il natale è nonostante tutto festa di speranza

 

la speranza del Natale

di Enzo Bianchi

 

Se il Natale ha un significato cristiano è questo: non è solo una festa per Gesù che nasce, ma è una festa per il Messia che viene a reintegrare nella pienezza della vita tutti quelli che ne sono privi. Natale è festa di speranza per tutti quelli che, cristiani o non cristiani, vogliono che il mondo cambi.

Nel sapiente e poetico testo di Antoine de Saint-Exupéry, la volpe dice al principe: “Ci vogliono i riti, ovvero ciò che rende un giorno diverso da altri giorni, un’ora diversa da altre ore”. Proprio per questo, vicini al Natale, la festa più celebrata nel nostro occidente, nelle notti più lunghe dell’anno noi cerchiamo di rendere luminosi questi giorni con migliaia di luci che dovrebbero creare un’atmosfera “altra”, gioiosa, nelle nostre città e nelle nostre case.
Le luminarie erano già presenti al tempo dei romani, prima che il cristianesimo si impadronisse di questa ricorrenza del “sole invincibile” per farne la memoria della nascita di Gesù, il Salvatore dei
cristiani, confessato come “sole che non tramonta” e “luce del mondo”. Natale è festa della luce che vince le tenebre, simbolo di un evento desiderato da gran parte dell’umanità: accendere molte luci è
affermare che le tenebre non riescono a sopraffare la luce, è invito a fare festa insieme.
Si diceva nei mesi scorsi che quest’anno, a causa della crisi energetica, non ci sarebbero stati i soliti addobbi luminosi nelle città anche come segno di solidarietà con quelli che soffrono il freddo, soprattutto in Ucraina. Ma poi tutto è stato predisposto come gli altri anni forse perché non sappiamo essere conseguenti con le emozioni che proviamo, e forse perché far festa anche nei giorni cattivi ci può aiutare ad aprire l’umile speranza di un orizzonte luminoso.
Questo Natale arriva come un Natale di guerra, nel quale ci sono tutti i segni che la pandemia non è sconfitta, in un’ora di grave crisi politica nel nostro paese per la mancanza di uomini e donne che abbiano senso di responsabilità, siano esperti dell’arte del governare, nutrano una visione sul futuro della nostra società e testimonino un’etica che sia in grado di contrastare ogni forma di corruzione.
In questi giorni non è facile festeggiare, a meno di restare superficiali, non vulnerabili dalle situazioni di sofferenza che sembrano cancellare ogni speranza. Ubriacati dal clima festoso non ci indigniamo più per la guerra in Ucraina, per i migranti che continuano a morire nel Mediterraneo e sulle fredde rotte europee, per l’oppressione delle donne in Iran, per i maltrattamenti subiti dai carcerati nelle nostre prigioni. Come si può celebrare Natale senza essere consapevoli di queste
realtà delle quali in certi casi siamo anche responsabili?
Mi rincuora il fatto che il Natale, per i cristiani, non dovrebbe essere la festa della nascita di Gesù: si festeggia il fatto che lui è il Veniente che viene a portare giustizia, liberazione, pace per tutte le vittime della storia, per tutti quelli che desiderano, invocano, attendono un cambiamento ! Se il Natale ha un significato cristiano è questo: non è solo una festa per Gesù che nasce, ma è una festa per il Messia che viene a reintegrare nella pienezza della vita tutti quelli che ne sono privi. Natale è festa di speranza per tutti quelli che, cristiani o non cristiani, vogliono che il mondo cambi.

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il messaggio di papa Francesco per la giornata mondiale della pace

Giornata della Pace

 il messaggio del papa

un “noi” aperto alla fraternità universale

per la Giornata mondiale della pace del primo gennaio: dalla guerra in Ucraina alle conseguenze del Covid
il testo integrale

Il messaggio del Papa: un "noi" aperto alla fraternità universale

«Non possiamo più pensare solo a preservare lo spazio dei nostri interessi personali o nazionali, ma dobbiamo pensarci alla luce del bene comune, con un senso comunitario, ovvero come un ‘noi’ aperto alla fraternità universale»

Con queste parole papa Francesco, nel messaggio per la 56esima Giornata mondiale della pace che ricorre l’1 gennaio, ci chiede di interrogarci sul nostro futuro e sulle nostre responsabilità. Che cosa abbiamo imparato da questa situazione di pandemia? È una delle sue domande, e ci ricorda che la più grande lezione che il Covid-19 ci lascia in eredità è la consapevolezza che abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, che «il nostro tesoro più grande, seppure anche più fragile, è la fratellanza umana, fondata sulla comune figliolanza divina, e che nessuno può salvarsi da solo».

Il Papa rende omaggio all’impegno eroico di quanti si sono spesi nell’emergenza pandemica e ragiona di alcune «scoperte positive» come un benefico ritorno all’umiltà; un ridimensionamento di certe pretese consumistiche; un senso rinnovato di solidarietà che «ci incoraggia a uscire dal nostro egoismo per aprirci alla sofferenza degli altri e ai loro bisogni».

E ancora «da tale esperienza – osserva – è derivata più forte la consapevolezza che invita tutti, popoli e nazioni, a rimettere al centro la parola “insieme”. Infatti, è insieme, nella fraternità e nella solidarietà, che costruiamo la pace, garantiamo la giustizia, superiamo gli eventi più dolorosi. Le risposte più efficaci alla pandemia sono state, in effetti, quelle che hanno visto gruppi sociali, istituzioni pubbliche e private, organizzazioni internazionali uniti per rispondere alla sfida, lasciando da parte interessi particolari. Solo la pace che nasce dall’amore fraterno e disinteressato può aiutarci a superare le crisi personali, sociali e mondiali».

Non solo il Covid, ma anche la guerra, «nuova terribile sciagura», guidata però da scelte umane colpevoli viene citata più volte nel messaggio per prossima la giornata mondiale della pace. «La guerra in Ucraina – sottolinea ancora Francesco nel messaggio – miete vittime innocenti e diffonde incertezza, non solo per chi ne viene direttamente colpito, ma in modo diffuso e indiscriminato per tutti, anche per quanti, a migliaia di chilometri di distanza, ne soffrono gli effetti collaterali – basti solo pensare ai problemi del grano e ai prezzi del carburante». E di certo, «non è questa l’era post-Covid che speravamo o ci aspettavamo. Infatti, questa guerra, insieme a tutti gli altri conflitti sparsi per il globo, rappresenta una sconfitta per l’umanità intera e non solo per le parti direttamente coinvolte. Mentre per il Covid-19 si è trovato un vaccino, per la guerra ancora non si sono trovate soluzioni adeguate».

 di seguito integralmente il testo del messaggio per la Giornata mondiale della pace del primo gennaio 2023

Nessuno può salvarsi da solo. Ripartire dal Covid-19 per tracciare insieme sentieri di pace”

«Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte» (Prima Lettera di San Paolo ai Tessalonicesi ​5,1-2).

