in memoria di Ortensio da Spinetoli

 

 

 

 

 ricordando il grande Ortensio da Spinetoli,  biblista e teologo, oggi deceduto,  che ha sempre saputo interpretare autenticamente e profeticamente i “segni dei tempi”

IN CRISTO C’È UNA NOVITÀ PER OGNI UOMO

 

Premessa
 
Il titolo potrebbe essere ridato anche in altri termini: “La proposta di Gesù di Nazareth”. Chi egli è veramente stato per gli uomini della sua generazione e ciò che può ancora essere per quelli della nostra.
 
Dopo venti secoli di cristianesimo c’è motivo di fare appello a Gesù Cristo. Quale soluzione può offrire pertanto ai problemi dell’uomo di oggi un profeta di duemila anni fa?
 
Perché la predicazione, l’educazione cristiana non ha dato e non dà i benefici desiderati? Il catechismo, la scuola di religione, i corsi speciali sembrano non avere una grande incidenza nella formazione dell’alunno, del giovane, dell’adulto. Rimangono o sembrano rimanere due cose distinte. Quello che si sente in chiesa o nelle ore di catechesi, di istruzione cristiana, se per caso riesce a interessare l’ascoltatore, rimane spesso una pura notizia, un dato se si vuole usare questo termine, culturale, meno o affatto un programma pratico, un messaggio, un’esperienza, una testimonianza che può essere ripresa e fatta propria nella vita.
 
Perché questo distacco, questa dissociazione? Eppure la testimonianza di Gesù è sempre la provocazione più sconvolgente che la storia possa registrare e il vangelo non è un libro devozionale ma rivoluzionario. Se lo si prende sul serio non si può rimanere a dormire nelle chiese o nei conventi, ma si diventa perturbatori dell’ordine ingiustamente costituito. S. Francesco è stato definito un vangelo vivente non perché ne ha dato una sapiente interpretazione, ma una personale, coraggiosa attuazione avviando una convivenza di eguali e di fratelli (fratres) tra e con gli ultimi della società (minores). Anche Gandhi è sulla linea di Cristo perché ha dato come lui la vita per il bene di molti.
 
1. Cominciare dalla storia
 
Se pertanto l’annunzio di Cristo non trova le reazioni e adesioni dovute in chi l’ascolta può darsi che provenga innanzitutto dalla presentazione inadeguata, impropria o infelice che ne viene fatta. Ancora continuano i titoli trionfalistici della primitiva apologetica cristiana. Davanti ai giudei che rifiutavano il carpentiere nazaretano su cui si era posata la chiamata profetica e davanti ai gentili, greci e romani, che non sapevano conciliare la rivendicazione di un presunto messo divino con la morte di croce, la più infamante che si potesse avere, i primi cristiani hanno sentito il bisogno di “riabilitare” la sua figura facendo leva sui titoli più prestigiosi che la tradizione biblica aveva coniato per il futuro, atteso liberatore: “messia”, “figlio di David”, “re”, “Signore”, “figlio di Dio”. E sono rimasti più nascosti, quando non sono stati dimenticati del tutto, i dati, gli aspetti più umani della persona di Gesù. Egli nell’istituzione e nella predicazione cristiana appare soprattutto o solo un essere superiore, calato dal cielo. L’uomo Gesù non è cancellato ma è presentato e concepito come una persona al di sopra della statura dei comuni esseri mortali.
 
È uno della famiglia umana, ma non è uno di noi. Non ha i nostri limiti, le debolezze, la fallibilità della comune creatura. Egli è santo e impeccabile per nascita. C’è passato accanto per osservarci da vicino, conoscerci meglio, avere pietà di noi ma non si è affatto impelagato nello stesso mare di melma che cerca di affogare tutti.
 
Questo Gesù esoterico, extraterrestre che non è della nostra condizione creaturale, che nasce in una stalla ma non è un mandriano, è povero ma stringe in pugno tutti i regni della terra non è un personaggio, meno ancora un profeta convincente.
 
Se si vuole ancora continuare a presentare Gesù quale testimonianza di vita per l’uomo d’oggi bisogna rinnovare la catechesi cristiana, l’approccio dell’uomo con lui. Invece di cominciare dall’alto, dai grandi appellativi, bisogna cominciare dal basso, dalla sua reale condizione umana, in una parola da ciò che l’avvicina e non da ciò che lo allontana dall’uomo. Non dalle sue perfezioni, ma dalle sue eventuali imperfezioni; dai suoi limiti che però è riuscito a superare con l’aiuto del Padre e insieme o più ancora con la sua buona volontà e con il suo coraggio.
 
Gesù non ha accettato il modello socioreligioso nel quale si è trovato a vivere. Ha dubitato della sua validità, per questo l’ha contestato proponendone uno proprio del tutto opposto. Non è stata un’impresa facile sia la progettazione, sia l’attuazione di un nuovo disegno ma non si è arreso davanti alle difficoltà incontrate.
 
