degli scribi di Israele, ma emerge piuttosto la “differenza cristiana”che i discepoli di Gesù devono saper vivere e mostrare rispetto alle genti, ai pagani in mezzo ai quali si collocano le comunità alle quali è rivolto il vangelo.

“A voi che ascoltate, io dico…”. Sono le prime parole di Gesù, che introducono una domanda, un comando, un’esigenza fondamentale: “Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano”. Certo, queste parole sono collegate alla quarta beatitudine indirizzata ai discepoli perseguitati (cf. Lc 6,22-23), ma appaiono rivolte a ogni ascoltatore che vuole diventare discepolo di Gesù. L’amore dei nemici non è dunque soltanto un invito a un’estrema estensione del comandamento dell’amore del prossimo (cf. Lv 19,18; Lc 10,27), ma è un’esigenza prima, fondamentale, che appare paradossale e scandalosa. I primi commentatori del vangelo con ragione hanno giudicato questo comando di Gesù una novità rispetto a ogni etica e sapienza umana, e gli stessi figli di Israele hanno sempre testimoniato che con tale esigenza Gesù andava oltre la Torah.

Per questo dobbiamo chiederci: è possibile per noi umani amare il nemico, chi ci fa del male, chi ci odia e vuole ucciderci? Se anche Dio, secondo la testimonianza delle Scritture dell’antica alleanza, odia i suoi nemici, i malvagi, si vendica contro di loro (cf. Dt 7,1-6; 25,19; Sal 5,5-6; 139,19-22; ecc.) e chiede ai credenti in lui di odiare i peccatori e di pregare contro di loro, potrà forse un discepolo di Gesù vivere un amore verso chi gli fa del male? Diamo troppo per scontato che questo sia possibile, mentre dovremmo interrogarci seriamente e discernere che un amore simile può solo essere “grazia”, dono del Signore Gesù Cristo a chi lo segue. Anche nel nostro vivere quotidiano non è facile relazionarci con chi ci critica e ci calunnia, con chi ci fa soffrire pur senza perseguitarci a causa di Gesù, con chi ci aggredisce e rende la nostra vita difficile, faticosa e triste. Ognuno di noi sa quale lotta deve condurre per non ripagare il male ricevuto e sa come sia quasi impossibile nutrire nel cuore sentimenti di amore per chi si mostra nemico, anche se non ci si vendica nei suoi confronti.

Con questo comando, che lui stesso ha vissuto fino alla fine sulla croce chiedendo a Dio di perdonare i suoi assassini (cf. Lc 23,34), Gesù chiede ciò che solo per grazia è possibile e, significativamente, è sempre Luca a testimoniare che con questo sentimento dell’amore verso i nemici è morto il primo testimone di Gesù, Stefano, il quale ha chiesto a Gesù suo Signore di non imputare ai suoi persecutori la morte violenta che riceveva da loro (cf. Lc 7,60). Gesù dunque qui rompe con la tradizione e innova nell’indicare il comportamento del discepolo, della discepola: ecco la giustizia che va oltre quella di scribi e farisei (cf. Mt 5,20), ecco la fatica del Vangelo, ecco – direbbe Paolo – “la parola della croce” (1Cor 1,18). Amare (verbo agapáo) il nemico significa andare verso l’altro con gratuità anche se ci osteggia, significa volere il bene dell’altro anche se è colui che ci fa del male, significa fare il bene, avere cura dell’altro amandolo come se stessi. E Gesù fornisce degli esempi, indica anche dei comportamenti esteriori da assumere, espressi alla seconda persona singolare: non fare resistenza a chi ti colpisce e neppure a chi ti ruba il mantello; dona a chi tende la mano, chiunque sia, conosciuto o sconosciuto, buono o cattivo, e non sentirti mai creditore di ciò che ti è stato sottratto. Ciò non significa però assumere una passività, una resa di fronte a chi ci fa il male, e Gesù stesso ce ne ha dato l’esempio quando, percosso sulla guancia dalla guardia del sommo sacerdote, ha obiettato: “Se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (Gv 18,23).

A questo punto Gesù formula la “regola d’oro”, che riporta il discorso alla seconda persona plurale: “Come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro”. Regola formalizzata in positivo, nella quale la reciprocità non è invocata come diritto e tanto meno come pretesa, ma come dovere verso l’altro misurato sul proprio desiderio: “fare agli altri ciò che desidero sia fatto a me”. Pochi anni prima del ministero di Gesù rabbi Hillel affermava: “Ciò che non vuoi sia fatto a te, non farlo al tuo prossimo”. Ma Gesù conferisce a tale istanza una forma positiva, chiedendo di fare tutto il bene possibile al prossimo, fino al nemico.

