come sintetizzare in modo brillante il pensiero di un grande filosofo senza capirne la sostanza

contro Severino, l’iperfilosofo

una superficiale  ancorché brillante e con buona capacità di sintesi del pensiero di un grande pensatore (tanto di cappello!) questa di A. Berardinelli (su ‘il Foglio’): non ne coglie affatto il senso di fondo e lo trasforma in caricatura; un pizzico di senso della misura non sciuperebbe pur nella legittima libertà di dissenso!

questa la tesi caricaturale di A. Berardinelli nei confronti del pensiero di Severino:

perseguita da quarant’anni i lettori italiani con la favola antica dell’Essere e del Divenire che gli permette di dire tutto non dicendo niente. Perfino di sostenere che lui è migliore di tutti, anche di Leopardi

di Alfonso Berardinelli

Emanuele Severino

Mi ero distratto, avevo dimenticato per un momento (durato un paio d’anni) di dedicarmi a Emanuele Severino, il nostro più tipico e puro iperfilosofo, specializzato nella pretesa di superare ogni altro filosofo dell’intera tradizione occidentale. Dall’alto podio delle edizioni Adelphi, Severino perseguita da quarant’anni i lettori filo-filosofici italiani con la favola antica dell’Essere e del Divenire. Dopo aver distinto nettamente e assolutamente questi due verbi, Severino ha aggiunto, in una cinquantina di libri, che l’essere non è il divenire poiché il divenire non è l’essere. Chi crede il contrario e azzarda anche momentanee e parziali concomitanze fra i due verbi, cade secondo lui nella Follia dell’occidente, cioè è pazzo. Due verbi come quelli, trasformati in realtà metafisica, offrono materia per un eterno conflitto metafisico, di cui Severino è il massimo specialista e arbitro. Mi fermo qui perché dopo poche righe ne ho già abbastanza. Severino invece non si sazia mai di giocare sempre la stessa partita a esito garantito, perché in conclusione lui vince sempre, con l’essere che è la sola realtà mentre il divenire è tutto una bugia.

Potrebbe bastare, ma mi accorgo che nel maggio scorso l’iperfilosofo che batte tutti, ha pubblicato un terzo libro su Leopardi: “In viaggio con Leopardi. La partita sul destino dell’uomo” (Rizzoli, 220 pp., 16 euro). Avendo saputo che due anni fa il nostro grande poeta, dopo la traduzione in inglese dello “Zibaldone”, è stato scoperto in Inghilterra e in America come grande filosofo (naturalmente antimetafisico…), Severino non poteva tacere. Il giudizio finale spetta a lui e immancabilmente lo rivendica.

  Secondo l’iperfilosofo tutti, prima di lui, si sono sbagliati: i greci che hanno messo in giro quella storia fasulla del divenire e dello sparire delle cose, poi il cristianesimo, poi l’umanesimo, poi Hegel, Nietzsche e infine Leopardi, precursore di Nietzsche. Ecco l’occasione da non perdere. Con Leopardi, su Leopardi si poteva fare un nuovo libro, approfittando del suo successo filosofico, per giocare e vincere con lui e contro di lui la solita partita. Per farlo era anzitutto necessario dire che Leopardi sta con il suo pensiero “al culmine della storia del pensiero”. Se Severino scrive su Leopardi è dunque per una sola ragione: perché al culmine in verità non c’è Leopardi, o meglio: c’era. Poi è arrivato Severino e ora al culmine c’è lui.

Senza dubbio una cosa è vera: con Severino la megalomania filosofica, o filosofia del culmine, ha raggiunto il suo culmine. Il “destino della verità” conduce a lui e solo a lui, dopo secoli di errori e di follia. Il culmine è che dove c’è essere non può esserci divenire, perché A è A e B è B. Non può essere dunque che A sia B. Dove non c’è essere c’è il nulla e il nulla non è.

Meravigliosa facoltà di sintesi. Che permette di dire tutto non dicendo niente e di filosofare su qualunque cosa, dal conflitto America-Russia alla tecnica e dalla tecnica all’embrione, dicendo sempre una cosa saputa in anticipo: che l’essere non diviene e il divenire non ha essere. E’ così che Severino vertiginosamente svetta e prende quota su tutti coloro che non si sono impegnati a dire la sola cosa che lui dice. Tutti poco filosofici, tutti incoerenti, deboli, sentimentali. Tutti e Leopardi fra questi.

Dopo qualche citazione (poteva farne altre e poteva anche citare altri autori: era lo stesso) Severino si sente giunto al suo scopo. Leopardi si addolora e piange sulle cose perdute e sulle esistenze sparite. Ma si sbaglia. Eh sì, si sbaglia. Niente sparisce, dice Severino, niente precipita nel nulla, perché il nulla non è, mentre ciò che ha essere non è attaccabile dal nulla.

L’iperfilosofo, per non farsi mancare materia filosofica, non ha voluto capire che dire “nulla” è solo un modo di dire. Indica l’entrare e l’uscire di qualcosa o di qualcuno dall’orizzonte della nostra esperienza. E’ questo che ci fa gioire o piangere. Fosse anche che qualcuno va in paradiso o all’inferno, per noi non c’è più. Il nulla non c’entra niente. 

 Arrivati al capitolo conclusivo, per chi non l’avesse già previsto, Severino viene allo scoperto. Smette di fare inchini al pensiero culminante di Leopardi e con un colpo solo gli scippa il culmine. Se Leopardi aveva superato tutta la tradizione occidentale, chi supera Leopardi supera tutto e tutti. Nemico del nichilismo come dice di essere, quando si tratta di celebrare il proprio pensiero, Severino diventa il peggiore dei nichilisti. Riduce l’intera cultura occidentale a un pugno di polvere e invece di provocare in noi lo sgomento, pretende di ispirarci un infrangibile stato di gioia. L’essere è invulnerabile, basta saperlo. Tutto ciò che è, contiene l’essere. Dunque tutto ciò che è, sarà sempre. Perché immalinconirsi? Essere è un verbo all’infinito. Perciò siamo al sicuro, infinitamente, per il solo fatto che siamo. Per la cinquantesima volta Severino conclude così il suo cinquantesimo libro.
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