questo papa!

Francesco papa

papa Francesco nell’occhio del ciclone osservato da angoli visuali opposti: per esempio, piace molto a ‘la Repubblica’, specie, comprensibilmente al suo fondatore e al suo direttore, non piace affatto al ‘Foglio’ di Ferrara, che pur ‘devoto’, ancorché ‘ateo’,
non riesce proprio a digerirlo

di seguito un’esemplificazione di questa polarizzazione attraverso l’articolo odierno del direttore di Repubblica, E. Mauro (che presenta ufficialmente la corrispondenza tra papa Francesco , Scalfari e la Repubblica) e un articolo comparso sul Foglio di ieri dal titolo significativo: ‘questo papa non ci piace’ a firma di A. Gnocchi e M. Palmaro che accusano addirittura il papa di considerare Cristo come “un’opzione tra le altre”, oltre che di relativismo proprio là dove Mauro vede un’autentica testimonianza evangelica come “vero atto di fede nell’uomo”

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Papa Francesco-Eugenio Scalfari: il dialogo tra chi crede e chi non crede

di Ezio Mauro
in “la Repubblica” del 10 ottobre 2013

L’interesse per l’uomo è il cuore del lungo dialogo tra Papa Francesco ed Eugenio Scalfari. Più ancora ne è la ragione, l’inquietudine. Il non credente legge l’enciclica e pone un interrogativo di fondo al nuovo pontefice: chi non ha fede sarà perdonato alla fine dei tempi? Se ricerca verità relative, non credendo nell’assoluto, ciò sarà considerato un errore o un peccato? Qual è dunque lo status del non credente per il Papa di Roma, che ruolo assegna al libero pensiero, alla sua ricerca autonoma e indipendente, e in quale misura si sente interpellato da tutto questo? La decisione di rispondere da parte di Jorge Bergoglio è già in sé una manifestazione di interesse e di attenzione senza precedenti. Non c’era mai stata una lettera di un Papa a un giornale. Scegliendo di scriverla, Francesco sceglie anche di interloquire con una platea più vasta ed anomala rispetto all’uditorio costituito dei fedeli: è come se decidesse di passare dal popolo cristiano alla pubblica opinione, un soggetto distinto, autonomo, moderno, soggetto attivo e protagonista delle democrazie occidentali. La decisione di dialogare, dunque, è un messaggio in sé, è portatrice di significato, fa il giro del mondo. Scalfari è scelto dal nuovo Papa come il rappresentante di un universo esterno alla Chiesa, ma un universo che lo interessa, che lo raggiunge, di cui si sente in qualche modo responsabile. E qui c’è la seconda sorpresa, che è il secondo messaggio. Perché il Papa sceglie la strada del dialogo, dichiara subito che intende avviare un percorso di confronto per tentativi, tappe, incontri. Qualcosa di impegnativo, fuori dai canoni, dall’ufficialità, dalla meccanica curiale. Il Papa si sente investito dalle domande, dall’interlocutore, dall’occasione. Pensa che insieme si possa andare avanti a cercare, a scambiare porzioni di verità, forse a capire. Insieme. E qui, si arriva al contenuto, che è il terzo messaggio ed è ancora una sorpresa. Leggendo la lettera, quel pomeriggio in cui è arrivata a Scalfari, ho avuto la sensazione che il Papa fosse pervaso da un fortissimo interesse spirituale ma soprattutto intellettuale per la discussione che si stava avviando, quasi spinto dall’urgenza degli argomenti da mettere in campo, guidato dal desiderio autentico di quella ricerca comune. Il centro del suo discorso, l’urgenza che lo domina, è Gesù Cristo, Dio fatto uomo e poi risorto. Ma di fronte al non credente — e quasi insieme con lui — il Papa ripete la domanda del Vangelo quando Gesù ha calmato il mare fermando i venti e la tempesta: «Chi è costui?» E la risposta di Francesco spiega da sola le ragioni del dialogo. Perché l’autorità di Gesù non vuole esercitare un potere sugli altri, ma vuole servirli, dice il Papa, e dare loro libertà e pienezza di vita. Chi sono questi altri? Sono forse i credenti soltanto? Con ogni evidenza sono gli uomini, con i loro limiti e i loro errori, la loro incompiutezza e la tensione verso la bellezza, con la loro speciale (diversa per ognuno, ma intima e autentica) concezione del bene e del male, insomma con la loro speciale “umanità”. Ecco perché il Papa dà non soltanto ascolto, ma pari dignità al non credente e alla sua ricerca di significato per il mondo che ognuno di noi attraversa durante la sua esistenza. È il riconoscimento implicito che anche senza il legame con il trascendente — che per Francesco è ovviamente centrale e domina la sua vita — l’esperienza terrena può trovare un suo senso e la sua dignità più alta, quella appunto che sta nei limiti e nell’eccezionalità dell’“umano”. Il Papa compie qui quello che a me sembra un vero atto di fede nell’uomo. Dice infatti a Scalfari, sciogliendo il nodo di fondo di questo dialogo, che la vera questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza, perché il peccato, anche per chi non ha fede, si compie quando si va contro la coscienza. La coscienza può dunque essere la guida dell’uomo e la sua misura, la risorsa e il riferimento. È un riconoscimento senza precedenti, da parte di un Papa, della possibilità di autonomia morale e spirituale del libero pensiero laico, che troppi relegano in una posizione di minorità sostenendo che senza il legame col trascendente non sarebbe in grado di garantire i presupposti che afferma. Nell’intervista che prosegue e sistematizza il confronto, il Papa si muoverà invece ancora su questa nuova strada, ricordando che non esiste un Dio cattolico, esiste Dio, e «tutta la luce sarà in tutte le anime». E aggiunge che la grazia non fa parte della coscienza ma la precede,
perché non è sapienza o ragione, ma «la quantità di luce che abbiamo nell’anima ». Tutti, compresi i non credenti. Il dialogo che raccogliamo qui, nello scambio di lettere, nel testo dell’intervista, nei commenti di intellettuali laici, uomini di Chiesa, teologi — è avviato, partendo da posizioni distinte, che restano ferme e nette. Ma dopo questa testimonianza di fiducia nell’uomo da parte di Francesco si può camminare insieme

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Questo Papa non ci piace

Le sue interviste e i suoi gesti sono un campionario di relativismo morale e religioso, l’attenzione del circuito mediatico-ecclesiale va alla persona di Bergoglio e non a Pietro. Il passato è rovesciato

Quanto sia costata l’imponente esibizione di povertà di cui Papa Francesco è stato protagonista il 4 ottobre ad Assisi non è dato sapere. Certo che, in tempi in cui va così di moda la semplificazione, viene da dire che la storica giornata abbia avuto ben poco di francescano. Una partitura ben scritta e ben interpretata, se si vuole, ma priva del quid che ha reso unico lo spirito di Francesco, il santo: la sorpresa che spiazza il mondo. Francesco, il Papa, che abbraccia i malati, che si stringe alla folla, che fa la battuta, che parla a braccio, che sale sulla Panda, che molla i cardinali a pranzo con le autorità per andare al desco dei poveri era quanto di più scontato ci si potesse attendere, ed è puntualmente avvenuto.

Naturalmente con gran concorso di stampa cattolica e paracattolica a esaltare l’umiltà del gesto tirando un sospirone di sollievo perché, questa volta, il Papa ha parlato dell’incontro con Cristo. E di quella laica a dire che, adesso sì, la chiesa si mette al passo con i tempi. Tutta roba buona per il titolista di medio calibro che vuole chiudere in fretta il giornale e domani si vedrà.

