prima di tutto … una sua versione attuale

prima di tutto …

«Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano.

Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.

Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista.

Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare»

Martin Niemöller (1892-1984)

 

Il testo viene da un sermone del pastore luterano e teologo tedesco Martin Niemöller. Dopo un sermone antinazista, Niemöller fu arrestato su ordine di Hitler e rinchiuso nel campo di concentramento di Dachau. Riuscì a sopravvivere e passò gli anni Quaranta e Cinquanta a predicare a favore della pace e contro le discriminazioni, pronunciando più volte questo discorso diventato celebre. Non esiste una versione scritta e definitiva, per questo nel tempo il testo è stato rimaneggiato più volte cambiando le persone discriminate e il loro ordine. Una versione è inscritta nel Monumento all’Olocausto a Boston, in Massachusetts, e cita comunisti, ebrei, sindacalisti e cattolici; quella più comune in inglese parla di socialisti, sindacalisti, ebrei.

 

prima di tutto … una sua versione attuale

Prima di tutto chiusero i porti
E fui contento perché iniziarono a limitare l’arrivo di profughi e immigrati.

organizzarono un congresso mondiale delle Famiglie dove proclamare valori e divieti per una vera difesa della vita.
E fui contento perché si ribadiva l’unica e profonda scelta eterosessuale di Amore.

Poi presero una volontaria italiana
Una di quelle che spreca la propria vita in Africa.
E fui contento perché aiutarli sì a casa loro ma da nostri salotti e senza scomodarci troppo.

Poi mi indignai perché assegnavano case alle famiglie rom
E non potevo permettere che degli italiani avessero per vicini degli zingari.

Passarono a sospendere dall’insegnamento una professoressa perché non vigilava sul lavoro dei propri studenti.
E condividevo che bisogna Vigilare perché la libertà di insegnamento deve avere degli argini e confini precisi. Non significa lasciare libere le menti.

Ridicolizzarono l’Onu perché, noi sappiamo difenderci dall’invasione africana, mediorientale e islamica e perché nessuno ha diritto di decidere in casa nostra chi vogliamo, quanti e come li vogliamo.

Un giorno sentii, come persona e come chiesa, la mancanza di libertà e non potei dire nulla perché non era più possibile parlare

di Fabio Perroni

l’appello di Massimo Cacciari all’unità degli intellettuali contro la morte del pensiero critico

INTELLETTUALI DI TUTTO IL MONDO UNITEVI
appello di Massimo Cacciari 

Non ho vissuto l’età dei totalitarismi, l’età della morte del pensiero critico ma oggi più che mai posso considerare quanto sia pericoloso il sonno della ragione. Nell’età del ritorno dei Malvolio di montaliana memoria un semplice prendere le distanze non può bastare, non è più possibile una “fuga immobile” anzi può rappresentare una scelta immorale, un disimpegno colpevole. Oggi non è più tempo di tacere, è tempo di prendere una posizione perché ogni esitazione potrebbe mettere a rischio le grandi conquiste
culturali del secondo dopoguerra. La cooperazione internazionale, la democrazia, l’integrazione, la tolleranza non possono essere valori negoziabili.
Quello che maggiormente preoccupa non è il ristretto e circoscritto disegno politico di Salvini ma la constatazione dei consensi numerosi che colleziona, non è di Di Maio, che mi preoccupo e del suo serbatoio di voti “protestanti” ma la constatazione che la protesta sinistroide abbia consegnato il paese ad una destra becera e livida e che una larga fetta anche di intellettuali non si sia resa ancora conto che si è prostituita alla peggiore delle destre , non a quella progressista e europeista ma alla destra razzista e violenta di Salvini. Ad una destra incapace di cogliere i segni del tempo, incapace di progettare un mondo di uomini in grado di vivere insieme pacificamente nella consapevolezza che ogni vero progresso raggiunge la sua pienezza col contributo di molti e con l ‘inclusione di tutti ,seguendo l’insegnamento terenziano alla base della nostra cultura occidentale :”Homo sum humani nihil a me alienum puto”.
Appartengo al mondo della formazione, sto, pertanto, in trincea a contatto con una generazione vivace, intelligente, elettronica e “veloce” che “vivendo in burrasca” rischia di precipitare nel baratro dell’indifferenza o, nel peggiore delle ipotesi dell’intolleranza, dell’aggressività pericolosa e ignorante.
Questi stessi giovani ,invece, meritano di essere salvati, meritano una cultura in grado di coniugare pathos e logos, una cultura che percepisca l ‘uomo come fine e non come mezzo, che consideri l ‘”altro da sé “una risorsa importante giammai una minaccia .
Nell’età delle interconnessioni non c ‘è niente di più assurdamente anacronistico dei muri e dei silenzi colpevoli. È solo nelle DIVERSITÀ che si può cogliere il vero senso della BELLEZZA e l’essenza di un impegno costruttivo che non è mai discriminante ma sempre inclusivo, totalizzante e interdipendente.
Non è neanche questione di destra o di sinistra , di rosso o nero ma il problema è , soprattutto ,di carattere culturale. La vera emergenza è quella di costruire un argine contro ogni forma di populismo, contro la xenofobia, contro i nuovi razzismi in nome di una società civile che riparta dall’UOMO, non prima dall’uomo Italiano , né come in passato ,prima dall’uomo della Padania ma dall’UOMO in quanto umanità È necessario che in ogni campo sia politico che economico, culturale e sociale non si perda mai di vista l’uomo , la sua dignità, il suo inestimabile valore e ,al di là di ogni faglia e filo spinato ,lo si consideri il fine ultimo di ogni progetto.

