il peccato della guerra

LA GUERRA E’ UN PECCATO

INVOCHIAMO TUTTI MISERICORDIA

di Antonino Drago

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Quello che sta facendo papa Francesco è del tutto straordinario.

Senza tante analisi intellettuali, ha chiamato la situazione internazionale così come farebbe qualsiasi anziano che, per esperienza di vita, sa che la guerra è il peggiore avvenimento possibile, non solo per le morti e le distruzioni, ma anche per la diffusa avidità e corruzione umana. Ha dichiarato l’attuale situazione “una guerra mondiale a pezzetti”

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Poi, si e cacciato personalmente dentro questo tipo di inferno terrestre. E’ andato nell’epicentro della guerra in Africa, a Banguì. A rischio della vita, sulla papa mobile assieme all’iman, ha sfdato la guerra. Lì ha gridato ai guerriglieri: “Deponete le armi!” e ha fatto gridare “Pace!” alle folle.

E’ stata una azione degna di San Francesco, che per fede andò contro tutte le guerre del tempo, (anche se promosse dai cristiani: le crociate). E’ in Africa che il papa ha consacrato in mood particolare il suo nome Francesco, più che con gli atti di misericordia o di umiltà o di semplicità che ci ha fatto vedere nel passato.

In più occorre sottolineare la novità importantissima. Il titolo di questo scritto dice subito quello che pochi giornali hanno riportato; sull’aereo di ritorno dall’Africa ha detto che la guerra è un peccato:

“Noi da anni siamo in una guerra mondiale a pezzi e ogni volta i pezzi sono meno pezzi e sono sempre più grandi. Il Vaticano non so che cosa pensa. Che cosa penso io? Che le guerre sono un peccato.”

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Sappiamo bene che i soldati, per sfogare la loro rabbia o lo scoraggiamento esprimevano i loro sentimenti di contrarietà alla guerra (c’è anche una canzone alpina “I monti scarpazi”). Ma queste sono tutte espressioni soggettive. E’ ben più la frase “La guerra è pazzia!”, che papa Francesco ha gridato (ad esempio, nel silenzio gelido delle autorità civili e militari, davanti al mausoleo per il centinaio di migliaia di morti in guerra di Redipuglia); perché questa espressione è oggettiva. esprime la conclusione di un ragionamento oggettivo, esprime la forza della ragione contro la ragione delle armi. Di fatto, nella Grande Guerra hanno scritto frasi simili, quando erano cappellani militari (volontari, non graduati dell’esercito): Papa Giovanni, Padre Pio, Don Minzoni,… Anche il papa del tempo chiamò pazza quella guerra (“inutile strage”). Nella sua lettera ai cappellani militari Don Milani ha dimostrato che nei suoi cento anni di guerre l’Italia si è comportata in maniera assurda.

L’appellarsi alla ragione può allargare l’uditorio anche ai non credenti. Ma lo può fare qualsiasi uomo, di fede o non. Inoltre ogni ragionamento può dipendere dal punto di vista e può essere contrastato con un altro ragionamento. Di fatto, nessun generale si è lasciato convincere e di conseguenza si è dimesso.

Con l’ultima frase Papa Francesco dice ancora di più; perché essa appartiene al linguaggio preciso della teologia sul rapporto uomo-Dio: “peccato”. E’ la prima volta che un Papa a proposito di guerre usa la parola “peccato”. Essa esprime un giudizio etico; e l’etica ha un ruolo centrale nell’insegnamento della Chiesa, maestra di vita.

Certo allo stato attuale, il suo giudizio è personale. Ma con questa frase papa Francesco si dichiara di fatto obiettore di coscienza. Nella Chiesa cattolica l’obiezione di coscienza è entrata solo mezzo secolo fa; oggi è arrivata al livello del vertice.

In più Bergoglio non è uno qualsiasi, è un papa. Certo, come papa, non stava parlando ex cathedra; e certo, non usa quella frase come discriminante (ad esempio, potrebbe richiamare i cappellani militari dalle caserme, abolire la diocesi castrense e il seminario castrense…).

Ma essendo anche papa, il suo giudizio non è solo personale. Infatti, compete soprattutto a lui come papa il giudicare qualcosa peccato, più che il dire frasi soggettive o razionali. Sono proprio i giudizi etici che i fedeli si aspettano da un papa per chiarirsi le idee spirituali e per scegliere le direzioni di vita. Quindi quella frase è anche un invito da papa a fare altrettanto (cioè obiettare) e soprattutto a pensare di conseguenza.