Non c’è stata neanche la sorpresa del gesto clamoroso. Ma, anche questa, sarebbe stata ben povera cosa, visto quanto Papa Bergoglio ha detto e fatto in solo mezzo anno di pontificato culminato negli ammiccamenti con Eugenio Scalfari e nell’intervista a Civiltà Cattolica.

Gli unici a trovarsi spiazzati, in questo caso, sarebbero stati i “normalisti”, quei cattolici intenti pateticamente a convincere il prossimo, e ancor più pateticamente a convincere se stessi, che nulla è cambiato. E’ tutto normale e, come al solito, è colpa dei giornali che travisano a bella posta il Papa, il quale direbbe solo in modo diverso le stesse verità insegnate dai predecessori.

Per quanto il giornalismo sia il mestiere più antico del mondo, riesce difficile dare credito a questa tesi. “Santità”, chiede per esempio Scalfari nella sua intervista, “esiste una visione del Bene unica? E chi la stabilisce?”. “Ciascuno di noi”, risponde il Papa, “ha una sua visione del Bene e anche del Male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene”. “Lei, Santità”, incalza gesuiticamente Eugenio, al quale non pare vero, “l’aveva già scritto nella lettera che mi indirizzò. La coscienza è autonoma, aveva detto, e ciascuno deve obbedire alla propria coscienza. Penso che quello sia uno dei passaggi più coraggiosi detti da un Papa”. “E qui lo ripeto”, ribadisce il Papa, al quale non pare vero neanche a lui. “Ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce. Basterebbe questo per migliorare il mondo”.

A Vaticano II già concluso e a postconcilio più che ben avviato, nel capitolo 32 della “Veritatis splendor”, Giovanni Paolo II scriveva, contestando “alcune correnti del pensiero moderno”, che “si sono attribuite alla coscienza individuale le prerogative di un’istanza suprema del giudizio morale, che decide categoricamente e infallibilmente del bene e del male (…) tanto che si è giunti a una concezione radicalmente soggettivista del giudizio morale”. Anche il “normalista” più estroso dovrebbe trovare difficile conciliare il Bergoglio 2013 con il Wojtyla 1993.

Al cospetto di tale inversione di rotta, i giornali fanno il loro onesto e scontato lavoro. Riprendono le frasi di Papa Francesco in evidente contrasto con ciò che i papi e la chiesa hanno sempre insegnato e le trasformano in titoli da prima pagina. E allora il “normalista”, che dice sempre e ovunque quello che pensa l’Osservatore Romano, tira in ballo il contesto. Le frasi estrapolate dal benedetto contesto non rispecchierebbero la mens di chi le ha pronunciate. Ma, ed è la storia della chiesa che lo insegna, certe frasi di senso compiuto hanno senso e vanno giudicate a prescindere. Se in una lunga intervista qualcuno sostiene che “Hitler è stato un benefattore dell’umanità”, difficilmente potrà cavarsela davanti al mondo invocando il contesto. Se un Papa dice in un’intervista “io credo in Dio, non in un Dio cattolico” la frittata è fatta a prescindere. Sono duemila anni che la chiesa giudica le affermazioni dottrinali isolandole dal contesto. Nel 1713, Clemente XI pubblica la costituzione “Unigenitus Dei Filius” in cui condanna 101 proposizioni del teologo Pasquier Quesnel. Nel 1864, Pio IX pubblica nel “Sillabo” un elenco di proposizioni erronee. Nel 1907, San Pio X allega alla “Pascendi dominici gregis” 65 frasi incompatibili con il cattolicesimo. E sono solo alcuni esempi per dire che l’errore, quando c’è, si riconosce a occhio nudo. Una ripassatina al “Denzinger” non farebbe male.

Per altro, nel caso delle interviste di Bergoglio, l’analisi del contesto può persino peggiorare le cose. Quando, per esempio, Papa Francesco dice a Scalfari che “il proselitismo è una solenne sciocchezza”, il “normalista” subito spiega che si sta parlando del proselitismo aggressivo delle sette sudamericane. Purtroppo, nell’intervista, Bergoglio dice a Scalfari: “Non voglio convertirla”. Ne scende che, nell’interpretazione autentica, quando si definisce “solenne sciocchezza” il proselitismo, si intende il lavoro fatto dalla chiesa per convertire le anime al cattolicesimo.

Sarebbe difficile interpretare il concetto altrimenti, alla luce delle nozze tra Vangelo e mondo, che Francesco ha benedetto nell’intervista alla Civiltà Cattolica. “Il Vaticano II”, spiega il Papa, “è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi. Basta ricordare la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta. Sì, ci sono linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità, tuttavia una cosa è chiara: la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile”. Proprio così, non più il mondo messo in forma alla luce del Vangelo, ma il Vangelo deformato alla luce del mondo, della cultura contemporanea. E chissà quante volte dovrà avvenire, a ogni torno di mutamento culturale, ogni volta mettendo in mora la rilettura precedente: nient’altro che il concilio permanente teorizzato dal gesuita Carlo Maria Martini.

Su questa scia, si sta alzando sull’orizzonte l’idea di una nuova chiesa, “l’ospedale da campo” evocato nell’intervista a Civiltà Cattolica dove pare che i medici fino a ora non abbiano fatto bene il loro mestiere. “Penso anche alla situazione di una donna che ha avuto alle spalle un matrimonio fallito nel quale ha pure abortito”, dice sempre il Papa. “Poi questa donna si è risposata e adesso è serena con cinque figli. L’aborto le pesa enormemente ed è sinceramente pentita. Vorrebbe andare avanti nella vita cristiana. Che cosa fa il confessore?”. Un discorso costruito sapientemente per essere concluso da una domanda dopo la quale si va capo e si cambia argomento, quasi a sottolineare l’inabilità della chiesa di rispondere. Un passaggio sconcertante se si pensa che la chiesa soddisfa da duemila anni tale quesito con una regola che permette l’assoluzione del peccatore, a patto che sia pentito e si impegni a non rimanere nel peccato. Eppure, soggiogate dalla straripante personalità di Papa Bergoglio, legioni di cattolici si sono bevute la favola di un problema che in realtà non è mai esistito. Tutti lì, con il senso di colpa per duemila anni di presunte soperchierie ai danni dei poveri peccatori, a ringraziare il vescovo venuto dalla fine del mondo, non per aver risolto un problema non c’era, ma per averlo inventato.

L’aspetto inquietante del pensiero sotteso a tali affermazioni è l’idea di un’alternativa insanabile fra rigore dottrinale e misericordia: se c’è uno, non può esservi l’altra. Ma la chiesa, da sempre, insegna e vive esattamente il contrario. Sono la percezione del peccato e il pentimento di averlo commesso, insieme al proposito di evitarlo in futuro, che rendono possibile il perdono di Dio. Gesù salva l’adultera dalla lapidazione, la assolve, ma la congeda dicendo: “Va, e non peccare più”. Non le dice: “Va, e sta tranquilla che la mia chiesa non eserciterà alcuna ingerenza spirituale nella tua vita personale”.

Visto il consenso praticamente unanime nel popolo cattolico e l’innamoramento del mondo, contro il quale però il Vangelo dovrebbe mettere in sospetto, verrebbe da dire che sei mesi di Papa Francesco hanno cambiato un’epoca. In realtà, si assiste al fenomeno di un leader che dice alla folla proprio quello che la folla vuole sentirsi dire. Ma è innegabile che questo viene fatto con grande talento e grande mestiere. La comunicazione con il popolo, che è diventato popolo di Dio dove di fatto non c’è più distinzione tra credenti e non credenti, è solo in piccolissima parte diretta e spontanea.

