un presidente del mondo intero? a qualcuno è venuta l’idea

la candidatura di Papa Francesco a presidente del mondo

   La sua candidatura non l’ha ancora annunciata.  In realtà quel posto di lavoro non esiste nemmeno. Ma è con astuzia, metodo e un perfetto stile da uomo di spettacolo che questo settantottenne argentino, un gesuita di nome Jorge Mario Bergoglio — Papa Francesco — ha dimostrato, sommessamente, di avere tutte le intenzioni d’inaugurare la propria campagna a presidente del pianeta

E lo ha fatto nel corso di una cerimonia parlamentare segnata da una pompa magna secolare e democratica, all’interno di un enorme edificio dedicato al potere legislativo che, in fondo, si richiama all’antica Roma.

Indipendentemente dalla sua devozione e dalla sua dedizione alla fede e alla pratica della Chiesa cattolica, Francesco sta a tutti gli effetti conducendo una campagna per porsi alla guida di quello che è il dibattito pubblico, secolare e politico a livello mondiale. Lui sostiene che i due regni della fede e della politica siano in realtà un’unica cosa, e che gli insegnamenti morali e spirituali della fede dovrebbero ispirare e guidare le decisioni politiche prese in nome della “nostra casa comune”.

Questa non è certo un’idea nuova, ma sembra esser tornata di moda. Da un lato la chiesa di Francesco ha grande bisogno di far entrare l’aria fresca dell’opinione pubblica internazionale. Dall’altra i leader secolari vengono disprezzati, e lo stesso concetto di governo parrebbe aver perso ogni impressione di uno scopo morale.

Con quella capacità di superare le transenne tipica di Bill Clinton, e la padronanza del palcoscenico di un Ronald Reagan, Francesco sta piazzando se stesso e il suo messaggio nella città di Washington da maestro della politica qual è.

Nel suo discorso al Congresso degli Stati Uniti — il primo in assoluto mai pronunciato da un papa — non ha mai esplicitamente menzionato la parola aborto. Ha difeso la “famiglia”, ma non ne ha mai fornito una definizione basata sul genere o su di una particolare preferenza sessuale. Non ha neanche parlato di un’aggressione alla cultura tradizionale cattolica, o tanto meno a quella giudaico-cristiana.

È talmente fuori moda.

Al contrario, davanti al Congresso Papa Francesco ha fatto un’omelia secolare lunga 45 minuti sulla necessità che i legislatori americani rispettino la moralità comune che deriva dal Vangelo sociale cattolico. Detto nel linguaggio della politica statunitense, è un po’ come se quest’uomo vestito semplicemente di bianco fosse il leader dell’ala progressista del Partito Democratico.

Ha supplicato i legislatori statunitensi — e per estensione i leader dei governi di tutto il mondo — di adoperare il proprio potere temporale per sollevare dalla loro condizione le persone che vivono in estrema povertà, di tener fede alle promesse d’uguaglianza razziale, di far pace coi propri vecchi nemici ideologici, d’accogliere gli immigrati a braccia aperte, di porre fine al mercato delle armi e di salvaguardare l’ecosistema planetario.

Francesco ha individuato come modelli da lodare ed emulare le figure di Abramo Lincoln, Martin Luther King Jr., Dorothy Day e Thomas Merton. Un “pantheon” che, nel suo insieme, fornisce il modello per un’azione di governo improntata ai diseredati.

Il suo approccio attinge a quelle che sono le sue radici. Da giovane in Argentina aveva ammirato Juan Peron, il cui personale stile di socialismo paternalistico, improntato al culto della personalità, lo aveva sospinto al potere col sostegno sempre più entusiasta della Chiesa cattolica. Oggi, Francesco adopera con grande abilità i social media e la sua stessa popolarità.

La sfida che il papa ha portato davanti al Congresso era di natura teoricamente bipartisan — anzi, universale.

Ma se i conservatori in aula si aspettavano almeno qualche gesto che andasse nella loro direzione, alla fine non ne hanno comunque ricevuto quasi nessuno. I repubblicani hanno applaudito, e ove necessario si sono cortesemente alzati in piedi. Ma il contesto non gli apparteneva, e in termini meramente politici lui non è il loro papa. Per i repubblicani del sud è dura immaginare un pantheon meno gradevole di quello descritto da Francesco.

Il primo papa proveniente dalle Americhe è arrivato negli Stati Uniti proprio nel momento in cui le prossime presidenziali entrano nel vivo, e si è gettato a capofitto nel dibattito, intervenendo sui mutamenti climatici, sull’immigrazione e sulla crisi dei rifugiati.

Parlando da un punto di vista strettamente politico, il tema del “bene comune” gioca anche un po’ in difesa: il fatto di allontanare l’attenzione dall’aborto, dall’orientamento sessuale e dal matrimonio gay potrebbe anche minimizzare il passato controverso del comportamento dei preti.

Ma questa nuova attenzione all’economia, alla discriminazione razziale e alla giustizia sociale ha un altro scopo, più vasto: fare proseliti nei Paesi in via di sviluppo, presentandosi in testa agli eserciti dei poveri e dei diseredati. Per dirla in altro modo, sta riportando la chiesa alla sua base originaria.

Francesco conosce bene la demografia: nell’America Latina, in Africa e altrove la Chiesa cattolica è in competizione con l’Islam e il Protestantesimo evangelico.

Il papa vuole vincere quella battaglia, e Washington non è stata che l’ennesima tappa della sua campagna.

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