Weil

“Il Padre nostro” meditato da Simone Weil
 

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“Questa preghiera contiene tutte le richieste possibili: non si può concepire una preghiera che non sia già contenuta in questa. Essa sta alla preghiera come Cristo, all’umanità. È impossibile pronunciarla una sola volta, concentrando su ogni parola tutta la propria attenzione, senza che un mutamento reale, sia pure infinitesimale, si produca nell’anima.”

 

«Padre nostro che sei nei cieli».

Egli è nostro Padre; non c’è nulla in noi di reale che non proceda da lui.

Noi gli apparteniamo. Egli ci ama, perché ama se stesso e noi siamo cosa sua. Ma è il Padre che è nei cieli. Non altrove. Se noi crediamo di avere un padre quaggiù non è lui, ma un falso dio. Non possiamo fare un solo passo verso di lui: non si cammina verticalmente. Possiamo dirigere verso di lui soltanto il nostro sguardo. Non dobbiamo cercarlo, dobbiamo soltanto mutare la direzione dello sguardo. Tocca a lui cercarci. Dobbiamo essere felici di sapere che egli è infinitamente fuori della nostra portata.

Abbiamo così la certezza che il male in noi, anche se sommerge tutto il nostro essere, non contamina in alcun modo la purezza, la felicità, la perfezione di Dio.

«Sia santificato il nome tuo».

Dio solo ha il potere di nominarsi. Il suo nome non può essere pronunciato da labbra umane; il suo nome è la sua parola: è il Verbo. Il nome di un essere fa da intermediario tra la mente umana e questo essere, è la sola via attraverso la quale la mente umana possa afferrare qualcosa di questo essere quando è assente. Dio è assente: è nei cieli. Il suo nome è la sola possibilità per l’uomo di accedere a lui. È il Mediatore. L’uomo può accedere a questo nome, per quanto esso pure sia trascendente. Questo nome brilla nella bellezza e nell’ordine del creato e nella luce interiore dell’anima umana: è la santità stessa e non v’è santità fuori di lui; dunque non occorre che sia santificato. Chiedendo questa santificazione, noi chiediamo ciò che è dell’eternità, con una pienezza di realtà alla quale non possiamo aggiungere né togliere nemmeno una parte infinitesimale. Chiedere ciò che è, ciò che è in maniera reale, infallibile, eterna, del tutto indipendente dalla nostra domanda, è la richiesta perfetta.

Non possiamo impedirci di desiderare: noi siamo desiderio; ma questo desiderio che ci inchioda all’immaginario, al tempo, all’egoismo, possiamo, esprimendolo tutto intero in questa richiesta, farlo divenire una leva che, strappandoci dall’immaginario e dal tempo, ci colloca nel reale e nell’eternità, fuori della prigione dell’io.

«Venga il tuo regno».

Si tratta di qualcosa che deve venire, che non c’è. Il regno di Dio è lo Spirito Santo che colma tutta l’anima delle creature intelligenti. Lo Spirito soffia dove vuole. Non si può fare altro che invocarlo. Non bisogna neppure pensare d’invocarlo in maniera particolare su di sé, o su questo o su quello, o anche su tutti; bisogna semplicemente invocarlo, di modo che il semplice pensare a lui sia un appello, un grido: quando si è al limite della sete, quando si è ammalati di sete, non ci si raffigura più l’atto del bere in rapporto a se stessi e nemmeno l’atto del bere in generale; ci si raffigura soltanto l’acqua, l’acqua in se stessa, ma questa raffigurazione dell’acqua è come un grido di tutto l’essere.

«Sia fatta la tua volontà».

Noi siamo certi in maniera assoluta e infallibile della volontà di Dio soltanto per il passato: tutti gli avvenimenti che si sono verificati, quali che siano, sono conformi alla volontà del Padre onnipotente. Questo è implicito nel concetto di onnipotenza. Anche l’avvenire, qualunque esso sia, una volta compiuto, sarà compiuto conforme­mente alla volontà di Dio. Non possiamo aggiungere o sottrarre nulla a questa conformità. Così, dopo uno slancio di desiderio verso il possibile, con questa frase noi chiediamo di nuovo ciò che è già realtà: ma non più una realtà eterna, come la santità del Verbo; l’oggetto della nostra richiesta riguarda ciò che si produce nel tempo: noi chiediamo che ciò che si produce nel tempo sia conforme, infallibilmente ed eternamente, alla volontà divina. Con la prima richiesta del Paternoi avevamo strappato il desiderio dal tempo per applicarlo all’eterno, e così l’avevamo trasformato: ora riprendiamo questo desiderio, diventato esso stesso in certo modo eterno, e lo rivolgiamo di nuovo al tempo. Allora il nostro desiderio oltrepassa il tempo e trova dietro di esso l’eternità. Questo avviene quando sappiamo trasformare in oggetto di desiderio ogni avvenimento compiuto. È una cosa ben diversa dalla rassegnazione. Persino la parola accettazione è troppo debole. Si deve desiderare che tutto ciò che è avvenuto sia avvenuto, e null’altro. Non perché ciò che è avvenuto è un bene a nostro modo di vedere, ma perché Dio lo ha permesso e perché l’obbedienza degli eventi a Dio è in sé un bene assoluto.

«Così in cielo come in terra».

Questo associarsi del nostro desiderio alla volontà di Dio deve estendersi anche alle cose spirituali. I progressi e i regressi spirituali nostri e degli esseri che amiamo hanno un rapporto con l’altro mondo, ma sono anche avvenimenti che si producono quaggiù, nel tempo. Sono quindi dei particolari nell’immenso mare degli avvenimenti, mossi, con questo mare, in maniera conforme alla volontà di Dio. Poiché le nostre passate debolezze si sono verificate, dobbiamo desiderare che esse si siano verificate e dobbiamo estendere questo desiderio all’avvenire, per il giorno in cui sarà divenuto passato. È una correzione necessaria alla richiesta che venga il regno di Dio. Dobbiamo abbandonare tutti i desideri che non siano quello della vita eterna, ma anche la vita eterna dobbiamo desiderarla con spirito di rinuncia. Non bisogna attaccarsi nemmeno al distacco. È l’attaccamento alla salvezza è più pericoloso degli altri. Si deve pensare alla vita eterna come si pensa all’acqua quando si muore di sete e, nel medesimo tempo, desiderare per sé e per gli esseri cari la privazione eterna di quest’acqua piuttosto che riceverla contro la volontà di Dio, se mai una cosa simile fosse concepibile.

Le tre richieste precedenti sono in rapporto con le tre Persone della Trinità: il Figlio, lo Spirito e il Padre, e anche con le tre parti del tempo: il presente, l’avvenire e il passato. Le tre richieste che seguono vertono sulle tre parti del tempo più direttamente e in un altro ordine: presente, passato, avvenire.

«Dacci oggi il nostro pane soprannaturale».

Cristo è il nostro pane. Possiamo chiederlo soltanto per oggi, perché è sempre alla porta della nostra anima: vuole entrare, ma non viola il nostro consenso. Se consentiamo che entri, egli entra; appena non lo vogliamo più, egli se ne va. Noi non possiamo vincolare oggi la nostra volontà di domani, fare oggi con lui un patto affinché domani sia in noi anche contro il nostro volere. Il nostro consenso alla sua presenza è la stessa cosa della sua presenza. Il consenso è un atto: non può essere che attuale. Non ci è stata data una volontà che possa essere applicata all’avvenire. Tutto ciò che nella nostra volontà non è efficace, è immaginario. La parte efficace della volontà è efficace immediatamente; la sua efficacia non è distinta dalla volontà stessa. La parte efficace della volontà non è lo sforzo, che è teso verso l’avvenire. È il consenso, il sì del matrimonio, un sì pronunciato nell’istante presente, per l’istante presente, ma pronunciato come una parola eterna, poiché è il consenso all’unione di Cristo con la parte eterna della nostra anima.

Noi abbiamo bisogno del pane. Siamo esseri che di continuo traggono dall’esterno la loro energia, poiché, via via che la ricevono, la esauriscono nei loro sforzi. Se la nostra energia non è quotidianamente rinnovata, perdiamo le forze e non riusciamo più a muoverci. Al di fuori del nutrimento propriamente detto, tutto ciò che ci stimola è per noi fonte di energia. Il denaro, l’avanzamento, la considerazione, le decorazioni, la celebrità, il potere, le persone amate, tutto ciò che mette in noi la capacità di agire è come il pane. Quando una di queste affezioni penetra in noi tanto profondamente da arrivare alle radici vitali della nostra esistenza fisica, l’esserne privati può spezzarci e persino farci morire: è quel che si dice morire di dolore. È come morire di fame. Gli oggetti delle nostre affezioni costituiscono, con il nutrimento propriamente detto, il pane di quaggiù. Dipende interamente dalle circostanze di accordarcelo. Per quanto concerne le circostanze, dobbiamo chiedere soltanto che esse siano conformi alla volontà di Dio. Non dobbiamo chiedere il pane di quaggiù.

