il mistero pasquale secondo il card. Martini

la pasqua di Cristo 

p. Carlo Maria Martini

martini

verso la passione e la risurrezione di Gesù

Che cos’è la Pasqua?   La Pasqua, come tutti sappiamo, è una festa ebraica, la cui origine si  perde nella notte dei tempi; dapprima è stata semplicemente una  festa di pastori per l’inizio della nuova stagione, e si celebrava quando  si scorgeva la luna piena per la prima volta dopo il solstizio di primavera. In quella occasione si soleva sacrificare qualche animale  del gregge e in questo senso la festa ci ricorda le origini nomadiche  del popolo ebraico. Ciò che la rende però la festa caratteristica degli  Ebrei è la celebrazione della liberazione del popolo dall’Egitto, della  liberazione dalla schiavitù del faraone, avvenuta verso il 1800-1700  a.c. Proprio nel plenilunio che segue il solstizio primaverile, si faceva memoria dell’evento sacrificando un agnello. Così la Pasqua diviene il  grande momento che ricorda la nascita del nuovo popolo per l’azione
potente di Dio che lo libera.

ultima cena

Come tale, questa festa fino a oggi  rimane il grande riferimento religioso e nazionale degli ebrei; non la si  celebra più con i riti antichi, dal momento che il tempio è stato definitivamente distrutto nel I e poi nel II secolo d.C.; la si celebra  con un pasto, con una cena.

Assume la sua natura di principale festa cristiana perché nella giornata precedente il plenilunio che segue il
solstizio di primavera, Gesù Cristo, a Gerusalemme, viene ucciso sulla  croce e, dopo tre giorni, nel primo giorno della settimana dopo il  sabato, risorge. Quella stessa data che era e rimane la data della  liberazione degli Ebrei dal popolo egiziano, diviene, per il popolo  cristiano, la storia della liberazione dalla morte, quindi della  redenzione. E il mistero cristiano per eccellenza, il nucleo della fede  cristiana.

1600-1700 anni dopo l’esodo, la Pasqua è vissuta dai  cristiani prima nella tragedia della croce e poi nella proclamazione del  Risorto: il Cristo è veramente risorto ed è apparso a Pietro, ai Dodici, è apparso alle donne. La Pasqua cristiana è la festa delle feste, e  cristiano è colui che afferma: il Signore è veramente risorto.

Il cristianesimo non è, come talora si pensa, una dottrina morale, per  esempio sul primato dell’amore; non è nemmeno una dottrina su Dio.  Esso nasce e si sviluppa da questa fondamentale proclamazione: Gesù
Cristo crocifisso è davvero risorto. Se studiamo i testi del Nuovo  Testamento, i testi più antichi scritti nel I secolo della nostra era,  ritroviamo tale certezza: il Cristo crocifisso è risorto, noi l’abbiamo visto, noi l’abbiamo incontrato. Ma se Gesù è risorto, è perché Dio Padre l’ha risuscitato; se è risorto, è lui che dona lo Spirito santo  all’uomo; dunque Dio è Padre Figlio e Spirito santo. Se Cristo è risorto, l’uomo è liberato dai propri peccati, e il cristianesimo è  redenzione, liberazione dal peccato. Se Cristo è risorto, lo è per tutti
gli uomini.  Dalla risurrezione di Cristo deriva perciò tutto il resto del messaggio  cristiano; senza la risurrezione, il messaggio sarebbe semplicemente  una dottrina religiosa, non sarebbe ciò che è, un evento, un fatto che  comporta una concezione di Dio e dell’uomo, di Dio Trinità e dell’uomo  amato e redento e chiamato alla vita per sempre

Il Natale, che nel  mondo occidentale è celebrato tradizionalmente con grande solennità per motivi storici e folkloristici, segna l’inizio della vita di Gesù sulla  terra, vita che ha il suo culmine nella croce e nella risurrezione. La  festa della Pentecoste fa memoria del dono dello Spirito santo che  viene effuso dal Crocifisso risorto. E anche le feste della Madonna e  dei santi non sono che riflessi di questo grande mistero centrale.

Giustamente la Pasqua è il contenuto stesso della fede cristiana, è il cuore della vita della Chiesa, perché ci dice chi è Dio, chi è Gesù Cristo, chi siamo noi. È la gloriosa manifestazione di un Dio amante  della vita, che vuole la vita e non la morte, di un Dio che anche dalla  morte fa scaturire la vita. La Pasqua rivela chi è Gesù di Nazaret, il  Cristo Figlio unico del Padre; proclama che in lui, morto e risorto,  converge la storia di Israele e la storia dell’umanità.

La Pasqua fa scoprire chi è l’uomo, chi siamo noi, chiamati a risorgere  con Gesù, a superare con lui il dramma della morte, per essere con lui  nella vita per sempre. La Pasqua è il nodo risolutivo, il perno attorno a  cui gira tutto il piano di Dio riguardante l’uomo e il cosmo; è il centro  a cui tutto guarda e da cui tutto riparte.

La liturgia della Chiesa vive la Pasqua nell’ arco di un’intera  settimana: essa inizia con la Domenica cosiddetta delle Palme, quando si acclama Cristo quale vincitore e re e ha il suo momento forte nel
Triduo del giovedì, venerdì, sabato e domenica di risurrezione. Nel  giovedì santo contempliamo Gesù nell’ultima cena, dove presenta il  pane e il vino come segno della sua decisione di dare la vita per  l’uomo; il venerdì santo è il giorno della morte di Gesù; nel sabato  santo si fa memoria del sepolcro in cui Gesù si lascia rinchiudere per  sigillare il suo amore per il mondo. Finalmente, nel giorno di Pasqua  risuona il grido dell’alleluia, della vittoria definitiva del bene sul male,  un grido già nascosto e implicito nei riti delle giornate precedenti.

 La Domenica delle Palme

Nella Domenica delle Palme viene letta una pagina tratta dal vangelo secondo Giovanni:  «La grande folla che era venuta per la festa» – la festa della Pasqua ebraica – «udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di  palme e uscì incontro a lui gridando: Osanna! Benedetto colui che  viene nel nome del Signore, il re d’Israele! Gesù, trovato un asinello,  vi montò sopra, come sta scritto: “Non temere, figlia di Sion! / Ecco, il  tuo re viene, / seduto sopra un puledro d’ asina”. Sul momento i suoi  discepoli non compresero queste cose; ma quando Gesù fu glorificato,  si ricordarono che questo era stato scritto di lui e questo gli avevano
fatto» (12, 12-16).

crocifisso

Può sembrare strano cominciare con un’acclamazione a Cristo come  vincitore e come re, ma la liturgia non conosce la malinconia. L’evento  della passione è di fatto una vittoria, perché ormai Gesù ha vinto la  morte e ne ha superato la paura. Ciò spiega perché lo contempliamo  mentre entra deliberatamente e coraggiosamente nella città che  trama contro di lui.

L’episodio riportato dal vangelo di Giovanni indica chiaramente  la circostanza: la folla è venuta a Gerusalemme per la festa ebraica di  Pasqua che si celebrerà tra pochi giorni.  I soggetti del racconto sono tre: la folla, appunto, Gesù, i discepoli.

– La folla, assai grande, è composta di gente buona, semplice, devota;  gente che si è recata nella città santa in anticipo proprio per  “purificarsi”, cioè per vivere la Pasqua con purità cultuale, rituale e  morale. Questa gente soffre per i mali di sempre, per i mali di tutti i  tempi: le malattie, la povertà, la disoccupazione, i drammi delle  famiglie. Soffre inoltre a causa dell’ oppressione politica del proprio paese, dell’ oppressione fiscale eccessiva, delle tante corruzioni e  ruberie che contaminano la terra. E la sofferenza la porta ad aspettare  qualcosa di più e di meglio, a guardare a ogni evento nuovo con  speranza; perciò è pronta a entusiasmarsi. La notizia – riferita nel  vangelo di Giovanni al capitolo Il – che Gesù ha risuscitato l’amico
Lazzaro non può non riaccendere i sogni messianici e la voglia di  rivedere Gesù che da qualche tempo si era ritirato e non si mostrava  in pubblico.  E, a un tratto, la folla viene a sapere che Gesù salirà a Gerusalemme  per la festa. Altre volte era stato nella città santa, ma questa sua  venuta, che sarà l’ultima, costituisce un gesto ardito, audace, carico di  pericoli. Pochi giorni prima l’apostolo Tommaso, sentendo che Gesù  intendeva recarsi a Betania che si trova sulla strada verso  Gerusalemme, aveva esclamato: «Andiamo anche noi a morire con  lui»(Giovanni 11, 16), perché comprendeva che la vicina città era gravida di minacce per il Maestro. Eppure Gesù arriva, sfidando  l’ordine dato dai sommi sacerdoti e dai farisei di denunciare la sua  presenza così che potessero prenderlo.  Egli dunque accetta il pericolo, e la folla al vederlo si commuove, gli  corre incontro con entusiasmo e con rami di palma. La palma, fin  dall’antichità, è segno di vittoria, e veniva agitata in qualche festa  ebraica per acclamare Dio, il Dio del cielo e della terra, il Dio che  salvava il suo popolo. Ora questa festa è improvvisata dalla gente lungo le strade, in onore  di Gesù che ha fama di essere il rappresentante di Dio: «Osanna!»,  che significa: «Dona, Signore, la tua salvezza, la tua vittoria»; e poi:  «Benedetto colui che viene nel nome del Signore!».  L’accoglienza fatta a Gesù, l’acclamarlo come re e Messia, non è una  semplice esaltazione religiosa; è un preciso riferimento alle attese  culturali e sociali della gente che non ha paura di osannarlo  pubblicamente, nella capitale, sotto gli occhi delle autorità perché è  ormai stanca di una politica fatta sulla sua pelle da uomini lontani;  vuole qualcuno a cui poter dare piena fiducia.

– Che cosa fa Gesù? Non si sottrae a questa manifestazione, come  invece si era sottratto in Galilea, dopo la moltiplicazione dei pani,  quando erano venuti per proclamarlo re. Egli esprime un gesto di  umiltà, senza parlare, senza dire nulla: invece di entrare in città a  piedi, sceglie di montare sopra un asino, l’animale più umile che ci sia,  un animale di servizio, per far capire che la sua non è una regalità di  guerra o di dominio, bensì di servizio.

– I discepoli però «non compresero». Da un lato Gesù non spegne  l’entusiasmo della folla, come loro potevano pensare avendolo già  visto altre volte fuggire; dall’altro lato Gesù non si concede a tale
entusiasmo. Forse qualche discepolo sperava che cogliesse l’occasione  per mettersi a capo di un movimento popolare e restaurare il regno di  Israele contro i nemici. Gli apostoli intuiscono, in modo generico, che  nella vita di Gesù ci sono due parti: nella prima agisce, compie gesti di liberazione dell’uomo, guarisce, opera miracoli, vince le potenze  avverse. E la parte che piace anche a noi, che ci avvince e che ci
sembra di capire.

