il commento al vangelo della domenica

ECCO FACCIO UN CUORE NUOVO, PER TE
Gv 8,1-11
il commento di E. Ronchi al vangelo della quinta domenica di quaresima
Una trappola ben congegnata: ‘che si schieri, il maestro, o contro Dio o contro l’uomo’. Gli condussero una donna… e la posero in mezzo.
Donna senza nome, che per scribi e farisei non è una persona, è il suo peccato; anzi è una cosa, che si prende, si porta, si mette di qua o di là, dove a loro va bene. Si può anche mettere a morte. Sono gli integralisti che mettono Dio contro l’uomo, e la religione diventa omicida.
“Maestro, secondo te, è giusto uccidere…?” Quella donna ha sbagliato, ma la sua uccisione sarebbe ben più grave del peccato che vogliono punire.
Gesù si chinò e scriveva col dito per terra…: e ci invita, quando tutti attorno gridano, a una pausa, a tacere, a mettersi ai piedi non di un codice penale ma del mistero della persona.
“Chi di voi è senza peccato getti per primo la pietra contro di lei”.
Gesù butta all’aria tutto il vecchio ordinamento legale con una battuta sola, con parole definitive e così vere che nessuno può ribattere. E se ne andarono tutti.
Allora Gesù si alza, ad altezza del cuore della donna, ad altezza degli occhi, per esserle più vicino; si alza con tutto il rispetto dovuto a un principe, e la chiama ‘donna’, come farà con sua madre: Nessuno ti ha condannata? Neanch’io lo faccio. Eccolo il maestro vero, che non s’impalca a giudice, che non condanna e neppure assolve, fa un’altra cosa: le consegna il futuro che serve per vivere. Va’ e d’ora in poi non peccare più: ha fiducia in lei, spera in lei, vede in noi il santo prima del peccatore.
Il Signore sa sorprendere ancora una volta il nostro cuore fariseo: non chiede alla donna di confessare il peccato, non di espiarlo, neppure le domanda se è pentita. È una figlia a rischio della vita, e tanto basta a Colui che è venuto non per giudicare ma per salvare. La prima legge di Dio è che ogni suo figlio viva! Non si interessa di rimorsi, ma di futuro: infatti non le domanda da dove viene, ma dove è diretta; non le chiede conto del suo passato, ma del suo domani. E intinge la penna, come uno scriba sapiente, nella luce e non nelle ombre di quella creatura con il suo inconfondibile colpo d’ala. Il rabbi le dice: Va’, esci dal tuo passato e vai verso il tuo cuore nuovo, e porta lo stesso perdono a chiunque incontrerai.
Le scrive nel cuore la parola ‘futuro’. Le dice: ‘Donna, tu sei capace di amare ancora, tu puoi amare bene, amare molto. Questo farai…’.
Gesù apre le porte delle nostre prigioni, o prigionieri li rimette in cammino nel sole. Lui sa bene che solo uomini e donne perdonati e amati possono seminare attorno a sé perdono e amore. I due soli doni che non ci faranno più vittime.
Che non faranno più vittime, né fuori né dentro di noi.

il commento al vangelo della domenica

LUI SULLA MIA BARCA
Luca 5,1-10
il commento di E. Ronchi al vangelo della quinta domenica del tempo orinario
Tirate le barche a terra lasciarono tutto e lo seguirono.
Senza neppure chiedersi dove Gesù li avrebbe condotti. Lo seguono in piena incoscienza.
Perché il motivo di tutto è solo lui, quel Rabbi dalle parole folgoranti. Allontanati da me, aveva detto Pietro; e alla fine si allontanano ma insieme, verso un altro mare, lasciando sulla riva le barche riempite fino all’orlo dal miracolo. Sono i ‘futuri di cuore’.
Tutto è cominciato con una notte buttata, le reti vuote, la fatica inutile. E Gesù in piedi vede. Vede ‘due barche’, dice il vangelo, ma io credo che veda tutta la delusione e la tristezza del mondo sui volti dei pescatori, che in disparte lavano le reti vuote.
Il maestro parla con linguaggio universale e immagini semplicissime, non dal pinnacolo del tempio ma dalla barca di un pescatore di Cafarnao. Non da luoghi sacri, ma da un angolo umanissimo e laico, in mezzo alle attività umane, non padrone, ma ospite dello spazio umano, delle periferie, delle attese, delle delusioni.
Gesù di fronte a uomini in crisi, per un pescatore non pescare è la crisi d’identità, usa tutta la sua sapienza e delicatezza: prega Simone di staccarsi un po’ dalla riva.
Sale sulla barca di Simone e lo prega: notiamo la finezza del verbo scelto da Luca. Così il maestro sale sulla barca della mia vita e mi prega di ripartire con quel poco che ho, con quel poco che so fare, per affidarmi un nuovo mare.
Prendi il largo e getta le tue reti.
Sulla tua parola le getterò. Simone si fida e si avvia il miracolo. Una quantità enorme di pesci, una quantità di giorni pieni di pane e di luce per lui e per tutti coloro che sulla sua parola getteranno le reti.
Un prodigio. Un segno. Simone ha paura: Allontanati da me, perché sono un peccatore. ​Gesù sull’acqua del lago ha una reazione bellissima. Lui, il grande pescatore di uomini, alle parole di Simone non risponde “non sei peggio degli altri”, non giudica, non condanna, ma neppure assolve.
A lui non interessa giudicare neppure in vista di una assoluzione, a lui interessa il frutto, la pesca abbondante, la fecondità della vita e non la purezza fondamentalista. Mette oro nelle ferite.
Gesù pronuncia una parola solenne e inattesa: non temere, d’ora in avanti tu sarai… e il futuro conta più del presente, più del passato,
d’ora in avanti cercherai uomini, raccoglierai vite per la vita.
E il bene possibile domani vale più del male di ieri e di oggi.
Io non sono che un perdonato, uno che non ha preso niente, ma che ora sulla tua parola getterà le reti ancora. Sono il primo dei paurosi, l’ultimo dei coraggiosi, ma d’ora in avanti qualcosa sarò, Signore, se la tua grazia farà del mio nulla qualcosa che serva a qualcuno.

