Scalfari parla ancora di ‘rivoluzione’ di papa Francesco

Scalfari

La rivoluzione di Francesco contro i mandarini del Vaticano

 dopo la telefonata e il carteggio che ha avuto luogo nei primi mesi del  pontificato di papa Francesco tra questi e Scalfari, rapporto ravvicinato che ha fatto promettere ai due di continuarlo con impegno per la reciproca soddisfazione (ancorché assai di più quella di Scalfari che sembrava letteralmente toccare il cielo con un dito a un passo da una travolgente conversione!), il fondatore di ‘la Repubblica’ torna a riflettere sulla ‘rivoluzione’ di papa Francesco in questo lungo articolo:

in “la Repubblica” del 19 febbraio 2014

 

È passato quasi un anno dall’elezione di Jorge Bergoglio al soglio di Pietro ed ora tutta la Chiesa ha fiducia in lui, i fedeli soprattutto per la sua grande capacità di comunicatore, la sua apertura al dialogo, le sue immagini di una Chiesa povera e missionaria, la sua fede nel Dio misericordioso con tutti. Ma non solo i fedeli affollano le chiese e le piazze per ascoltarlo; anche le strutture istituzionali, in Italia e in tutto il mondo, lo appoggiano senza più le riserve iniziali che non erano né poche né marginali. Lo appoggiano e puntano sul successo della sua azione riformatrice i Vescovi di tutte le nazioni cristiane nell’America Latina, in quelle americane del Nord, in Europa, in Africa, in Asia, in Oceania; lo appoggiano i cardinali, la Curia, le Conferenze episcopali, i presbiteri, le Comunità, gli Ordini religiosi, le Università cattoliche, gli Oratori, i Protestanti. Lo stimano e vogliono dialogare con lui i rabbini e le comunità ebraiche, gli imam che predicano il Corano e perfino — perfino— i non credenti. Roma è ridiventata la capitale del mondo. Non l’Italia, ma Roma, la città di papa Francesco, è il centro del mondo; non Washington, non Brasilia, non Pechino, non Nuova Delhi, non Mosca, non Tokyo, ma Roma. Non avveniva da duemila anni, ma adesso è così. Dunque un trionfo in appena un anno non ancora compiuto. Apparentemente è così. Sostanzialmente anche, ma solo in parte e, aggiungo, in piccola parte almeno per ciò che riguarda la struttura vaticana e che Francesco chiama l’Istituzione: la Chiesa che ha come principale obiettivo la sua conservazione e il potere, il temporalismo che ne derivano. Quella che Francesco ha in notevole misura degradato al rango di “intendenza”, quella che deve fornire i necessari  servizi alla Chiesa combattente e missionaria. Insomma i mandarini, come li chiamerebbero in Cina. I mandarini nella Chiesa cattolica ci sono sempre stati dopo i primi tre secoli della Chiesa patristica. Hanno certamente avuto una funzione storica tutt’altro che trascurabile; hanno evangelizzato l’Europa e le Americhe, hanno continuamente aggiornato e riformato, modernizzato l’Istituzione e il suo linguaggio, il suo modo di proporsi al popolo dei fedeli e alle potenze politiche europee. Hanno combattuto guerre non solo teologiche ma con lance e spade e spingarde e cannoni e navi e cavalieri e inquisizioni e persecuzioni. Sconfitte e vittorie e scismi, eresie e vendette e intrighi e diplomazie e dogmi e scomuniche. Questa è stata la storia del Papato e della Chiesa; non ad intervalli, ma continuativamente. Una Chiesa verticale assai poco apostolica. Ventuno Concili in duemila anni; molti sinodi ma con pochi poteri. Intrecciata alla storia dei regni e dei poteri politici, Francia, Spagna, Inghilterra, principi elettori di Germania, Bizantini, Saraceni, imperatori e califfi. Spesso la Chiesa ha perso, spesso ha vinto, da sola con le scomuniche, o con le armi alleandosi col vincitore. Ma non è stata soltanto questo. È stata anche la Chiesa missionaria, la Chiesa povera, la Chiesa martire, la Chiesa dell’amore e della misericordia. Ma il nucleo di questo ampio ventaglio è sempre stato tenuto in mano dall’Istituzione. Ora – e per la prima volta – l’Istituzione è a rischio di perdere il rango di guida. In parte l’ha già perso ma non del tutto. I mandarini ci sono ancora. Hanno fatto atto di sottomissione, si sono allineati, ma ancora combattono. Come? Credono di convincere Francesco ad attuare buone riforme ma non una rivoluzione, giocando sulla doppia natura di papa Bergoglio che come tutti gli uomini che hanno testa e cuore e quindi contraddizioni dentro di sé possono da quelle contraddizioni ricavare ricchezza, pienezza e armonia tra intelletto ed anima oppure confusione e  incoerenza. I mandarini sono sempre stati al passo dei tempi ma con cautela, prudenza, compromessi nel rafforzamento del loro ruolo. Francesco, non dimentichiamolo, è nato e cresciuto nella Compagnia di Gesù. Si sente ancora gesuita? Ma ha scelto di chiamarsi Francesco, come finora non era mai avvenuto. Che cosa significa questa miscela? Come si può mettere insieme il poverello di Assisi e Ignazio di Loyola? Basta la fede in Cristo? Ma chi è Cristo per papa Francesco e chi è per i

mandarini che ancora allignano e non solo in Vaticano.

