ricordando una giornata importante per il popolo rom

Rom

Paolo VI e quella svolta a Pomezia nel ‘65

ma l’inclusione resta lontana

Paolo VI riceve dei fiori da una bambina rom durante la visita Pomezia del ‘65

marco roncalli

«Vorrei che anche per il vostro popolo si desse inizio a una nuova storia, a una rinnovata storia. Che si volti pagina! È arrivato il tempo di sradicare pregiudizi secolari, preconcetti e reciproche diffidenze che spesso sono alla base della discriminazione, del razzismo, della xenofobia. Nessuno si deve sentire isolato, nessuno è autorizzato a calpestare la dignità e i diritti degli altri. Avete l’esempio del beato Zefirino, figlio del vostro popolo, che si distinse per le sue virtù, per umiltà e onestà e per la grande devozione alla Madonna, che lo portò al martirio … Più volte anche da parte di San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI vi è stato assicurato l’affetto e l’incoraggiamento della Chiesa. Vorrei concludere con le parole del Beato Paolo VI … Voi nella Chiesa non siete ai margini, ma sotto certi aspetti, voi siete al centro, voi siete nel cuore» . 

Sono le parole che il 26 ottobre 2015, Papa Francesco ha pronunciato davanti a oltre 7mila Rom – provenienti da una ventina di nazioni del mondo, quasi duemila da 9 regioni e 26 diocesi italiane – giunti a Roma per ricordare il cinquantesimo anniversario dell’incontro di Paolo VI con il loro popolo a Pomezia, il 26 settembre del 1965. Un appello, quello di Francesco, sempre attuale. Certamente non solo oggi, 8 aprile, Giornata internazionale dei Rom e Sinti indetta dall’Onu, considerando che la presenza in Italia di circa 170 mila Rom di cui attorno ai quasi 40 mila vivono nei campi (oltre la metà composta da bambini di cui soltanto il 20% frequenta la scuola), resta sempre percepita solo come un problema di sicurezza

«Continuiamo, infatti, ad assistere ancora a troppa retorica politica e comunicativa razzista, xenofoba e antiziganista, con azioni conseguenti che portano a creare conflittualità e reazioni sociali, annullando gli aspetti positivi di percorsi di inclusione e partecipazione sociale. Manca, troppo spesso, il rispetto per il popolo rom, che vive nelle nostre periferie…»,

afferma monsignor Gian Carlo Perego oggi vescovo di Ferrara. Sono parole tratte da uno dei suoi ultimi scritti come direttore generale Fondazione Migrantes, la prefazione al volume di Susanna Placidi “Una giornata particolare” (Tau editore), che ricorda l’incontro di Papa Montini, alla vigilia della conclusione del Concilio Vaticano II: il primo, ufficiale, tra la Chiesa e il popolo “zingaro”. Un incontro che inizialmente prevedeva un incontro nella Basilica di San Pietro, mentre poi Paolo VI stesso decise di recarsi a visitarli nel loro accampamento di Pomezia, che quella giornata piovosa aveva trasformato in una palude. Un appuntamento storico che consacrava una svolta e vedeva l’abbraccio del Papa con una minoranza da sempre ai margini della società e associata a pregiudizi atavici come il furto o il rapimento dei bambini; una minoranza perseguitata nei secoli, ritenuta pericolosa, da cancellare dalla faccia della terra, impresa in cui si diedero molto da fare i nazisti durante la Seconda guerra mondiale (mezzo milione – secondo le statistiche più accreditate – i Rom che morirono nelle camere a gas e nei forni crematori dei lager, dopo aver subito trattamenti di particolare crudeltà).

Ma torniamo a quella “giornata particolare”. Anche padre Renè Voillaume e la piccola sorella Magdeleine in quell’occasione, lo ricorda monsignor Matteo Maria Zuppi, presentando lo stesso libro di Susanna Placidi, «accompagnarono un febbricitante Paolo VI, visibilmente felice per sanare una frattura secolare, che tanta sofferenza ha generato». «Egli, che aveva conosciuto il popolo zingaro –prosegue l’arcivescovo di Bologna – li chiamò “cari” e offrì a loro e a noi definizioni così diverse da quelle cui erano e sono abituati, frutto di sentimento poetico e di finezza letteraria: “pellegrini perpetui”, “esuli volontari”, “profughi sempre in cammino”, “viandanti senza riposo’”…». «Voi siete al centro, voi siete nel cuore”, affermò solennemente Papa Montini. In quella “giornata particolare” che a Pomezia aveva ascoltato la lettura del Vangelo in cinque idiomi diversi aprì davvero il suo cuore di Pastore e festeggiò il suo compleanno.