Esiste un’energia trascendente la cui sorgente è in cielo e che passa in noi non appena lo desideriamo. È veramente una energia e si traduce in azione tramite la nostra anima e il nostro corpo.

È questo l’alimento che dobbiamo chiedere. Nel momento in cui lo chiediamo, e per il fatto stesso che lo chiediamo, sappiamo che Dio vuole darcelo. Non dobbiamo tollerare di restare un solo giorno senza di esso. Poiché quando i nostri atti vengono alimentati soltanto da energie terrene, sottoposte alle necessità di quaggiù, non possiamo fare e pensare che il male. «Dio vide che i misfatti dell’uomo si moltiplicavano sulla terra, e che il frutto dei pensieri del suo cuore era costantemente e unicamente cattivo». La necessità che ci costringe al male governa tutto in noi, salvo l’energia che ci viene dall’alto nel momento in cui entra in noi. Non possiamo farne provvista.

«E rimetti a noi i nostri debiti come noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori».

Al momento di dire queste parole dobbiamo aver già rimesso tutti i nostri debiti. Non si tratta soltanto delle offese che pensiamo di aver subito. È anche la rinuncia alla riconoscenza per il bene che pensiamo di aver fatto, e in genere a tutto ciò che ci attendiamo dagli esseri e dalle cose, tutto ciò che crediamo ci sia dovuto, la cui mancanza ci darebbe la sensazione di essere stati frustrati. Sono tutti i diritti che noi crediamo che il passato ci dia sull’avvenire. Anzitutto, il diritto a una certa durata. Quando abbiamo potuto godere una certa cosa per lungo tempo, crediamo che essa ci appartenga e che la sorte sia tenuta a lasciarcela godere ancora. Poi, il diritto a un compenso per ogni sforzo, di qualsiasi natura esso sia, per ogni lavoro, ogni sofferenza o desiderio. Ogni volta che noi facciamo uno sforzo e che l’equivalente di questo sforzo non torna a noi sotto forma di un frutto visibile, abbiamo una sensazione di squilibrio, di vuoto, ci sentiamo come derubati. Quando subiamo un’offesa noi aspettiamo che l’offensore venga castigato o si scusi, se facciamo del bene ci attendiamo la riconoscenza della persona beneficata. Questi sono casi particolari di una legge universale della nostra anima: tutte le volte che qualcosa è uscito da noi, abbiamo assolutamente bisogno che almeno l’equivalente ritorni in noi e, poiché ne abbiamo bisogno, crediamo di averne diritto. Nostri debitori sono tutti gli esseri, tutte le cose, l’universo intero. E noi crediamo di avere crediti verso tutte le cose; ma tutti questi presunti crediti sono sempre crediti immaginari del passato verso l’avvenire: è a questi che dobbiamo rinunciare.

Aver rimesso i debiti ai nostri debitori significa aver rinunciato in blocco a tutto il passato; accettare che l’avvenire sia vergine e intatto, rigorosamente legato al passato da legami che ignoriamo ma del tutto libero dai legami che la nostra immaginazione crede di imporgli; accettare la possibilità che l’avvenire si attui e, in particolare, che ci accada qualsiasi cosa e che il domani faccia di tutta la nostra vita passata una cosa sterile e vana.

Rinunciando a tutti i frutti del passato, senza eccezione, possiamo chiedere a Dio che i nostri peccati passati non diano nella nostra anima i loro miserabili frutti di male e di errore. Finché ci aggrappiamo al passato, Dio stesso non può impedire in noi questa orribile fruttificazione: non possiamo attaccarci al passato senza attaccarci ai nostri delitti, poiché non conosciamo quanto c’è in noi di essenzialmente cattivo.

Il credito principale che pensiamo di possedere verso l’universo è la continuazione della nostra personalità. Questo credito implica tutti gli altri. L’istinto di conservazione ci fa sentire questa continuazione come una necessità, e noi crediamo che una necessità sia un diritto. Come il mendicante che diceva a Talleyrand: «Monsignore, devo pur vivere», e al quale Talleyrand rispondeva: «Non ne vedo la necessità». La nostra personalità dipende interamente dalle circostanze esterne, che hanno un potere illimitato di schiacciarla, ma noi preferiremmo morire anziché riconoscerlo. L’equilibrio del mondo è per noi un susseguirsi di circostanze tali che la nostra personalità resta intatta e sembra appartenerci. Tutte le circostanze che in passato hanno ferito la nostra personalità ci sembrano squilibri che un giorno o l’altro devono essere compensati da fenomeni contrari. Noi viviamo nell’attesa di queste compensazioni. L’incombenza della morte ci appare orrenda soprattutto perché ci costringe a renderci conto che queste compensazioni non avranno mai luogo.

La remissione dei debiti è la rinuncia alla propria personalità, rinuncia a tutto ciò che chiamiamo «io», senza alcuna eccezione. Sapere che in tutto ciò che chiamiamo «io» non c’è nulla, non c’è alcun elemento psicologico che le circostanze esterne non possano far scomparire. Bisogna accettare che sia così ed esserne felici.

Le parole: «Sia fatta la tua volontà», se pronunciate con tutta l’anima, implicano questa accettazione.

Per questo un istante dopo si può dire: «Abbiamo rimesso ai nostri debitori».

La remissione dei debiti è la povertà spirituale, la nudità spirituale, la morte. Se accettiamo completamente la morte, possiamo chiedere a Dio di farci rivivere purificati dal male che è in noi: infatti, chiedergli di rimettere i nostri peccati, significa chiedergli di cancellare il male che è in noi. Il perdono è la purificazione. Il male che è in noi, e che vi resta, neppure Dio ha il potere di perdonarlo. Dio ci ha rimesso i nostri debiti quando ci ha messi nello stato di perfezione.

Fino ad allora Dio rimette i nostri debiti parzialmente, nella misura in cui noi li rimettiamo ai nostri debitori.

«E non indurci in tentazione, ma liberaci dal male».

La sola prova, la sola tentazione per l’uomo è di essere abbandonato a se stesso, a contatto con il male. Egli allora verifica sperimentalmente il proprio nulla. Sebbene l’anima abbia ricevuto il pane soprannaturale nel momento in cui lo ha richiesto, la sua gioia è mista a timore, perché ha potuto chiederlo solo per il presente. L’avvenire resta temibile. L’anima, che non ha diritto di chiedere il pane per il domani, esprime il proprio timore sotto forma di supplica. E con queste parole conclude. Con la parola «Padre» ha inizio la preghiera, con la parola «male» si conclude. Bisogna passare dalla fiducia al timore: solo la fiducia dà forza sufficiente affinché il timore non causi una caduta. Dopo aver contemplato il nome.

È il regno e la volontà di Dio, dopo aver ricevuto il pane soprannaturale ed essere stata purificata dal male, l’anima è pronta per la vera umiltà, che corona tutte le virtù. L’umiltà consiste nel sapere che in questo mondo tutta l’anima (non solo la parte che chiamiamo «io» nella sua totalità ma anche la parte soprannaturale dell’anima che è Dio presente in essa) è sottoposta alle vicissitudini del tempo. Bisogna accettare in modo assoluto la possibilità che tutto ciò che in sé è naturale venga distrutto. Ma bisogna accettare e respingere nello stesso tempo la possibilità che la parte soprannaturale dell’anima scompaia: accettarla come evento che potrebbe verificarsi solo se Dio lo vuole, respingerla come qualcosa di orribile. Bisogna averne paura, ma in modo che la paura sia come il compimento della fiducia.

Le sei richieste si corrispondono a due a due. Il pane trascendente è la stessa cosa del nome divino: è ciò che opera il contatto dell’uomo con Dio. Il regno di Dio è la stessa cosa della protezione che egli stende su di noi contro il male: proteggere è una funzione regale. La remissione dei debiti ai nostri debitori è la stessa cosa dell’accettazione totale della volontà di Dio. La differenza sta nel fatto che nelle prime tre richieste la nostra attenzione è rivolta verso Dio, mentre nelle ultime tre la riportiamo su di noi, per costringerci a fare di quelle tre richieste un atto reale e non immaginario.

Nella prima metà della preghiera si comincia con l’accettazione, poi ci si permette un desiderio, quindi lo si corregge, tornando all’accettazione. Nella seconda metà l’ordine è mutato: si conclude esprimendo un desiderio. Ma il desiderio è diventato negativo e si esprime sotto forma di timore; in tal modo esso corrisponde al più alto grado di umiltà, l’atteggiamento più adatto a una conclusione.