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Ad una delle domande qui formulate una risposta me la sono data; naturalmente è la mia e deriva soltanto da quanto credo di aver capito di papa Francesco che, secondo me, è tuttora identificato con la cultura e la testimonianza che la Compagnia di Gesù ha dato della Chiesa per cinque secoli. Oggi la Compagnia è molto meno potente di un tempo, altre forze sono nate nel tessuto dell’Istituzione, il clero regolare ha perso parte del suo ruolo e i gesuiti non hanno più il primato della cultura e dell’educazione della gioventù cattolica. Il cosiddetto Papa nero, cioè il generale della Compagnia, è definitivamente tramontato e il “perinde ac cadaver”, che è ancora il motto della Compagnia, non ha più alcun reale significato. Del resto non l’ha mai avuto perché i contrasti tra il Papato e la Compagnia sono stati frequenti e per ben due volte portarono all’isolamento dei gesuiti e alla loro cacciata da alcuni paesi europei a cominciare dalla Francia, col beneplacito del Vaticano. Tuttavia la cultura gesuitica e soprattutto la prassi comportamentale che viene insegnata ai loro novizi e ai cattolici che frequentano le loro scuole, le loro università ed i loro esercizi spirituali è ancora di alto livello e di notevole suggestione. Consiste soprattutto in tre punti: la vocazione missionaria fondata non sul proselitismo ma sull’ascolto e sul dialogo con i diversi; la capacità di guidare, capire e in qualche modo influire sui processi della società dove la Compagnia è presente; dividersi tra di loro identificandosi con processi così diversi l’uno dall’altro restando tuttavia profondamente legati alla Compagnia e ai suoi organi centrali. Insomma una sorta di gioco delle parti nel quadro d’una rappresentazione della quale sono gli attori principali. Un tempo, l’ho già detto, la loro potenza nella Chiesa e nei paesi cattolici del nostro continente fu di altissimo livello; del resto la Compagnia fu fondata da Ignazio per combattere lo scisma luterano e limitarne le conseguenze. In che modo? Non opponendogli il conservatorismo ma una forte riforma. I laici e i protestanti la chiamarono controriforma dando un significato conservatore a quella parola, ma non era così e basta ricordare l’azione pastorale dei Borromeo, Carlo e Federico, del quale ultimo c’è ampio racconto nei Promessi Sposi del Manzoni. Papa Bergoglio è intrinseco della cultura e della prassi della Compagnia e non è certo un caso che sia il primo Pontefice che da essa proviene in una fase di estrema laicizzazione del mondo e di estremo isolamento della Chiesa. Vuole una Chiesa missionaria così come la Compagnia l’ha voluta e praticata; esorta i preti regolari e quelli secolari a comprendere l’ambiente in cui operano e adeguare ad esso la loro cura d’anime, ma li esorta anche a confrontarsi con culture religiosamente diverse, con particolare attenzione ad aperture di dialogo con non credenti e atei. E vuole, papa Bergoglio, trasformare in questo senso la Chiesa, il ruolo dei Vescovi e delle Conferenze episcopali, il ruolo della Curia, senza mai abbandonare la dottrina né smontare l’architettura  dogmatica, semmai interpretarne il significato. I gesuiti sono maestri nella casistica, anzi ne sono addirittura gli inventori e Bergoglio è, in quanto Papa, il maestro dei maestri. Nelle sue mani la casistica ha compiuto un salto di qualità ed è diventata una visione plurima del mondo, un ventaglio amplissimo di posizioni diverse e contraddittorie da gestire indirizzandole verso una convivenza proficua e di reciproca comprensione e rispetto. Ecco, una fedeltà alla Compagnia a 24 carati. Ma il gesuita Bergoglio eletto al soglio di Pietro non si chiama, come pure avrebbe potuto, Ignazio, bensì Francesco, con esplicito riferimento al santo di Assisi. Nessuno aveva mai preso quel nome nella storia del papato. Un gesuita si chiama papa Francesco. Qual è il significato e il senso di questa apparente contraddizione?

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Molti pensano che Francesco d’Assisi, dopo una “jeunesse dorée” finita piuttosto male, cui seguì una radicale conversione almeno agli inizi vissuta per il suo valore espiatorio, sia stato una sorta di fondamentalista della Chiesa dei poveri: piedi scalzi o con sandali anche nei più rigidi inverni, risorse individuali nessuna, risorse della comunità dei frati scarsissime e frutto di elemosine più spontanee che cercate e chieste, fedeltà totale a Cristo, fratellanza e amore tra i seguaci di Francesco, assenza di conventi accoglienti anteponendo un’itineranza pressoché continua, amore per il prossimo da soccorrere, scarsi contatti con la Chiesa ufficiale e istituzionale, identificazione con la virtù, la natura, la preghiera, la poesia che sgorga dall’anima, nessun timore per “sora nostra morte corporale” perché l’anima è immortale e la vita solo un transito. Questo racconto dell’iniziazione di Francesco e dei suoi compagni coglie senza dubbio alcuni aspetti comuni della Chiesa povera da loro praticata e predicata, ma ne tralascia altri non meno importanti. Per esempio i contatti che da un certo momento in poi Francesco ebbe e coltivò con i dignitari della Chiesa e col Papa quando decise di consolidare in un Ordine e nelle sue regole le comunità dei suoi seguaci, di dargli una sede, ferma restando la pratica itinerante intervallata però di soste non di riposo ma di contemplazione dello Spirito e di se stessi. I contatti con la Chiesa ufficiale furono lunghi e piuttosto complessi. La Curia non era molto propensa a riconoscere un Ordine di quella natura nel momento stesso in cui la Chiesa era già nel pieno delle sue lotte temporali e ancora alle prese con la secolare questione delle investiture, dopo  la piena vittoria a Canossa di papa Gregorio VII. Una lotta per il potere dalla quale Francesco e i suoi seguaci erano del tutto estranei, anzi del tutto avversi. Alla fine fu il Papa stesso a ricevere Francesco colmandolo di lodi e condividendo l’idea che ci fosse un Ordine come egli proponeva, ma condizionandone l’approvazione a modifiche non marginali delle regole proposte da Francesco. La  trattativa durò a lungo. Alla fine gran parte delle modifiche furono accettate dalla comunità francescana e l’Ordine nacque.

Sarebbe lungo e fuori posto in questa sede dar conto di questa complessa vicenda che del resto è stata ampiamente esaminata dagli storici della Chiesa. Ricordo però che Francesco ha avuto contatti col Papa e con i suoi dignitari ma la sua itineranza lo portò in varie regioni d’Italia e perfino in Terrasanta dove le Crociate avevano da tempo messo quelle terre a ferro e fuoco creando principati cristiani, eserciti stanziali e Ordini militari e religiosi insieme. Francesco ne conobbe i capi e molti cavalieri, ma conobbe anche alcuni dei capi saraceni e con alcuni di loro pregò il Dio che è universale e del cui nome nessuno dovrebbe appropriarsi e farne bandiera di guerra. Alcuni dei cristiani di Terrasanta si convinsero a quanto Francesco predicava e se ne convinsero perfino alcuni dei capi saraceni da lui incontrati che lo frequentarono ed anche lo ospitarono per qualche giorno dimostrando amicizia alla persona e rispetto per la fede da lui manifestata verso il “Dio di tutti”.