Quali conseguenze?

In tutte le chiese cristiane il dibattito sulla pace si è arenato sul dilemma: per un cristiano la pace è un impegno etico (di buona volontà), o è un impegno di fede (dal quale si vede se egli è u cristiano)? Ad es.: davanti ai missili nucleari, che pensare in coscienza? Che occorre fare uno sforzo di mediazione tra gli attori politici, affinché arrivino ad un disarmo progressivo e bilaterale e infine alla pace, o seguire l’invito del vescovo di Seattle: “Non adorate gli idoli di metallo!”; e quindi riporre la propria fiducia non nella “sicurezza” delle armi nucleari ma in Dio?

Se, come dice papa Francesco, “La guerra è un peccato”, è chiaro che lui considera la pace un impegno di fede. E così infatti Papa Francesco lo ha attuato col suo viaggio in una situazione di guerra selvaggia, mentre tutti i governanti nel mondo vivevano la paura di essere colpiti da guerriglia urbana, come a Parigi il 13 novembre.

In opposizione alle guerre e alle paure ha lanciato, in quell’ombelico africano delle guerre nel mondo, il massimo segnale in suo potere, come papa: ha inaugurato il giubileo mondiale, dichiarando Banguì la capitale spirituale dell’umanità di oggi, in opposizione alle capitali economiche, belliche, culturali e anche gerarchiche della vita religiosa (Roma compresa). Questa sua azione è stata degna di Colui che ha ribaltato la logica (bellica) del mondo; ad es., nascendo al di fuori di ogni struttura, anche alberghiera.

Ma se il papa dice che la guerra è peccato, che tipo di peccato è? Qui papa Francesco non fa una fuga in avanti, mettendosi a fare lezione; lascia che il popolo di Dio si impegni in una ricerca.

All’inizio del suo Vangelo Giovanni, che sicuramente conosceva l’intimo del Cristo, riporta come un fatto cruciale la dichiarazione con cui il parente stretto (in tutti i sensi) di Gesù, San Giovanni battista, lo presenta alla folla e quindi alla storia dell’umanità: “Ecco Colui che toglie IL peccato DEL mondo”.

Ma come lo toglie? Forse con le confessioni personali? Questo lo faceva Giovanni il Battista, ma non Gesù; che mai è stato visto confessare qualcuno. Piuttosto è stato lo stesso Gesù a dire che cosa è venuto a fare: “Non crediate che io sia venuto ad abrogare la Legge o i profeti, non sono venuto per abrogare, ma a portarla a compimento.”(Mt 5, 17) Quale compimento?

Cinquant’anni fa Lanza del Vasto, discepolo di Gandhi negli anni 1937-38 e fondatore delle Comunità dell’Arca, ha interpretato tutti i brani evangelici (Commentaire à l’Evangile, Denoel, 1951) in una maniera così originale che è innovativa anche rispetto ai commenti attuali. E’ stato originale anche nel rispondere alla suddetta domanda con sei idee forti e chiare.

La prima è che “la Legge” che il Cristo non vuole abrogare è proprio quella scritta da suo Padre. Questa Legge Antica non è da abolire o da pensare che sia sorpassata, come invece hanno immaginato molti cristiani, presi dall’euforia di essere entrati in una nuova era storica, dove basta l’intenzione di un amore indifferenziato.

La seconda idea di Lanza del Vasto è che il Figlio di Dio doveva venire per “completare la Legge” non perché sulle tavole di Mosé suo Padre avesse scritto male o insufficientemente; ma perché quella Legge chiedeva ben di più di quanto gli uomini avevano fatto fino ad allora per seguirle.