Solo così, amando gli altri senza reciprocità, facendo del bene senza calcolare un vantaggio e donando con disinteresse senza aspettare la restituzione, si vive la “differenza cristiana”. In questo comportamento c’è il conformarsi del discepolo al Dio di Gesù Cristo, quel Dio che Gesù ha narrato come amoroso, capace di prendersi cura dei giusti e dei peccatori, dei credenti e degli ingrati. Se Dio non condiziona il suo amore alla reciprocità, al ricevere una risposta, ma dona, ama, ha cura di ogni creatura, anche il cristiano dovrebbe comportarsi in questo modo nel suo cammino verso il Regno, in mezzo all’umanità di cui fa parte.

Dopo aver ribadito il comandamento dell’amore dei nemici, Gesù fa una promessa: ci sarà “una ricompensa (misthós) grande” nei cieli ma già ora in terra, qui, i discepoli diventano figli di Dio perché si adempie in loro il principio “tale Padre, tale figlio”. Imitare Dio, fino a essere suoi figli e figlie: sembra una follia, una possibilità incredibile, eppure questa è la promessa di Gesù, il Figlio di Dio che ci chiama a diventare figli di Dio. Se nella Torah il Signore chiedeva ai figli di Israele in alleanza con lui: “Siate santi, perché io sono Santo” (Lv 19,2), e questo significava essere distinti, differenti rispetto alla mondanità, in Gesù questo monito diventa: “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso”. Nella tradizione delle parole di Gesù secondo Matteo il comando risuona: “Siate perfetti (téleioi) come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,48). Qui invece ciò che viene messo in evidenza è la misericordia di Dio; d’altronde, già secondo i profeti, la santità di Dio era misericordia, si mostrava nella misericordia (cf. Os 6,6; 11,8-9). La misericordia, l’amore viscerale e gratuito del Signore che è “compassionevole e misericordioso” (Es 34,6), deve diventare anche l’amore concreto e quotidiano del discepolo di Gesù verso gli altri, amore illustrato da due sentenze negative e due positive.

Innanzitutto: “Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati”, perché nessuno può prendere il posto di Dio quale giudice delle azioni umane e di quanti ne sono responsabili. Si faccia attenzione e si comprenda: Gesù non ci chiede di non discernere le azioni, i fatti e i comportamenti, perché senza questo giudizio (verbo kríno) non si potrebbe distinguere il bene dal male, ma ci chiede di non giudicare le persone. Una persona, infatti, è più grande delle azioni malvagie che compie, perché non possiamo mai conoscere l’altro pienamente, non possiamo misurare fino in fondo la sua responsabilità. Il cristiano esamina e giudica tutto con le sue facoltà umane illuminate dalla luce dello Spirito santo, ma si arresta di fronte al mistero dell’altro e non pretende di poterlo giudicare: a Dio solo spetta il giudizio, che va rimesso a lui con timore e tremore, riconoscendo sempre che ciascuno di noi è peccatore, è debitore verso gli altri, solidale con i peccatori, bisognoso come tutti della misericordia di Dio.

Al discepolo spetta dunque – ecco le affermazioni in positivo – di perdonare e donare: per-donare è fare il dono per eccellenza, essendo il perdono il dono dei doni. Ancora una volta le parole di Gesù negano ogni possibile reciprocità tra noi umani: solo da Dio possiamo aspettarci la reciprocità! Il dono è l’azione di Dio e deve essere l’azione dei cristiani verso gli altri uomini e donne. Allora, nel giorno del giudizio, quel giudizio che compete solo a Dio, chi ha donato con abbondanza riceverà dal Signore un dono abbondante, come una misura di grano che è pigiata, colma e traboccante. L’abbondanza del donare oggi misura l’abbondanza del dono di Dio domani. La “differenza cristiana” è a caro prezzo ma, per grazia del Signore, è possibile.

image_pdfimage_print

padre Cardenal riabilitato da papa Francesco

POETA, RIVOLUZIONARIO E SACERDOTE

Ernesto Cardenal, sacerdote, rivoluzionario e poeta nicaraguense, nel 1984 fu sospeso a divinis da Woityla. Oggi, sul punto di morte, è stato ufficialmente riabilitato da papa Francesco

 meglio tardi che mai

Gianni Beretta

«Meglio tardi che mai» verrebbe da dire sulla riabilitazione come sacerdote del poeta Ernesto Cardenal, ministro della cultura in Nicaragua negli anni ’80 durante tutta la Rivoluzione popolare sandinista. Nel 1984 lui, insieme al fratello Fernando (gesuita, coordinatore della Gioventù sandinista e successivamente ministro dell’Istruzione), padre Miguel D’Escoto (ministro degli esteri) e padre Edgar Parrales (ministro per la famiglia) furono sospesi a «divinis» da Karol Wojtyla; dunque esonerati dallo svolgere i loro compiti sacerdotali.