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Questi sono i tratti salienti sia pure accennati in modo estremamente sintetico, della Compagnia fondata da Ignazio e della Chiesa povera guidata dal santo di Assisi. Ci sono, tra i due Ordini e soprattutto tra i loro fondatori alcuni tratti comuni; soprattutto la fede in Gesù Cristo e nella Chiesa sua mistica sposa; ma le differenze sono di gran lunga prevalenti. Papa Francesco porta con sé e dentro di sé entrambe queste due possenti manifestazioni di religiosità, di ruolo e di comportamenti. Mi sono chiesto se si tratti di una contraddizione apparente o sostanziale e la risposta che mi do è: sostanziale.

Ignazio ebbe anche alcuni momenti di misticismo ma non è su di essi che poggiò la sua azione; amava i mistici, li riteneva indispensabili alla Chiesa, ma la sua fede era radicata nella sua testa e non soltanto nel suo cuore. Da questo punto di vista papa Francesco gli somiglia molto. Il santo di Assisi visse invece in uno stato di misticismo e di identificazione con Cristo quasi permanenti. Basterebbe il suo rapporto di dolcezza e di dialogo continuo con la natura “sive Deus”, le stimmate sulle sue mani, l’amore spirituale con Chiara che fu accanto a lui nel momento saliente della sua esistenza.

Che io sappia per quello che ho colto in papa Francesco, quest’aspetto saliente di  misticismo e trasfigurazione in lui non ci sono. C’è l’ammirazione e vorrei dire l’adorazione per il santo di cui ha preso il nome. L’identificazione tra queste due figure si realizza tuttavia su un piano altrettanto importante ed è quello dell’amore per il prossimo, della misericordia diffusa a tutte le anime, della Chiesa povera e missionaria che dialoga con tutti, che è vicina a tutti i deboli, a tutti i poveri, a tutti gli esclusi, dell’identificazione di questa Chiesa con il popolo di Dio e dei suoi presbiteri con cura di anime, dei Vescovi successori degli apostoli, delle Comunità dedicate al volontariato, delle pecore smarrite e dei “figli prodighi” che tornano perché hanno sentito nel loro profondo d’essere cercati.

La Chiesa-istituzione non è stata quella predicata da Gesù se non in parte. Per secoli e anzi millenni la priorità di ruolo l’ha avuta l’Istituzione consapevole del valore della Chiesa povera ma dedicata soprattutto all’esercizio del potere e quindi della temporalità, comunque aggiornata ai tempi ma dedita al rafforzamento e all’ampliamento della temporalità. Papa Francesco è sempre stato in guerra con la primazia della temporalità. È flessibile e consapevole ed esperto della forza dei suoi avversari, è astuto nella gradualità e nella necessità di compromessi, ma è anche sagace nel cogliere il momento dell’attacco radicale agli ostacoli che i mandarini gli oppongono. Insomma è una guerra e durerà a lungo. Ratzinger non si era accorto di questa realtà. I brevi anni del suo pontificato li ha vissuti come una sorta di Truman Show, una città del tutto fittizia costruita da una potente società televisiva e abitata da dipendenti di quella società della quale il protagonista era il solo a non sapere che tutto era finto, finte le famiglie, finto il lavoro degli artigiani, finta l’amicizia e il rispetto che tutti gli dimostravano in quel sito della terra che sembrava il più felice, onesto e agiato del mondo. Finto e inesistente fino a quando… Fino a quando Benedetto XVI si trovò coinvolto nello scandalo del “Corvo”, delle malefatte del suo maggiordomo, nelle ruberie dello Ior e nella complicità della Curia. E scoprì che il mondo in cui credeva d’aver vissuto celava un pantano morale. Ne capì la vastità e il radicamento; misurò la vastità di quel mondo e le proprie forze e decise che la sola cosa che doveva fare era denunciarne l’esistenza e dimettersi. L’energia di affrontare una guerra così lunga e complessa il suo corpo non l’aveva. Sperò e pregò affinché il Conclave seguito alle sue dimissioni scegliesse la persona adatta e così accadde un anno fa.

Il Papa che oggi conduce l’opera di bonifica e di trasformazione che Ratzinger non poté fare ha dentro di sé l’obiettivo del santo d’Assisi e la metodica di Ignazio. La contraddizione è questa: la bonifica della palude è uno scopo che anche Ignazio aveva ben presente ai suoi tempi ma la sua metodica si svolgeva nella palude, utilizzava la palude per rendere ancora più necessaria la presenza della Compagnia. Dopo Ignazio, la Compagnia trasformò la metodica da strumento in obiettivo sicché una parte di quell’Ordine alimentò la palude per sguazzarvi dentro. Ora si dà il caso che il gesuita Bergoglio abbia riportato la metodica gesuita da metodica a strumento. Per questo ha preso il nome di Francesco. Ma questa non è una posizione riformista che i mandarini tollererebbero e addirittura appoggerebbero. Questa è una rivoluzione. Un gesuita che sceglie quel nome è, forse contro le sue intenzioni, forse anche senza che ne sia  interamente consapevole, una bomba. Non era mai accaduto nella storia della Chiesa. Era accaduto invece che la Chiesa, dopo i primi secoli, si fosse impestata, corrotta, penetrata da quello che Dostoevskij chiama, lo “Spirito della terra” e cioè il demonio, la corruzione, la lotta per il potere.

Papa Francesco lo sa ed è questa la sua battaglia. Ha molte doti papa Francesco: carità spirituale, curiosità dei diversi, estrema socievolezza ed allegria di spirito, simpatia ed empatia. È la persona adatta per lo scopo che si prefigge. Oltre il novanta per cento dei fedeli è con lui, ma gli ostacoli sono numerosi e lo Spirito della terra, comunque lo si voglia identificare, è una muraglia di gomma difficilissima da sradicare.