In una seconda parte – che inizia con la Domenica  delle Palme – Gesù non fa nulla per l’uomo, non compie miracoli, non  pronuncia discorsi, non si difende. Infatti, egli accetta il senso  religioso dell’ entusiasmo della folla che lo acclama, non il senso  politico, e opera un attento discernimento che gli apostoli non  comprendono. Soltanto più tardi capiranno che entrando a  Gerusalemme quel giorno Gesù si era mostrato Re messianico, Signore della storia, però Signore umile e servitore dell’umanità.  È molto importante osservare che Gesù entra in Gerusalemme come  un uomo libero, disteso, sciolto, sereno. Libero perché non ha  condizionamenti umani, non teme nessuno, nemmeno la morte; la  sua è quella sovrana libertà che tutti vorremmo avere. Essere liberi di  essere davvero ciò che siamo, nella verità di noi stessi: non avere  paura per ciò che altri possono dire o fare di noi. Soltanto un’ esistenza libera è capace di amare, di dedicarsi e di donarsi.  Il mistero di Gesù che si va svelando, mistero di umiltà, di sofferenza  e poi di gloria, è anche il mistero della nostra vita, se lo accogliamo e  quindi lo sperimentiamo a poco a poco. È il mistero – come dice san  Paolo – «nascosto a tutti i potenti di questo mondo; altrimenti non avrebbero crocifisso il re della gloria». È il mistero – come dice  l’evangelista Matteo – «rivelato ai piccoli e ai semplici», a coloro che si  trovano in situazione di sofferenza e di oppressione e che  percepiscono qual è il vero volto di Dio. Ma il discorso della passione e  della croce, realtà inevitabile nella vita di ciascuno, non costituisce né
il primo né l’ultimo passo: sta in mezzo a due momenti positivi di  inizio e di conclusione, di creazione e di definitiva salvezza. La croce  non è l’ultima parola e per questo è possibile essere nella sofferenza e  contemporaneamente nella gioia.  Il primato della coscienza .

Tra i tanti racconti biblici che la liturgia della Chiesa ci propone nei  giorni precedenti il triduo del giovedì, venerdì, sabato santo e  domenica di risurrezione, ne scelgo anzitutto uno dell’ Antico  Testamento, tratto dal Libro di Tobia. Tobia  è un ebreo che, nel tempo  della distruzione della città di Gerusalemme, viene deportato insieme  con altri suoi connazionali in oriente, a Ninive, nelle pianure del Tigri e  dell’Eufrate, e là vive come esule una vita  modesta e però ricca di  speranza.  «Sotto il regno di Assarhaddon ritornai a casa mia e mi fu restituita la  compagnia della moglie Anna e del figlio Tobia. Per la nostra festa di  pentecoste, avevo fatto preparare un buon pranzo e mi posi a tavola:  la tavola era imbandita di molte vivande. Dissi a mio figlio Tobia:  “Figlio mio, va’ e se trovi tra i nostri fratelli deportati a Ninive qualche  povero, che sia però di cuore fedele, portalo a pranzo insieme con noi.  lo resto ad aspettare che tu ritorni”. Tobia uscì in cerca di un povero  tra i nostri fratelli. Di ritorno disse: “Padre!”. Gli risposi: “Ebbene,  figlio mio”. “Padre, rispose, uno della nostra gente è stato strangolato  e gettato nella piazza, dove ancora si trova”. Allora mi alzai, lasciando  intatto il pranzo; tolsi l’uomo dalla piazza e lo posi in una camera in  attesa del tramonto del sole, per poterlo seppellire. Ritornai e,  lavatomi, presi il pasto con tristezza, ricordando le parole del profeta  Amos su Betel: “Si cambieranno le vostre feste in lutto, tutti i vostri  canti in lamento”. E piansi. Quando poi calò il sole, andai a scavare  una fossa e ve lo seppellii. I miei vicini mi deridevano dicendo: “Non  ha più paura! Proprio per:. questo motivo è già stato ricercato per  essere ucciso. E dovuto fuggire ed ora eccolo di nuovo a seppellire i  morti”» (Tobia 2, 1-8).  Il testo continua poi con la lunga storia delle sofferenze di Tobia, uomo  fedele, caritatevole, pieno di attenzione agli altri, che entra in una  grande prova dalla quale uscirà soltanto attraverso una serie di eventi  tutti raccontati nel Libro. Il messaggio che giunge a noi attraverso il  brano della Scrittura è quello del primato della coscienza. C’è un uomo  povero, esiliato, che potrebbe giustamente aver paura di essere  nuovamente ricercato e imprigionato; tuttavia, posto di fronte a un  fatto che tocca il suo prossimo, un fratello ucciso che nessuno vuole  più toccare, egli, obbedendo alla coscienza, lo seppellisce affrontando  ,tutte le possibili conseguenze del suo gesto. È dunque un gesto che  sottolinea il primato della coscienza, il primato di ciò che l’uomo sente  dentro inderogabilmente come valore.

Sarebbe bello poter seguire  questo cammino fino alla descrizione della storia della passione, nel
momento in cui Gesù di Nazaret, trovandosi di fronte al sinedrio e  interrogato sulla sua identità, obbedisce alla testimonianza della  propria verità e si dichiara apertamente Figlio di Dio, affrontando così  la morte. Sono sempre elementi dell’identico primato della coscienza.  E un aspetto assai importante sul quale mi pare opportuno  intrattenerci brevemente perché ritorna vivo nella condizione  contemporanea. Talora abbiamo della coscienza una concezione  riduttiva e se ne parla in termini scettici, un po’ deprezzativi,  confondendola con il puro soggettivismo: agisco secondo quello che a  me sembra giusto, che a me piace o che mi torna utile.  In realtà la coscienza ci fa conoscere quella legge che trova il suo  compimento nell’amore di Dio e del prossimo. Una legge  fondamentale, messa da Dio nei nostri cuori. La coscienza non è ciò che mi viene in mente; è il principio supremo allargato a misura divina  (potremmo chiamarlo il principio della solidarietà, il principio del  rispetto dell’ altro, il principio dell’ onore, del dovere, il principio della  coerenza). E Dio stesso come amore, come fedeltà, come garante  ultimo di ogni verità, che entra nell’intimo dell’uomo e diviene  sorgente di azione e di discernimento.

Per questo la coscienza è  qualcosa di inviolabile, e tuttavia non è qualcosa di fantasioso, di  strano, di imprevedibile. E il riconoscimento del grande  comandamento dell’ amore di Dio e del prossimo, il riconoscimento  dei grandi valori – verità, onestà, giustizia, carità – in quanto sono  intuiti, compresi e diventano fonte di vita, di giudizio e di azione, in  dialogo con Dio e di fronte a Dio. Scrive il Concilio Vaticano II: «Nella  fedeltà alla coscienza, i cristiani si uniscono agli altri uomini per  cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali,  che sorgono tanto nella vita dei singoli quanto in quella  sociale» (Gaudium et spes, 16). La coscienza non soltanto non è  fenomeno di dispersione, ma opera l’unità; in nome della stessa  coscienza, credenti e non credenti si mettono insieme per cercare  come oggi si possono realizzare valori quali il servizio, l’onore, la  lealtà, il rispetto del prossimo. Spesso si interpreta la coscienza  semplicemente come la voce che ci ricorda una legge già fatta, che  basta applicare. Ci viene invece detto che la vita dell’uomo presenta  situazioni inedite, problemi nuovi, per i quali non è sufficiente  appellarsi a una legge astratta, bensì occorre cercare, sulla base del  principio fondamentale dell’ amore di Dio e del prossimo e di tutti i  valori che ne derivano, quel modo di agire che meglio promuove la  vita, serve l’unità tra i popoli, crea relazioni pacifiche; in una costante  armonia e in un costante dialogo e scambio tra tutte le persone di  buona volontà.

Possiamo allora comprendere perché, per esempio, Giovanni XXIII  cominciò a indirizzare alcune sue encicliche, oltre che ai vescovi e ai  cristiani, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Perché tutti gli  uomini hanno in comune questa coscienza, questa percezione di  valori. Di qui la necessità di educare le nuove generazioni a compiere  certe scelte e a evitarne altre, a guardarsi da certi comportamenti e  ad acquisirne altri. Soprattutto è importante formare la coscienza dei  giovani attraverso tutte le istanze di valore autentico della persona  (silenzio, preghiera, raccoglimento, riflessione…). Le istanze di  massificazione, di frastuono, di considerazione anonima della persona,  invece, ottundono la coscienza, impediscono di prendere coscienza di  sé, escludono la possibilità di sentirsi e di ascoltarsi.

Noi siamo a una svolta della civiltà occidentale e della civiltà mondiale in cui l’avvenire sarà nella chiarezza delle coscienze. Ho sovente  ripetuto che il futuro del mondo è nella interiorità. Infatti, poiché il  futuro sarà sempre più affidato alle informazioni, alla buona gestione  delle informazioni, e poiché tutte le decisioni umane saranno prese a  partire da scelte sempre più coscienti e capaci di programmare il  futuro, la sorte di questo futuro sarà nella coscienza, nell’interiorità,  nella capacità di riconoscere il valore. Se un tempo si poteva pensare  di guidare masse con slogan generici, di poterle tenere sottomesse  semplicemente con delle imposizioni, oggi abbiamo visto il crollo di  sistemi che duravano da decenni; la gente ha ritrovato il senso della  libertà, della propria entità e si è ribellata a delle imposizioni  puramente esteriori.

Dunque, tutto ciò che migliora l’uomo in forma permanente deve passare per la convinzione interiore, per la
coscienza, che si educa, ripeto, attraverso momenti di silenzio, di  raccoglimento, di riflessione, e con tutti quei rapporti umani in cui  prevalgono la ragionevolezza, l’atteggiamento di vera stima della  persona, la promozione dei valori e, da parte di chi esige tali  comportamenti, la coerenza, la fedeltà, la lealtà. La coscienza si  propaga per contagio. Attraverso personalità di forte coscienza vengono formate persone di coscienza. Nei giorni che ci avvicinano  alla Pasqua, la Chiesa compie certamente un grande lavoro di
formazione della coscienza, in quanto invita ciascuno a guardare la coscienza di Cristo, che è la più alta realizzazione dell’interiorità, della  coerenza di una morte, della chiarezza dei fini, dell’ ampiezza di visione umana e divina dei destini dell’uomo. La coscienza di Gesù è la  più limpida, la più leale, fino al sacrificio della vita; è quella nella  quale il mistero di Dio, dell’ amore di Dio si traduce in linguaggio  umano in maniera inequivocabile.

La coscienza oscura di Caifa

Dopo il brano del Libro di Tobia, è interessante vedere un brano del  vangelo secondo Giovanni che, di fatto, precede quello dell’ entrata di  Gesù in Gerusalemme, acclamato dalla folla .  La liturgia però lo fa  leggere nei giorni successivi alla Domenica delle Palme, perché  esprime la forte decisione di uccidere Gesù.

«I sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dicevano: “Che  facciamo? Quest’uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così,  tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro
luogo santo e la nostra nazione”. Ma uno di loro, di nome Caifa, che  era sommo sacerdote in quell’anno, disse loro: “Voi non capite nulla e  non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera”. Questo però non lo disse da  se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva  morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. Da quel giorno dunque  decisero di ucciderlo. Gesù pertanto non si faceva più vedere in  pubblico tra i Giudei; egli si ritirò di là nella regione vicina al deserto,  in una città chiamata Efraim, dove si trattenne con i suoi  discepoli» (Giovanni 11, 47-54).

I sommi sacerdoti e i farisei erano molto preoccupati per il fatto che  Gesù aveva risuscitato Lazzaro e perciò riuniscono il Sinedrio, la più  alta magistratura giudaica, istituita alla fine del II secolo avanti Cristo.
Siamo davanti a un testo teologicamente molto denso, forse uno dei  più densi di teologia della storia.