Questa preghiera contiene tutte le richieste possibili: non si può concepire una preghiera che non sia già contenuta in questa. Essa sta alla preghiera come Cristo, all’umanità. È impossibile pronunciarla una sola volta, concentrando su ogni parola tutta la propria attenzione, senza che un mutamento reale, sia pure infinitesimale, si produca nell’anima.

anche i rom possono insegnare qualcosa alla chiesa

Lettera aperta al papa. Quello che i rom possono insegnare alla Chiesa

lettera aperta al papa

quello che i rom possono insegnare alla Chiesa

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 13 del 02/04/2016

Caro papa Francesco, siamo un gruppetto di laici, religiosi e sacerdoti che si è formato attraverso l’amicizia con rom e sinti: una lunga amicizia fatta di frequentazioni e di vita vissuta dentro i campi.

A vario titolo siamo stati un’espressione dell’UNPReS (Ufficio Nazionale Pastorale Rom e Sinti) della Migrantes, fino a quando, per una riforma infelice, non solo si è demandato alle diocesi la responsabilità pastorale, il che è più che giusto, ma si è abolito l’Ufficio nazionale che sensibilizzava e richiamava l’attenzione su questo ambito e che aveva il compito di preparare specificamente gli operatori pastorali e far sorgere una pastorale specifica e coordinata a livello nazionale. 

Ci siamo interrogati varie volte sull’utilità di scrivere queste nostre impressioni. A distanza di qualche mese abbiamo deciso di farlo e di diffondere questo nostro scritto, nella speranza che possa essere compreso e accolto.

Quello che ci spinge a scriverti, con spirito fraterno, è il discorso che hai tenuto all’udienza con i rom e sinti, al quale eravamo presenti, in occasione dell’anniversario del pellegrinaggio a Pomezia di cinquant’anni fa. 

Sostanzialmente, nelle parole che hai rivolto ai sinti e rom non abbiamo ritrovato lo Spirito di quel cammino pluridecennale di una Chiesa (sia pur piccola e fragile) che vive a contatto con questo popolo. Una Chiesa che con uno sguardo di Fede, cerca e trova anche in questo popolo, il riflesso del Volto Misericordioso di Dio. Siamo convinti che la loro vita continua ad essere per noi un “luogo teologico”, nel quale veniamo anche noi “evangelizzati” da loro. È possibile «vivere il Vangelo con i piedi dentro queste periferie», che in genere sono i campi rom-sinti. Lo stupore nello scoprire che c’è anche un “magistero” che fiorisce dalle periferie, da chi vive al margine della società. Non a distanza, ma da dentro: condividendo, accompagnando e custodendo amicizie, percorsi anche difficili, ma vissuti insieme. La nostra “missione” non è tanto quella di organizzare progetti, nemmeno quella di volerli integrare nei nostri schemi o di porci come risolutori del “problema rom”, anche per il fatto che per noi questo popolo non è affatto un “problema”, come lo è per i più, ma un’opportunità umana e spirituale. Desideriamo semplicemente essere una “presenza ponte” capace di accogliere, di bene-dire, di comprendere punti di vista diversi dai nostri e di raccogliere con cura e attenzione la voce dello Spirito che sussurra, attraverso le vite dei sinti e rom, il Suo Magistero. 

Tra di noi c’è chi ha speso la sua vita all’interno dei campi rom, imparando a conoscere e ad amare i suoi abitanti per come sono, con i loro difetti e le loro ricchezze, e alcuni vivono ancora in questi “mondi di mondi”.

Condividere la loro vita ha significato per ognuno di noi dei cambiamenti, graduali ma arricchenti, non sempre facili o scontati. Siamo loro riconoscenti perché ci hanno permesso di entrare nelle loro vite, ci siamo lasciati accompagnare da loro e questa fiducia ci ha permesso di vedere e leggere la realtà con occhi diversi, fino a scoprire, quasi con stupore e meraviglia, che anche “il punto di vista” di chi vive nelle carovane, nelle baracche dei campi merita attenzione, rispetto e ascolto. 

Siamo testimoni di perle di Vangelo, nascoste nelle loro esistenze, che nonostante il disprezzo e il pregiudizio di cui sono spesso vittime brillano e illuminano dando senso anche alle nostre vite. Ma per notare questa loro ricchezza, è importante spogliarsi dei pregiudizi presenti e radicati nella maggioranza, e che purtroppo non mancano neanche in chi li avvicina a fin di bene. Un processo che può avvenire a condizione di saper perdere le nostre rigidità mentali, sociali e religiose. La condizione, almeno per noi è “stare dentro” questo mondo. Non può certo avvenire a distanza. A distanza le cose si vedono sfocate, notiamo solo quello che a noi disturba, difficile percepire le sfumature, si rischia di non comprendere in profondità la realtà, le sue dinamiche.

Scusaci se te lo diciamo con franchezza, ma il tuo discorso ai sinti e ai rom ci è sembrato un po’ distante, perché abbiamo sentito riproporre più o meno gli stessi schemi della maggioranza che osserva le cose a distanza e che spesso si limita fare discorsi moralistici: dovete cambiare, scuola, minori, legalità, integrazione… ma senza accompagnamento. In altre occasioni e contesti, invece, sei riuscito a immergerti, capire le situazioni e fare una lettura diversa, coraggiosa e per niente scontata. Ecco questa lettura “altra” ci è sembrata assente nel tuo intervento, eppure il cammino della Chiesa che vive in carovana, da Pomezia ad oggi, ci ha reso sensibili a questa lettura altra e alta.

I campi rom e sinti sono quelle “periferie” di cui ci parli e a cui solleciti la Chiesa a prestare attenzione e ascolto. È un’immagine che ci piace tanto, stimolante ed arricchente: per noi i campi rom sono un “luogo teologico” da contemplare innanzitutto, perché sovente «lo Spirito Santo precede l’arrivo e l’azione dei missionari» (Evangelii nuntiandi).

Sì certo, siamo ben consapevoli delle difficoltà, delle ferite che ci sono all’interno e che ci sono, in modi diversi, in ogni gruppo sociale; alcune sono ben visibili, altre più nascoste e spesso passano inosservate, inascoltate. Contempliamo e celebriamo la vita, fatta di resistenze, di attenzione, di lotta, di fatiche, di paure, di violenza, di prevaricazioni, di riconciliazioni, di gioie, di attaccamento alla vita, nonostante tutto, di sogni e di delusioni. Come tutte le periferie, sono spazi dove il bello e il brutto convivono insieme, si attraversano, si contagiano, ma per noi rimangono spazi di Vita, perché riconosciamo che anche nei loro campi, ci sono manifestazioni di vita buona. Quasi mai questo emerge, si fa risaltare invece solo ciò che è brutto, si sottolinea esclusivamente la devianza o il maltrattamento di pochissimi. Eppure, questa periferia, la vita dei rom, ha qualcosa da insegnare nella Chiesa e con essa alla società. Così è successo a noi.

Tempo fa hai usato l’immagine (bellissima!) del pastore con l’odore delle pecore. L’abbiamo sentita adatta alla nostra esperienza, calzante con la nostra vita a fianco dei rom e sinti. Il loro “odore” è anche un po’ il nostro e il nostro si è trasmesso un po’ a loro e questo disturba non pochi, sia dentro la Chiesa che nella società. 

Sono molti oggi ad avvicinarsi a  queste periferie con in mano “deodoranti” per coprire il loro odore e renderlo simile al nostro presunto profumo, più presentabile ai nostri nasi, sentendosi incaricati, inviati a decidere cosa devono fare, cosa devono cambiare, decretando anche i tempi e le modalità. Quasi sempre ciò avviene sulle loro teste, senza coinvolgimento e partecipazione dei diretti interessati. La nostra esperienza invece, proprio perché cerchiamo di contemplare la vita che pulsa nei campi, ci dice che sinti e rom sanno cosa è meglio per il loro futuro, quali strade intraprendere e cosa cambiare.

Molti si avvicinano, entrano anche nei campi, ma fanno fatica ad accompagnare e a sedersi a mani vuote nelle loro esistenze per comprenderle meglio. È triste questo: non trovare la strada per saper riconoscere i valori che l’altro ci può comunicare.

Un’ultima nota riguarda il silenzio di una triste realtà che coinvolge migliaia di rom in Italia e non solo, e che senz’altro toccava la maggioranza di quelli che erano presenti all’udienza: la questione degli sgomberi e il suo uso politico. Ci saremmo aspettati almeno un accenno di condanna per il fatto che, sull’altare della sicurezza e del consenso elettorale, vengono scartati interi nuclei familiari, buttati per strada e abbandonati a se stessi, privati dei loro diritti riconosciuti anche dalla Legge: tanto sono “zingari”!