Bisogna arrivare a capire se Gesù è un uomo, un profeta che si è costruito lentamente e faticosamente contro le resistenze personali e contestuali che tutti incontrano o è un essere privilegiato che ha vissuto sì un’esperienza umana ma con la forze e la chiaroveggenza di un Dio. Finché non rispondiamo a questi interrogativi la testimonianza di Cristo rimane inattiva.
 
Gesù non ha risolto i problemi di nessuno; ha solo suggerito come riuscire a venirne fuori; ma se egli parte da condizioni diverse, avvantaggiato rispetto alla moltitudine dei fratelli, la sua proposta (“Imparate da me che sono povero e umile”: Mt 11, 29) sono irrisorie.
 
Gesù ha una novità per ogni uomo perché a tutti può dire, ci si può riuscire a bere il calice della vita, a portare avanti la propria missione nonostante le renitenze, le contrarietà, i contrasti che si debbono superare con le personali inclinazioni, aspirazioni, tendenze e più ancora con le opposizioni degli altri a cominciare dai propri familiari, concittadini, connazionali. Egli si è trovato a essere uno contro tutti, ma non si è lasciato intimidire.
 
Questo Gesù sconosciuto o dimenticato, innanzitutto uomo tra gli uomini, dovrebbe riprendere il suo posto nella vita degli individui e della società se si vuole che la storia di ciascuno e di tutti possa cambiare.
 
2. Le scelte di Cristo.
 
La notizia importante che Luca segnala al termine del suo “racconto” della nascita, infanzia e prima esistenza di Gesù è che egli era sottomesso ai suoi genitori (2, 51). Era il dodicesimo anno di età, in cui il giovane ebreo diventava suddito della legge, ma da allora in poi doveva anche incominciare a fare da solo. Scegliere un lavoro, una professione, una linea di comportamento. L’evangelista nota che non si rivelano in lui attitudini eccezionali, ma molta assennatezza. “Cresceva in sapienza e grazia”, è detto (Lc 2, 51).
 
Fino alla maturità è un operaio, un falegname che nulla lascia distinguere dagli altri. La prima volta che prende la parola nella sinagoga di Nazareth i suoi concittadini rimangono sorpresi e dicono: “Non è costui il falegname, il figlio di Maria e fratello di Giacomo, Joses e Simone e non sono tra noi le sue sorelle?” (Mc 6, 3). Se ciò è vero Gesù usciva da un grande anonimato, ma d’ora in poi la sua vita entra in un cammino arduo, scomodo, pericoloso come quello di Francesco d’Assisi dopo la conversione che da “re delle feste”, ammirato ed amato, sarà per i benpensanti, compreso il padre, un folle. Anche Gesù è ricercato dai familiari perché si era sparsa la voce che fosse fuori di sé (Mc 3, 21).
 
Gesù crede alla voce dello Spirito che lo chiama ad annunziare il regno ossia una convivenza nuova di amici, di eguali, di fratelli, in cui tutti dovevano avere un posto alla pari degli altri, ebrei e pagani, giusti e peccatori. Dove il grano poteva restare nello stesso campo con la zizzania e i pesci cattivi nella stessa rete con i pesci buoni (Mt 13, 29, 47).
 
Una comunità in cui al primo posto c’è l’uomo e prima di tutto chi è bisognoso, dimenticato, abbandonato: i poveri, i piccoli, gli umili, gli oppressi, gli ammalati, le donne. Gesù è un profeta coraggioso e più ancora coerente. Non fa bei discorsi, non lancia grandi messaggi, ma compie scelte insolite, onerose. Il suo impegno non è cambiare gli indirizzi nelle scuole ma modificare i comportamenti degli uomini; insegnare a rinnovarsi, a cambiare.
 
La scelta dei poveri, non della povertà, è reale. “Pur potendo essere ricco si è fatto per voi povero”, dirà Paolo ai Corinti (2 Cor 8, 9). Pur potendo essere un signore ha preferito essere un servo (Fil 2, 6-7). Si tratta di scelte concrete non per aumentare il numero degli indigenti, ma per infondere ad essi coraggio ed aiutarli ad uscire dal loro stato.
 
L’uguaglianza tra gli uomini (grandi e piccoli), tra i popoli non è un vago ideale, ma una prassi. Egli non solo riesce a dialogare con quanti incontra nel suo cammino, connazionali e stranieri, ma accorda a chiunque ha bisogno i suoi favori: all’arcisinagogo, un ebreo, all’ufficiale regio, un pagano, a Zaccheo, un publicano.
 
La voce lo spinge ad andare contro corrente, a cambiare il concetto di prossimo che non è più il proprio vicino o parente o concittadino ma ogni uomo che ha esigenze di conforto e di aiuto (Lc 10, 36). È la scelta più onerosa e più contrastante con la propria formazione ed inclinazione; un’opera improba che se avesse dovuto dare ascolto alle sue “istintività” o al suo amor patrio non avrebbe mai compiuto, ma lascia prevalere la voce dello Spirito, rinunciando a se stesso e alle proprie ispirazioni.
 