– La reazione dei capi del popolo è allarmante, disorientata: che cosa  facciamo? se continua così dove andremo a finire?  Prevale quindi l’emotività, la paura; la reazione è priva di analisi  oggettiva della situazione. Non c’è nessun ascolto dell’ altro, nessun  tentativo di rimettere in ordine gli avvenimenti. C’è soltanto  l’insorgere di timori che si accavallano, che rimbalzano dall’uno all’altro durante la riunione.  Le reazioni emotive si caricano reciprocamente fino a lasciare tutti  smarriti: « Verranno i Romani, distruggeranno il nostro, luogo santo e  la nostra nazione» (Giovanni lt 48). E il caso tipico dell’impazzimento
di un consiglio, di un parlamento, di una sessione pubblica, dove,  perso il controllo e il contatto con la situazione reale, le emozioni  rimbalzano l’una sull’altra. In tale situazione interviene il  suggerimento di Caifa.

– Le parole di Caifa, apparentemente, tendono a chiarire la situazione, a dare la chiave di ciò che sta succedendo: voi non capite nulla, ve lo  spiego io! C’è qui una luce, una soluzione semplice che emerge da
tutto questo.  Il suggerimento di Caifa può essere letto e riletto, perché è gravido di  contenuti, alla luce della storia precedente del popolo di Israele.  Viene anzitutto in mente il consiglio di Achitofel nella storia di Davide  (cfr. II Samuele 17). Achitofel consiglia ad Assalonne, figlio di Davide,  qualche cosa di simile: la situazione è tale che uno deve morire per  tutti. In realtà, colui che deve morire, secondo il consiglio di Achitofel,  è lo stesso padre di Assalonne! C’è già una proiezione messianica: uno  dovrebbe morire per tutti affinché il popolo abbia pace.  Risalendo più indietro nella storia biblica, possiamo percepire la natura
diabolica del consiglio di Caifa, confrontandolo con la suggestione del  serpente nel paradiso terrestre. li serpente parla a Eva partendo da  una falsa ipotesi: Dio vi ha comandato di non mangiare di nessun
albero. Pone quindi un elemento di emozione, di ripulsa. E ne deriva  una falsa tesi: In realtà, se voi mangiaste di questo frutto  diventereste come dèi.  Analogamente, il ragionamento di Caifa parte da una falsa ipotesi, da  un falso dilemma: bisogna sacrificare o uno solo o tutto il popolo.  Comprendiamo quanto questo dilemma abbia di vergognoso ricatto,  perché pone di fronte a quelle situazioni in cui qualunque cosa si  scelga si va a cadere nell’ angoscia mortale. Preferisci che muoia uno  o tutto il popolo? Come si fa a rispondere a una simile drammatica  domanda? La diabolicità del consiglio sta proprio nello spingere in un  vicolo cieco, per cui, per uscirne, bisogna alla fine avere l’apparenza di  scegliere il minore male. Dal falso dilemma si giunge alla falsa tesi: Se  ucciderete quest’uomo, non verranno i Romani! Il suggerimento di  Caifa si colora di aperture politiche, di necessità di stato, di necessità  di sopravvivenza, e coinvolge passionalmente la gente così legata al  proprio popolo, ricattandola in ciò che ha di più vivo.  Pur se i rappresentanti non sono forse molto degni, è certo che amano  il popolo, la nazione e non vogliono assumersi la responsabilità di  andare contro all’avvenire, al futuro della loro gente. Ma sono appunto  intrappolati in un diabolico ragionamento: se volete salvare il popolo,  sarà necessario sacrificare Gesù. Siamo di fronte alle vie di satana,  che ci muove verso vicoli ciechi, ci confonde con emozioni improprie,  ci impedisce di prendere contatto con la realtà e di considerarla sobriamente, e alla fine ci pone davanti ad azioni che appaiono sì non  buone, ma inevitabili per ragioni più alte.

– Dopo il drammatico consiglio di Caifa, ci stupiamo ancora di più per  il commento dell’evangelista.
Giovanni non lo fa in senso morale, come noi ora cerchiamo di fare (è  un consiglio malvagio, ricattatorio). Il suo è un salto teologico,  dottrinale inatteso e insperato: «non da se stesso… profetizzò».  C’è un piano di azione che è quello delle contingenze umane, dove  avvengono cose vergognose, innominabili; parallelamente e non prescindendo da esso, corre il piano della provvidenza di Dio.  Per questo dicevo che un simile brano è una delle più dense elevazioni di teologia della storia.  Lungo il piano delle contingenze umane, anche errate, corre il piano  della provvidenza salvifica, del disegno divino. Accanto al consiglio  diabolico c’è il consiglio di salvezza. È con un tale legame che  addirittura il consiglio umano di Caifa assurge al rango di profezia, pur  se il termine ha, in certo senso, un significato ironico, quasi  sarcastico, ma reale. «Non da se stesso disse queste cose», bensì in  virtù del suo ufficio, della sua capacità di capo del popolo.  C’è un grande rispetto per le funzioni gerarchiche, una grande  attenzione all’ ordine delle situazioni, che la potenza di Dio non  rovescia immediatamente e utilizza per il suo fine.

«Profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione, e non per la  nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano  dispersi» (Giovanni 11,51-52). Non si potrebbe esprimere con parole  più forti il senso dell’ agire di Gesù e la teologia della redenzione.  «Morire per la nazione» è l’espressione che nel «Credo» è stata  trasmessa: «Per noi morì», per la nostra salvezza.  E lo fece «per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi».

Dovremmo meditare a lungo su queste parole, partendo dal termine greco: congregare, mettere in unità. Vengono alla mente altre parole  di Gesù: «Gerusalemme, quante volte ho voluto radunare i tuoi figli  come la gallina raduna i suoi pulcini e non mi avete  ascoltato» (Matteo 23,37; Luca 13,34). Oppure la parabola della rete  misteriosa gettata nel mare, che raduna tutti i generi di pesci per la  pienezza dell’ultimo giorno (Matteo 13,47). O ancora: «Dove sono due  o tre radunati nel nome mio, io sono in mezzo a loro» (Matteo 18,20).

Gesù tende a mettere insieme le persone, a radunarle in unità, e  questo è il suo disegno, che potremmo chiamare storico, non soltanto teologico o spirituale: radunare tutti i popoli in unità, fare una sola  cosa di tutti. Tale disegno ha le sue radici nella visione di unità che  parte dall’Antico Testamento, per esempio il cap. 31 di  Geremia: «Ecco, io li riconduco dal paese del settentrione, li raduno  dall’estremità della terra» (v. 8). Già la versione greca dei LXX aveva  aggiunto, di questo brano famoso del profeta: «Li raduno dalle  estremità della terra nella festa di pasqua». Nella tradizione greca il  radunare i dispersi aveva un legame con la festa di pasqua.

Noi comprendiamo perciò lo sfondo teologico, messianico, salvifico,  nel quale vengono pronunziate e raccolte dall’ evangelista le parole di Caifa: la Pasqua è prossima e, nel momento in cui si consuma un
delitto politico, civile, sociale Dio raduna il suo popolo secondo la  promessa, nel suo Figlio, nell’unità della sua vita e della sua morte, in  un’unità che sarà come quella del Padre col Figlio. «Così che essi siano  una cosa sola, come tu, Padre, in me e io in te» (Giovanni 17, 21).

– Come risposta alla visuale altissima dell’ evangelista, c’è una frase  drammatica che ci richiama alle parole del prologo: «Venne tra i suoi  ma essi non l’hanno accolto» (Giovanni l, 11). Qui si dice: «Da quel  giorno dunque decisero di ucciderlo» (Giovanni 11,53).  La luce e le tenebre, la vita e la morte, l’unità e la divisione, la volontà  di comunione e l’opposizione totale a questo desiderio di unità.

– La frase con cui termina il brano (Giovanni 11, 54) ci insegna che,  alla vigilia di eventi drammatici che lo riguardano strettamente, Gesù  sente il bisogno, ancora una volta, di ritirarsi in silenzio, per un  momento di familiarità con i suoi, così da affrontare con pienezza di  coscienza i giorni che lo attendono. Noi pure abbiamo bisogno di  silenzio e di raccoglimento per capire se siamo davvero dalla parte di  Gesù o dalla parte di coloro che, confusi e smarriti dalle esigenze della  fede, non riescono più a riconoscere e a vivere la verità.

 

L’istituzione dell’Eucaristia

Nel giovedì precedente la sua morte, Gesù si siede a tavola con i suoi  apostoli per consumare con loro l’ultima cena e, nello svolgersi di essa  anticipa profeticamente, attraverso dei gesti e delle parole, la
consegna di sé all’uomo, che opererà definitivamente sulla croce.  Egli infatti voleva suscitare un gesto, uno strumento che attuasse  l’efficacia universale della Pasqua, l’energia, la forza di riconciliazione  e di comunione sprigionata nella sua Pasqua storica; questo gesto è  l’Eucaristia che, nella liturgia della Chiesa, si presenta appunto come  la maniera sacramentale che rende perenne in ogni tempo il sacrificio  pasquale di Gesù dischiudendo all’umanità l’accesso alla vita senza  fine. Nell’Eucaristia è presente non soltanto la volontà di Gesù che  istituisce un gesto di salvezza, ma Gesù stesso.

Cerchiamo di leggere due brani del Nuovo Testamento che narrano  quanto avvenne nell’ultima cena.

– «Ora, mentre mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la  benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: “Prendete e  mangiate; questo è il mio corpo”. Poi prese il calice e, dopo aver reso
grazie, lo diede loro dicendo: “Bevetene tutti, perché questo è il mio  sangue dell’ alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati. lo  vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al  giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre  mio”» (Matteo 26, 26-29).

– Il secondo brano lo troviamo nella I Lettera di Paolo ai Corinzi: «lo  ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il  Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo
aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per  voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver  cenato, prese anche il calice dicendo: “Questo calice è la nuova  alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in  memoria di me”. Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e  bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli  venga» (11,23-26).

Questo passo della lettera di san Paolo è parte di una lunga  esortazione da lui tenuta alle assemblee cristiane di Corinto. Nelle  assemblee c’erano problemi, disordini, malumori e Paolo, per chiarire  e mettere ordine, si richiama alla tradizione più antica che si conosca  sull’Eucaristia, una tradizione che gli ,è stata consegnata a pochi anni  dalla morte di Gesù. E la prima testimonianza in assoluto che noi  possediamo sulla celebrazione dell’Eucaristia e notiamo che c’è una  triplice dimensione: un riferimento al passato («fate questo in  memoria di me»); una proclamazione per il presente (oggi è qui il  corpo e il sangue del Signore); un orientamento al futuro («finché egli  venga», nell’attesa del ritorno del Signore).

– Memoria del passato. La stessa cena pasquale ebraica era ed è  vissuta come una memoria che attualizza i fatti della liberazione del  popolo dall’Egitto. Nell’Eucaristia la relazione non è soltanto con un  fatto passato, bensì con una persona, con Gesù salvatore crocifisso e  risorto. In ogni Eucaristia viene annunciata la sua morte, che ha  distrutto la malvagità umana scatenatasi contro di lui perdonandola e  ha vinto la paura della morte, e viene annunciata la sua risurrezione.

– Per quanto riguarda il presente, il Corpo e il Sangue di Cristo è  veramente dato a noi nell’ oggi, la nuova alleanza nel Sangue di Gesù  si realizza adesso creando o rafforzando il rapporto dell’uomo con Dio,  rapporto di figliolanza e di amicizia. Tutta la storia umana si concentra  nel momento straordinario della celebrazione eucaristica.

– Inoltre, l’Eucaristia proclama il futuro  dell’uomo e dell’umanità, preannuncia quel giorno senza tramonto nel
quale la nostra vita sarà uno stare a mensa con Dio, un vivere con lui  una familiarità immediata. L’Eucaristia è dunque obbedienza e fedeltà a un comando preciso di  Gesù, è comunione con Dio e tra gli uomini, è apertura a tutte le  genti, anticipazione e segno della gloria futura.