È rimasta nella stoiria la fotografia del papa polacco che il 4 marzo 1983, appena sceso dall’aereo sulla pista dell’aeroporto Sandino di Managua, salutando uno per uno i membri del governo rivoluzionario (noi de il manifesto eravamo lì a un passo), puntò il dito su Ernesto (l’unico dei quattro preti-ministri ad accoglierlo) che gli si era inginocchiato per baciargli l’anello.

L’allora pontefice ritirò subito la mano umiliandolo e intimandogli: «devi regolarizzare la tua situazione con la Chiesa». Quella visita finì con la clamorosa contestazione a Giovanni Paolo II durante la messa nella gremita piazza 19 de julio; e la sua precipitosa dipartita, rosso di rabbia in volto, dal Nicaragua

.
Uno degli slogan di quel tempo del corso sandinista era: Entre cristianismo y revolución no hay (non cè) contradicción. Mentre in quasi tutta l’America latina era in auge la Teologia della liberazione, avanguardia nell’applicazione del Concilio vaticano II. Che Wojtyla si prodigò letteralmente a sradicare a partire dal suo non casuale primo viaggio dalla sua nomina (nel gennaio 1979) alla III Conferenza episcopale latinoamericana di Puebla, che avrebbe dovuto sancire l’«opzione preferenziale per i poveri». Facendo così un grande favore al presidente Usa Ronald Reagan, nel frattempo impegnato nel promuovere le sette fondamentaliste in tutto il sub continente.
Papa Francesco ha finalmente revocato la sospensione al 94enne padre Ernesto, ricoverato in rianimazione per una grave infezione in un ospedale della capitale nicaraguense. A portargli il messaggio il nunzio Stanislaw Waldemar. Il quale ha espresso l’intenzione di concelebrare una messa insieme a lui. Sempre che, a questo punto, Cardenal riesca a rimettersi. Mentre il vescovo ausiliare di Managua, Silvio Baez, si è precipitato al suo capezzale chiedendogli la sua benedizione «come sacerdote della Chiesa cattolica».

Monsignor Baez, molto legato a papa Francesco, è il prelato che più si è esposto con le sue critiche al regime del presidente Daniel Ortega, ancor prima della rivolta studentesca scoppiata il 18 aprile dello scorso anno, repressa nel sangue dalle forze di sicurezza del fu comandante guerrigliero.

Così come Ernesto Cardenal è stato uno dei primi esponenti del sandinismo a denunciare (fin dagli anni ’90) la piega antidemocratica di Ortega da segretario del Fronte Sandinista prima, e dittatoriale da quando è tornato al governo nel 2007.

Tanto da essere preso di mira da una vera e propria persecuzione politica che gli è valsa un paio d’anni fa una sanzione di 750mila dollari per una inventata controversia sulla proprietà dei terreni dove lo stesso Cardenal aveva fondato negli anni ’70 la sua comunità contemplativa nell’isola di Solentiname del grande lago Nicaragua. Il sistema giudiziario, strettamente controllato da Ortega, era arrivato a congelargli il conto corrente; per poi sospendere il procedimento di fronte alle proteste di intellettuali e letterati dal mondo intero.
Il padre Cardenal è considerato infatti uno dei più grandi poeti latinoamericani. È stato insignito della Legion d’onore francese, del premio latinoamericano Pablo Neruda; fino al Premio regina Sofia di Spagna per la poesia iberoamericana (nel 2012). L’ultimo riconoscimento, il premio Mario Benedetti, lo aveva ottenuto giusto lo scorso anno; e lo dedicò al 15enne nicaraguense Alvaro Conrado, ucciso il 20 aprile scorso da un francotiratore del regime durante una manifestazione di protesta degli studenti. Tra le sue opere più famose: Oración para Marilyn Monroe (ancora del 1965), Quetzalcoatl, Canto Cosmico, La Revolución perdida…; molte di esse tradotte fin in venti lingue.
Nella sua lunga vita il padre Cardenal è stato suo malgrado avvezzo a subire feroci atti di repressione. Già nel 1977 gli sgherri della Guardia somozista distrussero le installazioni della comunità di Solentiname (cappella, scuola, biblioteca, laboratorio di arte primitivista, cooperativa di pescatori e contadini) e assassinò vari dei suoi attivisti. Così come fu clamorosamente boicottato durante la rivoluzione sandinista da ministro della cultura dalla stessa moglie di Daniel Ortega, Rosario Murillo (anch’essa poetessa e oggi vicepresidente nonché factotum del regime) che aspirava a quel posto; e che decise di inventarsi la Associazione dei lavoratori della cultura, in feroce competizione col padre-ministro.
Con la restituzione delle funzioni sacerdotali papa Francesco ha operato in extremis una sorta di risarcimento nei confronti del padre Ernesto che ora «è pronto per andarsene in pace» come ha commentato la scrittrice e anch’essa poetessa nicaraguense Gioconda Belli.
Gesto che il primo pontefice latinoamericano aveva già concesso (su esplicita richiesta) al padre Miguel D’Escoto prima di morire. Mentre Edgar Parrales optò subito per rinunciare allo stato laicale; e Fernando Cardenal scelse invece di rifare il noviziato per rientrare nella Compagnia gesuita a tutti gli effetti. Ancora qualche mese fa il riottoso Cardenal, che mai aveva chiesto la sua riabilitazione, ebbe a dire: «rivendico di essere stato poeta, sacerdote e rivoluzionario
image_pdfimage_print

il commento al vangelo della domenica

«Beati voi»