Persino i bagni di folla in piazza San Pietro, alla Giornata mondiale della gioventù, a Lampedusa o ad Assisi sono filtrati dai mezzi di comunicazione che si incaricano di fornire gli avvenimenti unitamente alla loro interpretazione.

Il fenomeno Francesco non si sottrae alla regola fondamentale del gioco mediatico, ma, anzi, se ne serve quasi a diventarne connaturale. Il meccanismo fu definito con grande efficacia all’inizio degli anni Ottanta da Mario Alighiero Manacorda in un godibile libretto dal godibilissimo titolo “Il linguaggio televisivo. O la folle anadiplosi”. L’anadiplosi è una figura retorica che, come avviene in questa riga, fa iniziare una frase con il termine principale contenuto nella frase precedente. Tale artificio retorico, secondo Manacorda, è divenuto l’essenza del linguaggio mediatico. “Questi modi puramente formali, superflui, inutili e incomprensibili quanto alla sostanza” diceva “inducono l’ascoltatore a seguire la parte formale, cioè la figura retorica, e a dimenticare la parte sostanziale”.

Con il tempo, la comunicazione di massa ha finito per sostituire definitivamente l’aspetto formale a quello sostanziale, l’apparenza alla verità. E lo ha fatto, in particolare, grazie alle figure retoriche della sineddoche e della metonimia, con le quali si rappresenta una parte per tutto. La velocità sempre più vertiginosa dell’informazione impone di trascurare l’insieme e porta a concentrarsi su alcuni particolari scelti con perizia per dare una lettura del fenomeno complessivo. Sempre più spesso, giornali, tv, siti internet, riassumono i grandi eventi in un dettaglio.

Da questo punto di vista, sembra che Papa Francesco sia stato fatto per i mass media e che i mass media siano stati fatti per Papa Francesco. Basta citare il solo esempio dell’uomo vestito di bianco che scende la scaletta dell’aereo portando una sdrucita borsa di cuoio nera: perfetto uso di sineddoche e metonimia insieme. La figura del Papa viene assorbita da quella borsa nera che ne annulla l’immagine sacrale tramandata nei secoli per restituirne una completamente nuova e mondana: il Papa, il nuovo Papa, è tutto in quel particolare che ne esalta la povertà, l’umiltà, la dedizione, il lavoro, la contemporaneità, la quotidianità, la prossimità a quanto di più terreno si possa immaginare.
L’effetto finale di tale processo porta alla collocazione sullo sfondo del concetto impersonale di Papato e la contemporanea salita alla ribalta della persona che lo incarna. L’effetto è tanto più dirompente se si osserva che i destinatari del messaggio recepiscono il significato esattamente opposto: osannano la grande umiltà dell’uomo e pensano che questi porti lustro al Papato.

Per effetto di sineddoche e metonimia, il passo successivo consiste nell’identificare la persona del Papa con il Papato: una parte per il tutto, e Simone ha spodestato Pietro. Questo fenomeno fa sì che Bergoglio, pur esprimendosi formalmente come dottore privato, trasformi di fatto qualsiasi suo gesto e qualsiasi sua parola in un atto di magistero. Se poi si pensa che persino la maggior parte dei cattolici è convinta che quanto dice il Papa sia solo e sempre infallibile, il gioco è fatto. Per quanto si possa protestare che una lettera a Scalfari o un’intervista a chicchessia siano persino meno di un parere da dottore privato, nell’epoca massmediatica, l’effetto che produrranno sarà incommensurabilmente maggiore a qualsiasi pronunciamento solenne. Anzi, più il gesto o il discorso saranno formalmente piccoli e insignificanti, tanto più avranno effetto e saranno considerati come inattaccabili e incriticabili.

Non a caso la simbologia che sorregge questo fenomeno è fatta di povere cose quotidiane. La borsa nera portata in mano sull’aereo è un esempio di scuola. Ma anche quando si parla della croce pettorale, dell’anello, dell’altare, delle suppellettili sacre o dei paramenti, si parla del materiale con cui sono fatte e non più di ciò che rappresentano: la materia informe ha avuto il sopravvento sulla forma. Di fatto, Gesù non si trova più sulla croce che il Papa porta al collo perché la gente viene indotta a contemplare il ferro in cui l’oggetto è stato prodotto. Ancora una volta la parte si mangia il Tutto, che qui va scritto con la “T” maiuscola. E la “carne di Cristo” viene cercata altrove e ciascuno finisce per individuare dove vuole l’olocausto che più gli si confà. In questi giorni a Lampedusa, domani chissà.
E’ l’esito della saggezza del mondo, che san Paolo bandiva come stoltezza e che oggi viene usata per rileggere il Vangelo con gli occhi della tv. Ma già nel 1969, Marshall McLuhan scriveva a Jacques Maritain: “Gli ambienti dell’informazione elettronica, che sono stati completamente eterei, nutrono l’illusione del mondo come sostanza spirituale. Questo è un ragionevole fac simile del Corpo Mistico, un’assordante manifestazione dell’anticristo. Dopo tutto, il principe di questo mondo è un grandissimo ingegnere elettronico”.

Prima o poi ci si dovrà pur risvegliare dal grande sonno massmediatico e tornare a misurarsi con la realtà. E bisognerà anche imparare l’umiltà vera, che consiste nel sottomettersi a Qualcuno di più grande, che si manifesta attraverso leggi immutabili persino dal Vicario di Cristo. E bisognerà ritrovare il coraggio di dire che un cattolico può solo sentirsi smarrito davanti a un dialogo in cui ognuno, in omaggio alla pretesa autonomia della coscienza, venga incitato a proseguire verso una sua personale visione del bene e del male. Perché Cristo non può essere un’opzione tra le tante. Almeno per il suo vicario.

di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro

(Giornalista e studioso di letteratura il primo, canonista e docente di Bioetica il secondo, gli autori sono espressione autorevole del mondo tradizionalista cattolico).

poveri ragazzi!

abbraccio

poveri ragazzi: prima ‘bamboccioni’, poi ‘choosy’, poi ‘sfigati’ … ora anche ‘poco occupabili’e questo per non prendere atto di politiche miopi ed inefficaci sull’occupazione
su questo si legge, come sempre molto gradevolmente la riflessione che Gramellini fa su ‘la Stampa’ odierna:

Gli inoccupabili
(Massimo Gramellini).

Dopo «bamboccioni» «choosy» e «sfigati», ieri è toccato al nuovo ministro di un’attività in via di estinzione (il Lavoro), definire «poco occupabili» gli italiani, a commento di uno studio dell’Ocse che colloca i nostri giovani all’ultimo posto in Europa per alfabetismo e al penultimo per conoscenze matematiche.

Poiché a nessuno risulta che negli ultimi vent’anni in Italia ci sia stata un’epidemia di cretinismo nei reparti d’ostetricia, si deve supporre che l’impreparazione dei ragazzi non derivi da tare mentali o caratteriali, e nemmeno soltanto dal lassismo complice dei genitori, ma da scelte strategiche incompatibili con la parola futuro. Quella classe dirigente uscita dalle assemblee del Sessantotto, che oggi irride e disprezza i suoi figli, è la stessa che ha tolto risorse all’istruzione, alla ricerca e alla formazione. Che si è rifiutata di indirizzare le scelte di politica economica verso la cultura, il turismo e l’innovazione tecnologica. Che ha ammazzato il merito, praticando in prima persona l’appartenenza a qualche cordata: per quale ragione i ragazzi dovrebbero credere in un sistema che non privilegia i più bravi, ma i più ammanicati? Gli investitori stranieri si tengono alla larga dall’Italia non perché considerano i nostri figli dei caproni, ma perché si rifiutano di allungare una bustarella ai loro padri o, in alternativa, di aspettare tre anni per avere un bollo che altrove ottengono in tre ore. Altro che poco occupabili: il problema italiano è che in questi anni qualcuno si è occupato, e ha occupato, fin troppo.

