la testimonianza delle ‘piccole sorelle di Gesù’ al C.C.I.T. 2019 in Croazia

 

 

 

CCIT – Trogir – 2019

La “missione di ritorno” come principio di cambiamento

petites Soeurs de Jésus

Presentazione

Piccole sorelle di Gesù di tre nazionalità (libanese, belga, italiana), viviamo fra i Rom rumeni in una città del sud Italia. Si possono facilmente immaginare le differenze, l’incontro (gli scontri!) e l’insieme di culture che questa diversità rappresenta. La nostra prima missione non è, come si potrebbe credere, quella di vivere fra i Rom, ma piuttosto vivere insieme, in comunità al seguito di Gesù. Questa è l’essenza della nostra vita, il luogo in cui le nostre differenze si rivelano. È al contempo tesoro e sfida, energia che ci spinge, quasi sforzandoci, al cambiamento. Oggi vorremmo condividere qualcosa a proposito di questa dinamica interna, di questo cammino comunitario e fraterno.

La differenza vissuta nell’intimo della nostra comunità

In uno spazio ridottissimo, nel quale tutto è vissuto sotto lo sguardo le une delle altre, le occasioni di scontro reciproco non mancano. Basta chiedere ad una donna italiana, che ha l’abitudine di sciacquare le stoviglie all’acqua corrente, cosa ne pensi di una belga che invece le sciacqua nell’acqua stagnante. Nella migliore delle ipotesi giudicherà che le stoviglie non sono pulite (se non le capiterà addirittura di giudicare istantaneamente che la persona -vedi anche il suo popolo- è sporca). Di certo, comunque, non vorrà riporre nell’armadio le stoviglie sciacquate in quel modo. Per non parlare poi della libanese, che avrebbe addirittura aggiunto della varichina nell ‘acqua del lavaggio. Se per quest ‘ultima è un’usanza appresa fin dalla più tenera infanzia, per la belga che la guarda allibita questo “igienizzante” non è null’altro che un veleno, nocivo per l’essere umano e per l’ambiente. Questo piccolo esempio e altri simili -ne potremmo ripetere all’infinito in ambiti diversi (cucina, igiene personale, educazione…)- ci permettono di percepire quanto le differenze si incontrino, si scontrino e si urtino quotidianamente all’interno della nostra comunità.

Dinanzi alla differenza, il giudizio emerge assai spontaneo e permette di rassicurarci riportando l’elemento perturbante nell’ambito del conosciuto. Noi siamo nel giusto e l’altro si sbaglia: è lui, secondo i casi, scortese, sporco, ingiusto, maleducato… spesso neppure pensiamo possibile un altro sguardo sulla realtà. L’altro ci disturba, ci irrita, ci scandalizza. Pur giudicando la mia cultura di appartenenza di poco superiore a quella dell’altro, questo può diventare molto pericoloso per chi è diverso da me, perché giudichiamo sempre a partire dai nostri criteri. Spesso questi ci sembrano universali e, troppo spesso. ci dimentichiamo che vanno contestualizzati: ad ogni cultura, comunità, parrocchia, famiglia corrispondono linguaggi, percezioni, codici e limiti.

Come starci dentro quando siamo chiamate a vivere insieme la quotidianità? Aprirci al dialogo, lasciare che le nostre certezze si sgretolino, accettare di cambiare lo sguardo per andare incontro all’altro e provare, almeno, a comprendere da dove viene, accettare di non capire, abitare insieme il disaccordo, lasciar cadere i nostri giudizi e pregiudizi, ritrovare i nostri bisogni comuni al di là delle nostre espressioni differenti o addirittura contradditorie.

Parlare insieme è una delle garanzie donataci per evitare di restare intrappolate nella nostra unica visione del mondo e di prenderla come riferimento totalizzante. In effetti quando lascio il mio Paese, la mia cultura, posso illudermi di essermi lasciata dietro ciò che è mio e che solo questo abbia già necessariamente aperto in me uno spazio per incontrare l’altro. Succede poi che progressivamente, incontrando l’altro con l’altro io prenda consapevolezza di quanto, invece, sia”piena”, abitata da ciò che è “mio” (tutto quello che mi ha formato, le mie abitudini, la mia storia…). 