INTELLETTUALI DI TUTTO IL MONDO UNITEVI

c ‘è molto da fare, a partire dalla formazione scolastica .

Se saremo uniti si costituirà una forza inarrestabile: la forza della cultura, la sola che possa costituire un argine autentico contro la deriva pericolosa del populismo e della miseri ,principalmente di quella della mente.

Boff e il problema della sessualitànella chiesa

Sessualità e celibato. Perché la Chiesa non ne vuole discutere?

sessualità e celibato

perché la Chiesa non ne vuole discutere?

 da: Adista Segni Nuovi n° 13 del 06/04/2019 

È innegabile il coraggio di papa Francesco nell’affrontare apertamente la questione della pedofilia all’interno della Chiesa. Nel vertice di febbraio, a Roma, per la Protezione dei Minori, il papa ha imposto 8 determinazioni fra le quali “pedofilia zero” e “protezione dei bambini abusati”. Affronta la piaga principale: «Il flagello del clericalismo, che è il terreno fertile per tutti questi abominii». Clericalismo qui significa centralizzazione di tutto il potere sacro nel clero, che viene giudicato al di sopra di ogni sospetto e critica. Capita che le persone del clero usino questo potere, che di per sé dovrebbe irradiare fiducia e reverenza, per abusare sessualmente di minori.

Intanto, a mio modo di vedere, l’attuale papa e i precedenti non hanno affrontato a fondo la sessualità e la legge del celibato, e per ragioni che più avanti cerco di chiarire.

Quanto alla sessualità, bisogna riconoscere che la Chiesa-grande-istituzione- piramidale ha alimentato storicamente un atteggiamento di sfiducia e di negatività rispetto a essa. È ostaggio di una visione errata, proveniente dalla tradizione platonica e agostiniana. Sant’Agostino vide l’attività sessuale come la via attraverso cui entra il peccato originale. Ogni essere umano che nasce diventa portatore di una macchia, senza colpa personale, in solidarietà con il peccato dei primi genitori. Meno sesso procreativo, meno “massa dannata” (massa condannata). La donna, essendo generatrice, introduce nel mondo il male originale. A lei è stata negata la piena umanità. Era chiamata “mas”, che in latino veniva usato anche per “uomo non completo”. Tutto l’antifemminismo e il maschilismo nella Chiesa romano-cattolica trovano qui il loro presupposto teorico.

Da qui il valore attribuito al celibato, perché, escludendo una relazione sessuale-genitale con una donna, non genera figli e figlie. Così non si trasmette il peccato originale.

In tutte le analisi e condanne apparse sulla pedofilia non si è ancora discusso il problema sottostante: la sessualità. Non è che l’essere umano abbia un sesso, è tutto sessuato, nel corpo e nell’anima. Il sesso è tanto essenziale che attraverso di esso passa la continuità della vita. Ma abbiamo a che fare con una realtà misteriosa ed estremamente complessa.

Il pensatore francese Paul Ricoeur, che ha riflettuto a lungo filosoficamente sulla teoria psicoanalitica di Freud, scrisse: «La sessualità, in fondo, rimane impermeabile alla riflessione e inaccessibile al controllo umano: talvolta questa opacità rende impossibile che essa possa essere inscritta in una etica o in una tecnica» (Paz e Terra 5/79). Vive tra la legge del giorno in cui vigono i comportamenti statuiti e la legge della notte in cui operano le pulsioni libere. Solo la legge del rispetto dell’altro sesso e l’auto-controllo permanente su questa energia vulcanica possono trasformarla in espressione di affetto e di amore e non in una ossessione.