Il significato dell’Eucaristia

Dei due racconti di Matteo e di Paolo, che ho ricordato, vorrei  soffermarmi su alcune parole che ci aiutano a comprendere meglio il  mistero.

– La prima è comune a entrambi i testi: «il mio sangue dell’ alleanza». Gesù si colloca sullo sfondo dell’alleanza di Dio con il  popolo d’Israele, alleanza che lo faceva appunto popolo di Dio: il dono  del sacrificio di Gesù ha come fine la creazione del nuovo popolo, che  non toglie nulla al primo, ma si estende a tutta l’umanità.  Dire “alleanza” equivale a dire l’instancabile amore con cui Dio, a  partire dalla creazione, ha trattato l’uomo come un amico, ha  promesso una salvezza dopo il peccato, ha liberato Israele dall’Egitto,
l’ha accompagnato nel cammino attraverso il deserto, l’ha introdotto nella terra promessa segno dei misteriosi beni futuri, l’ha aperto alla  speranza con la promessa del Messia. Collegando l’istituzione  dell’Eucaristia con l’alleanza, Gesù vuole significare che essa dona a  noi la forza di lasciarci totalmente attrarre nel movimento dell’ amore  misericordioso di Dio annunciato nell’ Antico Testamento, celebrato definitivamente nella Pasqua e culminante nella pienezza del suo  ritorno: «finché egli venga», nell’ attesa della sua venuta.

– La seconda parola è riportata solo da Paolo: «nella notte in cui  veniva tradito». Il riferimento è a Giuda ed è a tutti noi. Il Signore  dona il suo corpo e il suo sangue a coloro che lo tradiranno,  fuggiranno, lo rinnegheranno. I nostri tradimenti, le fughe, le infedeltà  degli uomini, non possono che esaltare la grandezza del suo amore,  come la profondità della valle fa vedere l’altezza del monte.  Dio ci ama in questo modo. L’unica misura del suo amore smisurato è  il bisogno della persona amata: il povero, l’infelice, il peccatore, il  perduto sono amati persino più degli altri. Come una madre che ama  il figlio perché è suo figlio e, se è disgraziato, lo ama ancora di più  sapendo che potrà diventare più buono sentendosi tanto amato.  E Dio, che ci è più padre di nostro padre e più madre di nostra madre,  che ci ha tessuto nel grembo materno, fa della misericordia la realtà  che ci avvolge dall’ alto e dal basso, dall’oriente all’occidente. Nella
sua misericordia noi siamo ciò che siamo e la nostra miseria diventa il  recipiente e la misura su cui riversa la sua misericordia.

L’Eucaristia non è quindi un dono offerto a persone elette, giunte alla perfezione.

– La terza parola, ricordata da Matteo, è infatti: «il mio sangue è versato per molti», cioè per tutti gli uomini e per gli uomini di tutti i  tempi, «in remissione dei peccati». Nella notte della disperazione,  della prigionia, del nostro egoismo, dell’ aridità, della freddezza del  cuore, Gesù si dona a noi per strapparci dalle tenebre, per invitarci a  credere in un Dio che non ha il volto rabbuiato, stizzito, amareggiato,  deluso dalle nostre non  corrispondenze, ma che ha il volto pieno di  tenerezza, di fiducia, di passione per ogni creatura, il volto  mitissimo  del Crocifisso.

L’Eucaristia nella vita dei cristiani

Per noi cristiani è fondamentale capire che il “sì” totale e fedele di Gesù al Padre e agli uomini, che celebriamo nell’Eucaristia, significa il  nostro “sì” al Padre e il nostro “sì” a tutti i fratelli e le sorelle,
compresi coloro che ci criticano, non ci accettano, ci disprezzano, si  oppongono a noi. L’Eucaristia sarebbe un segno vuoto se in noi non si  trasformasse in forza di amore per gli altri, perché le parole: «Fate
questo in memoria di me», non sono magiche. Pronunciandole, Gesù  ci chiede di donare corpo e sangue, di offrire la nostra vita per tutti, di  consegnarci.  E consegnarsi vuol dire avere una mentalità nuova, che prende il  posto della vecchia mentalità propria di chi pensa soltanto a se stesso  senza occuparsi degli altri.

Per questo la «cena del Signore» che la  Chiesa celebra ogni giorno, non tollera di essere messa a servizio di  interessi mondani, ma esige un cuore indiviso dal momento che è  destinata a formare nel tempo un unico corpo di Cristo. Essa deve  accettare e assecondare l’agire misericordioso di Dio. Spesso, troppo
spesso, ci avviciniamo all’Eucaristia senza la seria volontà di  interrogarci lealmente sul senso della nostra vita; intendiamo fare un  gesto religioso, ma siamo ben lontani dal lasciare mettere in  questione la nostra esistenza dal dono totale di Gesù.  Eppure nella Messa Gesù ci raggiunge con la sua Pasqua e, se ne prendiamo seriamente coscienza, pone in noi ogni volta il dinamismo  dell’ amore, la forza di quella carità che è riverbero dell’ essere stesso  di Dio. Perché l’Eucaristia ci accoglie dalle oscure regioni della nostra
lontananza spirituale, ci unisce a Gesù e agli uomini e ci sospinge con  Gesù e con gli uomini verso il Padre; è come un sole che attira a sé  l’umanità e con essa cammina per raggiungere un termine misterioso,  ma certissimo.

Il cibo eucaristico configura nel tempo un popolo che esprime a livello  sociale, non solo individuale, la forza dello Spirito di Cristo che  trasforma la storia. In tale prospettiva è importante una riflessione  sull’unità concreta che la vita umana trova nell’Eucaristia. Bisogna  certo evitare artificiosi conformismi tra la trascendente, misteriosa  unità, attuata dall’Eucaristia e le forme di unificazione create e  realizzate dagli sforzi umani nei diversi ambiti di convivenza.

Ma tra la prima e le seconde esistono delle relazioni. I cristiani, che  vivono nell’Eucaristia una singolare esperienza di attrazione di tutta la  loro esistenza nel mistero unificante dell’ amore di Dio, devono
sentirsi impegnati non solo a ricavarne le conseguenze per i rapporti  entro la comunità cristiana, bensì anche a favorire l’irraggiamento di  questo mistero in ogni ambito di convivenza. D’altro canto, ogni passo
compiuto con buona volontà verso un dialogo tra le persone, verso un  costume di comprensione e di collaborazione, verso l’intesa su  un’immagine di uomo di ampio respiro, costituisce un segno e una
preparazione dell’unità degli uomini in Cristo. Sarà così possibile  portare all’interno della celebrazione la ricchezza di tutti gli sforzi  umani di unificazione.

Cristo muore crocifisso

croce

Il tremendo mistero del venerdì santo, del momento cioè in cui Gesù  muore, è tale da farci temere di incrinarlo pronunciando parole proprio  quando la Parola tace. Possiamo però lasciarci guidare dai testi biblici  che vengono letti nella liturgia della Passione.
– I primi due brani sono tratti dal profeta Isaia:

«Il Signore mi ha dato una lingua da iniziati, perché io sappia  indirizzare allo sfiduciato una parola», cioè una lingua propria di chi  ascolta cose sconosciute per poterle manifestare ad altri. «Il Signore mi ha aperto l’orecchio e io non mi sono tirato indietro. Ho presentato  il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la  barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio  mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia  faccia dura come pietra, sapendo di non restare  deluso» (50,4-7).

Isaia sta parlando di un personaggio misterioso, il Servo di JHWH, che accetta dolori e persecuzioni fidandosi di Dio. Di un Servo che  prefigura in sé i segni e le vicende della Passione di Gesù. E continua:
«Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori, che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia. Era  disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato  delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori, e noi lo  giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto  per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci  dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati  guariti» (Isaia 53,3-5).

Queste parole, che ci colpiscono, ci sgomentano e che affermano  come un messaggero respinto sia capace di salvare l’umanità intera,  sono una chiave interpretativa della storia di Gesù e raggiungono il
loro massimo di intensità nella morte di Cristo.  Esse ci aiutano a cogliere il significato del fuoco della croce, la  dimensione interiore dell’ evento della Passione. Gesù è il misterioso Servo del Signore che si offre, con piena e libera obbedienza, a un  destino di sofferenza e di morte. Il Cristo sofferente, di cui leggiamo
nel racconto evangelico di Matteo (cfr. 27, 1-55), è colui che prega il  Padre e gli si affida. Questo profondo affidamento di Gesù, che  traspare da alcuni momenti e parole del vangelo, è bene illustrato  dalle letture profetiche. Il Servo sofferente che si affida al Padre non è  soltanto un segno luminoso dell’ amore di Dio per tutti gli uomini,  bensì diventa il rappresentante degli uomini davanti a Dio. E l’uomo  vero, obbediente, riconciliato con il suo Signore; l’uomo che soffre per  la tragedia del peccato, che dischiude agli altri uomini il cammino del  ritorno a Dio. Ancora, il Servo di JHWH appare solidale con tutto il  popolo, prende su di sé tutti i peccati, coinvolge gli uomini nello stesso  cammino di amore doloroso ed espiatore.

– Del lungo racconto della passione di Gesù, tratto dal vangelo di  Matteo, racconto che bisognerebbe leggere per intero e con grande  attenzione, considero soltanto l’ultima parte:

«Gesù, emesso un alto grido, spirò. Ed ecco il velo del tempio si  squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si  spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti  risuscitarono… Il centurione e quelli che con lui facevano la guardia a  Gesù, sentito il terremoto e visto quel che succedeva, furono presi da  grande timore e dicevano: “Davvero costui era Figlio di Dio!”» (Matteo  27,50-54).

Il velo che si squarcia, la terra che si scuote, le rocce che si spezzano,  i sepolcri che si aprono sono il simbolo di un grande sconvolgimento  cosmico e di un’immane lotta tra le forze del bene e le forze del male,
tra la vita e la morte. Fin dall’inizio la storia umana è storia di  peccato, è segnata dal succedersi di tanti mali personali, sociali,  cosmici. A un certo punto tutto il male si condensa nella passione di  Gesù. Egli è schernito, deriso, oltraggiato, percosso, flagellato perché  vuole vivere l’angoscia dell’umanità, la solitudine dell’uomo, vuole  sentire su di sé le violenze, le crudeltà, i soprusi, gli inganni, le  maldicenze che si compiono nel mondo. Gesù vuole anzi vivere  l’abbandono del Padre come il dolore più grande dell’uomo, per  espiare tutti i peccati. È il suo amore per noi che lo porta al confine  della desolazione umana così da riscattarla in se stesso e da  ricondurre l’uomo all’ amore del Padre. Per questo muore, arrestando  per così dire la morte che diventa il trionfo dell’ amore di Dio.