Da allora fino a Papa Francesco non sono mancate tappe importanti di questo legame tra il popolo Rom e la Chiesa. Certo molto resta da fare, ma occorre dar conto anche di esperienze che, benché poco diffuse, si collocano nel solco aperto da Paolo VI, capaci di far rivivere lo spirito di quella “giornata particolare” . Uno spirito già soffiato a ben guardare in tante pagine di storia della Chiesa dal tempo in cui Filippo Neri e altri santi erano pronti ad opporsi al decreto di Pio V che reclutava forzatamente gli zingari come rematori nelle galere pontificie, pronte per la battaglia di Lepanto, sino all’ultimo secolo che ha visto tante figure di precursori dell’apostolato fra i gitani un po’ in tutta Europa. Religiosi, parroci, vescovi capaci nei modi più diversi di «farsi zingari». Solo per fare qualche esempio fra i molti si pensi al gesuita Jean-Marie Fleury o all’arcivescovo di Utrecht, Johannes de Jong, negli anni ’40; a padre André Barthelemy negli anni ’50; al gesuita Luis Artigues, negli anni Sessanta; al futuro cardinale Roger Etchegaray, a Sorella Magdeleine o a padre Renè Voillaume, sempre restando in quegli anni. 

In Italia è stato don Dino Torreggiani il primo ad occuparsi sistematicamente dei Rom proponendo – anche con un memoriale inviato alla Sacra Congregazione Concistoriale già il 25 giugno 1957 – un piano in grado di affrontare la loro situazione e quella dei lavoratori dello spettacolo viaggiante, attraverso un coordinamento delle attività dei cappellani, d’intesa con il clero diocesano , base di una futura “prelatura dei nomadi”, di fatto presto realizzatasi con la nascita dell’Opera Assistenza Spirituale ai Nomadi in Italia (poi collocata all’interno degli organismi della Cei, nella Commissione Emigrazione e Turismo). Sulla scia dell’opera di Torreggiani si mossero diverse figure “storiche” della pastorale tra i Rom. Ne ricordiamo qui due. Don Bruno Nicolini, di Bolzano: un “convertito “ alla causa dei Rom, poi tra gli organizzatori del pellegrinaggio internazionale a Pomezia nell’incontro con Paolo VI, a fine anni ’70 chiamato a Roma dal cardinal vicario Ugo Poletti a seguire in diocesi la pastorale del mondo zingaro trovando come utile alleata la Comunità di Sant’Egidio. E don Mario Riboldi, lombardo: fu lui, insieme a don Torreggiani, a convincere l’allora arcivescovo di Milano a visitare i “circensi” di un Luna Park, alla periferia della città. Da Pontefice, Montini l’avrebbe ricordato in una udienza ad un gruppo di Rom nell’Anno Santo del 1975: «Voi mi domanderete: ma la Chiesa ci vuol bene? Sì che vi vuol bene e farà quel che può per aiutarvi… A Milano ho potuto incontrare parecchi dei vostri accampamenti, un po’ ovunque nella periferia e anche altrove i nostri passi si sono incrociati con i vostri. È stato don Riboldi che ci ha svelato la vostra vita…».

Una vita che decenni dopo non pare cambiata per i Rom. Giornate come quella dell’8 aprile – il “Romanò Dives” – servono almeno a rialzare il riflettore su un’emarginazione indiscutibile, favorita da tanti motivi che finiscono comunque per calpestare la dignità umana di un popolo . E ci si augura possano servire a dare il via a iniziative capaci di nuovi percorsi con le piccole comunità Rom e Sinti presenti tra noi. Alcuni cammini sono già stati avviati. Qualche traguardo raggiunto: ad esempio a Torino, dove i Rom hanno messo in piedi un progetto di housing sociale; a Milano, dove la Casa della Carità e il Centro Ambrosiano di Solidarietà hanno tolto dai campi una novantina di famiglie e fatto diplomare una trentina di ragazzi; a Roma, dove laboratori di sartoria frequentati da donne Rom con finalità di inclusione sociale sono nati su progetti promossi da Caritas, Migrantes e di Sant’Egidio, quest’ultima particolarmente attiva in varie città italiane anche sul fronte sanitario e scolastico. Senza dimenticare, al Nord come al Sud, da Brugherio alla Sicilia, lungo l’Italia “Paese dei campi Rom”, preti sconosciuti alle cronache che hanno scelto di vivere tra le roulottes. 

Ma sono casi poco frequenti, esperienze di testimonianza in un quadro dove restano ancora aperti troppi fronti che attendono soluzioni politiche: dalla scolarizzazione al superamento della segregazione abitativa. Né pare raccolga eccessivi entusiasmi la celebrazione di questo 8 aprile 2017, considerando le poche occasioni di festa promosse oggi da istituzioni religiose come ad esempio quella a Rimini voluta dalla Consulta delle Aggregazioni Laicali della Diocesi insieme alle famiglie. Lo stesso discorso per le istituzioni civili: anzi, proprio ieri – alla vigilia della ricorrenza – a Napoli sono accaduti due episodi in contemporanea che fotografano la situazione reale: l’inaugurazione di un nuovo grande campo (nell’Italia impegnatasi entro il 2020 a superare i megacampi monoetnici) e lo sgombero forzato di un altro campo a colpi di ruspe lasciando senza alloggio centinaia di Rom (compresi bambini e anziani). L’ inclusione? Ancora lontana.

«Nonostante la preoccupazione espressa dagli organi internazionali nulla è cambiato e in Italia continuano ad essere perpetrate politiche discriminatorie nei confronti delle popolazioni Rom…»: questa l’accusa ripetuta in Senato dall’Associazione 21 luglio, alla vigilia della Giornata internazionale. L’ennesima protesta dentro un “Rapporto annuale” costretto a rilevare «pesanti ritardi»

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