I non credenti dal canto loro, hanno anch’essi un muro di gomma che protegge i malgoverni, gli interessi illeciti, la vanità dei potenti, la demagogia, il semplicismo, l’inconsapevolezza, l’irresponsabilità, il dispotismo e il privilegio.  Francesco è amico dei non credenti che combattono questa battaglia ed essi a loro volta sono suoi amici. Per quanto mi riguarda, io mi sento legato da profonda amicizia con papa Francesco e sono da tempo ammirato dalla predicazione e dalla vita di Gesù che considero un uomo e non un Dio, ma certo un personaggio d’eccezione quale ce lo raccontano i Vangeli che sono la sola fonte della sua esistenza storica. Ammesso che sia esistito un personaggio di quella fatta, l’Istituzione da lui ispirata dura da due millenni e dentro di essa se ne sono viste di tutti i colori ma anche quei principi di carità fraternità, responsabilità, sofferenza e gioie, desideri, amore, debolezza e forza che insieme ai loro contrari convivono dentro gli animali pensanti che noi siamo. Caro papa Francesco, su sponde diverse noi combattiamo la stessa battaglia. Purtroppo durerà fino a quando esisterà la nostra specie. I leoni e le formiche, i topi e le gazzelle non hanno i nostri problemi e le nostre contraddizioni. Anch’essi sopportano la fatica del vivere, la paura e la soddisfazione quando appagano i loro bisogni primari. La nostra fatica è diversa e forse maggiore della loro e questa è la nobiltà delle nostre umane vicende

Scalfari e la ‘rivoluzione’ di papa Francesco

 

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è decisamente contento E. Scalfari degli atteggiamenti e degli interventi di papa Francesco: a lui il papa ha  fatto delle telefonate e gli ha concesso un’ampia intervista; Scalfari a più riprese ha espresso la sua soddisfazione e su ‘la Repubblica’ odierna ne parla come di un papa ‘rivoluzionario’: pur non rinnegando la dottrina tradizionale esprime un approccio col messaggio evangelico in modo radicalmente diverso dalle impostazioni tradizionali che mettevano al centro il peccato anzjché la misericordia:

La rivoluzione di Francesco ha abolito il peccato

 

di Eugenio Scalfari

in “la Repubblica” del 29 dicembre 2013

 

Si cercano con insistenza le novità e le innovazioni con le quali papa Francesco sta modificando la

Chiesa. Alcuni sostengono che le novità sono di pura fantasia e le innovazioni del tutto inesistenti;

altri al contrario sottolineano le innovazioni organizzative che non turbano tuttavia la tradizione

teologica e dottrinaria; altri ancora definiscono Francesco, Vescovo di Roma come egli ama

soprattutto definirsi, un Pontefice rivoluzionario.

Personalmente mi annovero tra questi ultimi. È rivoluzionario per tanti aspetti del suo ancor breve

pontificato, ma soprattutto su un punto fondamentale: di fatto ha abolito il peccato.

Un Papa che abbia modificato la Chiesa, anzi la gerarchia della Chiesa, su una questione di questa

radicalità, non si era mai visto, almeno dal terzo secolo in poi della storia del cristianesimo e l’ha

fatto operando contemporaneamente sulla teologia, sulla dottrina, sulla liturgia, sull’organizzazione.

Soprattutto sulla teologia.

I critici di papa Francesco sottovalutano le sue capacità e inclinazioni teologiche, ma commettono

un grossolano errore. Il peccato è un concetto eminentemente teologico, è la trasgressione di un

divieto. Quindi è una colpa.

La legge mosaica condensata nei dieci comandamenti ordina e impone divieti. Non contempla

diritti, non prevede libertà. Il Dio mosaico descrive anzitutto se stesso: «Onora il tuo Dio, non

nominare il nome di Dio invano, non avrai altro Dio fuori di me».

Poi, per analogia, ordina di onorare il padre e la madre. Infine si apre il capitolo dei divieti, dei

peccati e delle colpe che quelle trasgressioni comportano: «Non rubare, non commettere atti impuri,

non desiderare la donna d’altri (attenzione: il divieto è imposto al maschio non alla femmina perché

la femmina è più vicina alla natura animale e perciò la legge mosaica riguarda gli uomini)».

Il Dio mosaico è un giudice e al tempo stesso un esecutore della giustizia. Almeno da questo punto

di vista non somiglia affatto all’ebreo Gesù di Nazareth, figlio di Maria e di Giuseppe della stirpe di

David. Non contempla alcun Figlio il Dio mosaico; non esiste neppure il più vago accenno alla

Trinità. Il Messia – che ancora non è arrivato per gli ebrei – non è il Figlio ma un Messaggero che

verrà a preannunciare il regno dei giusti. Né esistono sacramenti né i sacerdoti che li amministrano.

Quel Dio è unico, è giudice, è vendicatore ed è anche, ma assai raramente, misericordioso, ammesso

che si possa definire chi premia l’uomo suo servo se e quando ha eseguito la sua legge.

È Creatore e padrone delle cose create. Nulla è mai esistito prima di lui e quindi da quando esiste

comincia la creazione. Questo Dio i cristiani l’hanno ereditato trasformandolo fortemente nella sua

essenza ma facendone propri alcuni aspetti importanti: il divieto e quindi il peccato e la colpa.

Adamo ed Eva peccarono e furono puniti, Caino peccò e fu punito, e anche i suoi discendenti

peccarono e furono puniti. L’umanità intera peccò e fu punita dal diluvio universale.

Questo è il Dio di Abramo, il Dio della cattività egizia e babilonese, di Assiria, di Babele, di

Sodoma e Gomorra. Nella sostanza è il Dio ebraico o molto gli somiglia salvo che nella

predicazione di alcuni profeti e poi soprattutto in quella evangelica di Gesù.

Nei secoli che seguirono, fino all’editto di Costantino che riconobbe l’ufficialità del culto cristiano,

il popolo che aveva seguito Gesù offrì martiri alla verità della fede, fondò comunità, predicò amore

verso Dio e soprattutto verso Cristo che trasferì quell’amore alle creature umane affinché lo

scambiassero con il loro prossimo. Nacquero così l’agape, la carità e l’esortazione evangelica «ama

il tuo prossimo come te stesso».