Da La Stampa del 10/10/2013.

togliere il reato di clandestinità

 

«Contro il naufragio delle coscienze è ora di cambiare la Bossi-Fini»

reato di clandestinità

 «I morti di Lampedusa sono figli del naufragio delle coscienze», tuona don Luigi Ciotti. Il salone della Fabbrica delle «E», in corso Trapani, è gremito, seicento persone almeno, ma l’ eco delle parole del fondatore del Gruppo Abele rimbomba per alcuni minuti. «Perché un prete fa questo?», si chiede retoricamente. «Questo» sta per la manifestazione di sabato a Roma «Costituzione, la via maestra», l’ inizio di un percorso più che un evento. «Perché – spiega Ciotti – come cittadino italiano non credo alla cittadinanza a intermittenza. Ci si accorge sempre troppo tardi dei drammi. Solo dopo che corpi esanimi vengono deposti su una spiaggia. La memoria è corta in questo Paese ed è in atto un furto di parole. Tutti parlano di giustizia, legalità e dignità poi ne snaturano il senso. Non basta commuoversi, bisogna muoversi». Scandisce le parole don Luigi. È un lunedì sera in una Torino piovosa e autunnale. Lo spettro di Lampedusa, nonostante le centinaia di chilometri di distanza, non è lontano. Si aggira per la sala. E torna in altri interventi. Come in quello del costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, altro peso massimo seduto al tavolo dell’ assemblea in vista della manifestazione, promossa dai due torinesi insieme a Stefano Rodotà, Lorenza Carlassare e Maurizio Landini. «Nel Paese delle ipocrisie si invoca sempre una nuova legge. Tutti ripetono in coro “fa schifo” riferendosi a quella attuale. Dalla legge elettorale in giù. Si parlava, per esempio, di una legge sulla corruzione, ne avete vista una nuova? E quella sui partiti? Ora, dopo Lampedusa, si parla di migranti. Secondo voi faranno qualcosa? Quanti morti bisognerà ancora aspettare, non ne bastava uno? Ma alla fine non la cambieranno, perché al governo c’ è qualcuno che l’ ha voluta». Il riferimento è alla Bossi-Fini che don Ciotti chiede a gran voce di scaraventare «fuori dai piedi». A moderare Ciotti e Zagrebelsky, oltre agli interventi di associazioni e personalità torinesi del mondo della sinistra, è toccato non a caso a Federico Bellono, segretario torinese di quella Fiom che è una delle impalcature del 12 ottobre: «Per noi – ha precisato Bellono – è un fatto naturale essere tra i promotori. La Costituzione in questi anni è stata il nostro alleato migliore, vedi la vertenza Fiat a Mirafiori». Per don Ciotti «è il momento di fare scelte, imparare il coraggio. La nostra Costituzione rischia di essere snaturata, noi invece dobbiamo chiedere che venga applicata. Non basta indignarsi, dobbiamo prenderci cura di lei, rendendo degno il lavoro e la democrazia». Poi, cita don Tonino Bello: «Ricordiamoci che delle nostre parole dobbiamo rendere conto agli uomini. Ma dei nostri silenzi dobbiamo rendere conto a Dio». Zagrebelsky conclude la serata, con parole forti: «Sta accadendo qualcosa di poco chiaro in Italia, noi andiamo a Roma dicendo che abbiamo capito. Quando sul rapporto Jp Morgan si è letto che la nostra è una Costituzione infida, non si è levata nessuna voce, né dal governo né più in alto. È grave. Il nostro è un Paese ipocrita. Tutti o quasi rendono omaggio alla prima parte della Costituzione, ma spesso quando lo fanno è perché non la si attui e perché la si cambi. Brunetta voleva addirittura modificarne il primo articolo, scrivendo solo “l’ Italia si fonda sulla libertà”, ma senza lavoro la libertà è solo di chi se la può permettere». Altra ipocrisia: «È far credere che possa esistere un risanamento economico senza equità, si parla di Stato come di un’ azienda. E, a differenza di un tempo, il valore prodotto dalle aziende viene investito nella finanza senza creare lavoro. Un furto ai cittadini. La trita formula “ce lo chiedono i mercati” sta facendo morire la politica, perché è la finanza che ci governa. E noi viviamo un congelamento politico, come nelle larghe intese dove nulla si muove. Con tutto rispetto, la conferma di Napolitano alla presidenza della Repubblica è emblematica del blocco. Noi vogliamo recuperare la politica, perché è un diritto dei cittadini, contro il piduismo strisciante che invade l’ Italia. E ai miei amici che hanno contribuito al lavoro preparatorio sulle riforme dico: non siete piduisti come altri, ma rischiate di contribuire a quella cultura».

Articolo di Mauro Ravarino pubblicato su Il Manifesto | 09/10/2013

 

il credente e il non credente e la loro reciproca fatica di ‘cercare’

 

 

L’ateismo del credente

cammino

di Manuel Versari

Credente è colui che si protende verso la verità della fede, è colui che cerca di realizzarla nel pensiero, è colui che sonda instancabilmente l’invisibile e l’ignoto, conscio che questa verità non è di facile accesso. Egli non è quindi portatore di un pensiero totalizzante e rigido, ma vive una situazione di reale inquietudine, come quella data da un pensiero notturno che non ti lascia andare a riposare. Carico di attesa, egli assapora da una parte il conforto di una luce rassicurante che è venuta per rischiarare le tenebre e dall’altra attende di scoprire ciò che questa luce gli mostrerà in futuro.

A sua volta il non credente, tormentato dal conflitto tra i propri valori e quelli della realtà circostante, vive una condizione molto simile di ricerca e attesa. La non credenza, quella vera, che rifiuta la negligenza nei confronti di se stessi, non è una semplice scelta di un rifiuto, che sminuisca l’uomo rendendolo fine a sé stesso ma sofferenza, passione di chi paga di persona l’amaro prezzo di non credere. Quanta gente, pure formalmente fuori dal nostro credo, assume la solidarietà, la giustizia, la coerenza come valori supremi della propria vita morale?! E’ nel rispetto di questa dignità che il Credente è chiamato a interrogarsi sulla sua fede, a entrarvi in contatto senza timore per superare quegli abissi propri del non credente che è in lui e di conseguenza a renderla in tal modo più concreta. Questo contrasto di fede e non credenza è profondamente radicato nella condizione umana: nel più profondo delle sue domande, di fronte all’ineludibile paura del dolore e della morte, l’uomo non si presenta come compiuto e finito, ma come un cercatore della patria lontana, che si lascia permanentemente interrogare, provocare e incantare dall’orizzonte ultimo. L’uomo che si ferma, sentendosi padrone della verità non è più custode della sua verità ma schiavo delle sue paure. Spesso mi pongo una domanda: “Chiesa, che cosa ti manca perché il tuo sforzo di «comunicazione» produca comunione, all’interno e all’esterno di Te? Non si può credere che tu non abbia più niente da dire… . Il Signore continua a porti nel cuore l’inquietudine della sua Verità”.