il ‘corno’ e il … giubileo

Giubileo, un corno

i Alberto Maggi
in “ilLibraio.it” del 10 gennaio 2025

Se quando ci chiedono cos’è il Giubileo rispondiamo che è un corno, abbiamo risposto giusto.
Infatti, “giubileo”, deriva da un termine ebraico (Yobel) che indica il corno (di montone) al suono
del quale s’inaugurava un tempo particolarmente santo (Lv 25,9). La motivazione che sta alla base
del Giubileo è la volontà del Signore che in mezzo al suo popolo “non vi sia alcun bisognoso” (Dt
15,4).
Per impedire che qualcuno finisse definitivamente in situazioni di povertà, si stabilì che ogni sette
anni tutti i debiti fossero cancellati (Dt 15,1-11). Inoltre, ogni quarantanove anni, fu stabilito un
cinquantesimo anno in cui non si sarebbe né seminato né raccolto, e ogni proprietà doveva ritornare
al suo proprietario originario (Lv 25,8-17). Entrambe le leggi, del settimo e del cinquantesimo anno,
si rivelarono subito inefficaci e inapplicabili. Infatti, la legge del condono dei debiti, da
provvedimento a favore dei poveri, si era ritorta contro le categorie più disagiate, poiché nessuno
prestava denaro se non aveva la certezza che gli sarebbe stato restituito entro il settimo anno. E la
legge del Giubileo ogni cinquanta anni, era talmente utopica che rimase una pia intenzione e non fu
mai realizzata. Ideato per evitare che nel popolo ci fossero bisognosi, l’applicazione del Giubileo
avrebbe ridotto alla povertà l’intero popolo. Infatti, se ogni 49° e 50° anno non si poteva né
seminare né raccogliere, la carestia era garantita, e bisognoso sarebbe diventato tutto Israele.
Nonostante questo, l’ideale del Giubileo, come anno in cui il Signore avrebbe ristabilito la giustizia,
rimase vivo nel popolo, e venne proclamato da Gesù nella sinagoga di Nazaret. Qui Gesù annunciò
“l’anno di grazia del Signore”, e affermò che il tempo nel quale ognuno avrebbe sperimentato
l’amore di Dio non sarebbe stato ogni cinquanta anni, ma che ogni giorno sarebbe stato tempo di
liberazione: “Oggi questa Scrittura si è compiuta in voi che ascoltate” (Lc 4,21). I presenti nella
sinagoga però non gradirono l’annuncio dell’attuazione di questo anno giubilare. Fintanto che il
Giubileo restava una legge utopica andava bene a tutti, ma quando Gesù ne annunciò la sua
immediata realizzazione, tutti gli si rivoltarono contro: “All’udire queste cose, tutti nella sinagoga
furono pieni di sdegno; si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del
monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio” (Lc 4,29). Gesù, venuto a
realizzare la volontà del Padre suo, non viene meno al suo proposito, e continua a proporre la realtà
del Giubileo rendendolo caratteristica visibile della comunità del regno di Dio.
Per questo, nel Padre nostro, formula con la quale la comunità si impegna ad accettare le
Beatitudini, Gesù rende quotidiano il Giubileo con la richiesta: “Condona i nostri debiti come noi li
abbiamo cancellati ai nostri debitori” (Mt 6,12). Gesù non parla di peccati, ma ha scelto il termine
debiti, che va al di là della trasgressione di precetti o comandamenti. Mentre è possibile perdonare
le colpe e restare in possesso dei propri averi, il condono dei debiti esige la rinuncia a questi.
Mentre “peccato” è un vocabolo appartenente alla sfera religiosa e si richiama a una norma
trasgredita, “debito” è un termine riguardante concretamente il campo economico e figuratamente le
relazioni interpersonali (essere in debito di qualcosa). Il debito nei confronti di Dio si deve al fatto
che l’uomo veniva considerato debitore verso il Signore per i beni della creazione. Dio non
pretendeva l’impossibile pagamento di questo debito, ma chiedeva che gli uomini si rendessero
conto di essergli debitori per avere lo stesso comportamento umano e solidale verso i loro debitori.
Il condono di questo debito infatti viene dal Padre concesso unicamente in base alla sua misericordia, e non è condizionato da alcun tipo di prestazione umana. Il condono agli altri deve essere una
conseguenza del condono del Padre.
Gesù, pertanto, scegliendo il termine “debiti” intende richiamarsi a quanto prescritto nel Libro del
Deuteronomio, dove appare il verbo “essere debitore” in riferimento alla “legge del settimo anno”:
“Alla fine di ogni sette anni celebrerete la remissione. Ecco la norma di questa remissione: ogni
creditore che detenga un pegno per un prestito fatto al suo prossimo, lascerà cadere il suo diritto:
non lo esigerà dal suo prossimo, dal suo fratello, poiché è stata proclamata la remissione per il
Signore” (Dt 151-2 LXX). Questa legislazione era stata aggirata al tempo di Gesù attraverso la
pratica del Prosbul, un certificato contenente una dichiarazione, fatta di fronte al tribunale, in virtù
della quale il debitore autorizzava il creditore a riscuotere il suo credito in qualunque tempo, anche
dopo i sette anni, prescindendo dalla legge del condono.
Gesù ha preso le distanze e rifiutato l’istituzione del Prosbul per riportarsi così alla purezza del
disegno primitivo di Dio, in aperta opposizione alla “tradizione degli antichi” (Mt 15,9) che
pretendeva di spacciare per insegnamenti divini quelli che erano soltanto “precetti di uomini” (Mt
15,9; Is 29,13), soppiantando l’originaria parola di Dio. Pertanto il condono del debito e con esso la
concessione del perdono, devono essere immediati. Ogni ritardo nella manifestazione di un amore
capace di tradursi in generosa condivisione, non fa che aumentare il debito verso il Padre originato
dall’assenza dell’amore e impoverire tutta la comunità: “Non abbiate alcun debito con nessuno, se
non quello di un amore vicendevole” (Rm 13,8). Ma l’annuncio di questo Giubileo, vera “buona
notizia” per quanti sono poveri, si trasforma in una sciagura per i ricchi, che credono di possedere il
denaro mentre in realtà ne sono posseduti. E il furore col quale i fedeli della sinagoga di Nazaret
hanno cacciato Gesù, è lo stesso che coglie quanti capiscono che la vera porta santa da varcare per il
Giubileo, è quella della banca, per alleggerire il proprio conto, e condividere il tanto che hanno con
chi non ha niente. Fintanto che il Giubileo si risolve con una pratica religiosa è bene accolto da tutti,
ma quando esige un cambiamento di vita

Neve Shalom – il villaggio della convivenza tra Israele e Palestina

 

seminare pace

di Claudio Geymonat
in “Riforma” – settimanale delle chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi – del 31 gennaio
2025

l’“Oasi della Pace”, Wahat-al-Salam in arabo, Neve Shalom in ebraico, è un esperimento pressoché unico in Israele e Palestina. Un villaggio dove si vive, si cresce, si studia insieme, ebrei, palestinesi, cristiani