1. Con queste parole, l’Apostolo Paolo invitava la comunità di Tessalonica perché, nell’attesa dell’incontro con il Signore, restasse salda, con i piedi e il cuore ben piantati sulla terra, capace di uno sguardo attento sulla realtà e sulle vicende della storia. Perciò, anche se gli eventi della nostra esistenza appaiono così tragici e ci sentiamo spinti nel tunnel oscuro e difficile dell’ingiustizia e della sofferenza, siamo chiamati a tenere il cuore aperto alla speranza, fiduciosi in Dio che si fa presente, ci accompagna con tenerezza, ci sostiene nella fatica e, soprattutto, orienta il nostro cammino. Per questo San Paolo esorta costantemente la Comunità a vigilare, cercando il bene, la giustizia e la verità: «Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri» (5,6). È un invito a restare svegli, a non rinchiuderci nella paura, nel dolore o nella rassegnazione, a non cedere alla distrazione, a non scoraggiarci ma ad essere invece come sentinelle capaci di vegliare e di cogliere le prime luci dell’alba, soprattutto nelle ore più buie.  

2. Il Covid-19 ci ha fatto piombare nel cuore della notte, destabilizzando la nostra vita ordinaria, mettendo a soqquadro i nostri piani e le nostre abitudini, ribaltando l’apparente tranquillità anche delle società più privilegiate, generando disorientamento e sofferenza, causando la morte di tanti nostri fratelli e sorelle.

Spinti nel vortice di sfide improvvise e in una situazione che non era del tutto chiara neanche dal punto di vista scientifico, il mondo della sanità si è mobilitato per lenire il dolore di tanti e per cercare di porvi rimedio; così come le Autorità politiche, che hanno dovuto adottare notevoli misure in termini di organizzazione e gestione dell’emergenza.

Assieme alle manifestazioni fisiche, il Covid-19 ha provocato, anche con effetti a lungo termine, un malessere generale che si è concentrato nel cuore di tante persone e famiglie, con risvolti non trascurabili, alimentati dai lunghi periodi di isolamento e da diverse limitazioni di libertà.

Inoltre, non possiamo dimenticare come la pandemia abbia toccato alcuni nervi scoperti dell’assetto sociale ed economico, facendo emergere contraddizioni e disuguaglianze. Ha minacciato la sicurezza lavorativa di tanti e aggravato la solitudine sempre più diffusa nelle nostre società, in particolare quella dei più deboli e dei poveri. Pensiamo, ad esempio, ai milioni di lavoratori informali in molte parti del mondo, rimasti senza impiego e senza alcun supporto durante tutto il periodo di confinamento.

Raramente gli individui e la società progrediscono in situazioni che generano un tale senso di sconfitta e amarezza: esso infatti indebolisce gli sforzi spesi per la pace e provoca conflitti sociali, frustrazioni e violenze di vario genere. In questo senso, la pandemia sembra aver sconvolto anche le zone più pacifiche del nostro mondo, facendo emergere innumerevoli fragilità.

3. Dopo tre anni, è ora di prendere un tempo per interrogarci, imparare, crescere e lasciarci trasformare, come singoli e come comunità; un tempo privilegiato per prepararsi al “giorno del Signore”. Ho già avuto modo di ripetere più volte che dai momenti di crisi non si esce mai uguali: se ne esce o migliori o peggiori. Oggi siamo chiamati a chiederci: che cosa abbiamo imparato da questa situazione di pandemia? Quali nuovi cammini dovremo intraprendere per abbandonare le catene delle nostre vecchie abitudini, per essere meglio preparati, per osare la novità? Quali segni di vita e di speranza possiamo cogliere per andare avanti e cercare di rendere migliore il nostro mondo?

Di certo, avendo toccato con mano la fragilità che contraddistingue la realtà umana e la nostra esistenza personale, possiamo dire che la più grande lezione che il Covid-19 ci lascia in eredità è la consapevolezza che abbiamo tutti bisogno gli uni degli altri, che il nostro tesoro più grande, seppure anche più fragile, è la fratellanza umana, fondata sulla comune figliolanza divina, e che nessuno può salvarsi da solo. È urgente dunque ricercare e promuovere insieme i valori universali che tracciano il cammino di questa fratellanza umana. Abbiamo anche imparato che la fiducia riposta nel progresso, nella tecnologia e negli effetti della globalizzazione non solo è stata eccessiva, ma si è trasformata in una intossicazione individualistica e idolatrica, compromettendo la garanzia auspicata di giustizia, di concordia e di pace. Nel nostro mondo che corre a grande velocità, molto spesso i diffusi problemi di squilibri, ingiustizie, povertà ed emarginazioni alimentano malesseri e conflitti, e generano violenze e anche guerre.

Mentre, da una parte, la pandemia ha fatto emergere tutto questo, abbiamo potuto, dall’altra, fare scoperte positive: un benefico ritorno all’umiltà; un ridimensionamento di certe pretese consumistiche; un senso rinnovato di solidarietà che ci incoraggia a uscire dal nostro egoismo per aprirci alla sofferenza degli altri e ai loro bisogni; nonché un impegno, in certi casi veramente eroico, di tante persone che si sono spese perché tutti potessero superare al meglio il dramma dell’emergenza.

Da tale esperienza è derivata più forte la consapevolezza che invita tutti, popoli e nazioni, a rimettere al centro la parola “insieme”. Infatti, è insieme, nella fraternità e nella solidarietà, che costruiamo la pace, garantiamo la giustizia, superiamo gli eventi più dolorosi. Le risposte più efficaci alla pandemia sono state, in effetti, quelle che hanno visto gruppi sociali, istituzioni pubbliche e private, organizzazioni internazionali uniti per rispondere alla sfida, lasciando da parte interessi particolari. Solo la pace che nasce dall’amore fraterno e disinteressato può aiutarci a superare le crisi personali, sociali e mondiali.

4. Al tempo stesso, nel momento in cui abbiamo osato sperare che il peggio della notte della pandemia da Covid-19 fosse stato superato, una nuova terribile sciagura si è abbattuta sull’umanità.

Abbiamo assistito all’insorgere di un altro flagello: un’ulteriore guerra, in parte paragonabile al Covid-19, ma tuttavia guidata da scelte umane colpevoli. La guerra in Ucraina miete vittime innocenti e diffonde incertezza, non solo per chi ne viene direttamente colpito, ma in modo diffuso e indiscriminato per tutti, anche per quanti, a migliaia di chilometri di distanza, ne soffrono gli effetti collaterali – basti solo pensare ai problemi del grano e ai prezzi del carburante.

Di certo, non è questa l’era post-Covid che speravamo o ci aspettavamo. Infatti, questa guerra, insieme a tutti gli altri conflitti sparsi per il globo, rappresenta una sconfitta per l’umanità intera e non solo per le parti direttamente coinvolte. Mentre per il Covid-19 si è trovato un vaccino, per la guerra ancora non si sono trovate soluzioni adeguate. Certamente il virus della guerra è più difficile da sconfiggere di quelli che colpiscono l’organismo umano, perché esso non proviene dall’esterno, ma dall’interno del cuore umano, corrotto dal peccato (cfr Vangelo di Marco 7,17-23).

5. Cosa, dunque, ci è chiesto di fare? Anzitutto, di lasciarci cambiare il cuore dall’emergenza che abbiamo vissuto, di permettere cioè che, attraverso questo momento storico, Dio trasformi i nostri criteri abituali di interpretazione del mondo e della realtà. Non possiamo più pensare solo a preservare lo spazio dei nostri interessi personali o nazionali, ma dobbiamo pensarci alla luce del bene comune, con un senso comunitario, ovvero come un “noi” aperto alla fraternità universale. Non possiamo perseguire solo la protezione di noi stessi, ma è l’ora di impegnarci tutti per la guarigione della nostra società e del nostro pianeta, creando le basi per un mondo più giusto e pacifico, seriamente impegnato alla ricerca di un bene che sia davvero comune.