Egli non ha mai smesso di parlarci. Forse troppo spesso pretendiamo di aver capito il suo messaggio. Chi sa vivere la dialettica con l’altro, seppur conscio della gioia della luce di cui è testimone, vive coraggiosamente il confronto con il timore proprio e altrui che il cielo sia vuoto e accetta di farsi provocare fino in fondo mettendo a rischio le proprie convinzioni. Secondo me, dovremmo imparare a “cresimare” il mondo! Amarlo e renderlo partecipe di un’esperienza straordinaria. E adoperiamoci perché la sua cronaca di ingiustizia diventi storia di liberazione. Ricordiamo le parole di don Tonino Bello: “…è anche vero che i nostri gemiti si esprimono nelle lacrime dei maomettani e nelle verità dei buddisti, negli amori degli indù, nel sorriso degli idolatri, nelle parole buone dei pagani e nella rettitudine degli atei”. Dio si fida dei nostri passi!! Rendiamo noi stessi il Cammino! Diventiamo le mani che scrivono il futuro con la speranza, diventiamo la voce che consola i cuori affranti, le braccia che accolgono e che non voltano le spalle a chi non ci capisce. Mi sono sempre chiesto da credente: “Sarà mai possibile poter condividere la Pasqua con le persone che non credono?”. E la risposta che ho trovato è una mini-lettera che voglio condividere: “Amico che credi e fatichi a credere, amico che hai smarrito il tuo Dio da qualche parte, amico che vuoi credere ed avere speranza e non ci riesci, amico che sei nella gioia ma temi il dolore, amico/a mio/a…per una volta facciamo che non sia la diversità a dividere il nostro legame, non sia il dolore a farci smarrire, non sia la diversa religione a farci distanti, ma sia la gioia che creiamo assieme a legarci, a renderci forti e a farci comprendere che le sofferenze e i tempi bui passano sempre lasciandoci preziosi insegnamenti! Qualsiasi siano i tormenti o le attese del cuore tuo e di chi vive accanto a te, questa è la Pasqua: quella che attendi, quella che certamente vivrai, quella che condividerò con te”. Ho scoperto che è davvero possibile condividere la Pasqua anche con gli amici non credenti, gli amici in cammino e quelli che il cammino lo devono ancora iniziare. Scegliamo la speranza. Se non dimenticheremo la nostra umanità e la nostra ricerca, non separeremo Cristo dal suo popolo e sosterremo la Croce e la Vita!

donne cardinali nella chiesa di papa Francesco?

 

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mai dire mai’ si dice in genere della politica, in campo religioso si dice che ‘niente è impossibile a Dio’ … e a papa Francesco? ci sarà mai posto nella sua chiesa a donne-cardinali? teologi cattolici europei e statunitensi coltivano questa speranza e ci provano a smuovere le acque con un appello a papa Francesco:

Petizione: donne cardinali

Su iniziativa della teologa Helen Schüngel-Straumann, teologhe e teologi cattolici dell’Europa e degli USA hanno sottoscritto un appello in cui papa Francesco viene pregato di far partecipare attivamente le donne alle decisioni fondamentali della Chiesa. Un segno in questa direzione potrebbe essere la nomina di donne al cardinalato.

Testo della petizione:

L’attenzione di papa Francesco per i poveri e gli oppressi risveglia, oltre ad una gioia straordinaria, anche aspettative. La stessa cosa vale per la sua dichiarazione che le donne dovrebbero svolgere nella Chiesa cattolica romana un ruolo molto più rilevante e dovrebbero poter partecipare all’assunzione di decisioni. Più della metà di tutti i membri della Chiesa sono donne. Ma tale maggioranza viene trattata come una minoranza. E al contempo ci sono tra loro molte donne competenti e altamente qualificate: religiose, teologhe, donne in professioni di responsabilità con forte impegno a favore della Chiesa. Lavorano come operatrici di cura d’anime in ambito pastorale e caritativo, alla base, nelle scuole, nella politica, in associazioni ecclesiali – spesso a titolo onorario. Sia nella teoria che nella pratica, si impegnano per il Vangelo. Tuttavia non vengono fatte partecipare all’assunzione di decisioni importanti, cosicché nella Chiesa esiste una situazione di forte disuguaglianza ed ingiustizia. Le donne però non vogliono più essere oggetti, ma soggetti (Catharina Halkes), e “senza le donne non si fa alcuna Chiesa”. Uguaglianza e giustizia sono le richieste centrali dei profeti biblici. Ripetutamente si chiede di avere particolare attenzione per la triade “poveri, vedove e orfani”. Anche Gesù si pone a livello di questa grande tradizione profetica e ha chiamata delle donne come discepole nel suo “movimento” per il Regno di Dio. Per amore dell’annuncio gesuano della giustizia, facciamo la proposta di nominare cardinali un adeguato numero di donne.

Né nella bibbia, né nella dogmatica, né nella tradizione ecclesiale alcun vi è alcun argomento contrario che potrebbe impedire al papa di attuare tale provvedimento in tempi molto brevi. È libero di dispensare dall’ordinazione, prevista nel diritto canonico, come è avvenuto più volte in passato. Fino al XIX secolo è accaduto che dei laici fossero nominati cardinali dal papa.
Come responsabile per l’unità e la direzione dell’intera Chiesa, potrebbe subito intraprendere i primi passi affinché la “metà più estesa” dei membri della Chiesa potesse partecipare attivamente all’assunzione di importanti decisioni e alla elezione del prossimo papa. Sarebbe una decisione molto saggia e diplomatica, se il papa mostrasse, attuando l’equiparazione delle donne in ambito ecclesiale, che la Chiesa cattolica non è così misogina come spesso viene descritta.
Alle donne è stato ripetutamente consigliato di sfruttare gli spazi di libertà d’azione esistenti. La nomina a cardinali sarebbe un esempio straordinario di tale comportamento. In questo senso, il nostro obiettivo non è una ulteriore clericalizzazione della Chiesa, ma una partecipazione attiva delle donne alle decisione centrali.
Non di adeguamento ad un sospetto “spirito del tempo” si tratta, ma di ascolto di quei “segni dei tempi” (Giovanni XXIII), che dopo più di cinquant’anni ancora non hanno sufficiente spazio nella Chiesa cattolica. Se i responsabili della Chiesa non dovessero superare il patriarcalismo in teoria e in pratica e non permettessero alle donne di prendere la parola in organismi decisionali, la Chiesa cattolica continuerebbe a perdere donne competenti ed impegnate.

occorre cambiare politica migratoria

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la tristissima attualità impone, in Italia, ma non solo, una profonda riflessione su una radicale diversa impostazione della politica migratoria che superi il taglio negativo e difensivo nei loro confronti per una vera valorizzazione delle opportunità che le emigrazioni offrono: un bell’articolo dell’antropologo M. Agier su ‘le Monde’ ci aiuta in questo senso

Per una politica migratoria diversa
di Michel Agier
in “Le Monde” del 9 ottobre 2013