Il racconto delle tentazioni si spiega in questa luce. Sentendosi portatore di un messaggio divino gli viene spontaneo atteggiarsi a grande taumaturgo (“Dì che queste pietre diventino pani”; “buttati giù dal pinnacolo del tempio che gli angeli ti raccoglieranno”) o a plenipotenziario divino investito di una potestà senza confini per avvallare le sue affermazioni (Mt 4, 1-11).
 
Un profeta senza bacchette magiche, senza un pulpito ben elevato o un trono non sembra destinato ad avere un grande successo. È la tentazione che riaffiora in ogni ipotetico inviato o rappresentante di Dio, ma Gesù ha ritenute tali aspirazioni come insinuazioni sataniche più che voci divine perché spingono all’egemonia sugli altri, all’oppressione più che all’aiuto dei propri simili.
 
Gesù è allergico al potere sacro (gerarchia)ma anche a qualsiasi forma di dominio. “I principi delle nazioni le signoreggiano; i grandi usano potestà sopra di essi, ma tra voi (ossia nella nuova comunità che egli sogna) non sarà così; anzi chiunque vuole essere il primo sia l’ultimo” (cfr. Mc 10, 42-45; Mt 20, 25-27; Lc 22, 25-26). E Giovanni che non riporta il testo lo sostituisce con il quadro della lavanda dei piedi (Gv 13, 1-15).
 
Gesù non ha ipotizzato una nuova società (v. “La repubblica” di Platone o “La città del sole” di Tommaso Campanella) ma l’ha avviata perché ha compiuto scelte concrete in tal senso, ha assunto atteggiamenti paritari con tutti, dando prova di una capacità di accoglienza e di perdono sovrumani. “Non grida nelle piazze, non spegne il lucignolo fumigante, non spezza la canna incrinata”, annota Matteo per ricordare il suo abituale approccio con gli uomini. Non opprime i suoi simili, ma neanche patteggia con il potere. “Dite a quella volpe”, fa ripetere a Erode (Lc 13, 32) ed entra nel tempio rovesciando i banchi dei commercianti e dei cambiavalute, provocando l’immediata reazione delle autorità competenti (Mc 11, 18).
 
L’uomo deve essere liberato dal terrore di Dio ma anche da quello del proprio simile. Il Sabato infatti è per l’uomo e non l’uomo per il Sabato (Mc 2, 27) e i potenti debbono essere tirati giù dai loro troni; i ricchi rimandati a mani vuote e innalzati gli umili (Lc 1, 51-52). È un impegno, un’iniziativa che minaccia di capovolgere il quadro socio-politico-religioso della Palestina. I minacciati, in pratica le autorità religiose, appena se ne accorgono, cercano di fermarlo e non potendolo contrastare con la comune dialettica ricorrono alla violenza.
 
È il cimento finale che il profeta deve affrontare con se stesso. Potrebbe scendere a un compromesso: una protesta in meno o una mezza intesa con gli oppositori. Ma non tradisce la sua coscienza, né la voce dello Spirito perciò pur tra titubanze (“Padre se è possibile passi da me questo calice, “la carne è debole”!) e amarezze e delusioni (“Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”) rimane sulla breccia fino alla fine, con la fede ma non con la certezza automatica della vittoria.
 
La morte di croce è la testimonianza di un grande dolore, ma soprattutto di un grande amore all’uomo e a Dio. È la proposta, la provocazione sempre attuale che egli lasciava a quanti avrebbero creduto in lui.
 
La “memoria” che egli simbolicamente consegna ai suoi la vigilia della sua morte raccoglieva in dei segni lo “spezzamento” della sua vita e il versamento del suo sangue fino all’ultima goccia che egli aveva fatto per le moltitudini. “Fate questo” cioè spezzatevi anche voi e versate qualche goccia della vostra linfa per attuare questa convivenza di amici per cui egli dava la vita.
 
Conclusione
 
I cristiani non sono coloro che parlano come Cristo o parlano bene di Cristo, ma che sul suo esempio fanno qualcosa per agevolare la comprensione e la coesistenza tra gli uomini. E non si può stabilire in partenza ovvero in teoria chi lo è di più o di meno. I cristiani anonimi possono essere di più di quelli annotati nei registri battesimali.
 
Gesù per il credente assume proporzioni più ampie di quelle segnalate in questa ricostruzione, solo che il suo di più (la “filiazione divina” e la sua attuale condizione di gloria) non è oggetto di ricerca storica ma proposta e adesione di fede. Tuttavia non si può non ricordare che anche la relazione filiale con Dio è conosciuta e vissuta nella profondità e nell’intimità della sua coscienza umana.
 
  Ortensio da Spinetoli
 
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