Questo è il Dio che predicò Gesù e che troviamo nei Vangeli e negli Atti degli apostoli. Un Dio

estremamente misericordioso che si manifestò con l’amore e il perdono.

Nella dottrina dei Concili e dei Papi restano tuttavia le categorie del Dio giudice, del Dio esecutore

di giustizia, del Dio che ha edificato una Chiesa e man mano l’ha distaccata dal popolo dei fedeli.

Dall’editto di Costantino sono passati 1700 anni, ci sono stati scismi, eresie, crociate, inquisizioni,

potere temporale. Novità e innovazioni continue su tutti i piani, teologia, liturgia, filosofia,

metafisica. Ma un Papa che abolisse il peccato ancora non si era visto. Un Papa che facesse della

predicazione evangelica il solo punto fermo della sua rivoluzione ancora non era comparso nella

storia del cristianesimo.

Questa è la rivoluzione di Francesco e questa va esaminata a fondo, specie dopo la pubblicazione

dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, dove l’abolizione del peccato è la parte più

sconvolgente di tutto quel recentissimo documento.

***

Francesco abolisce il peccato servendosi di due strumenti: identificando il Dio cristiano rivelato da

Cristo con l’amore, la misericordia e il perdono. E poi attribuendo alla persona umana piena libertà

di coscienza. L’uomo è libero e tale fu creato, afferma Francesco. Qual è il sottinteso di questa

affermazione? Se l’uomo non fosse libero sarebbe soltanto un servo di Dio e la scelta del Bene

sarebbe automatica per tutti i fedeli. Solo i non credenti sarebbero liberi e la loro scelta del Bene

sarebbe un merito immenso. Ma Francesco non dice questo. Per lui l’uomo è libero, la sua anima è

libera anche se contiene un tocco della grazia elargita dal Signore a tutte le anime. Quella scheggia

di grazia è una vocazione al Bene ma non un obbligo. L’anima può anche ignorarla, ripudiarla,

calpestarla e scegliere il Male; ma qui subentrano la misericordia e il perdono che sono una costante

eterna, stando alla predicazione evangelica così come la interpreta il Papa. Purché, sia pure

nell’attimo che precede la morte, quell’anima accetti la misericordia. Ma se non l’accetta? Se ha

scelto il Male e non revoca quella scelta, non avrà la misericordia e allora che cosa sarà di lui?

Per rivoluzionario che sia, un Papa cattolico non può andare oltre. Può abolire l’Inferno, ma ancora

non l’ha fatto anche se l’esistenza teologica dell’Inferno è discussa ormai da secoli. Può affidare al

Purgatorio una funzione “post mortem” di ravvedimento, ma si entrerebbe allora nel giudizio

sull’entità della colpa e anche questo è un tema da tempo discusso.

Papa Francesco indulge talvolta a ricordare ai fedeli la dottrina tradizionale anche se il suo dialogo

con i non credenti è costante e rappresenta una delle novità di questo pontificato che ha trovato i

suoi antecedenti in papa Giovanni e nel Vaticano II.

Francesco non mette in discussione i dogmi e ne parla il meno possibile. Qualche volta li

contraddice addirittura. È accaduto almeno due volte nel dialogo che abbiamo avuto e che spero

continuerà.

Una volta mi disse, di sua iniziativa e senza che io l’avessi sollecitato con una domanda: «Dio non è

cattolico». E spiegò: Dio è lo Spirito del mondo. Ci sono molte letture di Dio, quante sono le anime

di chi lo pensa per accettarlo a suo modo o a suo modo per rifiutarne l’esistenza. Ma Dio è al di

sopra di queste letture e per questo dico che non è cattolico ma universale.

Alla mia domanda successiva a quelle sue affermazioni sconvolgenti, papa Francesco precisò: «Noi

cristiani concepiamo Dio come Cristo ce l’ha rivelato nella sua predicazione. Ma Dio è di tutti e

ciascuno lo legge a suo modo. Per questo dico che non è cattolico perché è universale». Infine ci fu

in quell’incontro un’altra domanda: che cosa sarebbe accaduto quando la nostra specie fosse estinta

e non ci sarà più sulla Terra una mente capace di pensare Dio?

La risposta fu questa: «La divinità sarà in tutte le anime e tutto sarà in tutti». A me sembrò un arduo

passaggio dalla trascendenza all’immanenza, ma qui entriamo nella filosofia e vengono in mente

Spinoza e Kant: «Deus sive Natura» e «Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me».

«Tutto sarà tutto in tutti». A me, l’ho già detto, è sembrata una classica immanenza ma se tutti

hanno tutto dentro di sé potrebbe essere concepita anche come una gloriosa trascendenza.

Resta comunque assodato che per Francesco Dio è misericordia e amore per gli altri e che l’uomo è

dotato di libera coscienza di sé, di ciò che considera Bene e di ciò che considera Male.

Ma qui si pone un’altra e fondamentale domanda: che cos’è il Bene e che cosa è il Male? Credo sia

impossibile dare una definizione a questi due concetti. Una soltanto è possibile: sono necessari

l’uno all’altro per poter reciprocamente esistere di fronte ad un essere vivente che ha conoscenza di

sé. Gli animali non hanno il problema del Male e del Bene perché non possiedono una mente che si

guarda e si giudica. Noi sì, quella mente l’abbiamo. Se ci fosse solo il Bene, come definirlo? Ma se

c’è anche il Male l’esistenza di uno fa la differenza dell’altro come accade tra la luce e il buio, tra la

salute e la malattia, e se volete, tra esistenza e inesistenza. Il nulla non è definibile né pensabile

perché privo di alternativa.

***

Evangelii Gaudium non parla soltanto di teologia. Anzi parla molto più a lungo di altre cose,

concrete, organizzative, rivoluzionarie anch’esse. Parla del ruolo positivo e creativo delle donne

nella Chiesa. Parla dell’importanza dei Sinodi dei quali il Papa fa parte in quanto Vescovo di Roma,

“primus inter pares”. Parla dell’autonomia delle Conferenze episcopali. Parla dell’importanza delle

parrocchie e degli oratori sul territorio. Parla perfino di politica, non certo nel senso del politichese,

ma della politica come visione del bene comune e della libertà per chiunque di utilizzare lo spazio

pubblico per diffondere e confrontarsi con le idee altrui. Parla delle diseguaglianze che vanno

diminuite. «Io non ce l’ho con i ricchi, ma vorrei che i ricchi si dessero direttamente carico dei

poveri, degli esclusi, dei deboli». Così papa Francesco. E parla infine della Chiesa missionaria che

rappresenta il punto centrale della sua rivoluzione. La Chiesa missionaria non cerca proselitismo ma

cerca ascolto, confronto, dialogo.