«Le divisioni, i litigi, avvengono anche qui, è ovvio. La differenza sta nel fatto che noi non
smettiamo mai di parlarci e confrontarci. Non alziamo mura fra di noi e, nonostante tutto,
proseguiamo nel confronto, anche se poi ognuno magari rimane con le proprie convinzioni». E poi
ancora: «Un’altra cosa che sappiamo fare bene è non essere d’accordo. Però lavoriamo sulla
mediazione e continuiamo a vivere insieme». L’“Oasi della Pace”, Wahat-al-Salam in arabo, Neve
Shalom in ebraico, è un esperimento pressoché unico in Israele e Palestina. Un villaggio dove si
vive, si cresce, si studia insieme, ebrei, palestinesi, cristiani. Dalla nostra prospettiva a migliaia di
chilometri di distanza appare logico. Evidentemente non lo è, tanto che rappresenta praticamente un
unicum. È stato fondato negli anni ’70 da fra’ Bruno Hussar, nato ebreo, cresciuto nell’islamico
Egitto e diventato frate domenicano, che ha scelto di costruire un luogo dove fare dialogare le
persone di fedi diverse.
Oggi sono circa 300 persone a convivere su questa collina a metà strada fra Gerusalemme e Tel
Aviv, che deve il nome alle parole di Isaia (32, 18): «Il mio popolo abiterà in un territorio di pace, in
abitazioni sicure, in quieti luoghi di riposo».
Una piccola ma coraggiosa sfida sia al potere dei più forti sia alla disperazione dei più deboli, che
indica che soltanto nel riconoscimento dell’altro si possono trovare soluzioni di pace.
Nell’ambito del progetto «Fermiamo l’odio, aiutiamo i costruttori di pace» della Federazione delle
chiese evangeliche in Italia (Fcei) sono in Italia due donne che vivono nel villaggio.
Dorit Alon Shippin è nata in Israele da genitori ebrei israeliani nel 1958. Fa parte della comunità dal
1984. Insieme al marito Howard vi ha cresciuto tre figli. Shireen Najjar è stata la prima bambina
araba a nascere nella comunità.
Ha frequentato l’asilo e la scuola primaria del villaggio. Dopo aver vissuto a Gerusalemme, con il
marito Mustafa ha deciso di tornare ad abitare nell’“Oasi” «perché non volevo crescere i nostri figli
tra quotidiane violenze e soprusi da parte dell’esercito israeliano».
Vari i loro incontri pubblici in queste settimane, due in particolare organizzati dalla stessa Fcei con i
referenti italiani delle associazioni che appoggiano l’esistenza del villaggio. A Milano il 21 gennaio,
a esempio, insieme al Forum delle religioni di Milano, Acli Milanesi, Associazione italiana amici di
Neve Shalom – Wahat al-Salam e Centro studi Confronti, hanno risposto alle domande del pubblico
accorso assai numeroso. Insieme a loro sono intervenuti i pastori Alessandro Spanu, presidente
dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia, Cristina Arcidiacono e Gabriele Arosio che ha
anche moderato l’incontro.
L’Oasi non è un eremo isolato, dove il mondo non entra, ma un’idea differente di convivenza che si
esprime a partire dall’aspetto educativo, centrale per formare nuove generazioni in grado di
spezzare il ciclo di violenza. In un Paese dove, ancora, appena l’1 per cento degli studenti dei due
popoli condivide il medesimo percorso scolastico, sono presenti scuole di vario grado, dove studenti
ebrei e musulmani frequentano le stesse classi, giungendovi anche da paesi vicini. Le lezioni
vengono condotte da due insegnanti, tutto si svolge nelle proprie lingue di riferimento, e si impara
soprattutto a crescere insieme fin da giovanissimi.
Come ha ricordato lo storico Gadi Luzzatto Voghera in chiusura dell’incontro milanese, «la
dinamica dell’educazione è il grande esempio di Neve Shalom – Wahat-al-Salam. Sentire la
narrazione, studiare la narrazione della storia dell’altro. Studiare la Nakba, da parte ebraica, e
studiare la Shoah, da parte araba palestinese, è – credo – il modo più significativo per riuscire ad
attivare delle dinamiche di dialogo che siano permanenti. E l’educazione è l’unico mezzo che ci
permette di guardare con fiducia al futuro, al di là di qualsiasi retorica».
«Una sera – ricorda Dorit Alon Shippin – ero seduta proprio a casa dei genitori di Shireen e ho
sentito per la prima volta la narrativa araba sulla nascita dello Stato di Israele. Fu uno shock
assoluto, non c’era Internet, noi avevamo ricevuto sempre e solo una narrazione soltanto, di parte.
Sono passati 40 anni, oggi ci sono molte organizzazioni rispetto ad allora che lavorano per la
mediazione dei conflitti e la costruzione della Pace, eppure la situazione è peggiorata».
«Dopo il 7 ottobre – raccontano le due donne – grazie al dialogo ci siamo accorti che le notizie che
noi riceviamo sono ancora una volta profondamente differenti. Gli ebrei leggono e ascoltano i
propri mezzi di comunicazione che forniscono una narrazione, e gli arabi fanno lo stesso con i loro.
I media delle due parti raccontano la loro verità. Come fare a capire quale sia la vera situazione?
Continuando a parlare, a informarsi fino alla sfinimento».
Il villaggio ospita anche una “Scuola per la pace” aperta al mondo: un luogo dove i giovani ebrei e
arabi imparano a cogliere la complessità del conflitto in corso e avviano percorsi di comprensione
reciproca. A tutt’oggi più di 25.000 giovani, tra i 15 e i 18 anni, hanno partecipato ai corsi. Nel
villaggio fra’ Bruno ha inoltre fortemente voluto un edificio che poi ha preso il nome di “Casa del
silenzio”, il luogo dell’incontro fra religioni, senza spigoli, aperta per le preghiere e le funzioni dei
fedeli: cristiani, ebrei, musulmani, di qualunque religione.
«Come diceva mio padre, conclude Shireen Najjar, vivere a Wahat-al-Salam – Neve Shalom è come
stare in una coppia: quando le cose vanno bene, è facile stare insieme, ma la vera prova si ha
durante le difficoltà. Dal 7 ottobre in poi, la nostra comunità sta affrontando un momento
estremamente difficile. Questo è il nostro esame come comunità. Ma nessuno se n’è andato».
Convivenza, riconciliazione, parole chiave con il proposito di rispettare tutte le differenze facendo
incontrare le diversità perché si conoscano e si diano valore reciprocamente, per non aver più paura
l’uno dell’altro: per seminare appunto l’idea della pace.

il commento al vangelo della domenica

FESSURA SULL’INFINITO

presentazione di Gesù al tempio 

il commento di E. Ronchi al vangelo della quarta domenica del tempo ordinario

Lc 2,22-40

Maria e Giuseppe portarono il Bambino al tempio, per presentarlo al Signore. Una giovane coppia col suo primo bambino porta la povera offerta dei poveri, due tortore, ma anche il più prezioso dono del mondo: un bambino.

Sulla soglia, due anziani in attesa, Simeone e Anna: “Che attendevano”, dice Luca, cioè che avevano speranza. Perché le cose più importanti del mondo non vanno cercate, vanno attese (S. Weil). Quando il discepolo è pronto, il maestro arriva.

Non sono le gerarchie religiose ad accogliere il bambino, ma due laici innamorati di Dio, occhi velati dalla vecchiaia ma ancora accesi dal desiderio, il passato che tiene fra le braccia il futuro del mondo.

Perché Gesù non appartiene all’istituzione, non è dei preti ma dell’umanità. È Dio che si incarna nelle creature e tracima dovunque, nella vita che finisce e in quella che fiorisce. È nostro, di tutti gli uomini e di tutte le donne. Appartiene agli assetati, ai sognatori, come Simeone; a quelli che sanno vedere oltre, come Anna; a quelli capaci di incantarsi davanti a un neonato. Dio lo incontri attraverso la tua umanità.