Sappiamo quanto sia insufficiente l’educazione per l’integrazione della sessualità nella formazione dei preti nei seminari. Avviene lontano dal contatto con le donne, il che produce una certa atrofia nella costruzione dell’identità. Perché Dio ha creato l’umanità come uomo e donna (Gn 1,27)? Non innanzitutto per creare figli, ma perché non rimanessero soli e fossero compagni (Gn 2,18). L’uomo e la donna sono completi ma reciproci e si arricchiscono l’un l’altra nella differenza.

Il sesso genetico-cellulare mostra che la differenza tra uomo e donna in termini di cromosomi si riduce appena ad un cromosoma. La donna possiede due cromosomi XX e l’uomo un cromosoma X e l’altro Y. Dal che si deduce che il sesso-base è quello femminile (XX), essendo il maschile una differenziazione di esso. Non c’è dunque un sesso assoluto, ma solo uno dominante. In ogni uomo e in ogni donna esiste “un secondo sesso”. Nell’integrazione dell’animus e dell’anima, dalle dimensioni del femminile e del maschile presente in ogni persona nasce la maturità umana e sessuale.

In tale processo, il celibato non è escluso. Può essere un’opzione legittima. Ma nella Chiesa esso è imposto come pre-condizione per essere prete o religioso. Peraltro, il celibato non può nascere da una carenza di amore, ma da una sovrabbondanza di amore a Dio, che trasborda negli altri, specialmente nei più carenti di affetto.

Perché la Chiesa cattolica non abolisce la legge del celibato? Perché contraddice la sua struttura. La Chiesa è, socialmente, un’istituzione totale, autoritaria, patriarcale, maschilista e gerarchizzata. Una Chiesa che si struttura intorno al potere sacro realizza quello che Carl Gustav Jung denunciava: «Dove predomina il potere non c’è né amore né tenerezza». È quello che succede con il maschilismo e la rigidità nella Chiesa, anche se non in tutta. Per correggere questa deviazione, papa Francesco non si stanca di predicare «la tenerezza e l’incontro affettuoso». Il celibato è funzionale alla Chiesa clericale, sola e solitaria. In questo tipo di Chiesa, non aspettiamocene l’abolizione. Se il sogno di Gesù si realizzasse, nella Chiesa cambierebbe tutto.

Leonardo Boff è ecoteologo della Liberazione brasiliano

* “Silenzio”, particolare scultoreo del cimitero di Staglieno (Genova) in una foto [ritagliata] di Faustobici del 2014, tratta da wikimedia commons, licenza Creative Commons

il commento al vangelo della domenica

Gesù apre le porte delle nostre prigioni, smonta i patiboli su cui spesso trasciniamo noi stessi e gli altri

il commento di E. Ronchi al vangelo della quinta domenica di quaresima (7 aprile 2019):

In quel tempo (…) gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo.
Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». (…)
Una trappola ben congegnata: «che si schieri, il maestro, o contro Dio o contro l’uomo». Gli condussero una donna… e la posero in mezzo. Donna senza nome, che per scribi e farisei non è una persona, è il suo peccato; anzi è una cosa, che si prende, si porta, si mette di qua o di là, dove a loro va bene. Si può anche mettere a morte. Sono funzionari del sacro, diventati fondamentalisti di un Dio terribilmente sbagliato. «Maestro, secondo te, è giusto uccidere…?». Quella donna ha sbagliato, ma la sua uccisione sarebbe ben più grave del peccato che vogliono punire.
Gesù si chinò e scriveva col dito per terra…, mostrando così la strada: invita tutti a chinarsi, a tacere, a mettersi ai piedi non di un codice penale ma del mistero della persona.
«Chi di voi è senza peccato getti per primo la pietra contro di lei». Gesù butta all’aria tutto il vecchio ordinamento legale con una battuta sola, con parole definitive e così vere che nessuno può ribattere. E se ne andarono tutti.
Allora Gesù si alza, ad altezza del cuore della donna, ad altezza degli occhi, per esserle più vicino; si alza
con tutto il rispetto dovuto a un principe, e la chiama “donna”, come farà con sua madre: Nessuno ti ha condannata? Neanch’io lo faccio. Eccolo il maestro vero, che non s’impalca a giudice, che non condanna e neppure assolve; ma fa un’altra cosa: libera il futuro di quella donna, cambiandole non il passato ma l’avvenire: Va’ e d’ora in poi non peccare più: poche parole che bastano a riaprire la vita.
Il Signore sa sorprendere ancora una volta il nostro cuore fariseo: non chiede alla donna di confessare il peccato, non le chiede di espiarlo, non le domanda neppure se è pentita. È una figlia a rischio della vita, e tanto basta a Colui che è venuto a salvare. E la salvezza è sciogliere le vele (io la vela, Dio il vento): infatti non le domanda da dove viene, ma dove è diretta; non le chiede che cosa ha fatto, ma cosa farà. E si rivolge alla luce profonda di quella creatura, vi intinge la penna come uno scriba sapiente: «Scrivo con una minuscola bilancia come quella dei gioiellieri. Su un piatto depongo l’ombra, sull’altro la luce. Un grammo di luce fa da contrappeso a diversi chili d’ombra…»(Ch Bobin).
Le scrive nel cuore la parola “futuro”. Le dice: «Donna, tu sei capace di amare, tu puoi amare bene, amare molto. Questo tu farai…».
Gesù apre le porte delle nostre prigioni, smonta i patiboli su cui spesso trasciniamo noi stessi e gli altri. Lui sa bene che solo uomini e donne perdonati e amati possono disseminare attorno a sé perdono e amore. I due soli doni che non ci faranno più vittime. Che non faranno più vittime né fuori né dentro di noi.