È un processo faticoso, che non lascia indenni (devo “perdere” qualcosa a partire dall’idea di possedere la verità, di sapere cos’è giusto, cosa è meglio fare o meno): è un cammino appassionante che schiude nuovi orizzonti, allarga il nostro modo di concepire il mondo, rimette in discussione quel che credevamo essere universale.

L’incontro con l’altro diverso da me conduce ad una certa rinuncia, ha un suo prezzo: è un percorso che mi chiede di lasciare ciò che mi appartiene, ciò che mi ha permesso di crescere e che, quindi, mi è prezioso.

Per esempio, in Libano, di consuetudine, si accoglie qualcuno con un vassoio di frutta. È segno di ospitalità offrire la frutta già sbucciata e tagliata così che l’ospite possa servirsi agilmente. Immaginate quindi la nostra sorella libanese che secondo la sua usanza, riproduce lo stesso modello qui in Italia. Percependo un certo disagio ne abbiamo parlato insieme. Che sorpresa scoprire che, ricevendo la frutta già sbucciata, le sue sorelle, piuttosto che sentirsi onorate si sentivano infantilizzate. Dal canto suo, è rimasta scandalizzata nel constatare che, quando accogliamo degli ospiti, noi serviamo la frutta in un vassoio e non insistiamo perché 1 ‘ospite si serva per primo. Come sapere, se nessuno non glielo spiega, che servirsi dà l’autorizzazione all’altro a fare lo stesso? Quante altre cose che, apparentemente, sembrano andar da sé e che, invece, possono trasformarsi in enigmi se non addirittura in muri di incomprensione?

La differenza vissuta in comunità e con quanti ci circondano

Questa stessa dinamica (differenze, giudizi, conversione dello sguardo, apertura di orizzonti) si può rintracciare su scala diversa con le persone che ci circondano. In effetti è all’interno di un popolo ancora diverso da noi che siamo chiamate a vivere le nostre differenze culturali e personali. E come un sigillo che conferma il nostro desiderio di lasciarci interpellare dall’altro e con l’altro: un incoraggiamento capace di aiutarci ad accogliere le nostre differenze interne.

Chissà perché non ho problemi nell’accettare l’ignoranza dei miei vicini o degli italiani quando mi chiedono se sono musulmana e come mi sono convertita, mentre invece il problema nasce quando a chiedermelo è una mia sorella che subito giudico come stupida. Che cosa avviene in me quando mi accorgo del mio meravigliarmi di fronte alle continue espressioni di fede che costellano il quotidiano dei nostri vicini, quando, invece, mal sopporto quando mia sorella finisce le sue frasi con un “come Dio vuole” e: “che Dio ti benedica” come segno di gratitudine per un servizio ricevuto? Se accetto che il mio vicino si esprima così, perché volere che mia sorella lo faccia diversamente?

La nostra vita comune è una palestra, un laboratorio in cui allenarci ad accogliere e lasciarci trasformare dalla differenza dell’altro. L’alterità dei nostri vicini (che spesso accetto più facilmente) mi aiuta ad accogliere la differenza con le mie sorelle; d’altra parte, la differenza fra noi mi aiuta ad accettare la differenza con i nostri vicini.
Non potrebbe essere così anche nelle nostre parrocchie, associazioni, famiglie? Ognuno potrebbe chiedersi: come accolgo i nostri diversi punti di vista circa la missione, il lavoro da svolgere… sono ostacoli o risorse?
Questo riguarda anche gli interrogativi più legati alla nostra presenza: l’opportunità di intervenire o meno in un conflitto al campo; la possibilità di un’uscita serale fra di noi e le possibili ripercussioni che questo potrebbe destare nella relazione con in nostri vicini; o ancora quanto sia opportuno partecipare o meno ai matrimoni di rom minorenni; fino a chiederci come reagire ad una menzogna che ci riguarda… interrogativi che sono occasioni in cui crescere nella conoscenza reciproca. Ciò richiede tempo, energie, ascolto e rispetto… nessuna di noi ne esce indenne: interrogativi e domande non si attraversano senza perdite e ferite, senza incomprensioni e riconciliazioni.