Lo Spirito aveva rivelato a Simeone che “non avrebbe visto la morte senza aver prima veduto il Messia”. Sono parole che la Bibbia conserva perché le stampiamo nel cuore: anch’io, come Simeone, non morirò senza aver visto il Signore. Il viaggio non finirà nel nulla, ma in un abbraccio.

“Simeone aspettava la consolazione di Israele”. Lui sapeva aspettare, come fa chi ha speranza. Se attendi, gli occhi si fanno attenti, penetranti, vigili. E vedono: “ho visto la luce, da te preparata per tutti”!

Ma quale luce emana da questo piccolo figlio della terra, un neonato che sa solo piangere e succhiare il latte? Il sapiente d’Israele ha colto l’essenziale: la luce di Dio è Gesù, è carne illuminata, storia fecondata, innesto del cielo nella terra.

La salvezza non è un’opera particolare, un fatto preciso, ma è Dio che è venuto, si è perso nel mondo, è naufragato negli amori, si è impigliato nei sorrisi e nelle croci dello sterminato accampamento umano, si è nutrito anche lui dei nostri nutrimenti umani. E non se ne andrà più.

“Egli è qui per la risurrezione”: per lui nessuno è perduto, nessuno finito per sempre, è possibile ricominciare da capo e ripartire ad ogni alba. È qui come una mano che ti prende per mano e ti tira su, sussurrando: “talità kum”, bambina alzati! Sorgi, rivivi, risplendi, riprendi la danza della vita.

“Tornarono quindi alla loro casa. E il Bambino cresceva e la grazia di Dio era su di lui”. Tornarono alla santità, alla profezia e al magistero della famiglia, che vengono prima di quello del tempio; alla casa dove arde in appartata fiamma la vita; alla famiglia che è santa perché l’amore vi celebra la sua festa, e ne fa la più viva fessura sull’infinito.

non ogni critica a Israele è antisemitismo

antisionismo e antisemitismo

di Mauro Boarelli
in “Doppiozero” del 27 gennaio 2025

un quadro  interpretativo semplificato e polarizzato che classifica in modo perentorio chiunque assuma una
posizione critica nei confronti della condotta di Israele come ostile all’esistenza stessa di quello
stato o come antisemita