il vangelo – lo si voglia o meno – è contro i ricchi

l’illusione dei ricchi

da Altranarrazione

Quanti Lazzaro stesi davanti alle porte delle Chiese, segnati da ferite fisiche o esistenziali, desiderosi di avere le stesse opportunità dei benestanti. Quanti ricchi che frequentano piamente il tempio e disertano gli altri luoghi in cui vive Dio, deformato e sfigurato da povero. Se fa impressione l’inarrestabile calo di presenze in chiesa non sorprendono invece le assenze sugli attuali Golgota. Infatti anche nelle crocifissioni di oggi Dio continua a rimanere terribilmente solo (o quasi). Non si può non provare pena per i ricchi. Vivono nell’illusione che il “successo” sociale di cui godono sia il segno del favore del Cielo. Purtroppo per loro Dio ha scelto la sconfitta, ciò che non luccica, la contraddizione, i rifiutati. I ricchi senza conversione conosceranno un solo momento di verità: la morte. Lì si renderanno conto che hanno rinunciato alla propria umanità e alla possibilità di infinito per contare dei sudici pezzi di carta. “Gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi”(1) è la giustizia al contrario del nostro meraviglioso Dio. Così quelli che oggi stanno fuori entreranno e quelli che credono di stare dentro usciranno o comunque aspetteranno. Così quelli piegati dalla sbarra dell’oppressione saranno sollevati, rimessi in piedi e saliranno, quelli che stanno sul piedistallo, sui pulpiti del legalismo/moralismo/rigorismo scenderanno e senza gli applausi a cui sono abituati. Così quelli calunniati, perseguitati, uccisi per i loro richiami profetici saranno ascoltati pubblicamente, quelli che hanno predicato di giorno il Vangelo e stretto accordi di notte con il potere saranno messi a tacere.

(1) Vangelo di Matteo 20,16

vangelo di Luca 16, 19-31

C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando nell’inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura. Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi. E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento. Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi».

le ferite che provoca il sistema economico che ha al centro il dio denaro

l’economia che produce ferite

le parole nette di papa Francesco

da Altranarrazione

Capitalismo finanziario

Strutture di peccato

La disuguaglianza sociale nel capitalismo finanziario non è un elemento accidentale o temporaneo ma strutturale. Dovendo garantire un extra-benessere a pochi non può tollerare forme di redistribuzione della c.d. ricchezza. È un sistema economico incompatibile con la democrazia: ne impedisce le dinamiche basilari. Dove c’è il capitalismo, al di là delle denominazioni, vige di fatto l’oligarchia. L’1% è in grado di soggiogare il 99% attraverso un uso smaliziato della forza e l’aiuto fondamentale degli intermedi: di coloro cioè che non appartengono all’1% ma sono pronti a tutto pur di raccogliere le briciole che cadono da quel tavolo. Allora li vedi sostenere le tesi della tecnocrazia europea, della finanza e dei globalizzatori dello sfruttamento. Li vedi tristemente al servizio dell’iniquità, attori non protagonisti di una squallida commedia. Il 99% può indignarsi, ne ha facoltà, ma con calma: nei luoghi, nei modi e nei tempi concessi dal potere. L’importante è che dopo lo sfogo  ritorni velocemente alla catena di montaggio.

testo di papa Francesco:

Le ferite che provoca il sistema economico che ha al centro il dio denaro, e che a volte agisce con la brutalità dei ladri della parabola [del samaritano], sono state criminalmente ignorate. Nella società globalizzata, esiste uno stile elegante di guardare dall’altro lato, che si pratica ricorrentemente: sotto le spoglie del politicamente corretto o le mode ideologiche, si guarda chi soffre senza toccarlo, lo si trasmette in diretta, addirittura si adotta un discorso in apparenza tollerante e pieno di eufemismi, ma non si fa nulla di sistematico per curare le ferite sociali e neppure per affrontare le strutture che lasciano tanti esseri umani per strada. Questo atteggiamento ipocrita, tanto diverso da quello del samaritano, manifesta l’assenza di una vera conversione e di un vero impegno con l’umanità. Si tratta di una truffa morale, che, prima o poi, viene alla luce, come un miraggio che si dilegua. I feriti stanno lì, sono una realtà. La disoccupazione è reale, la corruzione è reale, la crisi d’identità è reale, lo svuotamento delle democrazie è reale. La cancrena di un sistema non si può mascherare in eterno, perché prima o poi il fetore si sente e, quando non si può più negare, nasce dal potere stesso che ha generato quello stato di cose la manipolazione della paura, dell’insicurezza, della protesta, persino della giusta indignazione della gente, che trasferisce la responsabilità di tutti i mali a un “non prossimo”.

(Papa Francesco, Messaggio in occasione dell’incontro dei movimenti popolari a Modesto, California, 16-19 febbraio 2017)

Dio non abbandona mai


non abbandona

da Altranarrazione 

Ogni nostra lacrima contata.
Ogni nostra solitudine sofferta insieme.
Ogni nostra incomprensione accolta.
Ogni nostra sfiducia giustificata.
Ogni nostra fuga inseguita.
Ogni nostro ritorno atteso.
Ogni nostra inconsistenza accompagnata.
Ogni nostra caduta risollevata.
Dio non abbandona
Qualunque cosa accada. In qualunque luogo e condizione.
Sempre cercati. Sempre pensati, riconosciuti, sostenuti.
Sempre abbracciati.
Non abbiamo altra dignità che la sua Misericordia.
Non aspettiamo altro. Non speriamo altro.

il commento al vangelo della domenica

Il dono più prezioso dei Magi? Il loro stesso viaggio


Il dono più prezioso dei Magi? Il loro stesso viaggio
il commento di E. Ronchi al vangelo della Epifania 

Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. […]

Epifania, festa dei cercatori di Dio, dei lontani, che si sono messi in cammino dietro a un loro profeta interiore, a parole come quelle di Isaia. «Alza il capo e guarda». Due verbi bellissimi: alza, solleva gli occhi, guarda in alto e attorno, apri le finestre di casa al grande respiro del mondo. E guarda, cerca un pertugio, un angolo di cielo, una stella polare, e da lassù interpreta la vita, a partire da obiettivi alti. Il Vangelo racconta la ricerca di Dio come un viaggio, al ritmo della carovana, al passo di una piccola comunità: camminano insieme, attenti alle stelle e attenti l’uno all’altro. Fissando il cielo e insieme gli occhi di chi cammina a fianco, rallentando il passo sulla misura dell’altro, di chi fa più fatica. Poi il momento più sorprendente: il cammino dei Magi è pieno di errori: perdono la stella, trovano la grande città anziché il piccolo villaggio; chiedono del bambino a un assassino di bambini; cercano una reggia e troveranno una povera casa. Ma hanno l’infinita pazienza di ricominciare. Il nostro dramma non è cadere, ma arrenderci alle cadute. Ed ecco: videro il bambino in braccio alla madre, si prostrarono e offrirono doni. Il dono più prezioso che i Magi portano non è l’oro, è il loro stesso viaggio. Il dono impagabile sono i mesi trascorsi in ricerca, andare e ancora andare dietro ad un desiderio più forte di deserti e fatiche. Dio desidera che abbiamo desiderio di Lui. Dio ha sete della nostra sete: il nostro regalo più grande. Entrati, videro il Bambino e sua madre e lo adorarono. Adorano un bambino. Lezione misteriosa: non l’uomo della croce né il risorto glorioso, non un uomo saggio dalle parole di luce né un giovane nel pieno del vigore, semplicemente un bambino. Non solo a Natale Dio è come noi, non solo è il Dio-con-noi, ma è un Dio piccolo fra noi. E di lui non puoi avere paura, e da un bambino che ami non ce la fai ad allontanarti. Informatevi con cura del Bambino e poi fatemelo sapere perché venga anch’io ad adorarlo! Erode è l’uccisore di sogni ancora in fasce, è dentro di noi, è quel cinismo, quel disprezzo che distruggono sogni e speranze. Vorrei riscattare queste parole dalla loro profezia di morte e ripeterle all’amico, al teologo, all’artista, al poeta, allo scienziato, all’uomo della strada, a chiunque: Hai trovato il Bambino? Ti prego, cerca ancora, accuratamente, nella storia, nei libri, nel cuore delle cose, nel Vangelo e nelle persone; cerca ancora con cura, fissando gli abissi del cielo e gli abissi del cuore, e poi raccontamelo come si racconta una storia d’amore, perché venga anch’io ad adorarlo, con i miei sogni salvati da tutti gli Erodi della storia e del cuore.

