ripensare il relativismo

 

duei

il ‘relativismo’ sembrava ai due pontefici precedenti la cifra del limite intrinseco della cultura moderna e contemporanea e quindi da combattere e superare in base ad una identità culturale e valoriale più forte quale quella offerta dalla cultura cattolica le cui radici affondano nell’humus culturale ebraico e greco

col nuovo pontefice sembra essere possibile ripensare il relativismo come relatività, relazione. chissà che non sia possibile uno sguardo nuovo (meno conflittuale e più dialogico) rispetto al passato …

in merito un bel contributo di C. Albini in ‘Viandanti’:

Ripensare il relativismo

di Christian Albini
in “Viandanti” (www.viandanti.org)

Credenti e no sono necessariamente avversari? Da sempre sostengo che non sia vero. Premetto che queste sono etichette fuorvianti, come ormai sostengono molti. Il «credente» è abitato dal dubbio e anche il «non-credente» conosce una sua fede e la ricerca. Tuttavia, sono categorie comode per semplificare i nostri discorsi, a patto di disinnescare alcuni luoghi comuni fuorvianti e dannosi. Uno dei più importanti riguarda il significato del linguaggio del relativismo, che ha segnato il pontificato di Benedetto XVI, e l’uso che se ne fa. A lungo, il dissenso rispetto alle posizioni prevalenti tra i vertici della gerarchia cattolica, soprattutto in campo etico-legislativo, è stato respinto ricorrendo a quest’accusa. Il relativismo fa parte di quei concetti il cui significato è stato irrigidito e che vanno ri-compresi e ri-letti. C’è bisogno di una nuova comprensione di parole che sono state sequestrate dai settori più chiusi del cattolicesimo. La laicità non è relativista Gustavo Zagrebelsky, intervenendo nel dialogo aperto da papa Francesco con Eugenio Scalfari, scrive: «In ogni spirito che s’ispira alla laicità e crede alla necessità che forze morali possono unirsi per combattere il materialismo nichilistico e autodistruttivo delle società basate sull’egoismo mercantile, l’invito a “reimpostare in profondità la questione” suscita non solo interesse, ma perfino entusiasmo. La premessa è che il vero, il bene e il giusto esistono, che dunque non è insensato cercarli e cercarli insieme, ma che nessuno li possiede da solo, unilateralmente, onde possa imporli agli altri. Il centro del discorso è la coscienza e la sua insopprimibile libertà» (la Repubblica, 23 settembre 2013). In anni recenti, vale la pena ricordarlo, Zagrebelsky ha portato avanti una critica serrata all’etica dei principi non negoziabili e della legge naturale, così com’era impostata anche da voci autorevoli del magistero. Questa sua posizione, come si evince dalle parole che ho riportato, non significa la negazione della verità, del bene e della giustizia. Il suo è il rifiuto di una certa impostazione etica e degli argomenti di cui si avvale, più che di ogni etica. E nemmeno è il sostenere una posizione radicalmente individualista e perciò relativista. Ultimamente, alcuni fatti tragici hanno dimostrato come sia possibile trovare una sintonia tra portatori di visioni del mondo diverse in nome del bene della persona. È accaduto in occasione della giornata di preghiera e digiuno per la pace e in seguito alle tragiche morti di Lampedusa. Qui è in causa la persona con il suo volto, la sua carne, il suo sangue: un bene univoco, evidente, da difendere nei confronti di un male indubitabile. Alle radici delle divergenze Ci sono altre situazioni – soprattutto quelle riguardanti l’etica d’inizio e fine vita e la famiglia – in cui questa sintonia non si riscontra. Perché? Bisogna avere l’accortezza di chiedersi se questa è una divergenza che nasce da una negazione della vita e della famiglia, o piuttosto da una differente concezione del bene. Il nichilismo certamente esiste, ma sarebbe irrealistico considerarlo un fronte ben identificabile e schierato in armi contro i cattolici che lo fronteggiano. Solo un’esigua minoranza, tra gli atei e i non cattolici, può essere considerata effettivamente nichilista. Nietzsche e Heidegger hanno ben spiegato come il nichilismo sia piuttosto un clima di pensiero, un’atmosfera che tutti respiriamo, cattolici compresi. Si può essere perfettamente ortodossi sul piano dottrinale, eppure assumere un atteggiamento nichilista: è il caso del fondamentalismo, che divide il mondo in due e demonizza l’alterità negandone il bene. Il punto è: chi sostiene su questioni di vita e famiglia una posizione “altra” rispetto a quella prevalente nella Chiesa – scrivo prevalente, perché in ambito teologico-morale interrogativi e
dibattiti hanno uno spazio molto più ampio di quanto generalmente non si pensi, al punto che nella storia si rilevano cambiamenti anche notevoli nel magistero – è sostenitore di un male? E se, invece, sostenesse un bene differente, oppure una differente attuazione del medesimo bene che la Chiesa sostiene? La prospettiva dell’incontro Se in una relazione omosessuale caratterizzata da fedeltà e dedizione c’è un bene, riconoscerlo non significa negare il matrimonio. Chi sostiene, a certe condizioni e in certe situazioni, l’interruzione della ventilazione o della nutrizione artificiale è per la morte, o invece discerne una sproporzione tra i costi soggettivi, in termini di disagio psicologico, di queste pratiche e il fine che perseguono? Si tratterebbe allora di un giudizio morale su come coniugare la cura della vita con la libertà e la dignità della persona umana. Non è affatto l’avvallo dell’eutanasia e di una cultura dello scarto, ma accettare che oltre un certo limite può diventare disumanizzante persistere nell’impedire la morte. Affrontare queste e altre questioni non significa entrare in una prospettiva di permissivismo senza freni, in cui tutto va bene. Sarebbe caricaturale porre le cose in questi termini. È più corretto dire che è una prospettiva d’incontro, la quale nasce dalla disponibilità a riconoscere il bene di cui l’altro è portatore dentro a una relazione. Senza che questo significhi necessariamente trovare un accordo facile e totale. Allo stesso modo, non è attraverso la vittoria in una disputa, bensì nella relazione che l’altro arriva a ritenere credibile me e il bene di cui sono portatore. Scrive Paolo: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono» (1 Ts 5,21). Il relativismo, allora, non è dato da posizioni non pienamente coincidenti con le mie, ma dall’indifferenza per la persona e il suo bene, che inizia dal non riconoscerlo come soggetto portatore di un’autenticità etica che si manifesta nella sua coscienza. È in questi termini che si può leggere l’esortazione di papa Francesco a seguire il bene percepito dalla propria coscienza, che non è avvallo di tutto. Nel mercante di clandestini o nell’aguzzino nazista non c’è autenticità etica, perché c’è indifferenza verso l’altro. Ben diverso è il caso di chi entra nei dibattiti su vita e famiglia.

Christian Albini Socio fondatore e membro del Consiglio direttivo di Viandanti

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