Il conflitto tra Israele e Palestina ha intensificato il controllo sul discorso
pubblico. Istituzioni politiche e accademiche e organi di informazione – con poche eccezioni
(particolarmente rare nel panorama italiano) – hanno partecipato all’imposizione di un quadro
interpretativo semplificato e polarizzato che classifica in modo perentorio chiunque assuma una
posizione critica nei confronti della condotta di Israele come ostile all’esistenza stessa di quello
stato o come antisemita. Ogni possibilità di dibattito è preclusa: con un “antisemita” (non importa se
reale o immaginario) non si discute.
Con il suo libro Antisemita. Una parola in ostaggio (Bompiani, 2025), Valentina Pisanty rifiuta le
regole di questa rappresentazione e ne indaga le origini e il funzionamento, concentrandosi in
particolare sul “sequestro” della parola antisemita e sullo slittamento da un preciso significato
storico a un uso politico strumentale.
Il punto cruciale è individuato nella fusione tra il concetto di antisionismo e quello di antisemitismo,
praticata diffusamente con irresponsabile leggerezza. Questo processo di equiparazione necessita
della negazione della storicità di entrambi i termini. Solo questa rimozione, infatti, può permettere
di ridurre a sinonimi due termini che – in realtà – non sono affatto sovrapponibili, e di nascondere le
stratificazioni di significato che ciascuno di essi custodisce. Se è fondata la preoccupazione che
pezzi del tradizionale repertorio dell’antisemitismo possano oggi ricombinarsi dentro una cornice
antisionista favorendo rigurgiti antisemiti, è altrettanto evidente che l’equiparazione tra i due
concetti rafforza questa deriva, mentre una accurata distinzione la priverebbe della capacità di
espandersi in modo incontrollato.
Pisanty pone l’attenzione sul rischio che il processo di de-storicizzazione possa rinvigorire il
discorso razzista:
“Negare la storicità dell’antisemitismo significa farsi catturare dalla narrazione razzista. Gli
antisemiti essenzializzano gli ebrei riconducendoli a uno stereotipo che ai loro occhi è scolpito
nell’eternità. Per reazione molti ebrei essenzializzano gli antisemiti, replicandone l’operazione a
valori invertiti, e ricostruiscono la propria identità di gruppo sul mito di uno scontro senza tempo”.
(pp. 36-37)
Questa osservazione – un’osservazione scomoda, che tocca nervi scoperti – evidenzia le
responsabilità di tutti coloro che, a qualsiasi livello, maneggiano senza cura – per ignoranza o,
viceversa, per intenzionale quanto miope scelta strategica – concetti che possono trasformarsi in
armi pericolose. Collocati al di fuori del tempo, cioè al di fuori della storia, risultano inservibili per
la comprensione di ciò che accade, ma possono essere agevolmente utilizzati per manipolare
l’opinione pubblica.
Non è certo una novità che la contesa intorno all’interpretazione storica avvenga anche sul controllo
delle definizioni. È agli inizi degli anni duemila che prende corpo l’idea di mettere a punto una
definizione prescrittiva di antisemitismo. Pisanty ricostruisce in modo dettagliato il lungo processo
da cui ha avuto origine la Definizione operativa di antisemitismo elaborata nel 2016
dall’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), che da allora si è imposta – o pretende
di imporsi – come riferimento obbligato. Se la definizione proposta è piuttosto vaga, decisamente
ambigui sono alcuni degli esempi che il documento indica come comportamenti antisemiti, e che
potrebbero essere invece legittimamente interpretati – a seconda del contesto in cui si manifestano –
secondo altre chiavi di lettura. Il loro ruolo – ancora una volta – è quello di orientare il senso
comune verso l’equiparazione tra antisionismo e antisemitismo.
Il tentativo di affermare un monopolio sulla definizione di antisemitismo è strettamente connesso
alla disputa intorno al significato storico e all’eredità della Shoah. In un articolo di notevole valore
pubblicato dalla rivista “Gli asini” (n. 113/2024), Stefano Levi Della Torre ha messo a fuoco con
grande lucidità la portata del conflitto tra due diverse concezioni. La prima assume l’unicità della
Shoah come elemento che ne afferma il valore universale. In questo senso, “la memoria della Shoah
vale non solo per se stessa, ma anche a focalizzare l’attenzione su ogni altra «crudeltà di massa» del
passato e del presente al fine di mobilitare le coscienze e l’azione perché fatti simili non si ripetano
né per gli Ebrei né per altri.” La seconda afferma invece che “lo sterminio degli Ebrei è un fatto
estremo, tale che ogni commistione con persecuzioni, massacri e genocidi inflitti ad altri e in altre
situazioni riduce la percezione della sua unicità e della sua portata […]”. La prima sostiene che il
crimine commesso contro gli Ebrei sia stato un crimine contro l’umanità, e quindi la sua memoria
esprime sia un monito a riconoscere che il male estremo risiede nella nostra normalità, sia uno
stimolo ad agire perché nulla di simile possa ripetersi. La seconda – adottando una prospettiva
opposta – sostiene che la Shoah abbia rappresentato un crimine dell’umanità contro gli Ebrei, e in
questo modo chiude l’interpretazione entro uno spazio dominato dal vittimismo e dalla
sacralizzazione della Shoah.
L’analisi di Pisanty è quindi focalizzata su un aspetto specifico che deriva direttamente da questo
contrasto tra modi differenti di intendere la memoria della Shoah (la stessa autrice aveva già
affrontato il tema della “sacralizzazione”: Abusi di memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la
Shoah, Bruno Mondadori, 2012). Più precisamente, l’oggetto del libro è il modo in cui una specifica
declinazione della memoria della Shoah viene trasferita da un piano culturale a un piano operativo,
nel quale assume la forma di prescrizioni e divieti. Sarebbe di grande interesse continuare l’analisi
indagando i modi in cui prescrizioni e divieti si depositano nel senso comune attraverso i meandri
dei social network e dei canali di informazione, lungo i quali gli indizi di antisemitismo vengono
diffusi senza controllo, amplificati, distorti, non di rado falsificati. Pisanty ne propone un assaggio
nelle pagine in cui ricostruisce minuziosamente la campagna orchestrata contro il leader laburista
britannico Jeremy Corbyn (a proposito della quale viene sottolineata la coincidenza con l’adozione
della Definizione operativa di antisemitismo dell’IHRA).
Si tratta, in definitiva, della pretesa di “assumere il controllo della lingua”, come l’autrice scrive
nell’introduzione. Questa pretesa, naturalmente, non è una prerogativa del governo israeliano o
degli intellettuali che, in Europa e negli Stati uniti, semplificano concetti complessi piegandoli a
obiettivi politici contingenti (magari perdendo di vista, in questo modo, l’antisemitismo vero, che
non ha mai cessato di esistere e che rischia di tornare a espandersi, mentre gli occhi sono rivolti
nella direzione sbagliata). Herbert Marcuse aveva scritto pagine illuminanti al riguardo nel suo
saggio più celebre, L’uomo a una dimensione, pubblicato nel 1964. “Il linguaggio rituale-autoritario
– scriveva – si diffonde in tutto il mondo contemporaneo, nei paesi democratici come in quelli nondemocratici”, ed è un “linguaggio chiuso [che] non dimostra e non spiega, bensì comunica
decisioni, dettati, comandi”. E ancora:
“Gli elementi di autonomia, di scoperta, di dimostrazione e critica recedono dinanzi alla
designazione, all’asserzione, all’imitazione. […] il linguaggio tende ad esprimere ed a promuovere
l’identificazione immediata della ragione col fatto, della verità con la verità stabilita […]. Nei punti
nodali dell’universo di discorso pubblico, compaiono proposizioni analitiche autovalidantisi, che
funzionano come formule magico-rituali. Ficcate con un martellamento continuo nella mente
dell’ascoltatore, esse pervengono a chiuderla nel cerchio delle condizioni prescritte dalla formula”.
Anche in questo caso il concetto di “chiusura” è centrale, e la ricorrenza fa riflettere. Chiuso è il
linguaggio evocato da Marcuse, un linguaggio privato della sua funzione cognitiva in favore di un
ruolo meramente funzionale e operativo (e “la razionalità operativa – scrive ancora Marcuse – non
sa che farsene della ragione storica”). È chiusa la memoria della Shoah nella declinazione contestata
da Levi Della Torre, piegata su se stessa a difesa della propria identità di vittima. Ed è chiusa la
definizione di antisemitismo analizzata da Pisanty, costruita con l’intento di delegittimare e tacitare
le opinioni critiche nei confronti della politica di uno stato stigmatizzandole con un epiteto associato
a un comportamento sociale universalmente riconosciuto come inaccettabile (antisemita!),
indipendentemente da una verifica sulla verità di tale affermazione.
Chiusura è quindi il tratto che accomuna politiche della memoria e del controllo del linguaggio e
caratterizza aspetti cruciali della vita politica e sociale modellata nel corso di un lungo arco
temporale. Questa metamorfosi mostra ora il suo volto autoritario. Se la ristrutturazione del
linguaggio analizzata da Pisanty ha radici nel passato, l’aggressività con cui si manifesta ai nostri
giorni rappresenta un aspetto peculiare. D’altra parte non c’è da stupirsi: chiusura invoca
necessariamente censura, e prima o poi la censura arriva, anche nella forma più subdola
dell’autocensura, indotta dalla paura di prendere posizioni che verranno sistematicamente
stigmatizzate. Il dibattito pubblico sul conflitto tra Israele e Palestina – in particolare dopo il feroce
attacco di Hamas – è stato fortemente condizionato dal binomio censura/autocensura. Pisanty
analizza il caso della Germania, ricostruendo le tappe attraverso le quali, nel corso di un ventennio,
le “politiche della memoria […] hanno assunto i tratti di una religione di stato” (p. 119),
cristallizzando il lungo processo di elaborazione del senso di colpa della nazione in una serie di
imperativi categorici cui tutti devono uniformarsi, pena l’esclusione dalla vita civile (e quanto
questa esclusione sia concreta è testimoniato dai casi di censure e licenziamenti riportati nel
capitolo).
Il modo in cui il passato viene interpretato, trasmesso e utilizzato è sempre stato oggetto di una
disputa densa di conseguenze sociali. Nelle Tesi “sul concetto di storia” Walter Benjamin afferma:
“In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo
che è sul punto di soggiogarla”. La sua preoccupazione era rivolta al rischio che le società
conformino il proprio punto di vista (e quindi anche il rapporto con la propria storia e memoria) a
quello di chi detiene il potere. Quello che sta accadendo sotto i nostri occhi somiglia molto a ciò che
Benjamin temeva. Nell’introduzione al suo libro, Valentina Pisanty sostiene che i processi di
costruzione di un linguaggio prescrittivo e autoritario relativo all’antisemitismo da lei analizzati
sono andati “di pari passo con la scalata al potere delle destre mondiali negli ultimi vent’anni” (p.
16). Benjamin ha scritto le sue riflessioni nei primi mesi del ‘40, inevitabilmente influenzato
dall’esperienza del nazismo. Un parallelismo su cui riflettere

la chiesa non scalda più il cuore e non cambia la vita – parola di papa

“la Chiesa è bloccata”

“parcheggiata dentro una religione convenzionale…”

di Andrea Filloramo 

La Chiesa è bloccata, parcheggiata dentro una religione convenzionale, esteriore, formale, che non scalda più il cuore e non cambia la vita”

Queste sono le parole chiare, semplici, lapidarie  di Papa Francesco con cui si oppone a quanti si dicono cattolici tradizionalisti, a quanti, cioè,  professano la dottrina e la prassi della Chiesa cattolica nella forma in uso prima del Concilio Vaticano II (1962-1965), deplorando gli aggiornamenti e le aperture  successive fatte  dagli ultimi Papi e auspicando o temendo che, come richiesto da più parti, ce ne siano ancora altre. 