Commuoversi, certo. Più di 210 morti e circa 150 dispersi, è, per ora, il bilancio del naufragio in Mediterraneo di una imbarcazione su cui avevano osato salire dei migranti, somali ed eritrei in massima parte. Il tempo dell’emozione è ampiamente dovuto a coloro che sono già morti nel Mediterraneo in questi ultimi anni, così come è dovuto ai sopravvissuti che hanno affrontato l’orrore della traversata ma anche le condizioni deplorevoli della clandestinità in cui le amministrazioni europee hanno deciso di rinchiuderli. Perché la creazione di “clandestini” avviene per decisione di uno Stato (ed è sempre lo Stato che può decidere di “regolarizzarli”). Quanta emozione ci vorrà perché si smetta di commuoversi e che si cominci a riflettere sulle disposizioni mortifere che l’Europa ha messo in atto negli anni 90 contro i migranti per fare una selezione, escludendo gli indesiderabili (soprattutto quelli che vengono dai paesi detti “del Sud”), rigettandoli o mantenendoli in una clandestinità propizia al super-sfruttamento del loro lavoro, o in attesa nei campi di ritenzione? La caccia allo straniero è terribilmente assassina. Né “immigrati” (poiché senza arrivo), né “rifugiati” (perché non hanno potuto fare domanda d’asilo), né “clandestini” (il diritto non ha preso una decisione in merito alla loro condizione), sono morti durante la migrazione. Ed è proprio questa mobilità, che pure viene valorizzata come un segno di un mondo cosmopolita moderno e fluido quando parliamo delle nostre vite, il bersaglio delle polizie e dei governi nazionali quando parliamo delle vite degli “altri”. Le politiche pubbliche di dissuasione della migrazione sono state coordinate a livello europeo a partire dall’inizio degli anni 2000. La Francia, la Gran Bretagna, la Germania e l’Italia, con in quel momento la collaborazione dell’Alto Commissariato per i rifugiati (HCR), hanno cominciato ad immaginare i regolamenti che limitavano l’esercizio del diritto d’asilo (dichiarato nel 1948) ed un accresciuto controllo delle migrazioni e delle frontiere (creazione dell’agenzia di polizia europea Frontex nel 2005). Oltre ai provvedimenti amministrativi e la costruzione di muri e reticolati che impediscono il passaggio, lo sviluppo della propaganda contro lo straniero è stata la caratteristica della maggior parte dei governi dei paesi europei. La Francia non è da meno: l’invenzione di uno “staniero” astratto, fantomatico e repellente vi ha diffuso, a partire dall’alto, la xenofobia come ideologia di Stato, accettata e “governativamente corretta”. Le élite politiche si assumono una responsabilità considerevole quando designano quello straniero come il colpevole di una crisi economica o una minaccia per la nazione. Le morti di Lampedusa potevano essere evitate. Sono il prodotto diretto della propaganda dei governi europei contro lo straniero. Con l’effetto, da un lato, di una criminalizzazione della migrazione e dei migranti e, dall’altro, il ricorso pericoloso ai “passatori” e ad un’economia della proibizione per tutti coloro per i quali la mobilità continua ad essere, comunque, una soluzione vitale. Tuttavia, l’ostilità dei governi europei è solo una piccola parte dell’esperienza della mobilità internazionale di questi ultimi mesi. Vi sono, al massimo, poche decine di siriani che tentano di essere accolti in Francia, che trovano in risposta solo repressione poliziesca e manifestano per potersi spostare in Inghilterra: essi non rappresentano evidentemente una “invasione” di migranti. Invece, i paesi limitrofi della Siria esprimono una solidarietà incomparabile con i rifugiati siriani, come anche il Libano, che ne accoglie circa un milione (per quattro milioni di abitanti del Libano!), e la Giordania mezzo milione. Una solidarietà che fu esercitata dalla Tunisia nel 2011 nei confronti dei migranti provenienti dalla Libia. E ancora oggi i somali si dirigono principalmente verso i paesi limitrofi. Sono più di 450 000 nel campo di rifugiati di Dadaab nel nord-est del Kenya. Ciò che succede nella parte sud del Mediterraneo, in Libia, nel Medio Oriente, in Egitto, potrebbe essere l’occasione di manifestare una solidarietà internazionale. In Francia, per esempio, la questione degli stranieri, dei rifugiati e dei migranti è trattata come un affare di polizia, cosa che
viene confermata con la creazione il 2 ottobre al ministero degli interni di una Direzione generale degli stranieri in Francia. Trasferire questa Direzione generale al ministero degli affari esteri segnerebbe un impegno verso il punto di vista politico del riconoscimento. Attuare delle vie legali per l’immigrazione permetterebbe di indebolire il peso della clandestinità e i suoi rischi. Ciò si può fare partecipando attivamente al programma di reinstallazione dell’Alto Commissariato per i rifugiati siriani in Medio Oriente, per quelli subsahariani in Libia e nel Maghreb; o attivando dei regolamenti già esistenti su scala europea come lo statuto di “protezione temporanea” (2001) o di “protezione sussidiaria” (2004). Senza risolvere la questione centrale del diritto all’eguaglianza nella mobilità, questi provvedimenti sarebbero un segnale di umanità. Direbbero che non è indispensabile rischiare ancora la propria vita per sperare di salvarla. Sarebbero l’inizio di una politica migratoria diversa.
*Michel Agier, antropologo, ricercatore all’ Institut de recherche pour le développement, profesore alla Ecole des hautes études en sciences sociales.

sì, papa Francesco è decisamente contagioso!

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un uragano, l’irruzione di papa Francesco nella chiesa del dopo Ratzinger, un vento fortissimo che scombussola tutto, anche il perbenismo prudentissimo episcopale: anche i primi vescovi cominciano a convertirsi e a progettare per sé e per la chiesa uno stile diverso;
in questo senso l’intervista seguente:

Il vescovo di Prato e lo stile di vita cristiano
“Vivo in un mausoleo, sogno una casa semplice”
intervista a Franco Agostinelli, vescovo di Prato:

Franco Agostinelli è un vescovo di quelli che quando lasciano una diocesi, come ha fatto lui l’anno scorso arrivando a Prato da Grosseto, alla gente dispiace sul serio. Uno di quelli che hanno sempre parlato chiaro, anche quando non c’era un Papa come Francesco. Uno dei pochi vescovi, insomma, che non hanno bisogno di saltare sul carro delvincitore. Eccellenza, che succede nella Chiesa? «Succede che abbiamo un Papa che fa il percorso di Gesù, cioè che sta in mezzo alla gente, e che per questo suscita simpatia dappertutto, anche fra chi non ha niente a che fare con la Chiesa. Un Papa che ascolta, capace di gesti immediati e comprensibili a tutti. La Chiesa ha sempre avuto un’immensa ricchezza da offrire,ma se prima non incontra le persone, questa ricchezza non passa». C’è chi teme per l’autorità del magistero petrino, una deriva individualista verso una fede faida- te. «La Chiesa non è un vertice decisionale, può e deve decidere solo dopo aver reso protagonista la base, cioè il suo popolo, direttamente e tramite i suoi pastori. Il Papa ci ha dato un segnale molto preciso: d’ora in poi, si governa all’insegna della collegialità. Ben vengano gli scandali dei benpensanti, non ce ne deve importare niente. I tradizionalisti sono sempre preoccupati, ma l’ideale della Chiesa non è mai stato la conservazione, bensì il cammino. La cultura cambia, le situazioni individuali e collettive cambiano. Il mondo si muove di continuo etantomeno oggi si può dire: ‘si è sempre fatto così’». Il Papa sta pensando di far eleggere il prossimo presidente della Conferenza episcopale ai vescovi, anziché nominarlo lui come è accaduto finora. «Sarebbe già un passo in nome della collegialità, e di quella corresponsabilità nella gestione della Chiesa che deve sostituire la ‘collaborazione’, ben poco incisiva, a volte solo nominale, richiesta finora ». Qualche vescovo si è detto convinto che le parole di Papa Francesco debbano essere ‘spiegate’ ai fedeli. Che vuol dire, secondolei? «Posso comprendere la preoccupazione, ma solo se si intende dire che bisogna difendere questo Papa dalle possibili strumentalizzazioni. Lui parla in modosemplice, e noi siamo complicati, a differenza che in America Latina, dove invece sono semplici e immediati. Ma chi è in buona fede, anche qui da noi capisce benissimo cosa il Papa vuol dire». Fra i tanti cambiamenti richiesti da Bergoglio a tutti, ma soprattutto ai vescovi e in generale agli uomini di Chiesa, c’è anche la povertà come specifico stile di vita dei cristiani. Un fronte su cui c’è da lavorare, non le sembra? «Eccome. Facciamo un esempio: io vivo in una casa invivibile, solo di rappresentanza, una specie di mausoleo. Me l’hanno assegnata, è quella del vescovo. Ma io sogno una casa semplice, vivibile. Lo dico sempre ai miei preti: torniamo tutti fra la gente, a vivere come la gente. E ora non credo che avremo più scuse».