Per fare questo e vivere in modo migliore dopo l’emergenza del Covid-19, non si può ignorare un dato fondamentale: le tante crisi morali, sociali, politiche ed economiche che stiamo vivendo sono tutte interconnesse, e quelli che guardiamo come singoli problemi sono in realtà uno la causa o la conseguenza dell’altro. E allora, siamo chiamati a far fronte alle sfide del nostro mondo con responsabilità e compassione. Dobbiamo rivisitare il tema della garanzia della salute pubblica per tutti; promuovere azioni di pace per mettere fine ai conflitti e alle guerre che continuano a generare vittime e povertà; prenderci cura in maniera concertata della nostra casa comune e attuare chiare ed efficaci misure per far fronte al cambiamento climatico; combattere il virus delle disuguaglianze e garantire il cibo e un lavoro dignitoso per tutti, sostenendo quanti non hanno neppure un salario minimo e sono in grande difficoltà. Lo scandalo dei popoli affamati ci ferisce. Abbiamo bisogno di sviluppare, con politiche adeguate, l’accoglienza e l’integrazione, in particolare nei confronti dei migranti e di coloro che vivono come scartati nelle nostre società. Solo spendendoci in queste situazioni, con un desiderio altruista ispirato all’amore infinito e misericordioso di Dio, potremo costruire un mondo nuovo e contribuire a edificare il Regno di Dio, che è Regno di amore, di giustizia e di pace.

Nel condividere queste riflessioni, auspico che nel nuovo anno possiamo camminare insieme facendo tesoro di quanto la storia ci può insegnare. Formulo i migliori voti ai Capi di Stato e di Governo, ai Responsabili delle Organizzazioni internazionali, ai Leaders delle diverse religioni. A tutti gli uomini e le donne di buona volontà auguro di costruire giorno per giorno, come artigiani di pace, un buon anno! Maria Immacolata, Madre di Gesù e Regina della Pace, interceda per noi e per il mondo intero.

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il commento al vangelo della domenica

i sogni di Giuseppe sono quelli di Dio


I sogni di Giuseppe sono quelli di Dio
il commento di E. Ronchi al vangelo della quarta domenica di avvento

Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore
(….).

Tra i testimoni che ci accompagnano al Natale appare Giuseppe, mani callose e cuore sognante, il mite che parla amando. Dopo l’ultimo profeta dubbioso, Giovanni Battista, di domenica scorsa, ora un altro credente, un giusto anche lui dubbioso e imperfetto, l’ultimo patriarca di una storia mai semplice e lineare. Giuseppe che non parla mai, silenzioso e coraggioso, concreto e sognatore: le sorti del mondo sono affidate ai suoi sogni. E lì sono al sicuro, perché l’uomo giusto ha gli stessi sogni di Dio. La sua casa è pronta, il matrimonio è già contratto, la ragazza abita i suoi pensieri, tutto racconta una storia d’amore vero con Maria. Improvvisamente, succede: Maria si trovò incinta e Giuseppe pensò di ripudiarla in segreto, insieme a quel figlio non suo. L’uomo “tradito” cerca comunque un modo per salvare la sua ragazza che rischia la vita come adultera; il giusto “ingannato” non cerca ritorsioni contro di lei, vuole ancora proteggerla, perché così fa chi ama. Ripudiarla…

Ma Giuseppe è insoddisfatto della decisione presa. Si dibatte dentro un conflitto emotivo e spirituale: da un lato l’obbligo di denuncia e dall’altro la protezione della donna amata. A metà strada tra l’amore per la legge di Mosè: toglierai di mezzo a te il peccatore (cfr Dt 22,22), e l’amore per la ragazza di Nazaret. E accade un secondo imprevisto, bello e sorprendente. Giuseppe ha un sogno, in cui il volto di Maria si mescola a quello degli angeli. Prima decide, poi arriva da Dio un sogno, arriva solo dopo, senza esimerlo dalla fatica e dalla libertà: “Non temere di prendere con te Maria”.

Tu vuoi già prenderla con te, solo che hai paura. Non temere di amarla, Giuseppe, chi ama non sbaglia.Dio non interviene a risolvere i problemi con una bacchetta magica, non ci salva dai conflitti ma è con noi dentro i problemi, e opera in sinergia con la nostra testa e il nostro cuore, con l’intelligenza e l’empatia, ma insieme anche con la nostra capacità di immaginare e di ipotizzare soluzioni nuove. È l’arte divina dell’accompagnamento, che cammina al passo con noi, verso l’unica risposta possibile: proteggere delle vite con la propria vita.Da chi ha imparato Gesù a ribaltare la legge antica, a mettere la persona prima delle regole, se non ascoltando da Giuseppe il racconto di come si sono conosciuti con Maria, di come è stato il loro fidanzamento e poi il matrimonio, ai figli piace sentire queste storie. Da chi ha capito il piccolo Gesù che l’amore viene prima di tutto, che è sempre un po’ fuorilegge? Maria e Giuseppe, poveri di tutto, ma Dio non ha voluto che fossero poveri d’amore, perché sarebbero stati poveri di Lui.

(Letture: Isaia 7, 10-14; Salmo 23; Romani 1,1-7; Matteo 1,18-24).

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il commento al vangelo della domenica

quella nuova creazione che passa nelle storie di chi vive ai margini


San Giovanni in prigione

il commento di E. Ronchi al vsngelo della terza domenica di Avvento – Anno A

In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».

Giovanni Battista, il più grande tra i nati di donna, non ha più le idee chiare. Lui, “più che un profeta”, dubita e chiede aiuto. Non so voi, ma io credo e dubito al tempo stesso; e Dio gode che io mi ponga e gli ponga delle domande. Non so voi, ma io credo e non credo, in duello, come il padre disperato del racconto di Marco, che ha un figlio che lo spirito butta nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo, e confessa a Gesù: “io credo, ma tu aiutami perché non credo” ( Mc 9,23). E Gesù risponde in modo meraviglioso: non offre definizioni, pensieri, idee, teologia, neppure risponde con un “sì” o un “no”, prendere o lasciare. Racconta delle storie. C’era una volta un cieco… e nel paese vicino viveva uno zoppo dalla nascita. Racconta sei storie che hanno comunicato vita, così come era accaduto nei sei giorni della creazione, quando la vita fioriva in tutte le sue forme. Sei storie di nuova creazione.

Gesù parte dagli ultimi della fila, non comincia da pratiche religiose, ma dalle lacrime: ciechi, storpi, sordi, lebbrosi, morti, poveri…; da dove la vita è più minacciata. E fa per loro un vestito di carezze. Non guarisce gente per rinforzare le fila dei discepoli, per farne degli adepti, per tirarli alla fede come pesci presi all’amo della salute ritrovato, ma per restituirli a umanità piena e guarita, perché siano uomini liberi e totali. E non debbano più piangere.

La Bibbia è fatta soprattutto di narrazioni, Le storie dicono che senso diamo al mondo, cioè “che storia ci stiamo raccontando?” Tutte le grandi narrazioni dicono questo: come si affronta la morte, raccontano di come si fa a non morire, a ripartire. Sono iniziazione alla vita. Ai discepoli inviati da Giovanni Gesù chiede di entrare in una nuova narrazione del mondo. Entrano e vedono nascere la terra nuova e il nuovo cielo. E chiede loro di continuare il racconto: raccontate ciò che vedete e udite.