Cerchiamo di immedesimarci nello stato d’animo del centurione  romano che, di fronte allo sconvolgimento cosmico avvenuto dopo la  morte di Gesù e, soprattutto, avendo visto di persona l’atteggiamento  di inermità e di mitezza con cui Gesù muore, esclama: «Davvero  costui era Figlio di Dio!». È la prima professione di fede davanti alla  croce; una strana professione se pensiamo che viene da parte di un  uomo incaricato ufficialmente di condurre a morte il Signore.  Eppure noi stessi, come quell’antico soldato, siamo implicati nella  morte e nel calvario di Gesù; noi stessi siamo protagonisti e non solo  spettatori di questo evento. E, come il centurione, sentiamo di non  avere le disposizioni adatte a comprendere ciò che sta accadendo.
È probabile che all’inizio il centurione abbia preso parte quasi  sbadatamente a quella serie di avvenimenti, per un ordine puramente  formale che aveva ricevuto. Certamente si sarà stupito sentendo la  folla che gridava: «Vogliamo Barabba!» e avrà notato l’assurdità della  scelta: da una parte, un uomo di aspetto sereno, quasi regale, che  veniva condannato e, dall’ altra parte, un uomo che al centurione,  pratico com’era di questa gente, appariva chiaramente per ciò che  era, un malfattore e che però veniva messo in libertà.  Tutto questo l’avrà indotto a riflettere. In seguito, lungo il calvario,  avrà visto i maltrattamenti che i soldati infliggevano a Gesù e  probabilmente, essendo abituato a vedere tali crudeltà, non avrà  capito molto. Ma forse la pazienza di Gesù avrà incominciato a  penetrargli nel cuore. Via via che la croce, portata prima da Gesù e  poi da Simone, saliva verso il luogo della crocifissione, qualcosa si  muoveva già nell’ animo di questo soldato testimone.  In ogni caso, ci fu un momento in cui il suo sguardo incominciò a
fissarsi su Gesù in maniera nuova e sorprendente, per giungere quindi  all’intuizione di una misteriosa grandezza di questo condannato.  Il suo, in fondo, è il cammino di tutti noi che contempliamo il  Crocifisso, compresi coloro che non fossero pienamente partecipi della  vita della Chiesa o, addirittura, venissero da sponde lontane, proprio  come il centurione pagano. Il venerdì santo è destinato a ogni uomo,  a ogni persona di questo mondo e ciascuno di noi, anche se cristiano,  deve rifare il cammino di contemplazione della croce, guardando negli  occhi Gesù. Perché ciascuno di noi, oggi, può maturare nel cuore  questa esclamazione, quasi fosse la prima volta: Tu sei, Gesù, il Figlio  di Dio!

Come il centurione, guardiamo il volto di Gesù e vediamo i  passanti che scuotono il capo e che non credono alla sua divinità.  Sono tanti i nostri contemporanei che vanno frettolosamente, senza  fermarsi davanti a lui. Forse hanno altri impegni, altre mete da  raggiungere, e l’evento Gesù sembra marginale per loro. Per alcuni, la  Settimana santa e la Pasqua sono semplicemente date del calendario,  che hanno riferimento alla primavera, alle vacanze, alle feste.  Forse, persino in noi c’è qualcosa di superficiale; per un verso, ci  scopriamo un poco passanti che vanno frettolosi davanti a Gesù che  muore. Forse abbiamo nel cuore pensieri, desideri, impegni,  preoccupazioni, che sono al di fuori della salvezza che oggi ci viene
donata. Gesù però ci invita a sostare e a guardarlo crocifisso, a fare  come il centurione che non passa oltre ma si ferma a fissarlo, si pone  di fronte a lui e diventa in tal modo capace di vivere quel grande venerdì santo di salvezza.

L’antico soldato finisce con il comprendere  anche gli eventi che accadono intorno a Gesù – le tenebre, il  terremoto – come legati alla sublime maestà di colui che muore con  amore e per amore. Perché è questo amore che il centurione pagano  ha colto, ben al di là dei fatti straordinari che avrebbero potuto  spaventarlo soltanto. Egli, invece, rimane inchiodato davanti al  crocifisso e intuisce il mistero dell’ amore di quell’uomo che va  incontro alla morte come mai nessun altro uomo ha fatto.  Lo intuisce da tante piccole circostanze: il modo con cui Gesù  raccoglie le offese, i brevi gesti e segni del capo verso chi gli allunga  la spugna con l’aceto, la preghiera gemente e santa al Padre, il grido  potente con cui, passa dalla vita alla morte. È  davvero troppo grande il  mistero di amore che la persona di Gesù rivela in ogni suo palpito  dalla croce,. perché chiunque abbia il coraggio di sostare un momento  in silenzio davanti a lui non se ne senta coinvolto nel profondo dell’ essere. Da questo punto, non conta tanto chi siamo, chi pensiamo di essere; conta ciò che guardiamo, conta il sublime mistero del  Crocifisso.

Il centurione diventa un simbolo della verità del credente:  avendo posto i suoi occhi su Gesù crocifisso, il resto si è offuscato,  non conta più, ed egli rimane solo con colui che è salvatore di tutti.

– Il messaggio di Gesù crocifisso è molto chiaro. Dio, che avrebbe  potuto annientare il male annientando tutti i malvagi,  preferisce entrare in esso con la carne del suo Figlio, in Gesù,  proclamando il perdono e il ritorno e subendo su di sé le conseguenze  del male per redimerlo nella propria carne crocifissa. E la legge della  croce, il principio secondo cui il male non viene eliminato, ma  trasformato in bene sull’ esempio e per la forza della morte di Cristo.

In questo modo la croce diviene la suprema legge dell’amore e chi  vuol far parte del cammino di rigenerazione inaugurato da Gesù deve entrare nel male del mondo per trame il bene della fede, della
speranza, della carità, dell’ amore per i nemici. La legge della croce è  formidabile, ha un’ efficacia sovrana nel regno dello spirito ed è  applicabile a tutte le vicende umane; è il mistero del regno di Dio, è il mistero del Vangelo. Non è una legge accettabile dalla semplice intelligenza umana naturale, non la si può dimostrare prescindendo da  Cristo. L’intelligenza umana naturale la rifiuta, non riesce a coglierla  fino a quando non si è decisa per la fede.

Tuttavia il Signore crocifisso è centro di attrazione per ogni uomo e  donna che viene in questo mondo, centro di attrazione per la storia, centro di attrazione per tutte le religioni del mondo. Ogni religione  trova in questa croce il suo punto di arrivo, il suo termine, la fine di  un suo eventuale mandato provvisorio; perché tutto culmina nella  regalità universale ed eterna di Cristo Gesù, nell’alleanza di Dio con  l’umanità, per sempre. Nel cuore del crocifisso, tutto ciò che è “no”  può diventare “sì” e dal tradimento può nascere l’amicizia, dal  rinnegamento il perdono, dall’ odio l’amore, dalla menzogna la verità.

Questa è la forza di Gesù nella e dalla croce.

La nuova azione di Dio nel mondo

L’evento della risurrezione di Cristorisorto

Allo straziante grido di derelizione risuonato sulla bocca di Gesù in  croce – «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?» -, grido che  riassume tutte le situazioni di afflizione dell’umanità, risponde nella  notte del sabato santo e nel giorno di Pasqua, un gioioso grido di fede  e di speranza: Cristo è risorto! Di fede perché annuncia ciò che per  sempre è accaduto in Cristo; di speranza perché annuncia ciò che  attende tutti gli uomini e le donne della terra quando lo vedranno  risorto nella pienezza della sua sfolgorante gloria.

La risurrezione di Gesù, infatti, non è come quella di Lazzaro  (raccontata nel vangelo di Giovanni al capitolo 11) che era tornato per  poco in mezzo ai suoi; è una nuova azione di Dio, che non riusciremo  mai a immaginare con la nostra mente, con la nostra fantasia, come  non possiamo immaginare la stupenda realtà che Dio farà di noi alla  nostra morte e al momento della nostra risurrezione. Un’azione di Dio  su Gesù e su di noi, tale che la morte non avrà più alcun potere.  La certezza di quel grido di gioia proclama che ogni abisso di male del  mondo è stato inghiottito da un abisso di bene, che ogni morte ha già il suo contrappeso di vita, che ogni crisi ha già il suo superamento e  ogni tristezza ha già la sua gioia. La nostra esistenza umana è incline  a rimpicciolire le speranze, a ridurle di giorno in giorno di fronte alle  delusioni, e la nostra tristezza ci porta sovente a rifiutare parole di  conforto, perché non abbiamo un’idea esatta della liberazione portata  da Gesù risorto. Il Risorto ha davvero inaugurato un mondo nuovo,  che entra in mezzo a noi in quanto la Pasqua è una ri-creazione, una nuova creazione dell’umanità. La risurrezione di Gesù è un fatto
storico, di significato cosmico, è l’inizio della trasformazione globale  del mondo; è un evento di significato epocale perché trasforma il  senso della storia e ne indica la vera direzione. Un evento unico e  insieme un evento che rivela un’attesa costante e universale, scritta  nel cuore di ogni uomo e di ogni donna.

– Un evento unico: non è mai accaduto un fatto simile di fede nella  risurrezione definitiva e gloriosa di un uomo di cui è stata  documentata la vita, la morte e la sepoltura. Non è accaduto in  nessuna altra religione, benché vi siano state premesse somiglianti a  quelle presenti nella vita terrena di Gesù: capi religiosi da tutti
stimati, dottrine spirituali elevate. Sono tanti gli uomini, nel corso dei  secoli, dei quali si sarebbe voluto sperimentare che vivevano ancora.  Eppure soltanto di Gesù di Nazaret i discepoli, e anche gli avversari,
hanno affermato di averlo incontrato risorto e hanno creduto che egli  vive ora nella pienezza della vita divina mentre resta vicino a noi con  la potenza del suo Spirito.

– Un evento straordinario, ma che manifesta una legge universale.  Esso rivela che la risurrezione di Cristo risponde alle intuizioni, alle  speranze di un destino umano aperto al futuro, viene incontro al  nostro desiderio che la morte non sia l’ultima parola della vita, che la  posa di una pietra tombale non sia l’ultimo atto della nostra  esistenza.

Tale segreta premonizione, tale irrinunciabile speranza appartiene alla  storia degli uomini, è nel cuore di tutti e di ciascuno; ogni persona  umana, a prescindere dalla fede religiosa, vive una sorta di atto di
speranza nella propria durata oltre la morte, e lo vive e lo compie o nel modo della libera accettazione, della fiducia oppure del libero  rifiuto, della sfiducia, dello scetticismo. Ma l’atto di fiducia nella  propria sopravvivenza, anche quando è posto, rimane un protendersi  verso un avvenire ignoto; e quando è negato fa rinchiudere in se  stessi, lascia insoddisfatti, quasi disperati. È lo scoppio storico della  notizia che Gesù è risorto ed è apparso ai suoi, che trasforma le  trepide attese umane in una luce sfolgorante permettendoci di vedere  in lui la primizia della nostra risurrezione, la certezza in una vita che  non verrà mai meno. Nel Risorto è glorificato un frammento di storia,  di cosmo, quale segno e inizio del destino del genere umano e
dell’intero cosmo, dell’uomo e della donna chiamati a formare il  grande corpo dell’umanità risorta in Cristo.

La risurrezione di Gesù ha  quindi il senso di un definitivo essere salvata dell’ esistenza umana, a  opera di Dio e davanti a lui. È vero che nel nuovo orizzonte derivato  dalla risurrezione di Cristo è ancora presente la sofferenza, l’ostilità, la  fatica, la violenza, le guerre, per cui ci si domanda: Ma dov’è il  cambiamento che avrebbe operato il Risorto?

La risposta è semplice:  la Pasqua di Gesù non ci trasferisce automaticamente nel regno dei sogni; ci raggiunge nel cuore per farci percorrere con gioia e speranza  quel cammino di purificazione e di autenticità, di verifica del nostro  comportamento, che ha come traguardo la certezza di una vita che  non muore più. La Pasqua non ci restituisce a un mondo irreale, bensì  a un’ esistenza autentica, un’ esistenza di fede, di speranza, di amore:  una fede che è fonte di gioia e di pace interiore, una speranza che è  più forte delle delusioni, un amore che è più forte di ogni egoismo.