Concludo con una frase che dice tutto su questo Papa, gesuita al punto d’aver canonizzato pochi

giorni fa Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia più nobile e più discussa tra gli Ordini della

Chiesa e contemporaneamente d’aver assunto il nome di Francesco che nessun Pontefice prima di

lui aveva mai usato. I gesuiti mettono al servizio della Chiesa la loro proverbiale e non sempre

apprezzabile flessibilità. Francesco d’Assisi era invece integrale nella sua visione d’un Ordine

mendicante e itinerante. L’Ordine francescano fu rivoluzionario ma la sua potenza fu molto limitata;

la Compagnia di Gesù al contrario fu potentissima e molto flessibile.

Questo Papa riunisce in sé le potenzialità degli uni e degli altri e conclude con due righe che

rappresentano la sintesi di questo storico connubio: «È necessaria una conversione del Papato

perché sia più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli. Non bisogna aver paura di

abbandonare consuetudini della Chiesa non strettamente legate al Vangelo. Bisogna essere audaci e

creativi abbandonando una volta per tutte il comodo proverbio “Si è sempre fatto così”. Bisogna

non più chiudere le porte della Chiesa per isolarci, ma aprirle per incontrare tutti e prepararci al

dialogo con altri idiomi, altri ceti sociali, altre culture. Questo è il mio sogno e questo intendo fare».

Questo dialogo riguarda anche e forse soprattutto i non credenti, la predicazione di Gesù ci

riguarda, l’amore per il prossimo ci riguarda, le diseguaglianze intollerabili ci riguardano. Un Papa

rivoluzionario ci riguarda e il relativismo di aprirsi al dialogo con altre culture ci riguarda.

Questa è la nostra vocazione al Bene che dobbiamo perseguire con costante proposito

è stato , da diverse parti, e comprensibilmente – soprattutto in riferimento all’affermazione perentoria contenuta nel titolo sull’ ‘abolizione del peccato’ – commentato l’articolo di E. Scalfari qui riportato (acuni, da parte tradizionalista e sterilmente critica ha accusato Scalfari di voler “insegnare il catechismo al papa” (cfr. ‘il Foglio’)

è intervenuto anche il portavoce  vaticano stesso, padre Lombardi per puntualizzare diverse cose e mettere meglio a fuoco il pensiero di papa Francesco

E. Scalfari risponde così alle puntualizzazioni di p. Lombardi:

Francesco e il peccato

 

di Eugenio Scalfari

in “la Repubblica” del 31 dicembre 2013

 

Padre Lombardi ha rilasciato ieri alla Radio Vaticana una lunga dichiarazione sul mio articolo uscito

l’altroieri suRepubblica e ne segnala l’importanza come l’espressione da parte del mondo laico non

credente su come Papa Francesco sta modificando la struttura stessa della Chiesa. Lo ringrazio per

l’attenzione che pone al mio lavoro e al mio pensiero. C’è però nella sua dichiarazione alla Radio

Vaticana una netta smentita all’ipotesi da me formulata che il Papa abbia abolito il peccato. Questa

ipotesi è ovviamente una mia interpretazione la quale tuttavia è da me accompagnata da una

constatazione che qui trascrivo: “L’uomo è libero e tale fu creato, afferma Francesco. Qual è il

sottinteso di questa affermazione? Se l’uomo non fosse libero sarebbe soltanto un servo di Dio e la

scelta del Bene sarebbe automatica per tutti i fedeli. Solo i non credenti sarebbero liberi e la loro

scelta del Bene sarebbe un merito immenso. Ma Francesco non dice questo. Per lui l’uomo è libero,

la sua anima è libera anche se contiene un tocco della grazia elargita dal Signore a tutte le anime.

Quella scheggia di grazia è una vocazione al Bene ma non un obbligo. L’anima può anche ignorarla,

ripudiarla, calpestarla e scegliere il Male; ma qui subentrano la misericordia e il perdono che sono

una costante eterna, stando alla predicazione evangelica così come la interpreta il Papa. Purché, sia

pure nell’attimo che precede la morte, quell’anima accetti la misericordia. Ma se non l’accetta? Se

ha scelto il Male e non revoca quella scelta, non avrà la misericordia e allora che cosa sarà di lui?

Per rivoluzionario che sia, un Papa cattolico non può andare oltre”.

Da questa citazione di quanto ho scritto risulta evidente che il Papa non abolisce il peccato se la

persona umana, sia pure in punto di morte, non si pente e la mia conclusione, come già citato sopra,

è appunto quella che “un Papa cattolico non può andare oltre”. Da questo punto di vista Padre

Lombardi ed io la pensiamo allo stesso modo. Perché tuttavia io penso che Papa Francesco abbia

abolito di fatto il peccato? Ho cercato di spiegarlo subito dopo sottolineando che nel momento

stesso in cui il Papa pone come condizione alla conquista della grazia il pentimento, riafferma

tuttavia la libertà di coscienza e cioè il libero arbitrio che Dio riconosce all’uomo. Se, a differenza

di tutte le altre creature viventi, la nostra specie è consapevole della propria libertà, è il Creatore che

gliel’ha consentita. La libertà di coscienza fa dunque parte integrante del disegno divino. Il Dio

mosaico punisce chi esercita la sua libertà. punisce Adamo ed Eva cacciandoli dal Paradiso

terrestre, punisce Caino e i suoi discendenti, punisce l’umanità intera con il diluvio universale.