La differenza fattore di cambiamento

Il cambiamento non è, prima di tutto, un processo personale, come ci ricordano e ripetono psicologi e guide spirituali? La missione ha ancora senso se non comincia con il cambiare noi stessi?

Possiamo desiderare migliorare le sorti dell’altro, salvarlo, cambiarlo, senza fare, noi stessi per primi, esperienza di cosa significhi essere salvati, lasciarsi salvare, lasciarsi trasformare interiormente?

Se penso alla missione da questo punto di vista, essa ha immediatamente e prima di tutto delle conseguenze su di me. Tutto questo mi implica in prima persona e spesso è molto più impegnativo, e molto meno facile. Quando io stessa, pur cosciente dell’importanza, non riesco a cambiare alcuni dei miei comportamenti, quando io stessa resisto a quanto mi viene imposto dall’esterno, posso ancora permettermi di inveire contro colui-coloro che vengo ad aiutare e che fanno fatica ad accettare, ad accogliere il mio aiuto, a rispettare la struttura che dò??

Piuttosto che volere l’altro secondo i miei criteri, non mi rimane che accompagnarlo nel suo desiderio di cambiamento. Accompagnarsi diventa il luogo in cui può nascere il desiderio di cambiare insieme, d’inventare “qualcosa” di nuovo che né io né l’altro conosciamo ma che costruiremo insieme. Si tratta di vedere come prendiamo in con-siderazione la missione e, soprattutto, come ci lasciamo con-siderare da essa.

La missione ci trasforma trasformando il concetto stesso che abbiamo di missione. Non è forse quello che Gesù ha vissuto incontrando la donna sirofenicia (Mc 7,24-30)? Gesù stesso lascia che questo incontro lo converta, lo cambi. Un incontro totalmente altro (donna, pagana, appartenente ad un’altra cultura, madre). Gesù lasciandosi interpellare ne esce cambiato. L’incontro delle loro differenze dona una comprensione più piena (consapevole) della sua missione. Gli orizzonti si sono allargati o, almeno, i pre-concetti \ le pre-comprensioni sono ora meno rigide, c’è spazio per altro, c’è spazio per ciò che fin ll e fino ad allora non era mai stato de-siderato.

Umilmente, e sapendoci sempre in cammino, ciascuna di noi può affermare che ha almeno uno sguardo altro rispetto alle abitudini, tradizioni religiose e sociali… alle ricchezze culturali e ai punti deboli del proprio Paese. È ciò che ci racconta Rania rispetto alle modalità diverse che si hanno nel vivere il digiuno quaresimale. “Da noi il digiuno è piuttosto stretto, vicinissimo alla tradizione ortodossa: durante la quaresima non mangiamo né carne né tutto ciò che deriva dagli animali, è un cammino che ci viene offerto per avvicinarci alla Salvezza. Inizialmente ero scandalizzata nel constatare quanto in Italia si attribuisse poca importanza al digiuno. Non comprendevo. Con gli anni, ho cercato qualcuno che mi aiutasse a comprendere il senso del digiuno in occidente ed è così che, a poco a poco, sono entrata in questa modalità. Ho riscoperto che non posso “raggiungere” la Salvezza, ma che è questa a raggiungermi. Il digiuno non è che un mezzo: se intorno a me lo si vive, allora vi partecipo con gioia. Se, al contrario, non lo si pratica, preferisco mangiare con gli altri privilegiando la relazione, sapendo che non solo non sarà questo che mi impedirà di essere salvata, ma che questa può essere oggi la strada attraverso la quale lasciarmi raggiungere da essa. Ho così trovato una certa libertà rispetto alla tradizione, alle mie origini. Ora, anche in Libano, posso vivere il digiuno in maniera più libera e assumere le reazioni degli altri perché so profondamente che l’essenziale è nella mia relazione a Dio e agli altri qualunque sia il mezzo scelto”.

Concludiamo con una piccola storia che ben riassume questa nostra testimonianza. Dopo diversi anni di vita condivisa sotto la tenda, con i nomadi, una vicina musulmana ha detto alle piccole sorelle: “Ora siete diverse da quelle che eravate arrivando qui e anche noi siamo diversi. Noi e voi siamo diventati diversi e siamo cambiati. C’è un po’ di voi in noi e un po’ di noi in voi”

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