Poi il racconto si fa domanda: Cosa siete andati a vedere nel deserto? Un bravo oratore? Un trascinatore di folle? Un leader carismatico? Forse una canna sbattuta dal vento? Un opportunista che piega la schiena pur di restare al suo posto? Che cosa siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti?

Preoccupato dell’abito firmato? Del macchinone da far vedere? Che cosa siete andati a vedere? Perché Dio non si dimostra, si mostra. Nel deserto hanno visto un corpo marchiato, scolpito, inciso dalla Parola. Giovanni ha offerto un anticipo di corpo, un capitale di incarnazione e la profezia è diventata carne e sangue.

Noi tutti ci nutriamo di storie, e questa è la narrazione di cui la terra ha più bisogno per nutrirsi: storie di credenti credibili.

(Letture: Isaia 35,1-6a.8a.10; Salmo 145; Lettera di Giacomo 5,7-10; Matteo 11,2-11)
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contro il mito della crescita infinita e del consumismo sfacciato

i consumi in eccesso dei ricchi un pericolo per le specie viventi
di Francesco Gesualdi

in “Avvenire” del 6 dicembre 2022

Gli ecosistemi si stanno degradando a ritmi sempre più preoccupanti. Non si tratta solo di salvare specie rare, ma l’intero tessuto vitale da cui dipende l’umanità: per il cibo, l’acqua, la salute, la regolazione del clima. Ridurre le emissioni di anidride carbonica e tutelare le specie viventi. Smetterla di inseguire il mito della crescita di produzione e consumo. Svuotare il cuore di cose e riempirlo di relazioni.

Calo della popolazione ittica marina, dei vertebrati selvatici, degli insetti, delle varietà di piante e persino degli animali domestici. La perdita di biodiversità è un’emergenza.
Dal 7 al 19 dicembre si tiene a Montreal, Canada, una conferenza internazionale sulla biodiversità. Anch’essa definita Cop (conferenza delle parti), avviene in attuazione della convenzione sulla biodiversità firmata nel lontano 1992 nell’ambito delle Nazioni Unite. Quella che si tiene quest’anno è la quindicesima (Cop15) e si contraddistingue per un paio di particolarità: la tempistica e la finalità. La tempistica perché ha proceduto per fasi: prima a Kunming, Cina,  nell’ottobre 2021, poi a Montreal nel dicembre 2022. La finalità perché il suo compito è redigere il così detto Post-2020 Global Biodiversity Framework, ossia il nuovo Piano strategico per la biodiversità, valido per il prossimo decennio. Il precedente, valido dal 2011 al 2020, era stato redatto nel corso della Cop10 e si poneva una serie di obiettivi denominati “Obiettivi di Aichi”, dal nome della località giapponese in cui vennero sottoscritti. U n rapporto delle Nazioni Unite del 2021, dal titolo emblematico “Fare pace con la natura”, denuncia che nessuno degli obiettivi di Aichi è stato pienamente raggiunto. Al contrario lamenta che gli ecosistemi si stanno degradando a ritmi sempre più preoccupanti. La pesca eccessiva, i cambiamenti climatici, l’acidificazione, l’inquinamento, hanno compromesso già due terzi degli oceani. Un terzo della popolazione ittica
marina è pescata oltre misura, mentre i fertilizzanti che raggiungono il mare hanno già annientato la vita in più di 400 aree per un totale di 245mila chilometri quadrati, una superficie grande come la Gran Bretagna o l’Ecuador. Dal 1980, i rifiuti di plastica si sono decuplicati, fino a rappresentare l’80% dei detriti presenti nei mari. I loro frammenti si trovano in tutti gli oceani, a tutte le profondità, in tutte le correnti, danneggiando i pesci per intrappolamento o per ingestione. Per di più
possono fare da vettori di altri inquinanti e addirittura da veicoli di specie infestanti che alterano ulteriormente gli ecosistemi marini.
Negli ultimi 50 anni la popolazione dei vertebrati selvatici è crollata del 68% mentre si è dimezzata quella di molte famiglie d’insetti. Anche il numero di varietà di piante e di animali domestici si è ridotto di molto. Ad esempio negli ultimi decenni oltre il 9% delle varietà animali si è estinto, mentre un altro 17% corre lo stesso rischio. a conclusione è che complessivamente un milione di specie viventi, animali o vegetali, è a rischio di estinzione, su un totale di otto milioni. Una situazione che compromette anche il raggiungimento di molti obiettivi di sviluppo sostenibile indicati dalle Nazioni Unite. Sicuramente il numero due
che riguarda la sicurezza alimentare. La riduzione delle varietà coltivate, il crollo degli insetti  impollinatori e il deterioramento dei suoli per l’uso eccessivo di fertilizzanti chimici, minacciano i raccolti agricoli esponendo un numero crescente di persone a rischio alimentare. La riduzione di
biodiversità riduce la possibilità per i produttori di adattare coltivazioni e allevamenti alle situazioni che cambiano. A oggi si conoscono oltre 6mila varietà vegetali coltivabili, ma solo 200 di esse dominano la produzione alimentare globale. Addirittura nove prodotti (canna da zucchero, mais,
riso, frumento, patate, soia, palma da olio, barbabietola da zucchero, manioca) contribuiscono da soli al 66% dell’intera produzione agricola mondiale. Quanto al bestiame, gli allevamenti si basano su una quarantina di specie, ma solo una manciata di esse fornisce la maggior parte di carne, latte e uova consumata a livello globale. In effetti le varietà locali sono sempre più rare: il 26% di esse è ritenuto a rischio estinzione.
La perdita di biodiversità compromette anche il numero tre degli obiettivi di sviluppo sostenibile, quello che si prefigge la salute per tutti. La perdita di biodiversità riduce la possibilità di ottenere farmaci dalla natura. Si stima che 4 miliardi di persone, la metà della popolazione mondiale, si curino utilizzando medicine naturali. Del resto il 70% dei farmaci utilizzati per il trattamento di forme tumorali sono di origine naturale o, se sintetiche, hanno come riferimento molecole trovate in
natura. Più del 20% dei farmaci moderni si basa su princìpi terapeutici estratti da molecole naturali individuate da ricercatori scientifici o tramandate dal sapere delle popolazioni locali. Fra essi l’aspirina e gli antitumorali vincristina e taxol. Con la perdita di biodiversità si riduce la possibilità di nuove scoperte farmacologiche. Per gli amanti dei termini monetari, l’importanza della biodiversità è sottolineata dal World
Economic Forum secondo il quale la natura contribuisce a oltre la metà del prodotto lordo mondiale, ossia 44mila miliardi di dollari. Per questo Tony Juniper, esponente del governo britannico per le questioni ambientali, insiste: «Cop 15 rappresenta la nostra ultima frontiera per
arrestare il declino della natura a livello planetario. Non si tratta solo di salvare specie rare, ma di salvaguardare l’intero tessuto vitale da cui dipende l’umanità: per il cibo, per l’acqua, per la salute, per la regolazione del clima. Dunque, mentre si cercano percorsi per ridurre le emissioni di anidride carbonica, bisogna compiere scelte per tutelare le specie viventi». Cosa fare lo sappiamo. Dobbiamo smettere di deforestare, di saccheggiare i mari, di sommergere i terreni di chimica, di produrre rifiuti. Ma per farlo dobbiamo smetterla di inseguire il mito della crescita di produzione e consumo. Il degrado della natura è il risultato di un livello insostenibile di consumi da parte della popolazione ricca, mentre ai poveri non è consentito di avere neanche il minimo per vivere. Dunque è il nostro super consumo che dobbiamo mettere in discussione sapendo che a causa di un’organizzazione mercantile che esalta i beni commerciali, mentre disprezza i diritti, ci troviamo nella situazione assurda in cui abbiamo un eccesso di cose che non ci servono, mentre manchiamo di servizi fondamentali. Mangiamo oltre misura, magari cibo poco sano, abbiamo la casa piena di congegni elettronici, abbiamo gli armadi pieni di vestiario fast fashion che inquina tanto e vale poco, ma poi non godiamo sempre di una sanità degna di questo nome, non riusciamo a dare tutti un’assistenza adeguata ai nostri anziani, facciamo fatica a garantirci un alloggio, non troviamo un posto all’asilo per i nostri piccoli. Dunque non si tratta di operare un taglio generalizzato dei nostri consumi, ma di reindirizzarli. Dobbiamo ridurre il consumo di beni materiali privati, che dissipano risorse e producono rifiuti, ed accrescere il godimento di servizi di cura pubblici, che aggiungono felicità senza aggravio per la natura. La dimostrazione che la questione ambientale non è tanto un problema di tecnologia ma di
modello di sviluppo, a sua volta direttamente dipendente dalla visione che abbiamo della vita, dei rapporti sociali, dei valori in cui crediamo. Dobbiamo svuotare il nostro cuore di cose e riempirlo di relazioni. Tutto il resto verrà da solo