Quanto a Gesù (che sia figlio di Dio o figlio dell’uomo) è comunque incarnato e sente dentro di sé

le virtù, i dolori e le tentazioni della carne, altrimenti non si misurerebbe col demonio nei quaranta

giorni che passa nel deserto per respingerle. Ma soprattutto non accetterebbe il martirio e la

crocifissione assumendosi tutte le colpe degli uomini per ripristinare l’alleanza con Dio. Il Papa

cattolico ha come limite tradizionale la punizione di chi non si pente ma a mio avviso la supera nel

momento in cui l’uomo esercita la sua libertà di coscienza. La libertà di coscienza fa parte dunque

del disegno divino. Sua Santità ha rivendicato come suo autore preferito il Dostoevskij dei

FratelliKaramazov. 

Padre Lombardi certamente ben conosce le pagine sul Grande Inquisitore e certamente le conosce

Papa Francesco. Il rapporto tra il Bene e il Male è dunque molto aperto in chi discute con i non

credenti. Mi permetto tuttavia di segnalare a Padre Lombardi la chiusura del mio articolo di

domenica che qui desidero riportare testualmente: “La predicazione di Gesù ci riguarda, l’amore per

il prossimo ci riguarda, le diseguaglianze intollerabili ci riguardano. Un Papa rivoluzionario ci

riguarda e il relativismo di aprirsi al dialogo con altre culture ci riguarda. Questa è la nostra

vocazione al Bene che dobbiamo perseguire con costante proposito”.

 

anche V. Mancuso ha voluto commentare l’articolo di Scalfari su riportato, puntualizzando, con maggiore senso e linguaggio teologico appropriato, in quale maniera precisa può parlarsi di ‘rivoluzione’ teologica ed ecclesiale di papa Francesco:

Il peccato nella Chiesa di Francesco

di Vito Mancuso

in “la Repubblica” del 3 gennaio 2014

Nell’editoriale di domenica scorsa Eugenio Scalfari ha sostenuto che papa Francesco è un Pontefice

«rivoluzionario » e che la sua rivoluzione consiste nella «abolizione del peccato». A mio avviso si

tratta di una tesi che contiene un’intuizione importante ma che ultimamente non può sussistere. Non

lo può anzitutto perché è troppo presto per stabilire se Francesco sia davvero rivoluzionario o anche

solo schiettamente riformista visto che la sua azione si deve ancora sostanziare in concreti atti di

governo (in primis nomine dei vescovi e reale libertà di insegnamento teologico) e in concrete

decisioni disciplinari (in primis effettiva promozione della donna e concessione dei sacramenti ai

divorziati risposati). Ma la tesi di Scalfari a mio avviso non regge soprattutto perché l’ipotetica

rivoluzione bergogliana non potrà mai consistere nella abolizione del peccato. «Confesso a Dio

onnipotente e a voi fratelli che ho molto peccato»: così comincia, dopo il saluto del celebrante, la

Messa cattolica, ricordando a ogni fedele di percepirsi anzitutto come peccatore, anzi, come uno che

ha «molto» peccato «in pensieri, parole, opere e omissioni». Lutero a sua volta insegnava

pecca

fortiter sed crede fortius

(pecca forte, ma più forte credi), legando l’atto di fede all’esperienza del peccato. E secondo il Vangelo le prime parole di Gesù furono: «Il regno di Dio è vicino,convertitevi» (Marco 1,15). Per il cristianesimo quanto più ci si avvicina alla luminosa sorgente del bene, tanto più aumenta la percezione dell’indegnità per il male prodotto dall’ego, unasituazione molto simile al chiaroscuro di Caravaggio e di Rembrandt.

L’abolizione del peccato venne tentata un secolo e mezzo fa in piena modernità da un filosofo molto

amato da Scalfari ma nemico mortale del cristianesimo, Nietzsche, il quale promosse una filosofia

che intendeva condurre gli uomini in un territorio «al di là del bene e del male» (il saggio omonimo

è del 1886). Si tratta però solo di un sogno, non privo peraltro di immensi pericoli, perché questa

terra promessa al di là del bene e del male purtroppo non esiste. Per noi uomini, qui e ora, tutto è “al

di qua” del bene e del male. C’è una politica buona e una politica che non lo è. C’è un’economia

buona, e una che non lo è. C’è una cronaca buona, e una che non lo è. A partire dalle più elementari

esperienze vitali quali l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo e il cibo che mangiamo, fino alle

più elevate produzioni della mente, tutto ciò che procede e ritorna alla vita dell’uomo è sempre

invalicabilmente “al di qua” del bene e del male. La libertà umana esiste, ed esistendo opera, e

quindi può agire bene oppure male in ogni dimensione. Volenti o nolenti, siamo così rimandati

all’esperienza del peccato, e ovviamente anche del merito. E infatti non c’è tradizione spirituale che

non conosca il concetto di peccato, sorto nella coscienza per il bisogno di segnalare le azioni che

producono una diminuzione del grado di ordine o di armonia. Da qui le catalogazioni ora secondo

l’oggetto come nel caso dei peccati (per esempio i cosiddetti “quattro peccati che gridano vendetta

al cospetto di Dio”), ora invece secondo la disposizione soggettiva come nel caso dei vizi (per

esempio i cosiddetti “sette vizi capitali”).

Si aprirebbe a questo punto la questione accennata anche da Scalfari sul perché tanto spesso l’uomo

sia attratto dal male, un interrogativo che incombe sul pensiero fin dalla notte dei tempi. La dottrina

cattolica risponde mediante il dogma del peccato originale, il quale ha il merito di segnalare il

problema ma il demerito ben maggiore di presentare una soluzione teoreticamente insufficiente e

moralmente indegna, al cui riguardo ha scritto Kant: «Qualunque possa essere l’origine del male

morale nell’uomo, non c’è dubbio che il modo più inopportuno è quello di rappresentarci il male

come giunto fino a noi per eredità dei primi progenitori».

Dicevo all’inizio che l’articolo di Scalfari contiene un’intuizione importante e a mio avviso essa

consiste nell’auspicabile superamento del cosiddetto amartiocentrismo, cioè di quella visione che fa

del peccato il perno della vita spirituale (amartíain greco significa peccato). Se il peccato infatti non

potrà (purtroppo) mai essere abolito, il suo primato sì, lo può, anzi lo deve essere, se il cristianesimo

vuole tornare a essere fedele al Vangelo e alla sua gioia — la quale va detto, diversamente da quanto

sostenuto da Scalfari, non si contrappone all’ebraismo, ma senza l’ebraismo non avrebbe potuto

sorgere.

