il volto del cristianesimo del terzo millennio secondo E. Bianchi

il giudizio di Dio sulle nostre omissioni

di Enzo Bianchi
in “Vita pastorale” dell’ottobre 2019

C’è una domanda che spesso mi viene rivolta e che anch’io pongo con frequenza a me stesso: noi, cristiani di oggi, all’inizio del terzo millennio come ci descriviamo? Come vogliamo vivere, da cristiani, in questa società dell’Europa occidentale multireligiosa e multiculturale? Innanzitutto, non dovremmo dimenticare che il primo nome dato ai discepoli di Gesù dopo la Pentecoste è stato “i credenti” (At 5,14). I discepoli e le discepole di Gesù furono chiamati così a causa della specificità della loro fede, della differenza tra la loro fede, il cui iniziatore era Gesù, e la fede giudaica. C’è una semplicità della fede cristiana che dobbiamo saper assumere, soprattutto in questo tempo in cui il cristianesimo rischia d’essere posto in concorrenza cori le altre religioni, in primo luogo con i monoteismi, quindi con le varie spiritualità presenti nella nostra società. La nostra fede deve insistere sull’evidenza che «Dio nessuno l’ha mai visto», «nessuno l’ha mai contemplato», e che Gesù di Nazaret l’ha rivelato e raccontato a noi con la sua stessa vita umana, le sue parole, le sue azioni, i suoi sentimenti. La singolarità della fede cristiana sta tutta in questa “umanizzazione di Dio”, che s’è fatto uomo, carne, cioè corpo, respiro, sensibilità, libertà, parola e gesto. Dio s’è fatto veramente uomo! La fede cristiana deve confessare, oggi più che mai, l’umanità di Gesù Cristo come carne di Dio. Per la maggioranza delle persone Dio è oggi un’espressione ambigua. Di fronte alla questione “Dio” c’è indifferenza. E, da parte delle nuove generazioni, addirittura diffidenza. Perché Dio è spesso assimilato all’intolleranza e all’integralismo religioso. Ebbene, noi cristiani, consapevoli dell’idolatria sempre possibile nelle immagini di Dio, aderiamo a Gesù quale «immagine del Dio invisibile». Sappiamo che solo attraverso Gesù andiamo a Dio, e che solo vedendo Gesù possiamo vedere il Padre. Dio s’è fatto uomo, e nell’umanità vissuta da Gesù s’è fatto conoscere a noi. Gesù ha rivelato Dio perché è stato umanissimo. Nella sua vita umana ha tracciato i cammini che ci portano a Dio e, nello stesso tempo, all’umanizzazione autentica. In virtù della rivelazione di Dio fatta da Gesù, la nostra fede confessa che «Dio è amore, carità». Da questa fede-fiducia nasce l’amore che noi cristiani dovremmo vivere in mezzo agli altri uomini e donne. È significativo che Gesù non abbia mai cercato un riconoscimento della sua missione e, di conseguenza, della missione dei discepoli, ma abbia offerto un criterio molto semplice: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). Non basta invocare il Signore, non basta ascoltare la sua parola né mangiare e bere con lui per essere cristiani. Occorre vivere l’amore, la carità, come Gesù stesso l’ha vissuta “fino all’estremo”, fino al dono della propria vita a servizio degli altri. Proprio per questo il giudizio finale su tutta l’umanità di ogni terra e di ogni tempo sarà fondato sulle relazioni che ciascuno avrà vissuto con gli altri. Gesù non ci ammonisce su un giudizio che riguarda le nostre debolezze e fragilità di uomini e donne, ma sulle nostre omissioni quando incontriamo l’altro, in particolare il bisognoso: l’affamato, l’assetato, lo straniero, il povero, il malato, il carcerato (cf Mt 25,31-46). Ciò che è chiesto al cristiano è di incontrare l’altro in quanto essere umano come lui, ascoltandolo fino a discernere il suo bisogno, la sua sofferenza. Fino a prendersene cura, all’insegna della gratuità. Questa carità vissuta esprime la verità dell’appartenenza a Cristo e richiede che i cristiani sappiano dare una forma politica alla solidarietà, all’uguaglianza, alla giustizia. Occorre un’opzione personale e preferenziale per i bisognosi, ma guai se i cristiani non sapessero assumersi responsabilità nella polis e restassero afoni nella società! Nella nostra Europa siamo sempre più testimoni che i cristiani, la cui carità personale non viene meno, restano però incapaci di far sentire con efficacia la loro presenza di fronte alla costruzione di muri e barriere alle frontiere degli Stati. Incapaci di opporsi alla moltiplicazione degli egoismi nazionali, che non sanno governare le migrazioni e negano l’accoglienza a chi fugge la fame, la violenza, le guerre, e cerca semplicemente una vita più umana.
Si tratta di manifestare, innanzitutto con la vita, che l’amore è un dono gratuito, e che può essere vissuto in questo mondo. E tutto ciò fino all’amore del non amabile, fino all’amore del nemico, sempre sull’esempio di Gesù. Un messaggio eloquente per tutti. Infine, la nostra condizione di cristiani ci chiede di rispondere a un’ultima domanda, che formulo parafrasando le parole di Immanuel Kant: «Che cosa la nostra fede e il nostro amore vissuto ci permettono di sperare?». Viviamo in un tempo segnato dalla presenza di molte paure, che hanno spento le grandi speranze delle ideologie e delle utopie secolarizzate; un tempo che è posto sovente sotto il segno della crisi e, a volte, letto come “tempo della fine”. Non è un caso che papa Francesco chieda con insistenza di combattere e vincere le paure, come antidoto al rinchiudersi in un orizzonte individualistico, in un vortice di egoismo. Il cristiano subisce oggi la tentazione di rifugiarsi in una spiritualità seducente, che appare accattivante ed efficace. Una spiritualità che consiste nel presentare la salvezza come “benessere individuale”. Si propone un deismo etico-terapeutico, che cerca armonia e benessere quotidiano e sazia il bisogno di conforto interiore. In questa spiritualità il primato viene accordato a un dioenergia, all’offerta di un moralismo dettato dall’antropologia, alla salvezza come pace interiore. Si assiste al trionfo di una speranza terapeutica: l’unica salvezza che si attende e si persegue è la salute, la guarigione e, più in profondità, tutto ciò che coincide con l’interesse momentaneo dell’individuo. Non sembra, dunque, esserci più spazio né per la grazia, cioè per l’amore preveniente di Dio, né per una speranza che sia speranza per tutti. Ma ricordiamolo bene: la speranza cristiana è quella del Vangelo, della buona notizia. Ed è speranza di liberazione, innanzitutto, dalla morte. Qui si evidenzia la timidezza dei cristiani, che non riescono ad affermare che proprio la vittoria sulla morte è lo specifico della loro fede. Di più, se la vita di Gesù è stata “vita salvata” dalla forma e dallo stile del suo vivere; se la sua pratica di umanità sapeva destare fiducia e speranza, allora ancora oggi per il cristiano è possibile conoscere la speranza di una vita che trovi una ragione per essere vissuta e donata. Ed è a partire da questa prassi quotidiana che si può giungere a sperare con tutti e per tutti.

Occorre un’opzione preferenziale e personale per i bisognosi, ma guai se i cristiani restassero afoni nella società

Come vogliamo vivere da cristiani in questa società dell’Europa occidentale che è multireligiosa e multiculturale? La carità vissuta richiede che i cristiani sappiano dare anche una forma politica alla solidarietà, all’uguaglianza e alla giustizia

Al cristiano è chiesto d’incontrare l’altro, fino a prendersene cura all’insegna della totale gratuità

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