Essi aderiscono alla dottrina cattolica come è esposta nel Catechismo di Pio X e praticano determinate devozioni pubbliche e private, che – come afferma Papa Francesco, non cambiano assolutamente la vita.  

Essi non pensano e molti di loro forse non sanno che il devozionismo, è cosa ben diversa dall’essere devoti e in effetti è – diciamolo con estrema  chiarezza  –  un frutto della crisi della fede. 

Ai vescovi conservatori statunitensi, che imputano  al Papa di aver impresso una svolta radicalmente progressista alla Chiesa cattolica, lo stesso Pontefice, nel corso di una intervista all’emittente televisiva “Cbs News, ” dice “E’ questo, un atteggiamento suicida, perché un conto è tenere in considerazione la tradizione, considerare le situazioni del passato, ma un altro è rinchiudersi in una scatola dogmatica” e ha precisato di riferirsi con l’epiteto di “conservatore” a quanti “si aggrappano a qualcosa e non vogliono vedere altro al di là di essa” 

    Sicuramente nessuno può negare che il cambiamento e l’innovazione, in ogni campo e in tutti, non sono di facile attuazione, non avvengono dall’oggi al domani, creano sempre ansia, mettono in stato di allerta, richiedono la capacità di fare scommesse audaci senza dare alcuna garanzia e la volontà di perseverare di fronte agli ostacoli, ma una certa parte della Chiesa Cattolica, quella clericale. sacerdotale, confessionale, chiamiamola pure sanfedista è fortemente incagliata in un dogmatismo astratto, che pietrifica la rivelazione, soffoca ogni istanza di novità, fa sempre arretrare e rifugiare nelle categorie della filosofia tomistica, considerata e rimasta ancora – qualunque cosa si pensi o si dica – la “philosofia perennis Ecclesiae”, cioè la filosofia imperitura della Chiesa.  

Non sono poche, quindi, le critiche, le osservazioni all’interno della stessa Chiesa, provenienti dallo stesso mondo clericale nel corso dei secoli, che – se osserviamo bene – si ripetono e sono sempre le stesse.  

Una cosa è certa: oggi non è più il tempo in cui a queste critiche, a questi giudizi e osservazioni, possa rispondere l’apologetica, che abbonda nelle omelie di molto preti, ossia il pensiero di teologi e scrittori di varie epoche, che si proponevano  di difendere la dottrina e l’autorità della Chiesa cattolica.     

Nella Chiesa il tema del rapporto tra passato e presente, rimane, come sempre è stato, uno dei più dibattuti e, probabilmente, finora irrisolti della nostra epoca.  

Interessante quanto il professore Marco Marzano osserva: “La Chiesa Cattolica trae la sua forza dalla sua formidabile continuità istituzionale, dal suo legame con un passato che essa cerca di rendere ogni giorno presente. Le fratture, le svolte, le discontinuità, gli strappi non le appartengono. Così come fondamentalmente ad essa estranee sono   l’umanesimo laico e la cultura dei diritti e delle libertà. Questa è la sua forza e questo è il suo limite. Chi si è illuso del contrario, di poter , dall’interno, trasformarla e stravolgerla o di farne, dall’esterno, una protagonista dei processi di liberazione ed emancipazione dell’umanità ha preso una solenne cantonata».  

Un semplice commento: “Se il vangelo è davvero «buona notizia», allora la fede cristiana non c’entra nulla con il pessimismo. Ciò non significa che la realtà non sia troppo spesso dura e dolorosa. Rimane il gravoso impegno e il coraggio di vedere come affrontarla”.

 

il commento al vangelo della domenica

Luca è una persona seria, uno studioso, un credente. Non vende aria, non manipola o urla.Il suo mentore e maestro san Paolo, probabilmente, che lo ha accompagnato alla fede, gli ha chiesto di fare come Marco con Pietro e di scrivere un racconto su Gesù ad uso di chi, come lui, è pagano.Solo che Luca non è come Marco, o Matteo, non ha mai visto Gesù in vita sua. Come noi.

Allora, come abbiamo sentito, si è documentato, ha ascoltato i testimoni oculari, ha verificato le informazioni. Si è dato da fare. E tanto.

Perché la fede è una cosa seria. E Luca lo sa.

Porta rispetto per i suoi lettori, per noi. Per me.

Ha investito intelligenza e tempo perché possiamo renderci conto della solidità degli insegnamenti che abbiamo ricevuto.

Nel gioco al catastrofismo che sta avvelenando tutti, anche noi cristiani, in questo tempo di smarrimento in cui tutti siamo vittime e tutti siamo diventati aggressivi, sospettosi, dubbiosi, Luca ci offre un punto di vista diverso: vai alle origini, alle sorgenti, agli inizi. Alla Parola.

Sei confuso in questo tempo rissoso e volgare che fa crollare le certezze? Sei smarrito da qualche prete che rende poco credibile il Vangelo? Sconfortato dall’incoerenza di noi cristiani? Spaventato dal possibile nuovo ordine mondiale?

Non mollare la presa, non abbandonare la barca, torna al Cristo.

Segui Luca.

Fai come Esdra. Costruisci la tua fede sulla Parola.

Depressioni sante

Gli ebrei sono tornati dall’esilio in Babilonia da quasi un secolo ma non c’è traccia della rinascita. Violenza e anarchia si susseguono nella città ridotta a macerie e frettolosamente ricostruita. Bisogna intervenire, trovare un punto d’appoggio, qualcosa di condiviso.

Esdra, mandato da Artaserse, re di Persia, ha un’intuizione geniale. Raduna il popolo per un’intera giornata e solennemente fa leggere la Torah che, ormai, giaceva dimenticata nelle sacrestie del tempio distrutto. La reazione del popolo è straordinaria: ora hanno un orizzonte, una norma da seguire, un punto di vista condiviso, una Parola che Dio ha donato ed è stata dimenticata.

E che ora vogliono nuovamente accogliere, come facciamo noi in questa domenica dedicata alla Parola, secondo la volontà e la felice intuizione di papa Francesco.

È quello che possiamo fare noi, sostenuti dallo Spirito.

No, non è più il tempo dei trionfalismi e delle azioni di forza, siamo davvero rimasti un piccolo gregge, soprattutto nelle parrocchie. Ma la forza del vangelo ci riempie il cuore di gioia e di fiducia.

Noi sappiamo dove andare. E come. E celebriamo e viviamo la speranza di cieli nuovi e terra nuova in cui avrà stabile dimora la giustizia.

Prime parole

La liturgia cuce insieme l’introduzione di Luca con la prima parola pubblica pronunciata da Gesù.

Una parola pronunciata durante il servizio in sinagoga che Gesù frequenta abitualmente.

Non la snobba, non si sente migliore. Partecipa alla messa domenicale un po’ noiosa e frequentata, ormai, solo da persone anziane. Non si ritaglia una fede a sua misura (potrebbe farlo, è Dio!), vive la quotidianità in sana obbedienza.