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il commento al vangelo della domenica

l’annuncio del Battista

il regno dei cieli è vicino


L’annuncio del Battista: il regno dei cieli è vicino
il commento di E. Ronchi al vangelo della seconda domenica di avvento

In quei giorni, venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaìa quando disse: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!». (…)

Nel deserto della Giudea e sulle rive attorno al lago di Galilea, per Giovanni e per Gesù le parole generative sono le stesse : “convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,2). Tre annunci in uno: a) esiste un regno, cieli nuovi e terra nuova, un mondo nuovo che preme per venire alla luce.. b) Un regno incamminato. I due profeti non dicono cos’è il Regno, ma dove è. Lo fanno con una parola calda di speranza “vicino”. Dio è vicino, è qui. Seconda buona notizia: il Pellegrino eterno ha camminato molto, il suo esodo approda qui, alla radice del vivere, non ai margini della vita, si fa intimo come un pane nella bocca, una parola detta sul cuore portata dal respiro: infatti “vi battezzerà nello Spirito Santo”, vi immergerà dentro il soffio e il mare di Dio, sarete avvolti, intrisi, impregnati della vita stessa di Dio, in ogni vostra fibra. c) Convertitevi, ossia mettetela in cammino la vostra vita, non per una imposizione da fuori ma per una seduzione. La vita non cambia per decreto-legge, ma per una bellezza almeno intravista: sulla strada che io percorro, il cielo è più vicino e più azzurro, la terra più dolce di frutti, ci sono più sorrisi e occhi con luce. Convertitevi: giratevi verso la luce, perché la luce è già qui. Infatti viene uno che è più grande di me. I due profeti usano lo stesso verbo e sempre al tempo presente: «Dio viene». Non: verrà, un giorno; oppure sta per venire, sarà qui tra poco. E ci sarebbe bastato. Semplice, diretto, sicuro: viene. Come un seme che diventa albero, come la linea mattinale della luce, che sembra minoritaria ma è vincente, piccola breccia, piccolo buco bianco che ingoia il nero della notte. Giorno per giorno, continuamente, Dio viene. Anche se non lo vedi, viene; anche se non ti accorgi di lui, è in cammino su tutte le strade.​

È bello questo mondo immaginato colmo di orme di Dio. Isaia, il sognatore, annuncia che Dio non sta non solo nell’intimo, in un’esperienza soggettiva, ma si è insediato al centro della vita, come un re sul trono, al centro delle relazioni e delle connessioni tra i viventi, rete che raccoglie insieme, in armonia, il lupo e l’agnello, il leone e il bue, il bambino e il serpente, uomo e donna, arabo ed ebreo, musulmano e cristiano, bianco e nero, russo e ucraino, per il fiorire della vita in tutte le sue forme.

Dio viene. Io credo nella buona notizia di Isaia, Giovanni, Gesù. Lo credo non per un facile ottimismo. Il cristiano non è ottimista, ha speranza. L’ottimista tra due ipotesi sceglie quella più positiva o probabile. Io scelgo il Regno per un atto di fede: perché Dio si è impegnato con noi, in questa storia, ha le mani impigliate nel folto di questa vita, con un intreccio così scandaloso con la nostra carne da arrivare fino al legno di una mangiatoia e di una croce.

(Letture: Isaia 11,1-10; Salmo 71; Romani 15,4-9; Matteo 3,1-12)

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la grande ‘delusione donna’ nella chiesa di papa Francesco

papa Francesco gela il mondo cattolico femminile che chiede parità di genere

«donne prete non previste»

di Franca Giansoldat

 Colpo basso di Papa Francesco alle donne cattoliche tedesche e a quella ampia fetta di sacerdoti e vescovi favorevoli al diaconato femminile, tra cui anche i vertici della conferenza episcopale. «Il principio petrino non prevede che una donna possa accedere al ministero ordinato» ha chiarito il Papa in una intervista ad America, il mensile dei gesuiti americani. Esattamente come hanno fatto i suoi predecessori – da Wojtyla a Ratzinger – anche Bergoglio ha sbarrato la strada ad ogni tipo di riforma, gelando le tante attese che le donne cattoliche tedesche si aspettavano dal pontefice definito sin dall’inizio un riformatore.

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Papa Francesco ha anche motivato: «La Chiesa è donna. La Chiesa è una sposa. Non abbiamo sviluppato una teologia della donna che rifletta questo. Il principio petrino è quello del ministero. Ma c’è un altro principio ancora più importante, di cui non parliamo, che è il principio mariano, che è il principio della femminilità nella Chiesa, della donna nella Chiesa, dove la Chiesa vede uno specchio di se stessa perché è donna e sposa».

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Da tempo in Germania diversi vescovi, teologi, associazioni di cattolici sono decisi a portare avanti questa istanza all’interno del processo di riforma avviato tre anni fa con il cammino sinodale.  

Il presidente dei vescovi tedeschi, monsignor Georg Baetzing ha rassicurato che continuerà a fare pressioni affinchè il ruolo della donna nella Chiesa si possa rafforzare. Si tratta, ha detto, di una questione centrale per il futuro. «Ammettere le donne ai ministeri ordinati dovrà essere facilitato in qualche modo altrimenti il futuro della Chiesa in Germania è difficile da immaginare». Il riferimento di Baetzing riguarda l’emorragia dei cattolici che ogni anno lasciano la Chiesa, motivando questa decisione per la scarsa trasparenza delle strutture ecclesiali, per come sono finora stati affrontati i casi di abusi e per come vengono marginalizzate le donne senza che sia stata una vera parità.