Lo stupore dei gay cattolici “Ha risposto alla nostra lettera”

due omo

il papa risponde, supera la barriera del … curialmente corretto, risponde anche alla loro lettera, loro, i gay cattolici che nessun vescovo ha voluto mai incontrare, compreso il loro vescovo, il cardinale di Firenze, card. Betori, perché è vero, tutti siamo figli di Dio, e anche loro lo sono, diamine!, ma riceverli o parlare ufficialmente con loro significherebbe legittimarli ‘come gay’, non sia mai! dunque se ne stiano da parte nella chiesa di Dio, anzi di B etori e compagni e non pretendano troppa visibilità! … ma lui ha risposto!, ha risposto alla loro lettera, li ha presi in considerazione. ha accettato un dialogo con loro, ha detto loro non con delle belle parole ma coi fatti: ‘esistete’ e avete diritto di esistere nella chiesa di Dio, non quella dei Betori e compagni … e allora manifestano stupore, meraviglia, gioia, i tipici sentimenti di chi sente che il vangelo è davvero ‘evangelo’, ‘buona notizia’, buona radicale novità che straccia le rigidità e le violenze curiali!
qui sotto la meraviglia e la gioia della comunità gay di Firenze descritta da:

Maria Cristina Carratù
in “la Repubblica” – Firenze – del 8 ottobre 2013

Fra le tante rivoluzioni compiute da Papa Bergoglio, oltre alle telefonate a casa a gente qualunque (è di questi giorni la notizia di una famiglia del Galluzzo chiamata al telefono da Francesco, che dopo averla invitata ad Assisi, ha chiesto se poteva benedirla e l’ha invitata a portare «i saluti e la benedizione del Papa» alla parrocchia), c’è anche l’«effetto posta». La montagna di lettere recapitate ogni giorno nella sua residenza di Santa Marta, e inviate direttamente a lui da chi spera, così, di raggiungerlo scavalcando gli «ostacoli» curiali. E adesso c’è chi pensa che possa essere stata una di questi «messaggi in bottiglia» ad aver ispirato la svolta di Bergoglio sui gay. Una lettera inviata lo scorso giugno al Papa da vari omosessuali cattolici italiani, ma le cui firme erano state in gran parte raccolte nel gruppo Kairos di Firenze, molto attivo su questo fronte. E in cui gay e lesbiche chiedevano a Francesco di venire riconosciuti come persone e non come «categoria », invocando apertura e dialogo da parte della Chiesa, e ricordando che la chiusura «alimenta sempre l’omofobia». Non la prima del genere inviata a un pontefice, ma a cui, come racconta uno dei responsabili di Kairos, Innocenzo Pontillo, «nessuno aveva mai dato neanche un cenno di risposta». Questa volta, invece, la risposta è arrivata. Con un’altra lettera della Segreteria di Stato vaticana (il contenuto di entrambe le lettere è privato, e solo da poco si è deciso di rendere noto lo scambio), in cui si legge, spiega Pontillo, che Papa Francesco «ha apprezzato molto quello che gli avevamo scritto, definendolo un gesto di ‘spontanea confidenza’», nonché «il modo in cui lo avevamo scritto». Ma non solo: «Il Papa ci assicurava anche il suo saluto benedicente ». «Nessuno di noi si era spinto a immaginare una cosa del genere» dice il rappresentante di Kairos, ricordando, per contrasto, come l’arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori, «si sia sempre rifiutato anche solo di riceverci, sostenendo che altrimenti saremmo stati legittimati in quanto omosessuali». Adesso papa Francesco invia addirittura la sua benedizione, e chissà che le sue uscite successive sugli omosessuali («Chi sono io per giudicare i gay?» detto in aereo di ritorno da Rio de Janeiro, e poi le dirompenti parole a Civiltà Cattolica: «Dio, quandoguarda a una persona omosessuale, ne approva l’esistenza con affetto, o la respinge condannandola? Bisogna sempre considerare la persona») non si debbano davvero anche a questo scambio epistolare. E a Bergoglio, intanto, scrivono i detenuti di Sollicciano, una lettera (già consegnata direttamente a lui nei giorni scorsi dal cappellano del carcere don Vincenzo Russo), in cui gli raccontano i drammi della vita carceraria e lo invitano ad andarli a trovare, magari in occasione del Convegno ecclesiale nazionale della Cei che si terràa Firenze nel 2015 e a cui è già prevista la presenza del pontefice. Mentre al Papa si rivolge adesso anche la Comunità delle Piagge: «Il clima è cambiato, e chi, adesso, vuole per la Chiesa qualcosa di diverso, deve stare col Papa» riconosce don Alessandro Santoro. «Come Comunità» spiega «ci sentiamo liberati dai troppi lacci dottrinali del passato, Francesco Papa dimostra che è possibile passare dalla sola obbedienza dottrinale, alla fedeltà alla vita delle persone». Il che «non toglie che la Chiesa abbia la sua dottrina, purché, però, al centro ci sia l’uomo con le sue sofferenze, come dice il Vangelo». Da qui l’idea (in occasione del 4° anniversario, il 27 ottobre, della celebrazione del matrimonio religioso, con un altro uomo, di una donna nata uomo, che a Santoro costò l’allontanamento dalle Piagge), di scrivere al Papa «per parlargli della nostra Comunità, di quello che fa e del perché lo fa, e per chiedergli come considera le tante condanne da noi subite» (oltre che per il matrimonio, anche per la comunione a gay edivorziati risposati).

la ‘Bossi-Fini’ da abolire

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non basta piangere o dirsi rattristati per quanto succede nei nostri mari che si trasformano sempre più in cimiteri per disperati, occorre rimuovere le condizioni strutturali e legislative che favoriscono o causano queste tragedie

utilissima la lettura di questa riflessione che S. Rodotà da par suo fa quest’oggi su ‘la Repubblica’:
Cancellare subito lo scandalo della Bossi-Fini

(Stefano Rodotà).