… ma il nostro pensiero dubita


«Beati voi». Ma il nostro pensiero dubita
il commento di E. Ronchi al vangelo della quinta domenica del tempo ordinario (17 febbraio 2019):
Luca 6,17.20-26

In quel tempo, Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone. Ed egli, alzati gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. […]».

 

L’essere umano è un mendicante di felicità, ad essa soltanto vorrebbe obbedire. Gesù lo sa, incontra il nostro desiderio più profondo e risponde. Per quattro volte annuncia: beati voi, e significa: in piedi voi che piangete, avanti, in cammino, non lasciatevi cadere le braccia, siete la carovana di Dio. Nella Bibbia Dio conosce solo uomini in cammino: verso terra nuova e cieli nuovi, verso un altro modo di essere liberi, cittadini di un regno che viene. Gli uomini e le donne delle beatitudini sono le feritoie per cui passa il mondo nuovo. Beati voi, poveri! Certo, il pensiero dubita. Beati voi che avete fame, ma nessuna garanzia ci è data. Beati voi che ora piangete, e non sono lacrime di gioia, ma gocce di dolore. Beati quelli che sentono come ferita il disamore del mondo. Beati, perché? Perché povero è bello, perché è buona cosa soffrire? No, ma per un altro motivo, per la risposta di Dio. La bella notizia è che Dio ha un debole per i deboli, li raccoglie dal fossato della vita, si prende cura di loro, fa avanzare la storia non con la forza, la ricchezza, la sazietà, ma per seminagioni di giustizia e condivisione, per raccolti di pace e lacrime asciugate. E ci saremmo aspettati: beati perché ci sarà un capovolgimento, una alternanza, perché i poveri diventeranno ricchi. No. Il progetto di Dio è più profondo e più delicato. Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno, qui e adesso, perché avete più spazio per Dio, perché avete il cuore libero, al di là delle cose, affamato di un oltre, perché c’è più futuro in voi. I poveri sono il grembo dove è in gestazione il Regno di Dio, non una categoria assistenziale, ma il laboratorio dove si plasma una nuova architettura del mondo e dei rapporti umani, una categoria generativa e rivelativa. Beati i poveri, che di nulla sono proprietari se non del cuore, che non avendo cose da donare hanno se stessi da dare, che sono al tempo stesso mano protesa che chiede, e mano tesa che dona, che tutto ricevono e tutto donano. Ci sorprende forse il guai. Ma Dio non maledice, Dio è incapace di augurare il male o di desiderarlo. Si tratta non di una minaccia, ma di un avvertimento: se ti riempi di cose, se sazi tutti gli appetiti, se cerchi applausi e il consenso, non sarai mai felice. I guai sono un lamento, anzi il compianto di Gesù su quelli che confondono superfluo ed essenziale, che sono pieni di sé, che si aggrappano alle cose, e non c’è spazio per l’eterno e per l’infinito, non hanno strade nel cuore, come fossero già morti. Le beatitudini sono la bella notizia che Dio regala vita a chi produce amore, che se uno si fa carico della felicità di qualcuno il Padre si fa carico della sua felicità.

image_pdfimage_print

l’ ‘inammissibile “amnesia storica” a proposito dello sterminio di rom e sinti

l’olocausto di rom e sinti

Porrajoms

lo sterminio di cui non si parla

  Sull’olocausto di rom e sinti da parte del regime nazifascista è calata un’inammissibile “amnesia storica”. Ma 500 mila morti non si possono dimenticare

l’appello di Moni Ovadia e del rabbino Ariel Toaff affinché il Giorno della memoria venga dedicato anche alle vittime rom e sinti

500 mila morti praticamente dimenticati. Chi non conoscesse la parola porrajmos, non se ne faccia però una colpa: dell’olocausto dei popoli rom e sinti in Italia si parla ben poco. Ma è una mancanza grave, un’inammissibile “amnesia storica” a cui si deve porre riparo. In lingua romanes porrajmos significa infatti “devastazione” e indica lo sterminio delle minoranze rom e sinte da parte del regime nazifascista. La Shoah dei rom e dei sinti, per dirla in breve.