Il  Risorto è con noi e insieme a lui siamo in grado di vincere il male con  il bene, di trarre dal male il bene più grande. Questa è la forza e la  novità della Pasqua.

Il racconto delta risurrezione di Gesù

Nessuno è stato testimone della risurrezione di Gesù; nessuno era  presente nel momento in cui è uscito dal sepolcro. L’evangelista Marco  racconta come Gesù, dopo la sua morte, fu sepolto in una tomba scavata nella roccia. A questa tomba si recano, passato il giorno del  sabato, delle donne che vogliono imbalsamare il corpo del Signore.  Giungono al sepolcro al levare del sole, ma scoprono con sorpresa che  il grande masso posto all’entrata della tomba era stato già rotolato.  Entrano ed ecco un giovane seduto sulla destra, vestito di una veste  bianca, che dice loro: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù  Nazareno, il crocifisso. E risorto, non è qui. Ecco il luogo dove  l’avevano deposto. Ora andate, dite ai discepoli e a Pietro che egli vi
precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto» (Marco 16, 6-7).

Come gli altri evangelisti, Marco si preoccupa di riferire i fatti e le parole; non aggiunge nulla di suo. Qualcuno tuttavia potrebbe  obiettare: ma sarà vero quello che ha detto? la risurrezione di Gesù
non potrebbe essere una leggenda?

Le apparizioni del Risorto

In realtà noi abbiamo delle testimonianze storiche inconfutabili che  attestano le apparizioni di Gesù risorto. I quattro vangeli – di Matteo,  di Marco, di Luca, di Giovanni – descrivono gli incontri con il Risorto  proprio per sottolineare che egli vive ancora in mezzo a noi, cammina  con l’umanità lungo tutti i secoli.

Matteo riferisce l’incontro di Gesù con delle donne (28, 9-10) e con gli  undici apostoli (28, 16-20), Marco l’incontro con Maria di Magdala, con  due discepoli e con gli undici apostoli (16) 9-18); Luca riporta l’incontro di Gesù con i discepoli di Emmaus e con gli apostoli (24, 13- 53); Giovanni l’incontro con Maria Maddalena, con gli apostoli, con  l’incredulo Tommaso e con i discepoli sul lago di Tiberiade (20, 11-29; 21, 1-23).
Luca, nel Libro degli Atti, scrive che Gesù apparve ai suoi per quaranta giorni, parlando del regno di Dio (1-8).

Il più antico documento che possediamo della fede cristiana nella  risurrezione, è un passo della I Lettera di Paolo ai Corinzi: «Vi ho  trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è  risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Pietro  e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in  una sola volta; la maggior parte di essi vive ancora. Inoltre apparve a  Giacomo e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo tra tutti apparve anche a
me» (15, 3-8).

Notiamo che dei quattro verbi attribuiti a Cristo tre sono, nel testo originale greco, in un tempo che indica un fatto avvenuto nel passato  (morì, fu sepolto, apparve); il quarto invece, «è risuscitato», nel testo  greco ha un tempo che indica il permanere di un evento accaduto in  passato, ma che continua ad avere effetti nel presente, nell’ oggi.

Dunque Gesù non solo è risorto, bensì vive ancora adesso per noi e  per il mondo intero. Potremmo dire che, se la risurrezione è il  momento culminante della pienezza della vita e di amore di Dio che si  comunica agli uomini in Cristo Gesù, tale pienezza continua a crescere  attraverso l’accoglienza della grazia del Risorto, che viene fatta  dall’umanità nel suo cammino.

E il Risorto appare ricostituendo una serie di rapporti: con singole  persone, con gruppi, con la folla, donando a tutti la capacità di vivere  relazioni autentiche, di perdonare, di superare le conflittualità presenti
nelle famiglie, nella società, nelle nazioni.

Fermiamoci allora sull’ episodio dell’ incontro di Gesù con Maria di  Magdala:

«Maria stava all’esterno del sepolcro e piangeva, Mentre piangeva, si  chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno  dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato deposto il corpo
di Gesù. Ed essi le dissero: “Donna, perché piangi?”. Rispose loro:  “Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto”,  Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma  non sapeva che era Gesù. Le disse Gesù: “Donna, perché piangi? Chi  cerchi?”. Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse:  “Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a  prenderlo”. Gesù le disse: “Maria!”. Essa allora, voltatasi verso di lui,  gli disse in ebraico: “Rabbuni!”, che significa “Maestro!”, Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma  va’ dai miei fratelli e di’ loro: lo salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio  mio e Dio vostro”. Maria di Magdala andò subito ad annunziare ai  discepoli: “Ho visto il Signore” e anche ciò che le aveva  detto» (Giovanni 20) 11-18).

– Maria Maddalena è giunta al sepolcro di buon mattino, ha visto con  sorpresa la tomba vuota e resta presso il sepolcro a piangere perché il  suo amico e Maestro è morto; si accontenterebbe di sapere dove
l’hanno messo. Ella rappresenta l’umanità sempre alla ricerca di un salvatore, ma con una speranza inibita e ristretta, che non osa. La sua  ricerca di Gesù è ancora molto umana: cerca Gesù tra i morti, dove  non c’è. Sovente noi cerchiamo Dio dove non c’è, attraverso modelli di  efficacia umana, di successo, di potere, di soddisfazioni facili.  La ricerca di Maria Maddalena è anche l’immagine di una società  afflitta e smarrita, che desidererebbe almeno riflettere un poco, per  comprendere le ragioni dei suoi mali, per vedere quali sono gli errori  che ha commesso.

– Gesù non è irritato dalla ricerca sbagliata e imperfetta della donna  perché sa che in lei c’è molto amore e un profondo anelito. E, a un  tratto, Maria Maddalena vede con i suoi occhi colui che non credeva  più di vedere, ascolta una voce intensa che non avrebbe mai più  pensato di udire, si sente chiamare per nome: «Maria! ». È significativo che Gesù si riveli a lei non annunciandole l’evento che  lo riguarda: “sono risorto, sono vivo”, ma pronunciando il nome:  “Maria!”. Si tratta di una rivelazione personale, esistenziale, che  infonde non solo la certezza che Cristo è vivo, bensì la coscienza di  essere da lui conosciuta veramente, nella sua pienezza e dignità.  Quello di Gesù è un appello discreto di libertà, espresso con il nome  che indica meglio l’interiorità. Così Gesù vuole incontrare ogni uomo:  avvicinandosi, correggendo le ricerche incerte, confuse, maldestre,  rivelando il suo amore e chiamando per nome. Ciascuno di noi può  fare l’esperienza del Risorto, scoprirne i segni pur se sente nel cuore  poca speranza e se sul suo volto scendono lacrime. È nell’interiorità  che possiamo scoprire l’amore di Dio; è dentro di noi che possiamo
sentirci chiamati e restituiti alla nostra identità profonda, alla nostra  vocazione di figli di Dio.

Dunque l’evangelista Giovanni ci trasmette che la prima creatura a  scoprire i segni del Risorto è stata una donna piena di sensibilità, di  affetto, di tenerezza. Una donna colma di quell’anelito, di quel  desiderio di andare al di là della morte e della finitudine umana, che   sperimenta ogni persona quando, per esempio, nelle sue giornate  prende delle decisioni coraggiose e oneste, senza che da esse gli  venga alcun vantaggio per la vita presente, traendone anzi perdita e  talora danno. E in occasione di simili atti che comprendiamo di dover  compiere in maniera assoluta, senza ritorni umani e senza costrizioni  esterne, che affermiamo, almeno implicitamente, l’esistenza di  qualcosa al di là, che magari non riconosciamo ancora in parole o in  concetti religiosi e tuttavia guida ogni azione onesta e disinteressata  facendoci intuire come i conti che quaggiù non tornano, alla fine  torneranno.

Questa forza interiore e questa speranza sono un grido verso il  Risorto, sono la ricerca coltivata da Maria presso la tomba: la sua  ricerca confusa e incerta è preziosa, è esperienza ineliminabile di una  persona umana giunta a un minimo di autenticità e di onestà con se stessa e con la vita. La forza interiore e la speranza sono l’antidoto di  cui abbiamo bisogno contro il decadimento sociale, morale, civile e  politico, un decadimento che tende a mandare in frantumi l’unità  culturale e civile di un popolo, che tende a far perdere il senso delle  ragioni per stare insieme e lavorare per lo stesso scopo, nella stessa  direzione.

Per uscire dal cerchio infernale del degrado sociale e politico occorre  che il cuore appesantito, come quello di Maria Maddalena che piange,  sia mosso da una grande e concreta speranza, non legata a  circostanze contingenti, a rimedi di corto livello sui quali siamo fin troppo portati allo scetticismo. Gesù che appare alla donna ci invita a  cambiare modo di pensare e di vedere, ad accettare che l’amore di Dio  dissolve la paura, che la grazia rimette il peccato, che l’iniziativa di  Dio viene prima di ogni sforzo umano e ci rianima, ci rigenera  interiormente.

– Un’altra apparizione del Risorto può essere ricordata: l’incontro con  due discepoli:

«In quello stesso giorno – quello della scoperta della tomba vuota, la  domenica della risurrezione – due discepoli erano in cammino per un  villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome  Emmaus, e conversavano di tutto quello che era accaduto. Mentre  discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e  camminava con loro. Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo. Ed  egli disse loro: “Che sono questi discorsi che state facendo tra voi  durante il cammino?”. Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di  nome Clèopa, gli disse: “Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da  non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?”. Domandò: “Che  cosa?”. Gli risposero: “Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu  profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo;  come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo  condannare a morte e poi l’hanno crocifisso. Noi speravamo che fosse  lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando  queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno  sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo
corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i  quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al  sepolcro e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non  l’hanno visto”.
Ed egli disse loro: “Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei  profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per  entrare nella sua gloria?”. E cominciando da Mosè e da tutti i profeti
spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Quando furono  vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare  più lontano. Ma essi insistettero: “Resta con noi perché si fa sera e il
giorno già volge al declino”. Egli entrò per rimanere con loro. Quando  fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo  diede loro. Allora si aprirono gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì
dalla loro vista. Ed essi si dissero l’un l’altro: “Non ci ardeva forse il  cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando  ci spiegava le Scritture?”» (Luca 24, 13-32).

Possiamo cogliere in questo racconto quattro esperienze umane  fondamentali: il camminare, l’ospitalità, la frazione del pane,  l’apertura degli occhi.

– Tutto si svolge durante un cammino, cioè nell’esperienza  dell’itineranza, dell’andare verso un luogo: «due di loro erano in  cammino». L’evangelista Luca parla spesso di Gesù come “colui che fa  cammino”, che è in cammino. Anche il particolare che quando Gesù  pone la domanda, i due si fermano e poi riprendono a camminare,  rivela che viene data molta importanza a questa esperienza sotto la  quale può essere vista la storia di ogni uomo. La vita umana è un  dinamismo, va in avanti, è protesa verso una direzione e Dio viene
incontro all’uomo per accompagnarlo e per camminare con lui.

– L’ospitalità, l’accoglienza è un altro simbolo primario e antichissimo  dell’uomo che supera l’istintivo timore del viandante che bussa alla  porta. Qui è espressa con parole meravigliose: «Rimani con noi»,  dicono i due a Gesù, non andartene, vogliamo stare insieme. La loro  diffidenza iniziale verso lo sconosciuto si scioglie lentamente sino a  diventare fraternità: vieni a casa mia, che tu sia mio ospite. In oriente  l’ospitalità è uno dei pilastri del costume, è il modo di essere uomini  veri: saper accogliere chiunque, a qualunque ora, in qualunque  tempo, senza mai irritarsi, preparando subito tutto con gioia, è un  preciso dovere dell’ orientale. Ed è un simbolo che ci interpella, che  interpella gli abitanti delle nostre grandi città che, vivendo magari  nello stesso caseggiato, con gli appartamenti sulle stesse scale, si  ignorano per anni, non avvertono il bisogno di frequentarsi, di  conoscersi, di accogliersi.