In questo contesto piuttosto acceso c’è anche chi non ha mancato di fare affiorare le contraddizioni di questo pontificato. Per esempio la responsabile dell’organizzazione cattolica Bibelwerk, la teologa Katrin Brockmoeller, che analizzando il modo di predicare di Francesco e i suoi interventi non ha dubbi sulla sua misoginia di fondo. Brokmoeller, per esempio, ha ricordato che spesso il Papa, quando si rivolge al mondo religioso, tira in ballo le donne in modo che da far risuonare «automaticamente un’associazione negativa nei confronti del genere femminile».

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«Siete uomini, comportatevi da uomini, non da zitelle». Un «linguaggio sprezzante nei confronti delle donne» ha affermato la teologa Brockmoeller. «Il pettegolezzo non è una caratteristica specifica del genere, ma ha a che fare con il carattere personale. Se voleva essere divertente, lo scherzo funzionava attraverso la svalutazione e la discriminazione e quindi non era divertente. Questo paragone è patriarcale e indegno del ruolo del Papa».

A dare manforte al mondo femminile tedesco c’è anche il vicepresidente della Conferenza episcopale tedesca, monsignor Franz-Josef Bode. L’obiettivo a lungo termine è di aprire il dibattito sull’ordinazione sacerdotale delle donne, ha aggiunto il vescovo.

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il commento al vangelo della domenica

l’attesa come arte

il commento di E. Bianchi al vangelo della prima domenica di Avvento, anno A

Mt 24,37-44
 

³⁷In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: “Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. ³⁸Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, ³⁹e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. ⁴⁰Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. ⁴¹Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. ⁴²Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. ⁴³Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. ⁴⁴Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo”.

Di fronte a questo vangelo la comunità cristiana prova sentimenti di imbarazzo: esita a essere convinta che il Signore viene nella gloria, non pensa che ci sia veramente una fine del tempo e non ha più nel cuore il desiderio bruciante di vedere il Signore. Eppure basterebbe essere più attenti nel leggere la vita che trascorre, la propria e quella degli altri accanto a noi, per renderci conto come ogni giorno, se non siamo distratti, inesorabilmente siamo ricondotti all’evento che ci attende: l’incontro con il Signore.

Inizia un nuovo anno liturgico nel quale, domenica dopo domenica, ascolteremo il vangelo secondo Matteo. Ma inizio e fine di un anno liturgico possono solo mettere davanti a noi ciò che sta sempre nel nostro futuro: la venuta del Figlio dell’uomo, il nostro incontro con lui. Il nostro Dio è il Signore “che è e che viene” (Ap 4,8), perché è già venuto nella carne fragile e mortale di Gesù, il figlio di Maria morto e risorto, viene in ogni ora nella vita del discepolo per attirarlo a sé, verrà nell’ora dell’esodo di ciascuno di noi da questo mondo, alla fine dei tempi, per introdurci tutti e definitivamente nel suo Regno di pace e di vita piena. Gesù è “il Veniente” (ho erchómenos: Ap 1,4.8; 4,8), e il suo giorno, “il giorno del Signore” (jom ’Adonaj, kyriakè heméra), sarà la parousía, la manifestazione ultima e definitiva.  

Nel brano evangelico odierno ascoltiamo parole di Gesù dette non alle folle ma in disparte, solo ai discepoli (cf. Mt 24,3), al “piccolo gregge” (Lc 12,32), nelle ore che precedono la sua fine, attraverso l’arresto, la condanna e la morte. Sul monte degli Ulivi, a est di Gerusalemme, dove si contempla la città santa e il tempio nel suo splendore, Gesù avverte: “Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo conosce, è un termine fissato alla storia che solo Dio conosce” (cf. Mt 24,36). Per questa ignoranza da parte degli umani, quando ci sarà la parousía, la venuta del Figlio dell’uomo, regneranno l’indifferenza, la distrazione, il non sapere. Gesù dice queste parole con tristezza, ma sa che per l’umanità è sempre come ai tempi di Noè, quando venne la grande inondazione e colse l’umanità impreparata.  

Nel libro della Genesi (cf. Gen 6,5-9,17), il diluvio universale è presentato come castigo di Dio su un’umanità da lui creata ma diventata malvagia, violenta. Decodificando quel testo, possiamo comprendere che, allora come oggi, a volte sembra prevalere su tutto la violenza, l’immoralità, la perdita della dignità umana e della fraternità. In questo caso emerge con evidenza che le scelte di uomini e donne sono mortifere, che il comportamento umano sfigura la terra in un modo devastante, ben rappresentato dalle acque del diluvio o dal deserto che avanza. E di fronte a eventi che fanno prendere coscienza della nostra responsabilità, si manifesta come gli umani siano stati fino all’ultimo distratti, incapaci di capire ciò che stavano preparando con il loro comportamento. 

Gesù non dice che la generazione nella quale avverrà “il giorno del Signore” sarà immorale o particolarmente perversa, ma ne denuncia solo l’indifferenza. Sono uomini e donne che vivono: nascono, crescono, si innamorano, si sposano, mangiano e bevono… Sì, vivono, e su questo loro vivere Gesù non pronuncia condanne, proponendo loro un programma ascetico. Denuncia solo la “non conoscenza” (ouk égnosan), il non essere pronti, l’essere indifferenti a ciò che invece va cercato prima di tutto ed è essenziale a una vita veramente umana, che risponda alla volontà e alla vocazione del Creatore.  

Dunque nessun castigo da parte di Dio, ma semplicemente la manifestazione della situazione in cui si trova l’umanità di fronte alla presenza e alla venuta del Figlio dell’uomo. Purtroppo noi oscilliamo tra febbre apocalittica con predizioni catastrofiche e indifferenza verso questo evento che, tardando così tanto, pensiamo non ci debba tormentare. Ma questo evento non può essere da noi rimandato alla fine della storia, quasi pensando che non ci riguardi, perché in realtà nell’esodo di ciascuno di noi, nel passaggio da questo mondo all’al di là della morte, saremo messi di fronte alla presenza del Figlio dell’uomo veniente nella gloria. Accadrà dunque che tutto si consumerà quando impareremo dagli eventi che la morte arriva per gli uni prima che per gli altri, sicché chi è con noi al lavoro può essere preso e noi lasciati in vita, o viceversa. Non c’è la stessa ora per tutti, non c’è la stessa occasione per tutti, ma per tutti c’è una fine! Anche questo dovrebbe essere di insegnamento, quasi profezia del giudizio di Dio, quando avverrà una separazione tra quelli che entreranno nel Regno, perché esercitati nella comunione con gli altri, e quelli che non potranno entrare, perché non hanno voluto conoscere la comunione con gli altri ma si sono nutriti di philautía, di amore egoistico di sé. Come nelle sette lettere alle chiese dell’Apocalisse (cf. Ap 2-3), il Signore viene e la sua venuta è giudizio in ogni istante!  

Occorre dunque essere a conoscenza del piano di salvezza di Dio, occorre vegliare e tenersi pronti. Come un padrone di casa che sa che il ladro verrà nella notte: che cosa farà? Veglierà, starà sveglio e in attesa, in modo da non lasciare che la sua casa venga scassinata. Ecco la postura del discepolo: sa che il Figlio dell’uomo viene, anche se non conosce l’ora della sua venuta, e forte di questa consapevolezza vive nella vigilanza, nell’attesa. Non si lascia andare, non si distrae, ma pur vivendo umanamente bene, continua a vigilare per aprire prontamente al Signore quando arriverà; verrà sorprendendoci, ma, proprio perché atteso, sarà anche accolto prontamente e con grande gioia.  