Caro papa Francesco ti abbracciamo forte, sappi che la nostra fiducia in te non è per nulla scalfita, ma ci preme farti conoscere anche questo lungo e arricchente cammino pastorale che stiamo portando avanti, anche grazie ai sinti e rom che ci accolgono e sostengono con la loro fiduciosa amicizia.

Ti auguriamo ogni bene e mentre ti chiediamo la benedizione del Signore, sappi che preghiamo per te, insieme a tanti sinti e rom che ti ammirano e ti guardano con amicizia,

suor Carla e suor Rita Viberti (campo Rom Torino), p. Luciano Meli (Lucca), don Piero Gabella (Brescia), don Agostino Rota Martir (campo Rom Pisa), Marcello Palagi e Franca Felici (Carrara – Avenza)

*Immagine di Nestor Galina, tratta dal sito Flickr, immagine originale e licenza. La foto è stata ritagliata. Le utilizzazioni in difformità dalla licenza

gli immigrati ripopolano e ringiovaniscono l’Italia

Italia senza figli

(se non fosse per gli immigrati)

Chierici

 

di Maurizio Chierici
in “il Fatto Quotidiano” del 23 febbraio 2016

Quasi una favola quando nasce un bambino. Ottant’anni fa, Mussolini ammoniva le donne senza figli: se le bare supereranno le culle prenderò provvedimenti dragoniani. Ottant’anni dopo, famiglie cambiate, bambini sempre meno. Meno della metà dei piccoli che aprivano gli occhi nei favolosi anni Sessanta quando i “profughi economici” (oggi maledetti dai pifferai della politica pop) non arrivavano a 63mila. Ormai sono sei milioni. Per fortuna. Senza le loro facce nere, gialle, marron saremmo in ginocchio.

Non solo perché aiutano le promesse di Renzi con 7 miliardi di tasse, ma soprattutto per aver addolcito le abitudini delle generazioni on line allergiche ai lavori fangosi: contadini che sudano, operai Cinq’ ghej, cinque soldi come i migranti lombardi nella Svizzera del dopoguerra. Muratori su e giù da impalcature traballanti, mani nelle immondizie, schiavi nella raccolta di arance e pomodori: 12 ore sotto l’occhio dei caporali pagando oro il piatto delle brodaglie e le baracche del sonno. Anni così che ogni giorno dimentichiamo.

foto premio migranti E dimentichiamo i turbanti dei sikh che alle tre del mattino mungono nelle stalle il Parmigiano Reggiano, Grana Padano e ogni formaggio della pianura del benessere perché bergamini lombardo-emiliani non se ne trovano più. Qualcuno va meglio nel nord delle fabbriche. Migliaia di artigiani e piccoli imprenditori si affacciano con l’ottimismo di chi vuol cambiare ma si allarga ogni anno la folla di chi scappa dalle guerre o dalla fame: piega la testa e tira la vita. Non tutti sono angeli: chi ruba, chi spaccia, chi beve e poi orrori di sangue che la nostra innocenza non può sopportare. Siamo perbene: mai femminicidi o esaltati che fanno a pezzi donne troppo sole. Mai clan oscuri, niente mafie, nessuna corruzione. Per carità, gli italiani non imbrogliano, quindi non sopportano la barbarie dei profughi selvaggi. “Nigeriano strangola la fidanzata; marocchino strappa la borsa alla vecchia signora”: gli appositi giornali informano così. Quarant’anni fa, Basaglia approvava ogni deformazione a patto che i titoloni annunciassero “sano di mente stermina la famiglia”. IN PIÙ GLI EXTRA fanno figli. Troppi. Si ammalano e pretendono due stanze per fare casa: “Paghiamo sempre noi”. Bisogna riconoscere che senza i bambini arcobaleno, le scuole dei paesi abbandonati nei mille chilometri dell’Appennino sarebbero scatole vuote, maestri disoccupati nel silenzio delle comunità fantasma. Perché le nostre ragazze non fanno figli o li cercano a 40 anni? Come mai i bambini non rientrano nei programmi degli gnomi che controllano mercati, finanza, segreti delle banche? Li considerano clienti da coccolare ma fino a una certa età. Intanto i giovani studiano o lavorano inseguendo la stabilità necessaria a mettere su famiglia. Disoccupate e disoccupati bussano a porte che non si aprono. E fanno i conti. Un bambino costa più di un peccato mortale: asili nido talmente cari da scoraggiare la voglia di tenerezze mentre dalla Francia ai paradisi del nord, lo Stato “rimborsa” per 3 anni madre e padre e allunga la protezione contante fino alla maggiore età. C’è da dire che la famiglia è cambiata: meno matrimoni (civili e religiosi) mentre si allunga l’anticamera delle convivenze nell’attesa di chissà quale domani. Meno male che i profughi da tante cose continuano a fare bambini neri, gialli, marron. Non è semplice mescolarli a scuola o nel lavoro ai piccoli bianchi dell’Italia che invecchia. Loro non sanno niente di noi; noi niente di loro. La politica guarda e tace: si arrangino da soli.

il commento al vangelo della domenica

GESU’ FU GUIDATO DALLO SPIRITO NEL DESERTO E TENTATO DAL DIAVOLO 

commento al vangelo della prima domenica di quaresima (14 febbraio 2016) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi
Lc  4,1-13

In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”».
Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”».
Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”; e anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”».
Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.

La prima domenica di Quaresima la liturgia ci presenta le Tentazioni del Deserto, secondo l’interpretazione che ne dà Luca nel suo vangelo al capitolo 4.
Leggiamo. Gesù, pieno di Spirito Santo. E’ dopo il battesimo. Su Gesù dopo il battesimo è sceso lo Spirito che ha convertito Gesù nella manifestazione visibile del perdono e dell’amore di Dio.  Si allontanò dal Giordano ed era guidato (letteralmente “condotto”) dallo Spirito nel deserto. Il deserto richiama l’esodo di Israele, quando dalla schiavitù egiziana iniziò il cammino per entrare nella terra promessa. Ora la terra promessa si è trasformata in una terra di schiavitù dalla quale Gesù deve liberare.
L’istituzione religiosa, per i propri interessi, per la propria convenienza, si è impadronita di Dio e Gesù deve liberare il popolo dalle grinfie di questi.   Per quaranta giorni. I numeri nei vangeli, e nella Bibbia, non vanno mai interpretati in maniera aritmetica, matematica, ma sempre figurata. Il numero quaranta indica una generazione. L’evangelista vuole dirci: quello che adesso ti sto presentando non riguarda un singolo periodo della vita di Gesù, ma tutta la sua esistenza.
Tentato dal diavolo. Ecco è giusto tradurre così. Ma per noi “tentazione” significa sempre qualcosa che induce a compiere il male. Nulla di tutto questo. Il diavolo, – lo vedremo – non si presenta come un rivale di Gesù, ma come un suo collaboratore. Allora più che tentazioni potremmo parlare di seduzioni del diavolo nel deserto.
Non mangiò nulla in quei giorni. Non è un digiuno. L’evangelista evita la parola digiuno, perché la fame di Gesù era una fame diversa. Più avanti Gesù dirà: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi”.
Ma quando furono terminati, ebbe fame. Ma appunto non è una fame di pane. Ecco che ora si presenta il diavolo. Chi è il diavolo? Mentre Dio è amore che si mette a servizio degli uomini, il diavolo è potere che domina le persone.
Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio”. Non è un mettere in dubbio la figliolanza divina, che era stata già affermata nel battesimo, ma significa “giacché sei il figlio di Dio usa le tue capacità a tuo proprio vantaggio”. “Di’ a questa pietra che diventi pane». Quindi usare a proprio vantaggio le proprie capacità.
Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”». E’ una citazione del libro del Deuteronomio. Vediamo che la disputa tra Gesù e il diavolo sembra proprio una disputa teologica tra degli scribi o dei rabbini. L’evangelista infatti la costruisce in questa maniera.
Il diavolo lo condusse in alto – in alto indica la condizione divina –  gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio.” E’ tremenda questa affermazione che Luca attribuisce al diavolo. Non è Dio, ma il diavolo colui che conferisce potere e ricchezza. Quindi quelli che detengono potere e ricchezza non la ricevono da Dio, ma la loro è un’attività diabolica perché la ricevono dal diavolo.
E’ una denuncia  molto seria, ed è tipico dell’evangelista Luca.
“Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Quindi lui invita ad un gesto di idolatria, ma Gesù anche questa volta, citando sempre il Deuteronomio, gli rispose: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”». E’ l’incompatibilità tra Dio e il potere, tra l’amore e il servizio. Quindi Gesù rifiuta categoricamente la proposta del diavolo, questa idolatria del potere.
Lo condusse a Gerusalemme, quindi il diavolo sembra pratico dei luoghi santi e della Bibbia. Lo pose sul punto più alto del tempio … perché lo pose lì? Perché c’era la tradizione religiosa che diceva che il messia nessuno sapeva chi era. All’improvviso, durante la festa delle capanne, si sarebbe manifestato sul punto più alto del tempio. Allora il diavolo lo invita a manifestarsi aggiungendo un segno spettacolare.
E gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio…” Notiamo che nella prima e nella terza seduzione, tentazione, il diavolo dice “giacché sei il Figlio di Dio”, per quella di mezzo, quella del potere e del denaro, non ha avuto bisogno di scomodare la condizione divina, perché è una tentazione alla quale soccombono tutti gli uomini, quella della corruzione e quella del potere, del denaro. Ma qui di nuovo “se tu sei il Figlio di Dio”, cioè “Giacché sei il Figlio di Dio”.
“Gèttati giù di qui”, cioè fai un segno spettacolare. E il diavolo sembra abbastanza esperto di sacra scrittura, perché, come Gesù gli ha controbattuto citando frasi del libro del Deuteronomio, ecco che il diavolo controbatte a Gesù citando il salmo 91. “Sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”; vediamo come il diavolo è esperto, quindi l’evangelista qui ci fa comprendere che sono le dispute che Gesù ha avuto con i rabbini, gli scribi, che sono i veri strumenti del diavolo. “E anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”». Di nuovo dal libro del Deuteronomio. Gesù asserisce la piena fiducia nell’azione del Padre senza bisogno di provocarlo per farne scaturire l’azione.
Dopo aver esaurito ogni tentazione… il verbo “tentare” comparirà poi di nuovo per l’azione dei dottori della legge. Ecco chi sono i diavoli, questi difensori della dottrina in realtà l’evangelista li denuncia come strumenti del diavolo.
 Il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato. Quale può essere questo momento fissato? Dai dati che abbiamo il momento fissato è il momento della croce, momento tremendo, drammatico, della fine di Gesù, quando saranno i capi del popolo che diranno a Gesù “Se è il Cristo si salvi”, quindi che usi le sue capacità per salvarsi.
Ma Gesù tutto quello che era, tutte le sue forze, tutte le sue energie, tutte le sue capacità non le ha mai usate per il proprio interesse, ma sempre per l’interesse degli altri. Non per la propria convenienza, ma per la convenienza degli uomini; non ha pensato alla sua vita, ma alla vita degli altri. Ecco allora la differenza che emerge tra Dio e il diavolo: Dio è amore che si mette a servizio e mette l’interesse dell’altro al primo posto, il diavolo è potere che domina e pensa soltanto alla propria convenienza.