C’era soprattutto un punto della Legge che era stato malinteso dagli uomini (o forse essi hanno fatto finta di non capirlo). Questo punto non è tanto il “Non dire falsa testimonianza”, o il “Non rubare”, o il “Non commettere adulterio”. Colui che non osserva questi comandamenti già deve avere paura delle azioni vendicative degli offesi e deve anche affrontare le penose punizioni inflittegli dalla organizzazione pubblica della giustizia. Invece il comandamento malinteso dagli uomini è il “Non uccidere”: allorquando viene uccisa una persona singola, a questo atto si dà un significato negativo molto forte, tanto che si condanna l’uccisore a punizioni pesanti; ma quel comandamento viene messo da parte, o gli si dà un significato esattamente opposto, quando l’uccisore fa parte di un collettivo-istituzione che è in conflitto armato con un altro collettivo-istituzione. Cosicché mentre in tempo di pace quel comandamento vale strettamente, invece in tempo di guerra coloro che uccidono di più vengono esaltati ed onorati dal proprio gruppo. Infatti in tempo di guerra ogni collettivo vede gli altri come “i cattivi”, quelli che “impersonano il Male” e che quindi “devono” essere annullati, sperabilmente prima che essi reagiscano, così da evitare le conseguenze negative del proprio uccidere. Nel periodo in cui tutta la società si organizza nell’azione unitaria di uccidere i nemici anche le autorità religiose (salvo rare eccezioni recenti) accettano una guerra dichiarata dal potere politico e chiedono a Dio la vittoria del proprio collettivo, contro l’altro collettivo, le cui autorità religiose (magari della stessa fede) chiedono anche loro la vittoria a Dio mediante lo sterminio degli “altri”.

Quindi l’Inviato, il Messia si riferiva ad un preciso comandamento della Legge antica: “NON UCCIDERE / che fu scritto su una tavola di pietra e senza margini affinché non si potessero agganciare commenti.”1

Infatti Gesù, quando subito dopo spiega in che cosa egli voglia completare la Legge (Mt 5, 21), incomincia proprio dal 5° comandamento. E se poi parla anche del “Non commettere adulterio”, è perché anche su quella Parola gli uomini avevano agganciato un loro commento interpretativo (da far subire alla donna, allora senza diritti). Ma certamente per Gesù questi compromessi nel matrimonio erano di minore rilevanza rispetto alle uccisioni in massa. E nella sua vita ha mostrato che il quinto è il comandamento cruciale: quando è stato davanti ad una banda armata dice a Pietro di rimettere la spada nel fodero ; e gli dice. “Che ti credi che non ho legioni di angeli …?”; e poi subito il nemico ferito (Mt 26, 52-53; Lc 23, 50-51) Poi, nella passione, non fa saltare in aria nessuno che lo sta offendendo, ferendo, uccidendo.

Perciò Gesù ha restaurato la quinta Parola del Padre eterno nella sua interezza: occorre seguirla come le altre nove, cioè così come è scritta, senza far distinzione se si è da soli o si appartiene ad un collettivo comandato da una autorità pubblica; quindi davanti ad ogni istituzione e in tutti i tempi, anche quello di guerra.

La terza idea di Lanza del Vasto è che, oltre i peccati personali, ci sono quelli strutturali, quelli che vengono eseguiti anche da bravi padri di famiglia, perché se intruppati da un comandante con i gradi, diventano delle belve feroci. In definitiva gli uomini avevano seguito la Legge personalmente, ma poi nella vita sociale avevano organizzato anche delle piccole torri di Babele.

Infatti la vita di Cristo prende significato pieno solo se la si vede in opposizione ai peccati strutturali della società del suo tempo (l’occupazione imperiale dei Romani, l’imposizioone oppressiva e formalistica di carichi religiosi, la emarginaione della donna…). Come? Per prima cosa è nato povero e tale è rimasto; non per rivaleggiare con i fachiri o per una ideologia della povertà delle masse, ma come emarginazione naturale di chi obietta ai poteri sociali costituiti.

Dio Padre dice con chiarezza tutto il male (strutturale) in cui entra un popolo che si dà un re (Sam I, 8, 7-18; ma anche tutto questo libro). E Gesù ha respinto la tentazione che giustamente gli offriva il potere dell’impero romano e della gerarchia religiosa: se avesse accettato, avrebbe comandato il mondo (al posto del Padre). Non solo Gesù ha risposto da obiettore ai peccati strutturali costituiti dalle due grandi istituzioni del suo tempo, ma anche la sua vita ha minato non violentemente il loro strapotere terreno (ad es. contro i dottori della legge; Lc 21, 46). Infatti le uniche accuse sensate che ha ricevuto sono che andava contro l’autorità religiosa (si dichiarava Figlio di Dio) e contro l’autorità politica “aveva sobillato il popolo” (Lc 23, 5).

(Trent’anni dopo questo commento al Vangelo, il magistero della Chiesa, con la Sollicitudo rei socialis, ha introdotto per la prima volta il concetto del peccato strutturale, esemplificandolo nelle divisioni del mondo in Est/Ovest e Nord/Sud. Era un buon inizio. Ma poi non se ne è più parlato).