Le terribili  tragedie collettive sono ormai diventate grandi rappresentazioni pubbliche, che vedono tra i loro attori i rappresentanti delle istituzioni, ben allenati ormai nel recitare il ruolo di chi deve dare voce ai sentimenti di cordoglio, dire che il dramma non si ripeterà, promettere che «nulla sarà come prima». Il pellegrinaggio a Lampedusa era ovviamente doveroso, arriverà anche il presidente della Commissione europea Barroso, si è già fatta sentire la voce del primo ministro francese perché sia anche l’Unione europea a discutere la questione. Sembra così che sia stata soddisfatta la richiesta del governo italiano di considerare il tema in questa più larga dimensione, guardando alle coste del nostro paese come alla frontiera sud dell’Unione.
Attenzione, però, a non operare una sorta di rimozione, rimettendoci alle istituzioni europee e non considerando primario l’obbligo di mettere ordine in casa nostra. Lunga, e ben nota da tempo, è la lista delle questioni da affrontare, a cominciare dalla condizione dei centri di accoglienza dove troppo spesso ai migranti viene negato il rispetto della dignità, anzi della loro stessa umanità. Ma oggi possiamo ben dire che vi è una priorità assoluta, che deve essere affrontata e che può esserlo senza che si obietti, come accade per i centri di accoglienza, che mancano le risorse necessarie. Questa priorità è la cosiddetta legge Bossi-Fini.

LA BOSSI-FINI è quasi un compendio di inciviltà per le motivazioni profonde che l’hanno generata e per le regole che ne hanno costituito la traduzione concreta. Per questa legge l’emigrazione deve essere considerata come un problema di ordine pubblico, con conseguente ricorso massiccio alle norme penali e agli interventi di polizia. All’origine vi è il rifiuto dell’altro, del diverso, del lontano, che con il solo suo insediarsi nel nostro paese ne mette in pericolo i fondamenti culturali e religiosi. Un attentato perenne, dunque, da contrastare in ogni modo. Inutile insistere sulla radice razzista di questo atteggiamento e sul fatto che, considerando pregiudizialmente il migrante irregolare come il responsabile di un reato, viene così potentemente e pericolosamente rafforzata la propensione al rifiuto. Non dimentichiamo che a Milano si cercò di impedire l’iscrizione alle scuole per l’infanzia dei figli dei migranti irregolari, che si è cercato di escludere tutti questi migranti dall’accesso alle cure mediche, pena la denuncia penale.
In questi anni sono stati soltanto i pericolosi giudici, la detestata Corte costituzionale, a cercar di porre parzialmente riparo a questa vergognosa situazione, a reagire a questa perversa “cultura”. Già nel 2001 la Corte costituzionale aveva scritto che vi sono garanzie costituzionali che valgono per tutte le persone, cittadini dello Stato o stranieri, “non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”, sì che “lo straniero presente, anche irregolarmente, nello Stato ha il diritto di fruire di tutte le prestazioni che risultino indifferibili e urgenti”. Un orientamento, questo, ripetutamente confermato negli anni seguenti, motivato riferendosi all’“insopprimibile tutela della persona umana”.
Le persone che ci spingono alla commozione, allora, non possono essere soltanto quelle chiuse in una schiera di bare destinata ad allungarsi. Sono i sopravvissuti che, con “atto dovuto” della magistratura”, sono stati denunciati per il reato di immigrazione clandestina. Di essi non possiamo disinteressarci, rinviando tutto ad una auspicata strategia comune europea. I rappresentanti delle istituzioni, presenti a Lampedusa o prodighi di dichiarazioni a distanza, non possono ignorare questo problema, mille volte segnalato e mille volte eluso. Così come non possono ignorare il fatto che lo stesso soccorso “umanitario” ai migranti in pericolo di vita è istituzionalmente ostacolato da una norma che, prevedendo il reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina, fa sì che il soccorritore possa essere incriminato. A tutto questo si aggiunge la pratica dei respingimenti in mare, anch’essa illegittima e pericolosa per i migranti, sì che non deve sorprendere che proprio in questi giorni il Consiglio d’Europa abbia definito sbagliate e pregiudizievoli le politiche italiane nella materia dell’immigrazione.
L’unica seria risposta istituzionale alla tragedia di Lampedusa è l’abrogazione della legge Bossi-Fini, sostituendola con norme rispettose dei diritti delle persone. Contro una misura così ragionevole e urgente si leveranno certamente le obiezioni e i distinguo di chi invoca la necessità di non turbare i fragili equilibri politici, di fare i conti con le varie “sensibilità” all’interno dell’attuale maggioranza. Miserie di una politica che, in tal modo, rivelerebbe una volta di più la sua incapacità di cogliere i grandi temi del nostro tempo. Siano i cittadini attivi, spesso protagonisti vincenti di un’“altra politica”, ad indicare imperiosamente quali siano le vie che, in nome dell’umanità e dei diritti, devono essere seguite.

Da La Repubblica del 08/10/2013.

piangere fa bene …

cento bare

a distanza di qualche giorno dall’immane tragedia delle centinaia di morti in mare mi fermo ancora a riflettere e sento ancora drammaticamente vera questa pagina di don Renato Sacco, e anch’io piango sentendo nell’animo come una grande spina che mi fa male, e quasi mi vergogno di queste lacrime, e però sento che nonostante tutto mi fanno bene, non so come e perché, ma così sento …

Davanti alla tragedia di oggi, 3 ottobre a Lampedusa, con centinaia di morti, ti vengono in mente le parole di Francesco, pronunciate là, a Lampedusa: “Chi ha pianto per quanti sono morti in mare?”. E ti chiedi se sei proprio tu interpellato. Con tutte le cose da fare, come ogni giorno. Cose anche serie, importanti. E non trovi lo spazio, il tempo per piangere, per sentirti umano e lasciarti andare. E devi incontrare le persone, fare delle cose con loro. Allora cerchi di guardarle con occhi diversi, quasi a voler comunicare il magone che hai dentro, e cerchi di essere più umano. E poi ti metti in macchina in un pomeriggio grigio, triste. Pensi alle storie di quelle persone, ai loro affetti, a chi sta aspettando qualche notizia per sapere se sono arrivati alla ‘terra promessa’. E cerchi di immaginarti al loro posto. Ma di loro non si saprà più nulla. Neanche i loro nomi. Solo Dio, che conosce il povero Lazzaro per nome. Noi invece conosciamo bene i nomi dei potenti, dei ricchi, di chi mette in atto una cultura di violenza e respingimento che è di morte, non di vita. I loro nomi li conosciamo. Abbiamo visto ieri il teatro-commedia in Parlamento.
E oggi la tragedia.
E, mentre sei fermo al semaforo, ti cade l’occhio sui manifesti della Lega che se la prende con chi si interessa di rom e migranti. Come fai a piangere? ‘Prima il Nord’. E ti viene la rabbia, più forte del magone. E non ce la fai a piangere. E ti senti in colpa di abitare in un Paese così, in un mondo così. Ti chiedi se non è davvero anche un po’ colpa tua, dei tuoi silenzi, della tua rassegnazione. E’ un pugno nello stomaco. E non sai se piangere o arrabbiarti. Forse ha ragione Francesco. Prima bisogna piangere. Per avere poi la forza di arrabbiarsi veramente. Di gridare con lui: “Vergogna”. La debolezza del pianto ti fa sentire un essere umano per reagire, per non essere complice di queste tragedie umane. Ormai è sera. Mi arriva un sms per dirmi che si parla di Lampedusa anche da Bruna Vespa. E da Santoro c’è pure il ministro della Difesa. No, basta. Non accendo neanche la Tv, se no la rabbia cresce a dismisura. Mi rileggo le parole di don Tonino Bello, al ritorno da Sarajevo, nel dicembre 1992: “Poi rimango solo e sento per la prima volta una grande voglia di piangere. Tenerezza, rimorso e percezione del poco che si è potuto seminare e della lunga strada che rimane da compiere”.

3 ottobre 2013

d. Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi

d. Renato Sacco
Via alla Chiesa 20 – 28891 Cesara – Vb
0323-827120 *** 348-3035658
drenato@tin.it

 

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