Una tragedia quasi rimossa, tant’è che quando nel 2000 venne istituito il Giorno della memoria per ricordare gli ebrei vittime della persecuzione, lo sterminio dei rom non venne nemmeno preso in considerazione. Per questo lo scorso ottobre l’artista Moni Ovadia e il rabbino Ariel Toaff hanno rivolto un appello al presidente della Repubblica Sergio Mattarella: obiettivo, chiedere che la memoria del 27 gennaio venga dedicata anche al porrajmos.

Se tanti sanno infatti che Elvis Presley, Zatlan Ibrahimovic e le famiglie Togni e Orfei appartengono al popolo rom, pochissimi ricordano che dalla metà del dicembre 1942 rom e sinti di tutta Europa furono deportati nei campi di concentramento e sterminati alla pari di ebrei, omosessuali, persone con disabilità e dissidenti politici. «Mio padre, nato a Postumia, a cinque anni fu deportato nel campo di concentramento di Tossicia, in provincia di Teramo», dice Giorgio Bezzecchi, docente di Lingua e cultura romanì all’Università di Pavia e figlio di Goffredo Bezzecchi, sopravvissuto all’internamento.

Parlando a nome del padre Goffredo, 80 anni e provato prima dalle conseguenze dell’internamento sulla psiche e poi dalla malattia, nei giorni scorsi Bezzecchi è intervenuto davanti agli studenti dell’istituto Severi-Correnti di Milano. Con sé aveva la Targa d’Argento del Senato, assegnata al padre lo scorso aprile. «Per la prima volta abbiamo ricevuto un riconoscimento istituzionale per la persecuzione», ha fatto notare Bezzecchi. «In Slovenia avevo una grande famiglia ma oggi non ce l’ho più». I nonni e una zia di Goffredo furono infatti deportati e uccisi ad Auschwitz, il padre fu condotto a Birkenau e altri parenti internati nel campo di Agnone (Isernia). Uno degli zii nacque invece a Tossicia nel 1943 e «lo chiamarono Benito», ricorda amaro Bezzecchi.

In Italia i campi d’internamento disposti per gli “zingari” furono 50, da Vinchiaturo (Campobasso) a Perdasdefogu, in Sardegna, passando per Ferramonti (Cosenza). «Mio padre racconta che non avevano le scarpe. Faceva freddo, avevano ognuno un vestito e c’erano solo due coperte per tutti, anche quando nevicava. Avevano fame e soffriva per la clandestinità: nessuno li voleva e temevano di morire», riprende Bezzecchi. «Mio padre oggi è scosso dal disinteresse per chi muore nel Mediterraneo.  Io stesso sono molto preoccupato: mi spaventa il silenzio della società civile».

Oggi in Italia fra rom, sinti  e camminanti (un gruppo che vive nella Sicilia orientale, ndr) si parla 110-170 mila persone, pari alla popolazione della città di Mantova. «A Milano, dove vivo con la mia famiglia, spesso siamo stati additati come “un problema da sgomberare”… ma siamo 4 mila, di cui 2 mila minorenni, su un milione di residenti: non certo cifre da potersi considerare “un problema”», fa notare Bezzecchi.

Rom e sinti sono la più grande minoranza europea: tra i 10 e i 12 milioni distribuiti fra Italia, Spagna e Germania soprattutto. «Sono tutti cittadini europei. Si tratta di persone per lo più sedentarie, in Italia solo il 3 % dei rom, i circensi, pratica il nomadismo », spiega Carlo Scovino di Amnesty International. «Eppure è da più di 500 anni che queste persone subiscono forme più o meno esplicite di discriminazione, dal pregiudizio allo sterminio, passando per le classi speciali nella scuola pubblica e la richiesta di schedatura come negli anni Quaranta e nel 2008».

L’antiziganismo ha origini antichissime, che in Italia risalgono al 15° secolo. «La parola zingari viene dal greco atziganoi, che significa “persone senza Dio”. Arrivarono in Europa dall’India e dal Bangladesh nel 1300, subito indicati come un gruppo diverso, pericoloso e quindi da allontanare», spiega Ulderico Daniele, antropologo e docente all’Università degli Studi di Roma Tre. Fra gli stereotipi duri a morire, gli zingari ruberebbero i bambini e sarebbero, di default, ladri. «A dir la verità fino al 1973 è stata la civilissima Svizzera a strappare i “figli del vento” alle famiglie per rieducarli in istituto. E per quanto riguarda la delinquenza, i disonesti ci sono in tutte le popolazioni», chiude Scovino: «Non si tratta di beatificare i rom, ma oggi sembra che davanti alla legge cada il principio dell’uguaglianza».

image_pdfimage_print

il commento al vangelo della domenica


 “Sulla tua parola getterò le reti” 
10 febbraio 2019 
V domenica del tempo Ordinario 
il commento di E. Bianchi al vangelo  della quinta domenica (10 febbraio 2019) del tempo ordinario:

Lc 5,1-11

In quel tempo,  mentre la folla faceva ressa attorno a Gesù per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca.
Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; 10così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.