In ogni caso, di fronte a questo vangelo – dobbiamo confessarlo – la comunità cristiana prova sentimenti di imbarazzo: esita a essere convinta che il Signore viene nella gloria, non pensa che ci sia veramente una fine del tempo e non ha più nel cuore il desiderio bruciante di vedere il Signore. Come diceva Ignazio Silone: “I cristiani dicono di attendere il Signore, e lo aspettano come si aspetta il tram!”. Eppure basterebbe essere più attenti nel leggere la vita che trascorre, la propria e quella degli altri accanto a noi, per renderci conto come ogni giorno, se non siamo distratti, inesorabilmente siamo ricondotti all’evento che ci attende: l’incontro con il Signore. Siamo ricondotti a comprendere che noi, pur vagabondi e mendicanti sulla terra per un pugno di anni – “settanta, ottanta se ci sono le forze” (Sal 90,10) –, in quel giorno avremo bisogno solo della misericordia del Signore.

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le bugie sulle o.n.g. … hanno le gambe corte

le sei bugie sulle Ong


di Luigi Manconi
in “La Stampa” del 22 novembre 2022


C’è da credere che nella diffusa ostilità verso le Ong del soccorso in mare non vi sia solo una legittima critica politica. Si intuisce qualcosa di diverso e di più profondo. Ovvero quella irresistibile pulsione propria dell’animo umano di sporcare ciò che appare limpido, troppo limpido, e di deturpare quanto risulta immacolato. È una tendenza antica: sempre, di fronte allo spettacolo della virtù, emerge la voglia di oltraggiarla e di sfregiarne l’immagine per ricondurla alle proprie anguste proporzioni. Se anche lui è corrotto, se tutti sono corrotti, la mia propria corruzione può essere più agevolmente ridimensionata e resa ordinaria. È il meccanismo che legittima la filosofia del condono costituendone l’architettura politica e morale.
Nel tempo in cui il sovranismo è la misura dell’identità degli Stati nazionali, ma anche il principale sentimento delle relazioni sociali, che fonda le solidarietà piccole e corte, un messaggio come quello delle Ong del soccorso in mare suona davvero come eretico. In quanto basato sull’idea e sulla pratica della reciprocità: io salvo te perché so che qualora la mia vita fosse a repentaglio, tu salverai me. È il fondamento stesso del legame sociale, quello che segna il passaggio da individui isolati a comunità integrate.
L’affermazione di questa elementare verità – che è principio costitutivo della civiltà umana – echeggia come una sfida intollerabile per tutti i sovranismi individuali e nazionali; e produce, come reazione, quella livida tentazione di sfigurare tutto ciò che appare indirizzato verso l’incontro con l’altro. Questa inclinazione si affida a un sistema di menzogne, sintetizzabili come segue.


1) «Le Ong sono un fattore di attrazione (pull-factor) che incentiva l’arrivo di migranti e profughi».
È un’affermazione smentita da un dato storico e da uno congiunturale. È incontestabile che la percentuale delle persone sbarcate sulle nostre coste, nel corso del 2021 e del 2022, grazie alle imbarcazioni delle Ong, oscilla tra il 10 e il 15 percento del totale. La gran parte arriva in Italia grazie alle motovedette della Guardia Costiera e della Guardia di Finanza o con propri mezzi di piccole dimensioni. In particolare, nelle ultime tre settimane – in assenza delle navi delle Ong – gli arrivi sono stati il doppio rispetto al corrispettivo periodo dell’anno precedente. Ne è una conferma quanto dichiarato al Manifesto da un portavoce di Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, tradizionalmente ostile verso le Ong, secondo il quale queste ultime sarebbero solo uno dei «molti fattori di spinta e attrazione».


2) «Le Ong operano in accordo con i trafficanti di esseri umani».
È, va da sé, la più velenosa delle accuse, ripetuta dagli esponenti del governo e dai loro trombettieri. La verità dei fatti dice l’esatto contrario: dal 2015 a oggi non c’è stata alcuna condanna, nemmeno in primo grado, relativa a complicità tra appartenenti a Ong e scafisti. Per scrupolo ricordo che una indagine della Procura di Trapani, relativa a fatti avvenuti nel 2016, accusa alcune Ong di favoreggiamento dell’ingresso illegale sulla base di intercettazioni ambientali e di affermazioni di agenti sotto copertura. Un solo episodio, tutto da dimostrare, in oltre sette anni di attività.


3) «Le Ong non salvano naufraghi ma traghettano migranti».
Le convenzioni in materia di naufragio e di soccorso, recepite dal nostro Codice della navigazione, prescrivono che chiunque si trovi in stato di pericolo in mare ha il diritto di essere salvato. E non si fa alcuna differenza tra chi «provenga da uno yacht in avaria davanti a Posillipo, da una imbarcazione monoposto per regate nell’Atlantico o da una carretta del mare partita dalla Libia»
(Valigia Blu). E l’opera di salvataggio trova la sua conclusione solo con lo sbarco sulla terra ferma più prossima.

4) «Le navi delle Ong battenti bandiera straniera devono portare i naufraghi nei porti dei rispettivi paesi».
Non è affatto così. Secondo le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare, elaborate dall’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO), il comandante della nave che ha prestato soccorso ha la piena responsabilità di trarre in salvo i naufraghi, mentre spetta agli Stati delle aree di soccorso interessate coordinarsi per individuare un porto sicuro dove liberare quanto prima la nave dai suoi obblighi. Non esiste al proposito alcuna differenza tra navi Ong e navi mercantili. Dunque, i requisiti della prossimità e della rapidità sono determinanti.


5) «Non possono essere gli scafisti a selezionare gli arrivi in Italia».
Certo, ma non può essere una autorità italiana a respingere i profughi in base a un giudizio
preventivo e generalizzato. Dunque, la decisione su chi può entrare e chi non può entrare deve essere assunta da organismi istituiti a tale scopo, previsti e regolamentati dalla legge: non quindi attraverso «ordini del governo relativi a gruppi di persone costretti per lunghi giorni a bordo delle navi, le cui origini e condizioni sono sconosciute alle autorità» (Vladimiro Zagrebelsky).


6) «Le Ong salvano i migranti privilegiati».
È l’indecente imputazione indirizzata alle Ong dall’autorevole direttore di un autorevole giornale di destra. I «migranti privilegiati» sarebbero quelli in grado di pagare migliaia di euro per ottenere la possibilità di tentare la via del Mediterraneo. Con ciò si vorrebbe ignorare che dietro quelle migliaia di euro c’è la sofferenza di individui e famiglie che, per anni, hanno messo da parte denari da investire in quell’ultima chance di salvezza che è la traversata. E che arrivano a quella tappa estrema dopo un percorso fatto di violenza e prigionia, di persecuzioni e torture.


Se non si riesce non dico a vedere, ma a immaginare tutto ciò, è fatale che le Ong rappresentino un fattore di turbamento per le nostre false coscienze; e che deturparne l’immagine costituisca una sorta di rivalsa per la vergogna – che è responsabilità di tutti, sia chiaro – di quelle migliaia di morti nelle acque del Mediterraneo.