La quarta idea è che, certo, se si fa come il Messia, si può anche morire. Così è stato per lui. Ma la sua sconfitta sulla croce, e qui sta la essenza del Cristianesimo, è stata vinta dalla risurrezione (che San Paolo predicava per prima alle genti): questo è il pegno che ha lasciato a chi combatte come Lui, non violentemente: costui vincerà, o su questa terra o nella vita ultraterrena.

Il cristiano (letteralmente: seguace, imitatore di Cristo) affronta i peccati strutturali del suo tempo (le guerre, la schiavitù, il colonialismo, la fame e le malattie nel mondo, lo sfruttamento in fabbrica, la finanza mondiale, ecc.) perché ci vede dei peccati contro Dio Padre, commessi da collettivi e diventati strutturali e quindi considera questo suo impegno come costitutivo del suo seguire la Buona Novella: E’ possibile vincere il male strutturale (anche se costa la vita).

Ma come si fa? La quinta idea è che “… qui siamo giunti ad un punto culminante, se non al punto culminante della Nuova Legge”, perché qui Gesù rivela il metodo, sconosciuto fino ad allora.

La nuova legge indicata da Cristo, di far valere il 5° comandamento anche in tempo di guerra, invita non ad ossessionarci e ad abbacinarci con tutti i colossali peccati del mondo, ma ad affrontare le catastrofi sociali indirizzandosi a quelli ch e le causano. compiendo atti che li coinvolgano in una logica di rinnovamento personale. Cioè invita a seguirlo: Gesù si pone come fratello nostro e invita tutti a rapportarci come fratelli con tutti gli uomini, in qualsiasi circostanza della vita:“Gli Antichi vi hanno detto […] Ma io dico a voi che mi ascoltate: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano,…” (Mt 5, 43). In questo senso la Legge di Gesù è del tutto nuova; non è prescrittiva, ma è creativa, perché spinge ad immedesimarci nei rapporti interpersonali e lì inventare le mosse migliori per coinvolgere il nemico. Quali atti? Gesù ha predicato che ai mali strutturali del mondo, guerre per prime, le reazioni possibili sono gli atti indicati dalle otto Beatitudini (dalle prime quattro che restano nell’ambito personale, alle altre che agiscono sulla società).

La sesta idea di Lanza del Vasto è detta con frasi forti: “… la Nuova Legge [è] così nuova per noi che si può dire che non è stata intesa da duemila anni, da quando è stata promulgata…”(p. 193) Infatti essa è sembrata strana o addirittura estranea ai cristiani stessi. Ma perché? Perché nel frattempo l’Occidente, chiamandosi cristiano, ha costruito tante istituzioni sociali, che ha chiamato “progresso” e “modernità”; cosicché è apparso naturale, anche ai cristiani, appartenere a tutte e seguire le loro leggi, compres quelle della istituzione “difesa” armata di bombe nucleari.

Con ciò Cristo è stato profeta; prima che l’Occidente costruisse le sue tantissime istituzioni, lui ci ha avvertito che la fedeltà a Dio Padre comporta anche la obiezione di coscienza ai peccati strutturali delle istituzioni, per prima la istituzione bellica, perché “la guerra è peccato”.

Ora che siamo arrivati alla guerra nucleare, che è capace di distruggere l’umanità intera, dovrebbe essere chiaro a tutti, anche per via di ragione, che Cristo è venuto per farci affrontare i peccati strutturali, pena la esplosione della vita nel mondo.

Cinquant’anni fa la Pacem in terris di Papa Giovanni XXIII aveva dichiarato le armi di distruzione di massa “aliene dalla ragione”, pazzie. Poi esse furono l’oggetto dell’unica condanna emessa dal Concilio Vaticano II (GS n. 80): “crimini… delitto che va condannato con estremo rigore”).

Poi è successo qualcosa? No! Le 50.000 bombe nucleari (in gran parte negli arsenali dei Paesi a maggioranza cristiana!) sono rimaste intatte, perché la condanna riguardava l’uso sulle città, non il possesso, perfezionamento e la minaccia per imporsi sugli altri Stati.

Con la sua frase sul peccato della stessa guerra papa Francesco sta portando a compimento il Concilio: vuole far uscire le armi nucleari e la guerra dalla storia, ma nello stesso tempo lo sta innovando dalla radice sul punto cruciale di come essere cristiano oggi: con il suo esempio, ad es. in Africa, dà il senso concreto di che cosa significhi amare quando si deve obiettare al peccato strutturale guerra e quindi di come “essere nel mondo senza essere mondo”, per essere “il sale della Terra” (Mt 5, 13).