Siamo sempre agli inizi della predicazione e dell’attività di Gesù e anche Luca colloca in questo esordio del ministero pubblico del profeta di Galilea la chiamata dei primi discepoli. Rispetto però al vangelo secondo Marco (cf. Mc 1,16-20), ripreso negli stessi termini da Matteo (cf. Mt 4,18-22), Luca dà un’altra lettura della vocazione. Il racconto si arricchisce di particolari, è espresso con un’ottica diversa, sicché già qui vi è un messaggio che allude alla missione della chiesa.

La predicazione di Gesù da Nazaret (cf. Lc 4,16) a Cafarnao (cf. Lc 4,31) si estende alle città attorno al lago di Tiberiade (o di Gennesaret), e Gesù quale profeta continua a dispensare la parola di Dio ad ascoltatori che aumentano ogni giorno, fino a diventare una vera e propria folla che fa ressa, premendo per stargli vicino e raccogliere le sue parole. In quella calca, Gesù vede due barche ormeggiate sulla spiaggia, perché i pescatori erano scesi e stavano pulendo le reti dai detriti risaliti dalle acque del lago insieme ai pesci. Pensa allora di salire su una delle due barche, quella appartenente a Simone, e lo prega di allontanare un po’ la barca da riva, così da farne una sorta di ambone da cui proclamare la parola di Dio. La scena è di per sé eloquente: Gesù “parla la Parola” – scrive letteralmente Luca – e come seme la getta verso terra (la spiaggia) nel cuore degli ascoltatori lì radunati (cf. Lc 8,4-15); ciò che nella sinagoga è un ambone solenne, una cattedra, qui è la barca di Simone, la barca della chiesa…

Non appena ha terminato quell’insegnamento alla folla, Gesù passa dalle parole all’evento: chiede a Simone di “prendere il largo” (“Duc in altum!”, nella Vulgata) – cioè di abbandonare con coraggio e speranza le acque quiete dell’insenatura per inoltrarsi in mare aperto – e di gettare le reti in mare. Simone è un pescatore esperto, per tutta la notte ha tentato la pesca senza ottenere risultati. Sa che non si pesca in pieno giorno, soprattutto se non si è preso nulla durante la notte. Tuttavia quel Gesù che ha parlato lo ha impressionato per la sua exousía; è un uomo affidabile – pensa –, che merita fiducia e obbedienza, dunque gli risponde: “Maestro, … sulla tua parola getterò le reti”. Chiama Gesù con un termine che indica più il capo che il maestro (epistátes) e, da padrone della barca, lascia che sia Gesù a guidarla. Eccolo dunque avanzare verso le acque profonde, verso l’abisso (eis tò báthos), senza timore, munito solo della fede nella parola di quel profeta.

Il risultato è immediato, sbalorditivo: “Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare”. Da dove viene questo successo, se per tutta la notte questi uomini hanno faticato invano? Dalla fede-fiducia nella parola di Gesù! C’è qui una profezia per ogni “uscita”, per ogni missione della chiesa: deve essere sempre fatta su indicazione di Gesù, va eseguita con fede piena nelle sua parola, altrimenti risulterà sterile e inutile. Non era bastata la loro competenza di pescatori, non era risultata feconda la loro fatica, ma tutto muta se è Gesù a chiedere, a guidare, ad accompagnare la missione.

Questo successo della pesca appare come un segno che stupisce Simone: subito cade ai piedi di Gesù in atto di silenziosa adorazione; nello stesso tempo, percependosi nella condizione di uomo peccatore, chiede a Gesù di stare lontano da lui. Accade cioè nel cuore di Pietro la rivelazione che in Gesù c’è la santità, che Gesù è il Kýrios, il Signore, mentre egli è solo un uomo, un peccatore, indegno di tale relazione con chi è divino. È la stessa reazione di Isaia quando nel tempio “vede il Signore” (cf. Is 6,1) e si sente costretto a gridare: “Guai a me, uomo dalle labbra impure!” (Is 6,8); è la reazione di tanti profeti che hanno visto Dio entrare nelle loro vite, attraverso teofanie, manifestazioni grandiose di Dio stesso e hanno subito misurato la loro incapacità di stare davanti a lui.

Qui c’è Gesù, un uomo, un profeta su una barca, eppure Pietro ha compreso la sua identità: Gesù è il Santo di Dio – come Pietro stesso confessa esplicitamente nel quarto vangelo (cf. Gv 6,69) –, mentre egli è un peccatore e tale si sentirà per tutta la vita, in tante occasioni. E quando dimenticherà di essere peccatore, il canto del gallo glielo ricorderà: il gallo, infatti, canterà tre volte, così come lui tre volte aveva gravemente peccato, dicendo di non avere mai conosciuto né avuto rapporti con l’uomo (cf. Lc 22,54-62) di cui qui riconosce la santità e che più tardi confesserà quale “Cristo, Messia di Dio” (Lc 9,20).