La fede nasce e si coltiva con una sana propensione all’ascolto orante della Parola.

Due dettagli riportati da Luca ci incuriosiscono: è lui ad aprire il rotolo del profeta Isaia. Di solito era l’inserviente a farlo. Il messaggio è chiaro: solo in Gesù possiamo aprirci all’intelligenza delle Scritture, capire come l’Antico testamento fosse una preparazione alla venuta del Messia.

Alla fine della lettura chiude il rotolo e si siede.

Chiude il rotolo: ormai l’attesa del Messia si è conclusa. E si siede, come fanno i rabbini prima di insegnare. Non era difficile fare un commento: bastava mandare a memoria una delle interpretazioni fatte da qualche autorevole studioso e che circolavano negli ambienti delle sinagoghe.

Ma Gesù non fa commenti altrui. Proclama: quanto annunciato dal profeta Isaia si realizza qui, ora.

Isaia

Sono parole intrise di speranza, quelle di Isaia. Rivolte ad un popolo scoraggiato, in esilio, sconfitto. Nell’anima, anzitutto. Come la nostra società, come la nostra Chiesa che, pure, si è messa in cammino giubilare.

E il profeta, che aiuta a leggere gli aventi con lo sguardo di Dio, vola altissimo.

Dio lo ha mandato ad incoraggiare, a proclamare buone notizie, a liberare, a ridare vista.

In un mondo in cui tutti sono scoraggiati e rabbiosi.

In cui si parla solo di cattive notizie. In cui ci si contrappone.

In cui si vive schiavi delle proprie paure e delle proprie ossessioni.

Accecati dalla rabbia, dall’invidia, dalla bramosia.

Dio libera.

È un anno di grazia quello che sta iniziando. Come ogni anno. Come ogni tempo.

Questa è la nostra vita: l’opportunità di spalancare gli occhi dell’anima e di diventare liberi.

Ma non si tratta delle parole di un grande poeta e uomo di Dio rivolte ad un popolo di sbandati.

E nemmeno le parole che Gesù attribuisce a sé, nuovo profeta, nuovo Isaia.

Sono le parole che Dio ti sta sussurrando, amico lettore.

Oggi.

Oggi

Oggi si compie la salvezza, la liberazione, la consolazione.

Oggi è il tempo di Dio.

Oggi il Signore è qui.

Oggi puoi scoprire di essere amato, a prescindere, senza condizioni, e di poter amare.

Non quando le nostre chiese erano piene e la nostra Chiesa autorevole e influente (?). Non quando, da giovane, frequentavo quel gruppo con quel giovane viceparroco strabiliante. Non quando avevo una parrocchia vivace che mi aiutava e mi seguiva.

Oggi.

Con i troppi conflitti mondiali, la crisi economica, i ricchi arroganti, le frontiere blindate, le chiese svuotate, la violenza crescente, lo scoraggiamento dilagante, le contrapposizioni politiche.

Oggi è la salvezza.

Ditelo in giro.

Dite di Dio.

il commento al vangelo della domenica

IL GIOCO DELL’ACQUA INNAMORATA

il commento i E. Ronchi al angelo ella seconda domenica del tempo ordinario

Gv 2,1-11

 

C’è festa grande, a Cana: il cortile è pieno di gente in quella notte di fiaccole accese, di canti e di balli.

Ci sono Gesù e sua madre e con loro la variopinta compagnia dei giovani seguaci saliti dai villaggi del lago.

L’intero Israele risuona del grido di morenti, schiavi, lebbrosi, e Gesù non interviene, va ad una festa, quasi giocando con dell’acqua e con del vino. Anziché asciugare lacrime, colma le coppe.   

Deve esserci qualcosa di molto importante se questa è la prima pennellata del quadro della salvezza. Il Vangelo chiama questo il “principe dei segni”: se capiamo Cana, capiamo gran parte del Vangelo.

Giovanni non parla di miracolo. Forse ha paura che la gente corra dietro ai maghi, e Gesù non lo è: i suoi sono segni, frecce che indicano una direzione, un senso ulteriore. Quel giorno Gesù scende nel pozzo profondo, là dove la vita inizia a battere il tempo seguendo il ritmo dell’amore.

A un certo punto della festa finisce il vino, simbolo biblico dell’amore. L’amore è sempre così poco, così a rischio, così raro.

Quante volte ci viene a mancare quel “non so che” di gioia, di passione, di sapore per far navigare questa fragile barca che è il nostro cuore. Mancano forse piccoli perdoni, piccole tensioni da chiarire, piccoli gesti di cura. Manca il buon vino.

Anche la relazione amorosa tra l’umanità e Dio si trascina stancamente, senza più gioia.

Cosa fare? Lo suggerisce Maria: Qualunque cosa vi dica, fatela! Sono le sue ultime parole, poi non parlerà più: Fate il suo Vangelo, tutto, e si riempiranno le anfore.

Di un vino migliore, come assicura il maestro di tavola: Tutti servono il vino buono all’inizio. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora.

A noi pare che questa sia la logica delle cose: l’entropia, la diminuzione, il decadimento progressivo, lo spegnersi del calore.

Il vangelo di Cana ci regala una visione controcorrente.

Non importa quali sono stati gli amori che hanno nutrito la tua esistenza, fecondi o sterili, stabili o lacerati, gloriosi o miseri, o forse entrambe queste cose al tempo stesso.

Quali che siano stati, un giorno Gesù se ne farà carico, anzi se ne è già fatto carico, se solo hai deposto le loro anfore di pietra davanti a Lui.

E li trasformerà in una realtà infinitamente migliore.

Con grande sorpresa mia che vedevo le cose finire e l’amore spegnersi; con grande sorpresa di tutti i commensali: Pensavamo di avere gustato il vino migliore all’inizio, pensavamo di averlo già finito, quello bevuto ieri pensavamo fosse il vino migliore.

E invece no, ancora una volta, per un’ultima volta Gesù ripeterà il miracolo di Cana, trasfigurando ogni nostro amore.

Avrà conservato il vino migliore per dopo, e per i secoli dei secoli. E questa è la speranza grande che accende ogni volta il segno di Cana, il principe dei segni!

una riforma della chiesa a partire dalla liturgia

la Chiesa va riformata con coraggio

di ENZO BIANCHI

Abbiamo seguito tutto il percorso sinodale e, quindi, anche la celebrazione a Roma in due tappe del Sinodo voluto da papa Francesco come innovativo, inizio di una vera riforma, che speriamo sia ripresa nei prossimi anni.

Perché sarà un Sinodo certamente dei vescovi della Chiesa di Dio, ma sarà anche un Sinodo che avrà come soggetto il popolo di Dio sotto la guida dei pastori. Papa Francesco ha avuto coraggio e ha mostrato il suo carisma profetico che lo pone davanti a un gregge che, in buona parte, fatica ancora a seguirlo. Questo spiega perché nell’itinerario sinodale si sono accese attese e speranze che poi il Papa stesso ha dichiarato legittime, ma ancora bisognose di riflessione, di ricerca. E, soprattutto, di maturazione nel popolo che è la Chiesa.