Dopo duemila anni che “la Nuova Legge non è stata intesa”, dopo quasi mille anni da quando San Francesco, novello Cristo, ha esemplificato dove dirigere l’impegno di fede cristiana (anti-guerre), Papa Francesco vuole incominciare sul serio, con tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà, la lotta contro i peccati strutturali sulla terra.

Ma sa bene che finora noi cristiani abbiamo ignorato sia la volontà del Padre sulle guerre sia l’esempio di Cristo per superarle. In questa situazione la Chiesa oggi deve fare da “ospedale da campo” rispetto a dei cristiani la cui fede non ha ancora una bussola rispetto ai peccati strutturali. Perciò papa Francesco ci invita a ripartire chiedendo che il Padre abbia misericordia per la nostra tradizione oscura.

In più egli sa anche bene che la Chiesa stessa ha i suoi peccati strutturali e che fa una gran fatica a liberarsene (tanto che il papa precedente si è dimesso per dichiarata incapacità di riuscire a convertirla). La Chiesa stessa ha da chiedere misericordia; anzi, lo deve fare per prima.

Per questo motivo papa Francesco ha fatto di più di San Francesco, che per andare contro la crociata che voleva liberare solo le pietre del sepolcro di Cristo, istituì il presepio dove due o tre riuniti nel Suo nome lo rendono presente. Papa Francesco ha indetto il giubileo straordinario, affinché tutti chiediamo misericordia. Quindi non perché, in un tempo di corruzione e mancanza di etica, si riceva un confortevole “tana salvi tutti!” per i peccati generali, o perché, fidando sulla misericordia finale di Dio, si possa dimenticare che sull’etica personale e pubblica il Padre eterno ha dato dieci Parole che sono valide per l’eternità; ma affinché si faccia penitenza per un passato millenario che ci vede tutti corresponsabili in solido (come diceva Don Milani) e poi si inizi una lotta comune per convertire la nostra società dai peccati strutturali. Infatti la misericordia è la Beatitudine che sta al centro delle otto, separa quelle degli atti passivi del cristiano da quelli attivi; dopo aver chiesto misericordia, tutti assieme potremo mettere mano ai maggiori peccati strutturali del mondo.

Certo, gran parte di quanto qui detto è implicito nella frase che papa Francesco ha affermato sulla guerra: “La guerra è peccato”. Ma se egli esprimesse di più di quella frase, che come singola frase può ancora essere stravolta dai ritardatari, subito verrebbe accusato di essere un “fondamentalista” e come tale scartato a priori come persona irragionevole. Non so se è lo Spirito Santo che lo fa navigare tra gli scogli con tanta sapienza. So comunque che la sua strategia risulta di fatto la più sapiente possibile, da parte di un uomo che si vede posto a capo di una Chiesa bimillenaria che oggi più che mai deve riscoprire la sua missione nel mondo.

Di certo, è un grande momento storico quello che stiamo vivendo. Papa Francesco sta camminando nella profezia.

Dopo una guerra finita, conclusasi con la pace, sarebbe assai bene che, dopo aver celebrato un ringraziamento, si indicesse un giorno di penitenza del popolo allo scopo di invocare, in nome dello Stato, mercé dal cielo, per il grande atto colpevole che il genere umano commette sempre di nuovo: non volersi sottomettere, nel rapporto con gli altri popoli, ad una costituzione legale; ma, fiero della sua indipendenza, piuttosto fare uso del barbaro strumento della guerra (benché attraverso essa non si attui ciò che si cerca, cioè il diritto di uno Stato). In ancor più forte contrasto con l’idea morale di un Padre universale degli esseri umani, stanno gli inni che si cantano al Signore degli eserciti in tempo di guerra e le feste di ringraziamento per una vittoria conquistata con le armi; perché, oltre ad esprimere l’indifferenza nei confronti del modo con cui i popoli cercano il loro reciproco diritto (cosa che già è abbastanza triste), aggiungono la gioia di aver distrutto, senza farsene una colpa, molti uomini e le loro fortune”. (nota 13)

«Articolo 3: Gli eserciti permanenti (miles perpetuus) devono col tempo scomparire del tutto».

(I. Kant “Per la pace perpetua” 1793)

1 Lanza del Vasto: Che cosa è la non violenza, Jaca book, Milano 1978, p. 81.

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