Stupore e tremore per Pietro, dunque, ma anche per i suoi compagni, di cui ora Luca svela i nomi: Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo. Si intravede già quel gruppetto di tre che saranno i più vicini a Gesù: erano discepoli amati, non prediletti, non amati più degli altri, perché l’amore, quando è vivo ed è in azione, non è mai uguale nel manifestarsi. Certo, amati da Gesù come gli altri, ma partecipi all’intimità della sua vita in modo diverso, poiché muniti di doni diversi rispetto agli altri: non a caso saranno scelti da Gesù quali testimoni della resurrezione della figlia di Giairo (cf. Lc 8,51-55), testimoni della gloriosa trasfigurazione dell’aspetto di Gesù sull’altro monte (cf. Lc 9,28-29), testimone della sua de-figurante passione nel giardino degli Ulivi (secondo Mc 14,33 e Mt 26,37). Saranno coinvolti con Gesù nella sua gloria e nella sua miseria, dunque sempre in ansia, sempre chiamati alla vigilanza, di cui non sono capaci (cf. Lc 22,45-46 e par.), sempre chiamati a una fedeltà che però viene meno, a causa del rinnegamento (cf. Lc 22,54-62) o della fuga (cf. Mc 14,50; Mt 26,56).

Secondo Luca qui Gesù invita Pietro a non temere e gli consegna la vocazione-promessa: “Non temere, d’ora in poi tu prenderai, pescherai vivi degli uomini”. Ovvero, “d’ora in poi è tuo compito andare al largo, su acque profonde, per salvare uomini preda del male, per salvarli da marosi e abissi infernali, da strade perdute, e condurli alla vita!”. Non si pensi alla missione come cattura e proselitismo, ma soprattutto a un annuncio di salvezza, quello che Gesù aveva illustrato di sé nella sinagoga di Nazaret, leggendo un brano del profeta Isaia e dichiarando realizzata quella profezia: liberare i prigionieri, ridare la vista ai ciechi, redimere gli oppressi, annunciare ai poveri la buona notizia del Vangelo (cf. Lc 4,16-21; Is 61,1-2).

La chiesa, quando va in missione, non va innanzitutto per fare cristiani, per aumentare il numero dei suoi membri, per battezzare, ma in primis per un’azione di liberazione dei bisognosi, per una manifestazione dell’amore gratuito di Dio. Così la chiesa annuncerà il Signore Gesù e, se Dio vorrà, ci saranno conversioni, sequela del Signore e partecipazione al corpo ecclesiale. Attenzione però a non capovolgere la dinamica della missione determinata dal Signore, calcolando e cercando risultati, confidando nelle opere visibili delle nostre mani.

Ecco allora avvenire il mutamento decisivo per Simone e gli altri compagni che sono con lui, i quali, da pescatori di pesci, diventano discepoli; e da discepoli, per la promessa di Gesù, diventeranno pescatori di uomini nella missione della chiesa:

“Tirate le barche a terra,
lasciarono tutto
e lo seguirono”.

Ormai non sono più addetti alla barca, alla pesca, al loro mestiere, ma tutte queste cose (ecco la radicalità evangelica!) sono abbandonate per sempre sulla riva del lago. Ora Simone e gli altri hanno detto il loro il “sì”, l’“amen” al profeta e Signore Gesù, affidabile e dunque autorevole. Hanno preso la decisione: vale la pena seguirlo e fondare la propria vita sulla sua parola. Luca ha utilizzato la metafora della pesca – come accade altre volte nei vangeli – per dirci una cosa semplice: quando Gesù chiama, trasforma quello che facciamo, e questa trasformazione richiede un abbandono di ciò che eravamo e una novità di vita, di forma di vita, nel futuro che si apre davanti a noi.

In ogni vocazione c’è sempre la chiamata, ma anche la promessa più o meno esplicita. Perché quando chi è chiamato risponde alla parola del Signore, egli intraprende un cammino, una sequela che sta sempre sotto la promessa della fedeltà di Dio. Dio resta fedele anche quando il chiamato diventa infedele (cf. 2Tm 2,13). Così avverrà per Simone-Pietro (cf. Lc 22,61) e così avviene anche per noi.

image_pdfimage_print

Il papa sdogana l’islam, ma l’islam sdogana la chiesa? – un auspicio

papa Francesco sdogana i musulmani

da infedeli a fratelli

Ottocento anni fa, durante le Crociate, tra sangue e spade, si levò forte la voce di San Francesco anche “contro” la Chiesa che quelle guerre capeggiava. Oggi sono le diplomazie e i gesti di Francesco Papa, che si reca nel cuore dell’Islam, a sottolineare l’importanza del dialogo, della fraternità e della pace fra i popoli.