 

 

i frati cappuccini e l’emergenza profughi

Giustizia, Pace, Integrità del Creato

I cappuccini tentano di rispondere all’emergenza profughi

“Quanti pani avete?” Il Ministro Generale intitola così la lettera circolare sull’emergenza dei migranti e rifugiati in Europa. La lettera segue l’incontro svoltosi lo scorso 15-16 ottobre a Frascati. 35 frati provenienti da 17 paesi, in particolare dall’Europa, Medio Oriente e Africa sono stati introdotti all’argomento da esperti di Caritas Internationalis, del Jesuits Refugee Services e da due sorelle della UISG, competenti in materia. Hanno ascoltato testimonianze particolarmente toccanti su esperienze già in atto nell’Ordine, specialmente nei luoghi più coinvolti come il Libano, Malta, Grecia e Italia.   Qui puoi leggere tutta la lettera 

QUANTI PANI AVETE

Lettera circolare del Ministro generale

dopo l’incontro indetto a Frascati1

sui migranti e i rifugiati in Europa

1. La domanda di Gesù

“Quanti pani avete?”2 Con questa domanda Gesù si rivolge ai suoi discepoli dopo che questi avevano manifestato lo smarrimento e l’impotenza di fronte ad una folla affamata e stanca. Erano davvero in tanti, cinquemila uomini senza contare le donne e i bambini, e ciò che si poteva recuperare erano qualche pane e pochi pesciolini.

Il nostro sguardo raggiunge con altrettanto smarrimento l’incalcolabile numero di migranti e rifugiati che tentano di entrare in Europa, dopo aver attraversato il Libano, la Turchia e altri paesi e ci rendiamo conto che la situazione è drammatica. Non è solo l’Europa ad essere coinvolta in questo flusso migratorio, pensate a quella massa di gente che, in cerca di un futuro migliore, tenta di varcare i confini tra il Messico e gli Stati Uniti, e a coloro che da vari paesi africani affrontano il mare Mediterraneo. Mentre vi scrivo, le agenzie di stampa diffondono la notizia di un naufragio al largo delle coste Turche dove sono morti sei bambini. In questo momento l’attenzione è portata soprattutto sull’Europa, ma sarebbe sbagliato pensare che si tratti di una questione solo europea.

Le persone che fuggono sono tante, tantissime, molte di più di quei cinquemila che Gesù abbracciava con il suo sguardo. Incutono paura e da più parti si erigono muri per impedire il loro cammino; c’è anche chi vorrebbe ricacciarli da dove sono venuti. Coloro che sono disposti ad accogliere si chiedono cosa fare di fronte ad un’emergenza così grande. Pare quasi di sentire la stessa domanda dei discepoli a Gesù: “Come possiamo trovare nel deserto tanti pani da sfamare una folla così grande?”

2. Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo: la compassione.

Fratelli, vi ho richiamato il brano evangelico della moltiplicazione dei pani affinché lo sguardo sugli eventi drammatici dei migranti sia illuminato dalla fede, e questo deve suscitare i sentimenti di Gesù: “Sento compassione per la folla. Ormai da tre giorni stanno con me e non hanno da mangiare. Non voglio rimandarli digiuni, perché non vengano meno lungo il cammino.” Gesù prova “compassione”, si lascia toccare dal loro stomaco vuoto, dalla loro sofferenza, a tal punto che chiama a sé i discepoli: bisogna fare qualcosa! Pensiamo a San Francesco che si lascia toccare dalla sofferenza dei lebbrosi e poi “fa misericordia” con loro.

Cari fratelli Cappuccini, in qualsiasi parte del mondo ci troviamo, non fingiamo di non vedere, di passare oltre, di erigere i muri della paura e dell’ipocrisia benpensante. La sofferenza vissuta da questa gente, la disperazione che sta scritta sui loro volti, possano davvero muoverci a compassione interpellando la nostra carità e la nostra minorità. Non cadiamo nei luoghi comuni che generano l’indifferenza, oppure fanno affiorare sulle labbra espressioni tipo: “perché non sono rimasti a casa loro?” La nostra vocazione alla sequela di Gesù Cristo, sostenuta dal carisma di Francesco d’Assisi, ci chiede di immedesimarci nel cuore compassionevole di Gesù. Lui, il Signore, ci chiederebbe oggi come allora: “Quanti pani avete?”. La domanda attualizzata oggi potrebbe essere “Quanti posti e quanti spazi inutilizzati avete? Quanti mezzi e quanto denaro potete mettere a disposizione?” La nostra risposta non sarà molto diversa da quella dei discepoli: “Abbiamo un convento vuoto e abbiamo qualche spazio inutilizzato nelle case dove abitiamo attualmente, ma che cosa è questo per un’emergenza così grande? Siamo già coinvolti in tante attività e ora arriva anche questa urgenza da affrontare!” Gesù avrebbe detto: “Fateli sedere”, “fateli entrare!” La condivisione porterà un’altra volta a compiere un miracolo!

Il nostro sguardo di fede, il nostro desiderio di fare qualcosa, spesso deve fare i conti con le normative e le leggi delle autorità dei singoli Stati. Allora potrà accadere che per un semplice difetto strutturale, per esempio, a motivo delle prese dell’energia elettrica poste troppo in basso sul muro, le autorità competenti per l’accoglienza dei migranti rifiutino l’offerta di un convento che ha tutte le qualità essenziali per accogliere. Nonostante gli imprevisti e le sorprese burocratiche, credo sia profondamente evangelico osare con insistenza a porre dei segni e usare tutte le occasioni a nostra disposizione per creare una mentalità accogliente nei confronti dei migranti e dei rifugiati.

3. L’incontro di Frascati

Tutto ciò che ho descritto fino ad ora mi ha provocato a convocare un incontro a Frascati per ragionare, condividere e ipotizzare scelte per il futuro. L’incontro si è tenuto nei giorni 15-16 ottobre u.s. e ha riunito 35 frati provenienti da 17 paesi, in particolare dall’Europa, Medio Oriente e Africa. I frati presenti sono stati introdotti all’argomento da esperti di Caritas Internationalis, del Jesuits Refugee Services e da due sorelle della UISG, competenti in materia.