macché ‘buonismo’! l’elogio dei buoni sentimenti

«Non dobbiamo aver timore di manifestare buoni sentimenti»: se lo dice un Papa, siamo nell’ordinario evangelico. Ma se lo dice un presidente della Repubblica, significa che i “buoni sentimenti” sono un argomento politico di rilevanza come minimo insolita. Perché di solidarietà, tolleranza, socialità si è spesso sentito dire, lungo i decenni, nei discorsi di fine anno dal Quirinale; ma esplicitamente di “bontà” come bene prezioso per la comunità, e non tassabile, mai si era sentito. Perché la “bontà” meriti una così solenne tutela da parte del primo cittadino del Paese, è cosa piuttosto nota. C’è una causa contingente, quasi fresca di cronaca. Nella manovra bruscamente approvata nei giorni scorsi alle Camere una manina governativa aveva introdotto aggravi fiscali a carico di Terzo Settore e non-profit. Insomma, del volontariato. Difficile determinare se quella manina fosse più gialla o più verde, ovvero se si sia trattato di uno dei tanti svarioni imputabili alla superficialità grillina o uno dei tanti sgarbi attribuibili al brutalismo salviniano. Svarione o sgarbo che fosse, la frase più breve ed esplicita di tutto il discorso di Mattarella (“vanno evitate tasse sulla bontà”) mette di fatto la parola fine alle furiose polemiche dei giorni scorsi. Un provvedimento del genere non può passare, e il governo se ne era reso conto già da prima che il presidente parlasse agli italiani — buoni e cattivi — prima del cenone di San Silvestro. Ma c’è una ragione non contingente, diciamo così “d’epoca”, a dare ancora più peso alle parole di Mattarella. “Bontà” è diventata, negli ultimi anni, una parola impronunciabile. Non che fosse, anche in passato, semplice da usare: in età adulta solo uno sciocco o un vanitoso potrebbe dire “io sono buono” senza imbarazzo. È la vita a insegnarci quanto complicata sia la nostra tessitura sentimentale e psichica. C’è una immodestia implicita, nel vantarsi virtuosi, e dunque si preferisce non farlo. Ma da un certo punto in poi (da quando, diciamo, il neologismo ” buonista”, carico di disprezzo, si è sovrapposto tout court a “buono”) la bontà ha rischiato di diventare qualcosa di molto peggio di una vanteria fuori luogo. È diventata un genere di lusso, come il caviale e i sigari cubani. Un vizio per chi non ha cose più urgenti a cui pensare, e dunque poteva ben crogiolarsi nel piacere di “sentirsi buono”. Questo pregiudizio infetto, e infettante, è lentamente dilagato. Fino allo scherno intollerabile nei confronti delle giovani volontarie in Africa “che si fanno rapire”; alle accuse di traffici speculativi, o di malapolitica, contro le Ong che soccorrono i migranti naufraghi; con una complessiva attribuzione del solidarismo a gruppi di perdigiorno e di ipocriti, di anime belle o di furbacchioni. Fino al supremo scandalo “buonista”, che sarebbe quello di accudire “gli stranieri”, per puro vezzo politico, piuttosto che prendersi cura “degli italiani”: come se Terzo Settore e non-profit non svolgessero prima di tutto (non anche; prima di tutto!) un potente, capillare servizio di assistenza e di soccorso ai poveri, ai diseredati e ai soli di casa nostra. Il presidente ci ricorda ciò che già sapevamo: che la bontà, per quanto accidentato sia il suo percorso, non solo esiste. Ma è uno dei cardini della “comunità di vita” alla quale tutti apparteniamo. La bontà “la rende migliore”, questa comunità. Così come — è implicito — la rendono peggiore “l’astio, l’insulto, l’intolleranza, che creano ostilità e timore”. E insicurezza, ha aggiunto il presidente. L’insicurezza come prodotto non del “buonismo”, così come predica la narrazione di destra al governo del Paese. Ma del suo preciso contrario: l’insicurezza come prodotto della mancanza di “buoni sentimenti”. È probabile che il presidente della Repubblica sappia che il suo è stato un discorso anticonformista: perché niente è più conformista, nell’Italia odierna, dell’astio. Mattarella è forte di una popolarità si spera non solamente istintiva, ovvero non legata solamente all’istituzione che incarna, la sola che in questo momento garantisce il bisogno di sentirsi comunità in una società profondamente divisa. Si spera, insomma, che le sue parole in difesa dei “buoni sentimenti” siano intese anche nel loro significato politico, che è profondo e che è preciso. Non come se sortissero da un film di Frank
Capra (si sa, durante le Feste…), ma dal Palazzo più importante, e meno vacillante, di questo Paese.