Occorrerà anche affrontare la novità dell’emergenza delle diverse culture presenti tra i cattolici; culture che, di fatto, determinano in modo diverso l’etica, soprattutto ispirata dalla parola di Dio e dalla grande tradizione. Sarà sufficiente la formula dell’ “armonia delle diversità”, o delle “diversità riconciliate” per confermare l’unità certamente plurale, ma unità della fede?

Dopo decenni — i decenni del post-Concilio! – in cui il magistero non osava parlare di riforma della Chiesa, e ricorreva all’espressione renovatio, “rinnovamento”, papa Francesco, fin dall’inizio del suo pontificato, ha fatto risuonare questa parola sulle sue labbra senza paura. E l’ha indicata come un’urgenza, convinto che la “riforma” sia una dinamica salutare della vita del cristiano e della vita della Chiesa per tentare di ritornare con fedeltà al Vangelo.

E noi siamo convinti che se la Chiesa non si muove con coraggio nel senso della riforma, sempre più si troverà in una aporìa (l’impossibilità di dare una risposta precisa a un problema), nella quale perderà ogni sapore come il sale della parabola evangelica raccontata da Gesù. Riforma non è rivoluzione continua, non è brama di novità a ogni costo, ma risposta ai segni che vengono dalla storia e che richiedono un modo nuovo di vivere la Chiesa, di predicare il Vangelo, di stare nel mondo.

C’è riforma quando viene affermato radicalmente il primato del Vangelo su tutto; quando si conserva il tesoro prezioso del Vangelo; quando si lasciano cadere le ricchezze non necessarie in nome della carità. Per questa convinzione, in queste pagine della rivista, vorremmo umilmente — accettando di essere incompleti e anche di commettere degli errori nel delineare le forme del futuro —, cercare di riflettere e indicare alcune possibilità di riforma, pronti ad accogliere anche le correzioni da parte dei pastori e da parte di cristiani profetici, dotati di chiaroveggenza evangelica più di noi.

E cominciamo, dunque, con la liturgia che secondo me appare la realtà più ingessata, quasi imbalsamata, sempre meno eloquente e significativa per i credenti di oggi. Purtroppo, la riforma del concilio Vaticano II ha scatenato una reazione fino a produrre un doloroso scisma, che perdura a distanza di sessant’anni. E la Chiesa, come tramortita e spaventata, si è sentita in difficoltà a continuare la riforma. È risuonata a un certo punto una formula beata: “riforma delle riforme”, ma avendo il segno di un ritorno al passato non ha certo giovato.

Regna, dunque, la paura di cambiare qualcosa nel rituale. E — va anche detto — se uno osa farlo, l’autorità interviene in modo pesante… No, la liturgia deve oggi essere “celebrata altrimenti”! Certo, il celebrante deve essere un presbitero serio, preparato liturgicamente, che non innova tanto per innovare, che non si presenta come un attore teatrale, ma che, con discernimento e nella fedeltà al testo prescritto, innova parole e segni là dove sono necessari. L’impressione che molti hanno è che oggi la liturgia interessi poco alle autorità della Chiesa: queste sono preoccupate che si segua e si osservi pedissequamente il rituale prescritto! Viene qui da domandarsi se l’assemblea non desideri una celebrazione davvero più adatta alla sua realtà.

Si ha l’impressione che all’estero siano molti i tentativi di rinnovamento della celebrazione della messa, soprattutto in Belgio e in Francia (penso a La Messe qui prend son temps, presso la chiesa di Saint Ignace, a Parigi, e alle celebrazioni di Gabriel Ringlet in Belgio), mentre in Italia si ha il timore e credo anche la pigrizia mista a una scarsa fiducia nei cambiamenti. La “messa altrimenti” non è un’altra messa, ma è la messa di sempre, nella quale trovano posto alcuni cambiamenti di parole, linguaggi e segni che dicono però sempre la stessa realtà: l’eucaristia, la cena del Signore! E allora oso per una riforma indicare alcuni punti, a cominciare da quelli che, secondo me, sono più necessari.

Innanzitutto, perché non mutare le collette “sulle offerte”, che hanno un linguaggio tipicamente medioevale e abitualmente si rivolgono a Dio in un atteggiamento e con parole che non sono quelle dei figli ma dei servi dei poteri mondani? E così per molte collette del “dopo la comunione”, il linguaggio eucologico del Messale è troppo segnato da venerabili e antiche origini, poco comprensibile per i partecipanti all’eucaristia.

Anche i prefazi possono essere formulati in modo meno dogmatico e più esistenziale. Non è un caso che nei sussidi per la Messa siano presenti prefazi che sono ricchi di messaggio e nel contempo collocano le preghiere eucaristiche nel contesto in cui l’assemblea vive.

Ma si abbia anche il coraggio di mutare alcune espressioni delle anafore, o preghiere eucaristiche: queste non sono intoccabili, non sono parola di Dio, sono state donate alla Chiesa in tempi e culture differenti. Diverse sono le espressioni che insistono in modo ossessivo sul sacrificio (nel Messale italiano addirittura: «… in sacrificio per noi» appare nelle parole dell’Istituzione, non presenti nel testo originale latino!). E veramente faticose sono le espressioni nelle quali si chiede a Dio: «Guarda con amore e riconosci nell’offerta della tua Chiesa la vittima immolata per la nostra redenzione» (cf Preghiera eucaristica III). Inoltre, non ci si rivolge a Dio come alla Maestà, dopo averlo invocato come Padre!

Ma sarebbe anche venuto il tempo di rendere la celebrazione eucaristica non più un faccia a faccia, come avviene adesso, tra presbitero presidente dell’assemblea e i fedeli partecipanti. Che senso ha che il presbitero, a differenza dei partecipanti alla messa, non sia rivolto anche lui verso l’altare, verso l’abside, come tutti? Questo faccia a faccia stanca e fa del presbitero un protagonista, non colui che guida l’assemblea.

Questi, quando entra per tutti i riti iniziali — atto penitenziale, inno del giorno, collette… — dovrebbe stare o in testa o in fondo all’assemblea, e comunque come l’assemblea rivolto verso l’abside (altare, croce), e soltanto dopo salire al seggio per ascoltare le letture. Sale all’altare e sta rivolto verso l’assemblea dall’offertorio alla comunione ma poi scende, e già la preghiera “dopo la comunione” la recita rivolto anche lui verso l’abside.

A ragione i tradizionalisti dicono versus Dominicum, “verso il Signore”. Questa struttura è stata prassi liturgica della comunità di Bose fin dal 1971, ottenendo l’accettazione della gente che vede tutti i membri del popolo di Dio che quando pregano sono rivolti verso il Signore.

Occorre un vero laboratorio che ricerchi, studi e produca testi. E che dia inizio a una riforma liturgica, senza paura. Altrimenti, presto non ci saranno più molti frequentatori della messa: anche i più vecchi, tridentini di formazione come me, ne sentono il bisogno!

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