– Anche la frazione del pane ha una sua simbologia umana e storica:  «Mentre si sedevano con lui, prese del pane, lo benedisse, lo spezzò e  lo diede loro». La partecipazione del medesimo pane è più dell’ospitalità, è la condivisione della mensa che rende veramente fratelli,  è come una cerimonia di alleanza, di amicizia: metto in comunione  con te il pane che è un mio bene. Luca, con la frase, «spezzò il pane»
ha in mente l’Eucaristia, vuole sottolineare che Gesù, ormai Risorto e vivo, si dona ai due manifestandosi nella carità perfetta dell’Eucaristia.  Ma la condivisione è, di fatto, un simbolo umano e per questo Gesù
l’ha scelto come simbolo eucaristico, come segno del dono della sua  vita all’uomo.

– L’apertura degli occhi è in opposizione al tema della chiusura degli  occhi: «i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo», erano come accecati. Anche Maria di Magdala, in un primo momento, aveva  scambiato Gesù per il custode del giardino. Come mai, pur  conoscendo bene il suo volto, pur essendo suoi fedeli discepoli, non  capivano che era Gesù? Gli occhi di Maria erano chiusi dalle lacrime,  dal dolore, dalla ricerca sbagliata; i due di Emmaus sono accecati dall’ aver perso ogni speranza, dal non aver compreso le parole di Dio  contenute nella Scrittura. A un tratto «si aprirono i loro occhi e lo  riconobbero». L’uomo, immerso nella quotidianità pesante, non vede  le meraviglie dell’ amore di Dio che lo circondano, non sa leggere la  Scrittura in modo retto, teme che il Dio di Gesù Cristo, di cui sente  parlare, gli impedisca di essere felice, di vivere come intende vivere.

Quando invece, nel suo cammino di ricerca faticosa, apre gli occhi, per  la grazia del Risorto, allora scopre con stupore e con gioia che Dio gli  è amico, gli è Padre, che Gesù gli è fratello, che la fede è chiave di
vita veramente umana. I due discepoli conoscevano le Scritture, ma  non ne avevano colto il significato più profondo. Gesù gliele spiega,  spiega il mistero dell’uomo, della storia, degli avvenimenti, delle vicende ed ecco che il loro cuore arde: «Non ci ardeva forse il cuore  nel petto… quando ci spiegava le Scritture?». TI fuoco che brucia  produce scuotimento, sconvolgimento interno, emozione forte; è  l’esperienza che nasce dall’ ascolto vero della Parola di Dio. Ora hanno capito che ogni pagina della Bibbia, dal primo all’ultimo Libro, contiene  quella Parola vivente che è Gesù morto e risorto.  Ne consegue un insegnamento prezioso: è fondamentale conoscere la  Scrittura per scoprire l’amore di Dio per l’uomo e la sua lunga storia  d’amore per noi che si è dispiegata nella storia della salvezza.

Nell’insieme, l’apparizione di Gesù ai due discepoli ci ricorda che  l’uomo è un essere in cammino e bisognoso di significato; che in  questo cammino è chiamato a riconoscere la Parola di Dio che lo
incalza, lo interpella continuamente sulla direzione del suo viaggio per  spiegargliene il senso; che la libertà e la felicità dell’uomo consiste  nell’ accogliere questa Parola, nel non rifiutarla, nell’ aprire gli occhi e
il cuore al disegno di Dio rivelatoci pienamente nel mistero del suo Figlio Gesù morto e risorto per noi, vivo e operante in mezzo a noi.

Il Risorto crocifisso e l’eternità nel tempo storico

L’evento della Pasqua – che si rinnova in ogni celebrazione eucaristica  – chiede ai cristiani di essere persone capaci di dire all’umanità: Non  temere, donna, non piangere! Ora sai dove conduce il cammino della  vita, ora sai che il tuo Signore è con te. Non dobbiamo tuttavia  dimenticare che il Risorto è per sempre il Crocifisso e sta davanti al Padre come colui che è passato per amore attraverso la passione e la
morte di croce. Il Risorto, infatti, allorché apparve agli apostoli  «mostrò loro le mani e il costato» trafitti, come sappiamo dal vangelo  di Giovanni, al capitolo 20,19-29. E tornando da loro dopo otto giorni,
all’apostolo Tommaso, che alla prima apparizione di Gesù non era  presente e si rifiutava di credere che era ancora vivo, disse: «Metti  qua il tuo dito e guarda le mie mani, stendi la tua mano e mettila nel mio costato, e non essere più incredulo ma credente!».

Il mistero pasquale comprenderà dunque per tutta l’eternità,  inscindibilmente, morte e risurrezione perché Dio ha scelto di salvarci  così, si è manifestato amico dell’uomo attraverso l’amore crocifisso del
Figlio, si è spogliato nel Figlio diventato povero per rendere credibile il  suo amore per noi. Alla domanda antica e nuova dell’uomo – che cosa  sarà di me dopo la morte? -la fede cristiana non risponde quindi
assicurando semplicemente che tutto continuerà dopo la fine del  tempo, che tutto ci verrà restituito; sarebbe una risposta incompleta.

La fede cristiana afferma che l’eternità, la vita nuova, vera e definitiva è già entrata con la Pasqua di Cristo nella mia esperienza, è da me  vissuta qui e adesso nella indistruttibilità dei gesti che io pongo – di
fedeltà, di pace, di amore, di perdono, di amicizia, di onestà, di libertà  responsabile.

Sono gesti in cui, nel tempo, l’uomo supera il tempo raggiungendo  l’eternità, nella misura in cui si affida alla vita e all’ eternità del  Crocifisso Risorto che ha vinto la morte. La Risurrezione di Gesù non è  soltanto ciò che ci attende dopo la morte; è un fatto pasquale  presente, che si attua giorno dopo giorno in colui che crede e che  spera, che soffre e che ama, che si lascia guidare dalla Parola nel  quotidiano per seguire Gesù il quale, mediante la passione e la morte,  compie il passaggio da questo mondo al Padre.

Ogni volta che prendiamo coraggiosamente una decisione buona, eticamente rilevante, noi interiorizziamo l’eternità grazie all’ eternità  di Gesù entrata in mezzo a noi. Possiamo allora riscattare l’angoscia  del tempo sapendo che i nostri atti di dedizione hanno un valore  definitivo, depositato nella pienezza del corpo risorto di Cristo.  E riusciamo, in qualche modo, a cogliere anche il dramma di  comportamenti non etici, perché pure in essi si attua l’irrevocabilità.  Possono essere atti compiuti dall’uomo per leggerezza, per  incoscienza e allora vengono riscattati dalle fatiche e dai dolori che  ogni vita comporta. Possono essere invece atti che afferrano la   persona nella sua totalità, che la “fissano” nel male, nel rifiuto di Dio e  degli uomini. Da tali atteggiamenti globali negativi dell’uomo ci si  salva solo per la strapotenza del Crocifisso Risorto. E se ci fossero  situazioni di ribellione permanente e ostinata nei riguardi di Dio, il  Risorto ci lascia comunque sperare, contro ogni speranza, che la  misericordia divina è infinita. Perché Dio è il Padre che ci ama per
primo, che si dona a noi in Gesù ancor prima di ogni attesa e speranza  umana, che ci perdona gratuitamente; Dio è Colui da cui tutto viene,  tutto dipende, a cui tutto tende e tutto ritorna.

Tratto da : RITROVARE SE STESSI  – “UN PERCORSO QUARESIMALE”

don Giorgio de Capitani: il suo ‘singolare’ ricordo del card. Martini

Un po’ di indignazione, perdinci!

scola martini

la domenica 31 agosto u.s. ha avuto luogo nel duomo di Milano una solenne commemorazione del card. Martini nel secondo anniversario della sua morte

ha presieduto la commemorazione il card. Scola: non è piaciuto per niente a don Giorgio de Capitani la modalità e il taglio che il cardinale ha dato nella sua omelia generica e cerebrale oltreché priva di mordente, fino al punto da far esclamare a don Giorgio arrabbiatissimo: “Almeno un po’ di indignazione, cazzo!, ci è rimasta ancora?”

di seguito le sue interessanti riflessioni:

Prima delle mie riflessioni, vi offro da leggere il testo integrale dell’omelia che il cardinale Angelo Scola ha tenuto, domenica pomeriggio, 31 agosto, nel Duomo di Milano, durante la Messa di commemorazione del secondo anniversario della morte di Carlo Maria Martini.
Premetto solo che, come racconta il cronista sul sito ChiesadiMilano.it, tra le navate gremite hanno trovato posto a fatica migliaia di persone di ogni età, in prima fila sedevano la sorella Maris e il nipote, Giovanni Facchini Martini, che non hanno voluto mancare insieme a una decina di altri parenti. Concelebravano il rito oltre cento sacerdoti, tra cui il cardinale Tettamanzi, sei Vescovi, l’intero Capitolo metropolitano, il vicepresidente della “Fondazione Martini” padre Costa, il Moderator Curiae, mons. Marinoni, i Vicari episcopali di Zona e di Settore, e i segretari succedutisi al fianco di Martini come Pastore di Milano.
ARCIDIOCESI DI MILANO
I DOMENICA DOPO IL MARTIRIO DI SAN GIOVANNI IL PRECURSORE
Is 65.13-19; dal Sal 32; Ef 5,6-14; Lc 9,7-11
CELEBRAZIONE EUCARISTICA NEL SECONDO ANNIVERSARIO
DEL CARD. CARLO MARIA MARTINI
DUOMO DI MILANO
DOMENICA, 31 AGOSTO 2014
OMELIA DI S.E.R. CARD. ANGELO SCOLA, ARCIVESCOVO DI MILANO
1. Un destino di gioia
«Io creo Gerusalemme per la gioia, e il suo popolo per il gaudio. Io esulterò di Gerusalemme, godrò del mio popolo» (Lettura, Is 65,18-19a). Non solo il Padre destina ogni uomo e l’intero suo popolo alla gioia, ma è Lui stesso, per primo, a provare gioia per la sua creatura, a godere per il suo popolo. Lo scambio d’amore tra le Persone della Trinità si dilata ad abbracciare l’uomo e tutta la famiglia umana.
Questa sera facciamo memoria viva del Card. Carlo Maria Martini, nel vincolo di comunione con il Beato Card. Ildefonso Schuster, la cui figura abbiamo ricordato ieri. L’affermazione del profeta: «Io esulterò di Gerusalemme», richiama il legame del tutto speciale con Gerusalemme del Cardinale Martini. Là egli si è stabilito, al termine del suo ministero milanese, «per pregare e per studiare» fino a quando la malattia glielo ha permesso.
2. Sottrarsi alla relazione con Dio spezza l’io
Cosa dice a noi la commemorazione di questi due Arcivescovi passati all’altra riva, la dimensione del definitivo compimento? Ci richiama al dato che finché siamo nella carne e nella storia, la lama della nostra libertà può recidere l’alleanza che Dio ha stretto con noi. Ma, rifiutando di appartenerGli, l’uomo si nega l’esperienza della gioia e del gaudio. Lo esprime la tremenda opposizione che Isaia stabilisce tra il piccolo resto di coloro che rimangono fedeli al Signore e coloro che vi si ribellano: «I miei servi mangeranno e voi avrete fame; … berranno e voi avrete sete; i miei servi giubileranno per la gioia del cuore, voi griderete per il dolore del cuore, urlerete per lo spirito affranto [il verbo latino frangere dice un io spezzato; il venir meno di un io, che si spezza]» (Lettura, Is 65,13a -14).
3. Gesù ci ha resi luce nel Signore
E tuttavia la dura parola del profeta non è l’ultima parola. «Ecco… io creo nuovi cieli e nuova terra» (Lettura, Is 65,17a).
Gesù è venuto per salvarci, per ricondurci al Padre. È sceso nell’abisso del peccato e della morte, ha attraversato fino in fondo le nostre tenebre per farci figli della luce. Non dobbiamo aspettare di diventare figli in forza dei nostri meriti, lo siamo. «Un tempo infatti eravate tenebra, ora siete luce nel Signore» (Epistola, Ef 5,8a). La grazia del Battesimo trasforma in profondità la persona: «I miei servi saranno chiamati con un altro nome» (Lettura, Is 65,15b), ed il suo agire: «Comportatevi perciò come figli della luce» (Epistola, Ef 5,8b).
Qui sta l’origine dell’ansia pastorale del Card. Martini che lo portava ad ascoltare tutti in modo “criticamente” aperto, anche le resistenze, le fatiche e perfino i tratti di confusione che talora ci portiamo dentro. Significativa in questo senso è una sua riflessione che illumina il sacrificio eucaristico che stiamo celebrando: «Nella Messa Gesù ci raggiunge con la sua Pasqua e, se ne prendiamo seriamente coscienza, pone in noi ogni volta il dinamismo dell’amore, la forza di quella carità che è riverbero dell’essere stesso di Dio. Perché l’Eucaristia ci accoglie dalle oscure regioni della nostra lontananza spirituale, ci unisce a Gesù e agli uomini e ci sospinge con Gesù e con gli uomini verso il Padre; è come un sole che attira a sé l’umanità e con essa cammina per raggiungere un termine misterioso, ma certissimo» (Carlo Maria Martini, Ritrovare se stessi, Piemme 1996).
Dio si prende cura di noi. Gli insistenti richiami di Papa Francesco ci urgono ad essere testimoni nelle nostre comunità, nelle nostre città e paesi. In questi giorni in cui riprendiamo la nostra vita ordinaria vogliamo vivere la testimonianza cristiana nell’ottica della “confessio fidei” che l’8 maggio scorso abbiamo compiuto, portando il Sacro Chiodo negli ambienti della sofferenza, dell’emarginazione, dell’immigrazione, del lavoro, della cultura ed infine in Piazza del Duomo. A significare che il campo della vita cristiana è il mondo.
4. «Paure e speranze di una città»
Ci sta a cuore ogni uomo ed ogni donna della nostra Milano e di tutte le terre ambrosiane. Sappiamo che per imparare ad amare tutti dobbiamo incominciare dall’amare, con fedeltà oggettiva, quanti la Provvidenza ci mette vicini. Per questo la testimonianza di fede non può non implicare il contributo dei cristiani all’edificazione della vita buona nella città degli uomini. Voglio citare in proposito il discorso del Cardinal Carlo Maria Martini al Comune di Milano del 28 giugno 2002, “Paure e speranze di una città”. Vi si trova un’importante ed assai attuale affermazione: «…“Scegliersi l’ospite è un avvilire l’ospitalità” diceva Sant’Ambrogio… Il magnanimo ospitante non teme il diverso, perché è forte della propria identità. Il vero problema è che le nostre città, al di là delle accelerazioni indotte da fatti contingenti, non sono più sicure della propria identità e del proprio ruolo umanizzatore…». Bisogna guardare la città «come opportunità e non solo come difficoltà…».
Ovviamente l’identità solidale cui il Cardinale fa riferimento non è da intendere in modo statico, inevitabilmente difensivo e, alla lunga, incapace di affrontare il nuovo. Essa identifica piuttosto un processo nel quale la tradizione è concepita come un’esperienza in continua crescita. Fondata su saldi presupposti essa è sempre aperta al nuovo, non è invenzione, ma sempre recezione, drammatica ma feconda, della trama di circostanze e di rapporti di cui è intessuta la storia.
Così il richiamo del Cardinale incontra anche oggi l’istanza profonda della città ormai metropolitana e, quindi, delle terre lombarde. E l’urgenza di nuovo umanesimo, cioè ricerca di senso, capace di tenere in unità il molteplice a partire dalle diverse visioni del mondo che anche a Milano ormai si incrociano.
Nella pratica di una familiare convivenza donne e uomini, soggetti personali e sociali sono chiamati ad edificare culture vivibili che non rinuncino però alla cultura. Senza tensione all’unità le culture restano frammenti di un puzzle che non si lascia comporre e non rivela il suo disegno intero.
I cristiani hanno ricevuto, per puro dono, l’anelito all’unità che valorizza la pluriformità. Il Vangelo della Messa di oggi indica il punto di partenza di questa indomita ricerca: la domanda di Erode – «Chi è dunque costui, del quale sento dire queste cose?» (Vangelo, Lc 9,9b). È la domanda fondamentale per ogni uomo che si imbatta, direttamente o indirettamente, con la persona di Gesù.
5. «E cercava di vederlo»
Dice il Vangelo che Erode «cercava di vederlo» (Vangelo, Lc 9,9b). È la stessa espressione che San Luca usa per Zaccheo. Ma la curiositas dei due non è la stessa. Quella di Erode è falsificata, alla radice, dal terrore di perdere il potere. Non è apertura all’altro, ma accanita difesa di sé. A noi la scelta.
Al termine di questa santa Eucaristia ci recheremo a pregare sulla tomba del Cardinal Martini perché il Signore protegga il nostro cammino ecclesiale e civile. Ci sostengano la Santa Vergine, Sant’Ambrogio e San Carlo e il Beato Cardinal Schuster sulla cui tomba pure pregheremo. Amen.
 
Ho letto per la prima volta il testo dell’omelia, domenica sera, sul tardi, prima di andare a letto. L’impressione che ho avuto è stata fortemente negativa, tanto da evitare di commentarla. Sarebbero uscite espressioni non certo edificanti. Ho lasciato passare la notte. Il giorno dopo, di primo mattino, l’ho riletta, e il giudizio non è cambiato.
Che dire? Ancora una volta rimango allibito di fronte a un cardinale, Angelo Scola, che quando predica fa di tutto per dire nulla o quasi quando si tratta di scegliere. E domenica doveva scegliere da che parte stare. Certo, l’ha fatto capire, presentando la figura di Martini come un pretesto per giustificare ciò che lui, Angelo Scola, sta facendo, ovvero l’esatto opposto di ciò che ha fatto Martini. Sbaglio dicendo “ciò che ha fatto”. Martini prima “pensava”, poi eventualmente faceva. Scola non so se pensa: egli tenta di fare qualcosa, e continuamente giustifica ciò che fa, anche le cazzate, come quel mettere in mostra davanti al mondo il chiodo-morso del cavallo di Costantino. Venerato, in un contesto teatrale da far inorridire lo stesso Martini: neppure Tettamanzi ha condiviso una simile oscena banalità. La follia della Croce è un’altra cosa! Una Croce che merita più il silenzio che le parole, e tanto meno le faraoniche sceneggiate meneghine!
Ora vorrei chiedere non solo ai cosiddetti “martiniani!”, ma a tutti coloro che hanno ascoltato in Duomo di Milano le parole di Scola o hanno letto l’omelia, che cosa ne pensino. In tutta sincerità.
Uscite una buona volta dal vostro timoroso silenzio! Perché dovrei essere l’unico a espormi pubblicamente, così da farmi giudicare come se fossi un pulcino nerissimo nel candore di una diocesi che trabocca di un cristianesimo modello per tutta l’umanità?
Un cardinale come Martini (lascio da parte Schuster, anch’esso strapazzato da commemorazioni formali!) meritava di essere ricordato così come ha fatto Scola? Quando non si sa che cosa dire, si citano alcune frasi del personaggio “scomodo”, in un contesto che dice tutto il contrario.
La diocesi milanese sta camminando sulle orme di Martini? Di quale Martini?
Scola e Martini sono su due piani completamente diversi. Non potranno mai congiungersi. Scola, se fosse sincero, dovrebbe dire semplicemente: Martini aveva una sua idea di Chiesa, io ne ho un’altra! Ti stimerei di più, se lo riconoscessi. La stessa parola umanesimo  vi divide. Tu lo intendi in un modo, Martini in un altro, completamente diverso. Lascia stare Martini, e non commemorarlo più.
Concèntrati ora sull’Expo 2015. Sarà per la diocesi un’altra grande sconfitta, perché  la strada evangelica è altrove.
Almeno un po’ di indignazione, cazzo!, ci è rimasta ancora?
 don Giorgio De Capitani

da ateo ho imparato dal card. Martini

giorello-martini

Giulio Giorello 

La lezione di Martini. Quello che da ateo ho imparato da un cardinale

Martini vivant! avrebbe scritto un altro più celebre ateo, Jean Paul Sartre. Scorrendo infatti le pagine commosse di questo libro non possono che venire in mente gli elogi post mortem che il filosofo dell’esistenzialismo aveva profuso ai suoi amici-avversari (Merleau Ponty o Camus giusto per fare qualche nome). Giorello marca le differenze emotive e sostanziali con il cardinal Martini, ma ne traccia un ritratto di uomo e pastore intellettualmente onesto e aperto al dialogo. Un libro che acquista un sapore nuovo in tempi in cui un papa emerito scrive a un matematico impertinente e un papa in carica risponde alle sollecitazioni del decano dei giornalisti dichiaratamente ateo. Tempi di interlocuzione e confronto, dunque. Ma ne “La lezione di Martini” c’è una pregnanza ulteriore. Finanche qualcosa da imparare, per un ateo, da un principe della Chiesa. Con un velo di ironia Giorello dichiara che taluni atei integralisti non gli perdoneranno l’ammirazione che egli nutre per Martini che chiamerà ad un certo punto “il mio arcivescovo”.

Giorello venne chiamato proprio da Martini alla “Cattedra dei non credenti” che il cardinale volle nella diocesi ambrosiana. Niente a che vedere con l’annacquato Cortile dei Gentili di ravasiana memoria, ma un luogo irripetibile di confronto tra credenti ed atei pensanti, che i successori Tettamanzi e Scola non saranno all’altezza di ripetere. Tra queste pagine vengono riportati alcuni stralci delle lezioni martiniane (in particolare l’XI sessione) alla “Cattedra” e a emergere è una figura che guarda al relativismo non come una iattura ma come atteggiamento propedeutico per la ricerca della verità, un rifiuto endemico per ogni egemonia (foss’anche in nome della verità), una rara capacità di ascolto ed interlocuzione. Lo stesso Martini dimessosi da cardinale e in ritiro a Gerusalemme per ritrovare le radici di una Chiesa che riteneva “indietro di almeno 200 anni” e per la quale negli ultimi tempi, in preda al Parkinson che lo costringerà a ritornare in Italia, non cessava di pregare, che ebbe a dire che “la solitudine è forse il carattere più drammatico della vita di ogni essere umano”.

Questa è la lezione profetica di Martini, antesignano di una Chiesa ancora di là da venire perché sono “i sognatori a tenere aperte le sorprese dello Spirito”. Un libro tenue e senza asprezze, ricco di suggestioni e dal profilo etico altissimo, dove aldilà delle latitudini fa capolino la parola “amicizia” che azzera ogni differenza.

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