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a proposito dei campionati mondiali di calcio in Qatar

la brutta figura dei Mondiali in Qatar e della Fifa

il coraggio degli iraniani


di Stefano Scacchi
il pallone non meritava di vivere tutto questo. L’inizio della competizione ha confermato i timori di chi fin dall’inizio è stato critico verso l’assegnazione a questo Paese: scelta elitaria
Iniziano i campionati mondiali di calcio in Qatar

Il calcio non meritava di vivere tutto questo. L’inizio del Mondiale ha confermato i timori di chi fin dall’inizio è stato critico verso l’assegnazione al Qatar. È bastato vedere la scenografia della tribuna d’onore dello stadio Al Bayt, teatro domenica della partita inaugurale tra i padroni di casa e l’Ecuador, per avere una plastica conferma della natura elitaria di questa edizione: i vertici della famiglia Al Thani assisi su poltrone con tavolinetto a fianco. Ogni emiro su un piccolo trono, col posto più prestigioso riservato a chi ha reso possibile tutto questo accettando la candidatura del Qatar: il presidente della Fifa, Gianni Infantino, che ha entusiasticamente portato avanti l’idea del predecessore Joseph Blatter, adesso pentito ampiamente fuori tempo massimo.

Ogni tribuna d’onore è chiaramente più sfarzosa degli altri settori. Ma raramente si era visto qualcosa di così smaccato in uno stadio. D’altronde non era mai successo che una ricchissima oligarchia, a capo di uno Stato di appena 2,9 milioni di abitanti, riuscisse a conquistarsi il diritto di ospitare la manifestazione sportiva più seguita di tutte, insieme alle Olimpiadi estive, pur non avendo alcuna tradizione nel calcio.

Lo ha dimostrato in modo grottesco quello che è successo nel corso della stessa partita tra Qatar ed Ecuador: lo svuotamento dello stadio, ben prima del 90°, di fronte al risultato deludente dei padroni di casa. La gara inaugurale di un Mondiale trattata dal pubblico alla stregua di una partita di seconda fascia di un campionato nazionale.

Questa sconfitta certifica anche il fallimento dell’approccio della Federazione qatariota che ha mandato in ritiro i giocatori della Nazionale da giugno, facendo saltare loro gli ultimi tre mesi di campionato, col risultato di tenerli senza impegni ufficiali per metà anno.

Sono lontani i tempi della lungimirante assegnazione della Fifa al Sud Africa, segno di apertura del calcio globale al continente nero. Un effetto nostalgia amplificato dalla presenza di Morgan Freeman nel ruolo di stella della cerimonia inaugurale allo stadio Al Bayt. Il grande attore aveva interpretato Nelson Mandela nel film Invictus, magnifico racconto della tenacia di Mandela nel volere i Mondiali di rugby del 1995 in Sud Africa per favorire la pacificazione nazionale del Paese appena uscito dall’apartheid sfruttando anche la formidabile forza dello sport. Mai contrasto avrebbe potuto essere più forte. Da un lato, il ricordo di Madiba (il più formidabile e visionario leader politico dell’ultimo mezzo secolo) che se ne è andato tre anni dopo i Mondiali di calcio in Sud Africa: emblema vero di come la politica possa usare lo sport per migliorare il mondo. Dall’altro, questa baracconata realizzata con i miliardi del gas che sgorga nel deserto intorno a Doha per esaudire il desiderio dell’oligarchia locale di regalarsi un’esibizione di potere planetario grazie al pallone.

Ieri è successo ancora di peggio quando la Fifa ha vietato ai capitani di Inghilterra, Galles, Belgio, Danimarca, Germania, Olanda e Svizzera di indossare la fascia arcobaleno nell’ambito della campagna “One Love” per sensibilizzare sui diritti della comunità gay, non rispettati in Qatar. Le Nazionali hanno rinunciato sotto la minaccia di ammonizione ed espulsione dei capitani che avessero indossato la fascia (quindi più delle multe messe in conto).

L’Inghilterra si è comunque inginocchiata come fa sempre contro il razzismo prima della partita vinta 6-2 con l’Iran. Commovente l’atteggiamento coraggioso dei calciatori iraniani che non hanno cantato l’inno per solidarietà verso i loro connazionali impegnati nelle proteste contro il regime degli ayatollah, represse nel sangue. Un gesto che segue le straordinarie parole del capitano Ehsan Haisafi a sostegno dei manifestanti.

«La Fifa sostiene tutte le cause legittime, come “One Love” – spiega una nota ufficiale – ma nel quadro delle regole note a tutti. Nelle fasi finali il capitano di ciascuna squadra deve indossare la fascia fornita dalla Fifa». Le Federazione delle sette Nazionali hanno reagito con una nota congiunta: «La decisione della Fifa è senza precedenti, siamo delusi e frustrati. Eravamo pronti a pagare le multe, ma non possiamo esporre i nostri capitani al rischio delle sanzioni sportive. Avevamo informato a settembre la Fifa del nostro desiderio di usare questa fascia. Non abbiamo avuto risposta».

Così come non ha ancora avuto risposta l’appello di Amnesty International alla Fifa per un risarcimento di 440 milioni di dollari da destinare alle famiglie delle vittime degli operai morti durante la costruzione degli stadi del Mondiale. Una richiesta che Infantino ha dribblato con acrobazie dialettiche alla vigilia della cerimonia inaugurale, quando ha attaccato l’Europa per la sua posizione sui diritti umani, giudicata selettiva e auto-assolutoria.

Il presidente della Fifa avrebbe potuto prendersela con il doppio binario etico che nel recente passato ha alimentato meno polemiche sulla scelta del Cio di assegnare le Olimpiadi estive 2008 e invernali 2020 alla Cina, dove impera una dittatura spietata. Ma ha preferito prendersela con l’Europa.

Anche la Lega Serie A critica le parole di Infantino: «La lezione di moralità fatta da certi posti suona stonata. Questo è il Mondiale più discusso di sempre. Come siano stati assegnati è sotto gli occhi di tutti. Queste riflessioni ci porteranno a prendere decisioni diverse in futuro», ha detto a Gr Parlamento l’ad Luigi De Siervo che sottolinea la cornice ambientale non degna di un Mondiale: «Gli spettatori sono molto pochi. Sono stati assoldati anche falsi tifosi. Tutto è molto rarefatto».

È stata buona l’audience della cerimonia d’apertura in Italia: 30,1% di share (quasi il 10% in più rispetto a Russia 2018). Si è fermata al 20% l’amichevole Austria-Italia, persa dagli azzurri che così hanno vanificato l’effetto dei tifosi italiani quasi sollevati nel pomeriggio dal non prendere parte a un Mondiale così. Da ieri, primo giorno feriale di partite, è più difficile per gli studenti seguire la prima fase in tv. Alle 14 chi frequenta il tempo pieno è ancora a scuola. Alle 17 bisogna fare i compiti e studiare. Così viene tagliata fuori una generazione di giovani, i primi a cui pensare nell’ottica futura di ogni sport. Inevitabile conseguenza del primo Mondiale giocato in autunno, a scuole aperte, non durante le vacanze estive. Ma nessuna obiezione è stata in grado di fermare questo trasloco forzato del calcio nel deserto, a uso e consumo degli emiri.

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