La posta in gioco è altissima: parla a nuora perché suocera intenda. In tutto l’Islam il vero problema è il riconoscimento delle comunità cristiane e la costruzione dei luoghi di culto. È la loro possibilità di “vivere” allo scoperto manifestando liberamente la propria fede senza timore.

Ad Abu Dhabi tutto il mondo musulmano guarda con attenzione le parole e i gesti di Bergoglio. Ma anche i cristiani osservano con altrettanta attenzione quello che sta avvenendo.

La strada intrapresa dall’Argentino ricalca quella che Francesco d’Assisi segnò 800 anni fa: allora “infedeli” oggi fratelli.

Il Papa sdogana l’Islam, ma l’Islam sdogana la Chiesa? E’ l’auspicio e il punto di domanda di questo viaggio apostolico. Bergoglio lo ha fatto sin dall’inizio: “un fratello da voi per costruire sentieri di pace“. È questa la posta in gioco e lo si fa con le parole attribuite a san Francesco: fa di me uno strumento della tua pace.

Parole che affondano le loro radici nel testo della Regola non Bollata che allora la Chiesa non volle approvare:

Perciò tutti quei frati che per divina ispirazione vorranno andare tra i saraceni e altri infedeli… I frati poi che vanno tra gli infedeli possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti né dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio (1 Pt2, 13) e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che, quando vedranno che piace a Dio, annunzino la parola di Dio…”.

Parole dettate dall’assisiate dopo il viaggio a Damietta nel 1219, senza se e senza ma.

L’esortazione “Né liti né dispute” è fondamentale in quanto il Santo auspicava che i frati si distinguessero dai crociati in armi. Non la ricerca di uno scontro, ma la costruzione di un terreno comune e umano su cui far nascere un’amicizia.

Le immagini che arrivano oggi da Abu Dhabi: il Grande Imam di Al-Azhar, Mohamed Ahmed al-Tayeb, il principe ereditario lo sceicco Mohammed Bin Zayed al Nahyan, e Papa Francesco che camminano mano nella mano rimarranno nella storia.

Immagini che siglano l’amicizia invocata da Francesco d’Assisi 800 anni fa. Le linee guida di allora diventano gli atteggiamenti di oggi. Non la strada dell’imposizione ma quella della condivisione.

image_pdfimage_print

dovremmo … ed invece …

vocazione all’infinito e impegno nel tempo storico

Pregare per la comunione con Dio e praticare la giustizia per quella con i poveri nel simbolo del fiore e della corda.

preghiera e pratica della giustizia

Dovremmo attendere Colui che libera ed invece ci sediamo al tavolo dell’oppressore.
Dovremmo cercare Colui che si abbassa per Amore ed invece lo preghiamo di rimanere in cielo.
Dovremmo sperare ed invece programmiamo.
Dovremmo affidarci alla Provvidenza, guardare i gigli che non filano e non tessono (1) ed invece ci accordiamo con i potenti per ottenere sovvenzioni o con i padroni per ottenere sponsorizzazioni.
Dovremmo rincorrere ed imitare la creatività dello Spirito che soffia e parla dove vuole (2) ed invece produciamo ripetitività alienante.
Dovremmo essere segno di contraddizione come il Signore Gesù (3) ed invece siamo elemento di stabilizzazione dell’Iniquità.
Dovremmo utilizzare un linguaggio profetico ed autentico (4) ed invece denunciamo le disuguaglianze omettendo accuratamente di pronunciare i nomi dei responsabili.
Dovremmo essere pacifisti lottando per la giustizia sociale ed invece non ci schieriamo per lasciare in pace gli sfruttatori.
Dovremmo curare le nostre nevrosi egoistiche vivendo la compassione come proposto nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo ed invece seguiamo il percorso formativo di disumanizzazione comandato dal Capitale.
Dovremmo nutrirci con la Parola di Dio e con l’Eucaristia, dissetarci con l’acqua viva donata da Cristo (5) ed invece ci riempiamo compulsivamente di distrazioni e di divertimento.
Dovremmo porre attenzione ai segni della presenza di Dio nella storia ed invece testimoniamo la sua assenza.
Dovremmo stare nelle strade del mondo ed invece ci barrichiamo nei palazzi.
Dovremmo promuovere un’altra narrazione ed invece assorbiamo quella degli idoli.

(1) Cfr. Vangelo di Luca 12,27
(2) Cfr. Vangelo di Giovanni 3,8
(3) Vangelo di Luca 2,34
(4) Cfr. Vangelo di Matteo 5,37
(5) Cfr. Vangelo di Giovanni 4,10

image_pdfimage_print
image_pdfimage_print

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fonire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o clicchi su "Accetta" permetti al loro utilizzo.

Chiudi