Il cardine della bontà

di Michele Serra
in “la Repubblica” del 2 gennaio 2019

il commento al vangelo della domenica


📖 “Non sapevate che devo stare presso il Padre mio?” 

il commento di E. Bianchi al vangelo della domenica fra l’Ottava di Natale, Santa famiglia: 

Lc 2,41-52

In quei giorni  i genitori di Gesù si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro.
Scese dunque con loro e venne a Nazareth e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.
Giuseppe e Maria erano credenti giudei fedeli e osservanti della Legge di Dio data a Mosè, dunque, in obbedienza alla Torah (cf. Dt 16,6), ogni anno facevano la salita, il pellegrinaggio alla città santa di Gerusalemme in occasione della festa di Pasqua, memoriale della liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù d’Egitto. Quando Gesù, il figlio nato a Betlemme e ormai cresciuto con loro a Nazaret, compì dodici anni, i suoi genitori lo portarono a Gerusalemme affinché diventasse, attraverso un rito che si svolgeva al tempio, bar mitzwah, “figlio del comandamento”, cioè un uomo credente responsabile della sua identità davanti al Signore e in mezzo al suo popolo. Il ragazzo forse già allora – come avviene ancora oggi tra gli ebrei – era invitato a leggere i rotoli delle sante Scritture, mostrava di saperle leggerle in ebraico come stava scritto e poi, interrogato dagli scribi, gli esperti della Legge, rispondeva, dando prova della preparazione che aveva ricevuto e dello studio in cui si era impegnato, alle domande riguardanti la volontà del Signore inscritta nella Torah.
Così fece anche Gesù. Poi Giuseppe e Maria, insieme alla loro carovana partita dalla Galilea, intraprendono il cammino del ritorno, finché alla sera, durante la sosta, si accorgono che l’adolescente Gesù non è con loro. Un figlio che si è perduto, o che comunque non è accanto ai genitori in viaggio al calare della notte, desta in loro ansia, paura, e dunque la necessità di una ricerca affannosa, innanzitutto all’interno della carovana. Ma Gesù risulta un figlio che non c’è, che desta la domanda: “Dov’è?”, domanda ben più profonda di quanto possa apparire in quella circostanza di sofferenza e di paura. Dov’è Gesù? Giuseppe e Maria decidono allora di ritornare a Gerusalemme e di cercarlo in città, come un figlio che si è perduto o che se n’è andato dalla famiglia. Per tre giorni quella ricerca continua, e tutti noi sappiamo cosa significhi non trovare più qualcuno che amiamo, non sapere dove sia, dover fare i conti con la prospettiva di una sua mancanza definitiva. Tre giorni, il tempo dell’attesa secondo la tradizione ebraica, il tempo dell’angoscia che trova un termine, perché al terzo giorno Dio si fa presente (cf. Os 6,2)… Dopo averlo cercato ovunque, ritornano infine al tempio, là dove Gesù era stato accompagnato da loro per essere annoverato tra i credenti osservanti della Legge.

Ed ecco, trovano Gesù proprio al tempio, luogo dal quale non era uscito: era rimasto a dimorare là dove dimora la Shekinah, la Presenza di Dio. Egli è seduto tra i rabbini, i dottori della Legge, gli uomini esperti e interpreti delle sante Scritture, intento ad ascoltarli e a interrogarli. Stiamo attenti a non leggere in questo episodio qualcosa di miracoloso e di straordinario, bisognosi come siamo di segni e miracoli, pur di non capire il vero messaggio: Gesù non sta facendo un’omelia che stupisce tutti, ma si fa veramente discepolo dei rabbini, in primo luogo attraverso il loro ascolto e poi interrogandoli, per comprendere meglio ciò che il Signore dice a chi lo ascolta. Dovremmo dunque dire che questa pagina evangelica ci parla di “Gesù discepolo”, ragazzo credente, dotato di “un cuore che ascolta” (lev shomea‘: 1Re 3,9) e capace di porsi domande. Come Samuele cominciò a profetizzare a dodici anni (cf. 1Sam 3), come Daniele a questa età disse una parola di sapienza (cf. Dn 13,45-49), così Gesù manifesta che, anche nella sua crescita, quello che più cercava e più lo coinvolgeva era la presenza del Signore capace di “parlare” a chi si fa figlio dell’insegnamento e “servo della Parola” (cf. Lc 1,2). Ecco dov’è Gesù!