Abbiamo ascoltato testimonianze particolarmente toccanti su esperienze già in atto nell’Ordine, specialmente nei luoghi più coinvolti come il Libano, Malta, Grecia e Italia. Fr. Abdallah della Custodia del Libano ha riferito che il suo Paese accoglie 1,2 milioni di rifugiati siriani, i quali costituiscono il 25% della popolazione del paese. Ciò indubbiamente pone problematiche notevoli per il Paese, sia di tipo economico come la penuria di cibo, che di tipo sociale quale la competizione per garantirsi a qualsiasi costo un posto di lavoro. I nostri frati, grazie anche ai contributi giunti dalla Curia generale, hanno iniziato ad accogliere alcune famiglie, a provvedere alla scolarizzazione dei bambini cristiani e a garantire un supporto sanitario.

Fra Gianfranco Palmisani, Ministro provinciale della Provincia Romana, Italia, ci ha raccontato come la sua Provincia abbia messo a disposizione dei rifugiati più di un convento vuoto e lo abbia fatto in stretta collaborazione con le autorità competenti. Fra Gianfranco ha anche parlato del caso da lui affrontato in cui a fronte dell’offerta di un nostro immobile, l’autorità competente ha rifiutato la disponibilità a motivo della concentrazione troppo alta di rifugiati in una determinata zona.

4. Cosa possiamo fare?

L’emergenza continua e il nostro impegno non deve mancare. Gli organi di comunicazioni denunciano che non pochi Stati hanno fatto grandi proclami di accoglienza, che però, per ragioni di convenienza e di opportunità politica, tardano a concretizzarsi. È nostro compito stare vicino ai migranti e ai rifugiati; al fumo delle grandi parole e dichiarazioni occorre rispondere con la concretezza evangelica capace di sviluppare progetti di solidarietà. Inoltre usiamo le nostre energie per diffondere una mentalità che sia rispettosa della dignità di ogni persona, indipendentemente dalla religione e dalla razza. Favoriamo iniziative e luoghi, dove i residenti dei singoli Stati possono conoscere i rifugiati, per creare relazioni di amicizia e di sostegno.

Se disponiamo di strutture non usate e che sono in buono stato, non temiamo di offrirle alle autorità competenti per un servizio di accoglienza. Perché non accogliere singole persone oppure una famiglia in locali del convento non utilizzati?

Una proposta emersa durante l’incontro di Frascati è quella di costituire alcune fraternità internazionali che si pongano a servizio dei rifugiati nei luoghi di maggior passaggio come Lampedusa, la Grecia e l’Austria, solo per citarne alcuni. Questa proposta è impegnativa e molto valida ma va approfondita e elaborata ulteriormente.

Se dopo aver esaminato, pensato e operato il dovuto discernimento, giungiamo alla conclusione che non possiamo donare nulla a livello di strutture o di accoglienza concreta, ci rimane sempre ancora la possibilità di far pervenire un contributo in denaro al Fondo emergenze della Solidarietà economica del nostro Ordine o ad altre organizzazioni impegnate in questo ambito. Quando Gesù chiede ai discepoli di quanti pani dispongono, li invita a condividere non solo il superfluo, ma anche ciò che appare come strettamente necessario e indispensabile per la loro vita. Il Signore sta bussando con la stessa insistenza anche alle nostre porte! Facciamo la nostra parte e lui saprà fare la Sua. Vi chiedo di leggere, con cuore accogliente e compassionevole, il capitolo 25 del vangelo di Matteo, a partire dal versetto 31, che è il nostro vademecum per generare progetti di solidarietà; e non dimentichiamo mai, e sottolineo mai, le parole di Gesù: “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.” (Mt 25,40).

5. In cammino con la nostra povertà

Fratelli carissimi camminiamo verso il Natale del Signore, facciamolo, portando ognuno la povertà di pochi pani e di qualche pesce, ma diamoli a Lui. Lo devo fare io che servo tra voi come Ministro generale, fallo tu che sei Ministro provinciale o Custode, fallo tu caro fratello in qualunque parte del mondo ti trovi a vivere e che in questo anno santo della misericordia, predicherai e testimonierai l’Amore di Dio per ogni uomo. Facciamolo insieme fratelli, per annunciare che la nostra Fraternità iniziata da San Francesco è capace di generare segni di speranza, di accoglienza, di gratuità, la stessa che Cristo ci ha usato dando la vita per noi. Facciamolo insieme testimoniando che non solo abbiamo ricevuto la Grazia di andare là dove nessuno vuole andare, ma di accogliere anche coloro che molti rifiutano. Non pochi ci insulteranno, ci diranno che portiamo pericoli, che dobbiamo difendere l’orgoglio nazionale, che questa gente ci ruba i posti di lavoro e altro ancora. La risposta a tutto questo è scritta nel Vangelo.

Vi confesso che porto nel cuore il desiderio di leggere presto che avete risposto a questo mio appello. Chiedo che questa lettera si recapitata ad ogni frate dell’Ordine.

Vi auguro un tempo colmo di misericordia donata e ricevuta. A tutti un buon e santo Natale e che l’anno 2016 vi porti il vigore e il coraggio che nascono dalla fede!

Fraternamente.

Fra Mauro Jöhri,

Ministro generale OFMCap

Dato in Roma, l’8 dicembre 2015

Solennità dell’Immacolata Concezione di Maria,

Patrona del nostro Ordine

1 «Ero forestiero e mi avete accolto» (Mt 25,35) Prot. N. 00761/15

2 Mt 15, 34. Vedi complessivamente: Mt 14,22-33; 15,29-39; Mc 6,30-44; 8,1-10; Lc 9,10-17; Gv 6,1-15.

gender: una parola autorevole e pacata per uscire dalle demonizzazioni

ma sesso e gender non sono nemici

di Giannino Piana

Piana

in “Il Mattino”

originata dalla preoccupazione (legittima) di spiegare la pluralità di identità delle persone, non riducibile al semplice dato biologico, la questione del gender è andata soggetta a interpretazioni fuorvianti. Soprattutto all’interno di alcune correnti del femminismo americano. In alcuni casi ha infatti assunto i connotati di un’ideologia assoluta, che arriva a negare la rilevanza del sesso biologico, riducendo di fatto l’identità a un costrutto socioculturale e a realtà del tutto intercambiabile. L’allarme che queste posizioni estreme suscitano non deve tuttavia condurre a eludere le istanze vere che da essa scaturiscono, e che rinviano a una visione complessa della formazione della personalità umana, nella quale il sesso biologico, che ne costituisce la base imprescindibile, si intreccia con la presenza di altri fattori, che vanno dalle dinamiche psicologiche ed educative alle diverse forme di socializzazione, fino al contesto culturale entro il quale ha luogo il suo sviluppo

Considerata in questa ottica la questione non è nuova. Si tratta, in realtà, del rapporto tra «natura» e «cultura», che ha alle spalle una lunga tradizione filosofica, la quale ha le sue radici nel pensiero greco e che è stata ripresa, successivamente, da quello medioevale e moderno. Ma si deve riconoscere che l’attuale proposta del gender si sviluppa entro un contesto culturale diverso da quello del passato. A determinarne la nascita sono stati infatti, da un lato, lo sviluppo di una visione individualistica della vita, che insiste con forza sull’autocostruzione individuale del soggetto umano; e, dall’altro, il pensiero femminile (almeno in alcune aree della propria elaborazione), che è passato, nella fase più recente, dal teorizzare il valore delle differenze nel segno della reciprocità tra i sessi, alla loro negazione, aprendo la strada a un intreccio indefinito di possibilità espressive. Ha perciò luogo un vero e proprio salto qualitativo, che coincide con l’assegnazione del primato ai fattori ambientali – sociali e culturali – e che mette radicalmente in discussione i modelli relazionali del passato, aprendo la strada a nuove (e molteplici) forme di incontro e di reciproco riconoscimento. I risvolti antropologici e sociali di questa svolta sono senza dubbio pesanti. Ha ragione Mauro Magatti a rilevare, in un articolo apparso ieri sul Corriere della sera, le gravi implicazioni che la traduzione sul terreno legislativo di questa visione possono avere sul futuro della vita associata, accentuando le spinte individualiste e autoreferenziali e distorcendo significati originari dell’umano con il rischio di nuove forme di alienazione. Questa lettura, per quanto largamente diffusa, non è tuttavia l’unica possibile. Se infatti si abbandona una prospettiva rigidamente ideologica, che soggiace tanto alle posizioni estreme dell’ipotesi del gender quanto ad alcune posizioni allarmistiche di segno opposto – gli opposti estremismi come recita il titolo dell’intervento di Magatti – e si fa spazio a una visione più attenta alla globalità dell’umano, lo scontro risulta tutt’altro che inevitabile. Sesso e gender, lungi dal dover essere concepiti come realtà del tutto alternative, sono fattori che possono (e devono) reciprocamente integrarsi. Non si tratta di optare per l’uno o per l’altro, ma di rimetterli correttamente in circolazione tra loro. Si tratta di riconoscere l’importanza fondamentale che riveste la differenza uomo-donna, che ha anzitutto la propria radice nel sesso biologico e che costituisce l’archetipo irrinunciabile da cui ha origine l’umano, e di non esitare, nello stesso tempo, ad ammettere l’importante ruolo delle strutture sociali e della cultura nella definizione dell’identità soggettiva. I riflessi di questa concezione in campo etico sono immediatamente evidenti. La lettura del mondo umano che viene dall’acquisizione corretta degli stimoli provenienti dalla riflessione proposta dal gender obbliga a una revisione degli orientamenti tradizionali della scienza morale, prestando maggiore attenzione alla complessità delle dinamiche che presiedono alla costruzione dei comportamenti e delle scelte soggettive. La ricerca di soluzioni, che rispettino tutte le dimensioni dell’umano, è allora la via da percorrere per contribuire alla crescita di una società libera e solidale.

il mostro della guerra

Gino Strada:

“la guerra? un mostro che genera mostri. Svegliamo la ragione per partorire risoluzioni non violente”

GINO
Il sonno della ragione genera mostri”. Con questa frase si apre il post di Gino Strada che pubblica sul suo profilo Facebook l’omonimo quadro di Renato Guttuso con evidente riferimento ai fatti di Parigi. “Molti mostri sono circolati, altri stanno ancora circolando per il mondo”, scrive il fondatore di Emergency.

“Il mostro di Guttuso, generato dal sonno della ragione, brandisce un coltello e una bomba a mano. E’ più intelligente (ed umano) invocare la guerra, sapendo già che ciò “non funzionerà”, che porrà solo le basi per nuove terribili violenze, oppure riconoscere semplicemente il fatto che violenza genera violenza?”, si domanda Gino Strada, probabilmente facendo riferimento ai recenti proclami del presidente Hollande a seguito degli attentati nella capitale francese.  

mostro

 “Il sonno della ragione genera mostri” è il quadro di Renato Guttuso che ripropone con lo stesso titolo, quasi due secoli dopo, il quadro di Goya. Molti mostri sono circolati, altri stanno ancora circolando per il mondo. Il mostro di Guttuso, generato dal sonno della ragione, brandisce un coltello e una bomba a mano. E’ più intelligente (ed umano) invocare la guerra, sapendo già che ciò “non funzionerà”, che porrà solo le basi per nuove terribili violenze, oppure riconoscere semplicemente il fatto che violenza genera violenza? Forse dovremmo capire che lo “strumento” violenza è il mostro, che partorisce nuovi problemi alimentando la spirale dell’odio. Svegliamo la ragione, che ci faccia trovare strumenti nonviolenti per “la risoluzione delle controversie”. Il quadro di Guttuso è datato 2/8/1980, giorno della strage di Bologna

Non è un mistero che Strada attribuisca alla strategia di guerra la responsabilità del perpetrarsi delle violenze, anche quelle terroristiche, come ha detto anche a In Mezz’ora di Lucia Annunziata. “Forse dovremmo capire che lo “strumento” violenza è il mostro, che partorisce nuovi problemi alimentando la spirale dell’odio. Svegliamo la ragione, che ci faccia trovare strumenti nonviolenti per “la risoluzione delle controversie”. Il quadro di Guttuso è datato 2/8/1980, giorno della strage di Bologna”

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un messaggio di grande libertà

“non avrete mai il mio odio”

la lettera del marito di una vittima di Parigi

           letterauna lettera toccante, d’amore ma non di odio. A scriverla è Antoine Leiris. Nelle strage del Bataclan ha perso sua moglie o, per dirlo con le sue parole, “l’amore della sua vita”. Nonostante questo, nonostante i terroristi abbiano privato il figlio di 17 mesi di una madre, l’uomo non ha alcuna intenzione di detestare i carnefici della sua amata. Le sue parole mostrano dignità, fierezza e voglia di libertà

qui sotto la traduzione della lettera fatta da Massimo Gramellini nella sua rubrica odierna ‘buongiorno’ :

Gramellini

se ciò che chiamiamo Occidente ha un senso, questo senso palpita nelle parole con cui il signor Antoine Leiris si è rivolto su Facebook ai terroristi che al Bataclan hanno ucciso sua moglie 

 

«Venerdì sera avete rubato la vita di una persona eccezionale, l’amore della mia vita, la madre di mio figlio, eppure non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio neanche saperlo. Voi siete anime morte. Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore. Perciò non vi farò il regalo di odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete. Voi vorreste che io avessi paura, che guardassi i miei concittadini con diffidenza, che sacrificassi la mia libertà per la sicurezza. Ma la vostra è una battaglia persa.  

L’ho vista stamattina. Finalmente, dopo notti e giorni d’attesa. Era bella come quando è uscita venerdì sera, bella come quando mi innamorai perdutamente di lei più di 12 anni fa. Ovviamente sono devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma sarà di corta durata. So che lei accompagnerà i nostri giorni e che ci ritroveremo in quel paradiso di anime libere nel quale voi non entrerete mai. Siamo rimasti in due, mio figlio e io, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo. Non ho altro tempo da dedicarvi, devo andare da Melvil che si risveglia dal suo pisolino. Ha appena 17 mesi e farà merenda come ogni giorno e poi giocheremo insieme, come ogni giorno, e per tutta la sua vita questo petit garçon vi farà l’affronto di essere libero e felice. Perché no, voi non avrete mai nemmeno il suo odio».

un quasi complotto contro papa Francesco

dai petrolieri ai tradizionalisti ecco la rete internazionale che trama

contro papa Francesco

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di Marco Ansaldo
in “la Repubblica”

una costellazione internazionale contro Papa Francesco. È questo il quadro che emerge, e dai contorni sempre più precisi, mentre gli inquirenti del caso Vatileaks procedono con le loro indagini sui corvi e sui vari filoni dell’inchiesta. Un’idra a più teste. Composta da una cerchia interna al Vaticano, ma attiva pure in Italia, che riunisce pezzi di ecclesiastici di mezzo livello «capaci di prendere la forma dell’acqua » (copyright di un anonimo cardinale), strati di massoneria, ombre di funzionari e faccendieri di vario tipo. E da un vasto gruppo internazionale, fatto di chierici conservatori legati alla dottrina, di confraternite tradizionaliste, di siti agguerritissimi, e di servizi segreti di alcuni importanti Stati. Un assembramento minaccioso, unito dall’avversione per l’azione riformista di Francesco, che lo giudica come fuori controllo e pericoloso per i propri interessi