I suoi genitori sono stupefatti, sorpresi, e la madre Maria lo rimprovera: “Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo!”. Nel vangelo secondo Luca Giuseppe non parla, ma Maria lo evoca a Gesù chiamandolo “tuo padre”, perché, anche se Gesù non era stato da lui generato, era stato affidato come figlio a Giuseppe ed egli restava suo padre secondo la Legge. Gesù dunque con semplicità replica loro senza biasimarli, ma facendo una rivelazione, che si esprime con una prima domanda: “Perché mi cercavate?”. Parole che certamente hanno raggiunto il cuore di Maria e Giuseppe, i quali hanno dovuto interrogare se stessi, i loro sentimenti e la loro fede riguardo a questo Figlio dono di Dio, nato per volontà di Dio e non per loro volontà. Sì, nel rapporto tra il ragazzo Gesù e “i suoi genitori”ci sono state incomprensioni e conflitti. Come tutti i figli, anche Gesù è stato causa di ansia e sofferenza per suo padre e sua madre, i quali sono intervenuti nella sua educazione anche con rimproveri e correzioni. Ogni crescita umana e ogni impegno per “mettere al mondo un figlio”sono faticosi, e proprio perché il Figlio di Dio si è incarnato, si è fatto veramente uomo, ha dunque conosciuto una crescita e una maturazione umanissima.

Legata a questo interrogativo, ecco la seconda domanda: “Non sapevate che devo stare presso il Padre mio, nella proprietà di mio Padre?” (en toîs toû Patrós mou). Egli ha un Padre che è il suo vero Padre, da lui riconosciuto come tale: è Dio, e Gesù, ora che è stato messo al mondo ed è cresciuto, deve stare, rimanere presso il Padre, nel tempio che al suo cuore, il Santo dei santi, contiene la sua Presenza. Alla madre che gli ricorda i doveri filiali prescritti dal comandamento (cf. Es 20,12; Dt 5,16), Gesù risponde ricordandole il primo comandamento, i doveri verso Dio (cf. Es 20,3-6; Dt 5,7-10). Innanzitutto egli è Figlio di Dio, sa chi è il Padre suo che è nei cieli e a lui offre l’ascolto obbediente. È comunque importante rilevare come la prima parola di Gesù testimoniata da Luca nel suo vangelo sia una confessione di Dio suo Padre, così come l’ultima parola sarà un’invocazione rivolta sempre al Padre (cf. Lc 23,46).

Gesù deve stare presso il Padre, è una necessità per lui, ed egli tante volte nella sua vita sentirà e annuncerà ai suoi discepoli che qualcosa “è necessario, bisogna, occorre” (deî). Lungo tutta la sua esistenza Gesù obbedisce a tale “necessità”, non perché questo sia il suo destino, dal momento che egli conserva sempre una piena libertà, ma perché questa è la sua volontà e la sua missione: compiere ciò che Dio suo Padre gli chiede. Non a caso questa necessitas risuonerà martellante soprattutto a partire dall’ora della sua salita a Gerusalemme per vivere la passione, la morte in croce e ricevere da Dio la vita per sempre attraverso la resurrezione (cf. Lc 9,22; 13,33; 17,25; 22,7.37; 24,7.26.44). Ma ogni volta che Gesù ha detto: “È necessario”, chi lo ha ascoltato non ha compreso. Qui si tratta dei suoi genitori, più tardi saranno i suoi discepoli (cf. Lc 18,34)… Di fronte a questa parola (rhêma) di Gesù, Maria e Giuseppe restano senza parole, muti e senza comprenderla.

In ogni caso, per compiere anche il comandamento dell’amore verso il padre e la madre, Gesù torna con loro a Nazaret e resta loro sottomesso. Ma ormai il segno è stato dato e verrà il giorno in cui essi comprenderanno, soprattutto Maria, che “custodiva tutti questi eventi-parole nel suo cuore”, come brace sotto la cenere: infatti il fuoco della fede divamperà per lei nell’ora della croce e a Pentecoste (cf. At 2,1-12).

Questa è la festa della santa famiglia, famiglia che si vuole esemplare per le nostre famiglie. Ma allora la si comprenda bene: qui è contestato ogni legame familiare che possa relativizzare il legame con il Signore e l’obbedienza a lui. Di fatto in questa pagina, come nelle altre che mettono in evidenza il legame tra Gesù e la sua famiglia (madre e clan), vi è una forte critica alla famiglia tradizionale con i suoi codici, assolutamente contraddetti dal Vangelo. Dirà Gesù:

Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me (Mt 10,37; cf. Lc 14,26).

Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà (Mc 10,29-30; cf. Mt 19,29-30; Lc 18,29-30).

Dunque, questa festa della santa famiglia in verità ci interroga sul concetto che noi cristiani abbiamo della famiglia, concetto purtroppo più debitore verso la tradizione che verso l’annuncio fatto su di essa dal Vangelo.

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