Ci sono alcune domande che la Segreteria di Stato, cioè l’organismo di governo vaticano che coadiuva il Papa e presiede alle indagini attuali, si sta ponendo. Per chi lavorava, in realtà, Francesca Chaouqui? Chi l’ha mossa nel fornire informazioni, come si sospetta, a giornalisti interessati al Vaticano? E soprattutto, a quale risultato punta chi muove i corvi, il maggiordomo di Benedetto XVI, Paolo Gabriele, e il monsignore spagnolo esperto di economia Lucio Vallejo Balda? Giù fino alle persone terminate ora sotto i riflettori, come il marito della Chaouqui, Corrado Lanino, e il funzionario di Palazzo Chigi con ottime conoscenze in Vaticano, Mario Benotti? C’è un disegno sempre più chiaro nelle diverse fasi dell’operazione anti-Bergoglio. Quello che alcuni definiscono “prove tecniche di golpe”. Ma per arrivare all’oggi occorre fare un passo indietro, e vedere come si è sviluppata l’azione dei corvi sotto Benedetto XVI. Allora, sempre con la scusa di «agire per aiutare il Papa», come aveva detto nel processo del 2012 il maggiordomo Paolo Gabriele, prefigurando le intenzioni della ventina di persone dietro di lui, uno degli obiettivi era la rimozione del Segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone, giudicato come troppo potente a discapito del Papa teologo. La successiva amarezza e la clamorosa rinuncia al Pontificato da parte di Benedetto XVI avevano rimescolato le carte, e l’arrivo di un Papa del tutto inatteso come Jorge Bergoglio aveva infine calmato l’azione dei corvi, alcuni già colpiti dalla Giustizia vaticana, altri però entrati nei meccanismi di governo della Santa Sede e forse in Italia. Da subito Francesco si è rivelato quello che nemmeno alcuni cardinali americani — fra i suoi grandi sponsor dopo le Congregazioni generali pre Conclave in cui si era distinto — avevano previsto: un riformista capace, magari facendo “lio” (cioè, casino, movimento, come rivendica lui stesso), di tentare la pulizia interna di uno Stato con non pochi gradi di incrostazione. La sua rivoluzione è passata attraverso decine di colpi di scena. Ma la mossa che in alcuni ambienti ha provocato la maggiore indignazione è stata l’Enciclica verde Laudato Si’, causa di malumori e insofferenze fra i conservatori e i petrolieri degli Stati Uniti. I gruppi di pressione hanno così ricominciato la loro azione. Prima in sordina, poi allo scoperto con i tentativi maldestri nel recente Sinodo dei vescovi: il cronometrico coming out pre-lavori del monsignor Charamsa, la lettera critica con il Papa di 13 cardinali, e il falso scoop della malattia nella testa di Bergoglio. Il salvataggio di Francesco al Sinodo si doveva alla maestria del Pontefice Emerito Benedetto, che dietro le quinte riusciva a mettere d’accordo porporati conservatori e riformisti nell’influente e decisivo Gruppo Germanicus sulla questione centrale della comunione da dare ai divorziati risposati (proposta vinta per un solo voto), e l’assemblea si chiudeva con un successo. Ma i corvi avevano cominciato a lavorare prima. Lo stesso gruppo, già sperimentato sul campo. La diffusione di documenti nei libri, per i tempi di lavorazione dei volumi, com’è ovvio era cominciata precedentemente alla convocazione del Sinodo. Gli effetti sono arrivati subito dopo.
Diverse organizzazioni influenti e vari gruppi all’interno di alcuni Paesi manovrano per far cadere Francesco. E non hanno l’intenzione di fermarsi. Ecco perché i viaggi all’estero di alcune delle persone sotto osservazione, fra Stati Uniti e Israele, America Latina ed Europa, sono al vaglio degli inquirenti: proprio per comprendere il filo rosso che a livello internazionale può chiarire il quadro di un tentativo che non è per nulla locale, ma la risultante di un’azione ampia con attori diversi. L’altro giorno, sul quotidiano Il Tempo, Luigi Bisignani, definito come “il manager del potere nascosto” e uomo sempre ben informato sugli intrighi politici, prefigurava uno scenario con “tre pontefici”. Come a dire: presto Bergoglio si dimetterà. Il quale Francesco, tuttavia, ha un’altra età rispetto al suo predecessore Benedetto, mostra un piglio più battagliero, e soprattutto gode di una cerchia di amici più solida di un Papa teologo alla fine rimasto isolato.

il commento al vangelo della domenica

“RABBUNI’ CHE IO VEDA DI NUOVO”

  commento al Vangelo della trentesima domenica del tempo ordinario (25 ottobre 2015) di p. Alberto Maggi

p. Maggi

Mc  10, 46-52

[In quel tempo], mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».
Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
Gesù ha rimproverato i suoi discepoli usando un’espressione tratta dal profeta Geremia, dove il Signore dice: “Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite”.

Stiamo trattando il vangelo di Marco e l’evangelista presenta la questione di avere orecchie e non udire con il terzo annuncio della passione. Nonostante Gesù avesse indicato chiaramente che a Gerusalemme sarebbe stato ammazzato, due discepoli, Giacomo e Giovanni, gli chiedono i posti più importanti. Quindi hanno le orecchie ma non ascoltano Gesù.
Nell’episodio che segue, siamo al capitolo 10 di Marco, dal versetto 46, viene illustrata la cecità di questi discepoli. Vediamo l’evangelista.
E giunsero a Gerico .. Gerico è la prima città conquistata da Giosuè all’ingresso della terra promessa e ora è diventata una terra di oppressione, dalla quale bisogna uscire.
Mentre partiva da Gerico … l’evangelista per indicare la partenza adopera un verbo tecnico che si adopera nel libro dell’Esodo, quindi la terra promessa si è trasformata ormai in terra di schiavitù dalla quale bisogna allontanarsi. Insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo. Ecco c’è  uno strano personaggio che viene presentato prima con il termine greco “il figlio di Timeo”, e poi con Bartimeo, che non è il nome del figlio di Timeo, ma bar-Timeo significa “il figlio di Timeo” in aramaico.
E’ strana questa doppia presentazione di un individuo il figlio di Timeo, Bartimeo. Timeo in greco significa “onore”, potremmo quindi tradurre con l’ “onorato”. Perché questo? L’evangelista vuole raffigurare attraverso questo individuo i due discepoli Giacomo e Giovanni, che non solo sono sordi, ma sono anche ciechi.
Gesù, dopo il fallimento della sua predicazione nella sinagoga di Nazareth aveva detto: “Un profeta non è disonorato se non nella sua patria”. Ebbene mentre Gesù è disonorato i suoi discepoli cercano l’onore. Allora il figlio di Timeo, Bartimeo, viene ripetuto due volte perché l’evangelista vuole confermare che sta trattando di Giacomo e Giovanni, che erano chiamati anche “i figli di Zebedeo”.
Che era cieco. Ecco la denuncia tratta dal profeta Geremia “Avete occhi e non vedete”. L’espressione sedeva lungo la strada è apparsa già al capitolo 4 al versetto 15 nella parabola del seme gettato lungo la strada, e arrivano gli uccelli, immagine del satana, del potere, che lo mangiano. Quindi incomprensione del messaggio di Gesù.
A mendicare. Sentendo che era Gesù il Nazareno … Il Nazareno significa colui che proviene dalla regione dei rivoluzionari, cominciò a gridare. Grida esattamente come il posseduto nella sinagoga: “Gesù figlio di Davide, abbi pietà di me!” Ecco il motivo della sua cecità: non vede Gesù il figlio di Dio, colui che per amore viene a dare vita al mondo, ma vede Gesù il figlio di Davide, colui che, attraverso la violenza, la morte, la distruzione, conquistò il potere, inaugurò il regno di Israele.
Ecco il motivo della cecità. I discepoli accompagnano Gesù ma non lo seguono perché hanno nella loro testa l’immagine di un messia trionfatore, appunto il figlio di Davide. Molti lo rimproveravano… sono i veri seguitori di Gesù, che vogliono liberare questi discepoli da questa mentalità, perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!” E qui addirittura scompare il nome Gesù. Figlio di Davide è colui che doveva restaurare la monarchia.
Gesù si fermò. Gesù non va verso il cielo, ma deve essere il cieco ad andare verso Gesù. Gesù si fermò e dise: “Chiamatelo!” Il verbo chiamare appare per ben tre volte, il che nel linguaggio ebraico significa “completamente”. Chiamare si chiama qualcuno che è lontano, sono questi discepoli che accompagnano Gesù ma gli sono lontani, non lo seguono.
Chiamarono il cieco, dicendogli: “Coraggio! Alzati, ti chiama!” Egli, gettando via il suo mantello .. il mantello nel linguaggio simbolico indica la persona, quindi gettare via il mantello significa rompere finalmente con questa ideologia del figlio di Davide, è la sua conversione. Balzò in piedi e venne da Gesù. Gesù non è andato dal cieco, è il cieco che deve andare da Gesù e, andando da Gesù, riacquista la vista.
Allora Gesù gli disse: “Che cosa vuoi che io faccia per te?” Per far comprendere che in questo episodio l’evangelista sta narrando di Giacomo e Giovanni, in bocca a Gesù mette le stesse parole e la stessa domanda che aveva rivolto ai due discepoli, “che cosa volete che io vi faccia”.
Questa volta “che cosa vuoi che io faccia per te”. E il cieco gli rispose… finalmente non lo chiama più figlio di Davide, ma Rabbunì, espressione che si adoperava nei confronti della divinità. “Rabbunì che io veda di nuovo!” Non era sempre stato cieco, c’è stato evidentemente un periodo nella sua vita in cui vedeva, poi ha perso la vista perché gli è stata tolta da una ideologia contraria al progetto di Dio sull’umanità.
E Gesù gli disse: “Va’, la tua fede ti ha salvato”. Gesù non ha compiuto nessuna azione nei confronti del cieco. E’ stato il cieco che ha abbandonato la sua vecchia posizione, si è convertito, ed è andato verso Gesù. E subito vide di nuovo, quindi una volta ci vedeva, e finalmente, ecco il verbo tecnico della sequela di Gesù, lo seguiva nella strada, la strada che porterà poi alla passione a Gerusalemme.

 

 

 

 

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