Ma la cosa a mio avviso più preziosa dell’editoriale di Scalfari è quanto scrive alla fine, cioè che la

predicazione di Gesù «riguarda anche e forse soprattutto i non credenti». Rimane infatti da chiedersi

come la coscienza laica percepisca oggi il peccato, e come i non credenti possano anche loro

arrivare a dire «confesso a voi fratelli che ho molto peccato» (tralasciando ovviamente la prima

parte del Confiteor che si rivolge «a Dio onnipotente»). Penso infatti che lo scoprirsi inadempienti

di fronte all’imperativo etico sia inevitabile in chiunque conosca se stesso e penso altresì che la

percezione delle proprie colpe abbia precise implicazioni sociali. Penso inoltre che la dimensione

giuridica, la quale ritrascrive il peccato mediante il concetto di reato, non sia sufficiente a esprimere

tutta la densità umana del fenomeno. Come la legalità è solo una pallida immagine della giustizia,

così lo è il concetto di reato rispetto alla tensione che manifesta la coscienza del peccato. Forse chi

ha espresso al meglio questa dialettica è stato Dostoevskij in Delitto e castigo, il romanzo che nel

1866 inaugurava il ciclo narrativo che l’ha reso immortale

dialogo sulla democrazia tra Scalfari e Cacciari

 

Scalfari
Scalfari e Cacciari, dialogo sulla democrazia
“Non è solo una questione di voto”

Il filosofo e il fondatore di Repubblica hanno discusso dell’Europa e della qualita della sua democrazia. L’ex sindaco di Venezia: “Dove il potere politico è debole cresce la forza della burocrazia”. Il giornalista: “Il Comune è il punto dove si realizza la partecipazione”
di GLORIA BAGNARIOL

 

 “Europa e euro: dentro o fuori?” Questo il tema scelto per la quinta edizione di Repubblica delle Idee. che fra l’inaugurazione alla Fenice di Venezia e le giornate mestrine ha visto una grande partecipazione di pubblico in teatro ed anche sui social network, su Twitter l’hashtag #rep2013ve è statto fra i trend topic del week end. La risposta che si è venuta a creare attraverso gli incontri e le tavole rotonde dei primi due giorni che hanno ospitato imprenditori e politici locali, nazionali e europei è stata chiara: dentro. Anche le condizioni sono state condivise: è necessario un salto da un’unione meramente monetaria a una politica. Ma cosa significa? La risposta è stata affidata all’incontro conclusivo della manifestazione: il dialogo tra Eugenio Scalfari e Massimo Cacciari, nel quale si è indagata la qualità democratica di cui questa Europa ha bisogno. Per concludere che “la democrazia non è solo questione di voto”.

“Pericle – spiega Eugenio Scalfari – è ancora raccontato nei libri di storia come il simbolo massimo della democrazia greca, madre di tutte le democrazie. C’era partecipazione nel popolo di Atene? Sicuramente no, e questo può bastare a dire che non c’era democrazia?”. Bisogna quindi mettersi d’accordo sul senso del termine e, come chiarisce Massimo Cacciari: “Articolare il tipo di democrazia del quale abbiamo bisogno per poterne salvare l’idea”. Partire dalla convinzione che la democrazia non si esaurisce nel voto, ma ha bisogno della partecipazione.

La storia degli Stati nazionali ha portato a una declinazione del concetto di democrazia che non può applicarsi tout court al Vecchio Continente che ha avuto un percorso evolutivo differente. Secondo Cacciari, con il quale Scalfari concorda, “L’Europa è policentrica per sua natura e non può essere ridotta a uno. Tutti coloro che ci hanno provato hanno fallito, ha fallito anche Napoleone”. Il presupposto
necessario è quindi realizzare il passaggio da confederazione a federazione: “Sganciarsi dall’idea di uno Stato centrale per poter ragionare seriamente e serenamente in termini federalistici”.

Una federazione che abbia competenze determinate per poter risolvere le sfide di una società globale alle quali gli Stati-nazione non possono trovare da soli le risposte e che garantisca a livello locale il rapporto con il cittadino, necessario a garantire quella sovranità che ora sente di aver perduto. “Il Comune – sottolinea Scalfari – il municipio nelle metropoli, è il punto in cui si realizza al meglio la partecipazione, mano mano che si sale si può avere solo una democrazia indiretta”.

Non bisogna quindi chiedersi se vogliamo l’Europa, ma quale Europa vogliamo e come poterla costruire, come la sua articolazione possa difendere quei valori che riconosciamo come fondanti. Repubblica delle idee ha scelto Venezia per parlarne proprio perché “questa terra – come ha detto il direttore Ezio Mauro – quando parla di Europa parla di se stessa”. La quinta edizione termina quindi tra gli applausi del pubblico del Teatro Toniolo e con l’invito di Ezio Mauro a partecipare alle prossime tappe: “Abbiamo scelto questa notte dove andremo nel 2014, ma devo ancora avvertire il sindaco, quindi non posso dirlo”.

questo papa!

Francesco papa

papa Francesco nell’occhio del ciclone osservato da angoli visuali opposti: per esempio, piace molto a ‘la Repubblica’, specie, comprensibilmente al suo fondatore e al suo direttore, non piace affatto al ‘Foglio’ di Ferrara, che pur ‘devoto’, ancorché ‘ateo’,
non riesce proprio a digerirlo

di seguito un’esemplificazione di questa polarizzazione attraverso l’articolo odierno del direttore di Repubblica, E. Mauro (che presenta ufficialmente la corrispondenza tra papa Francesco , Scalfari e la Repubblica) e un articolo comparso sul Foglio di ieri dal titolo significativo: ‘questo papa non ci piace’ a firma di A. Gnocchi e M. Palmaro che accusano addirittura il papa di considerare Cristo come “un’opzione tra le altre”, oltre che di relativismo proprio là dove Mauro vede un’autentica testimonianza evangelica come “vero atto di fede nell’uomo”

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Papa Francesco-Eugenio Scalfari: il dialogo tra chi crede e chi non crede

di Ezio Mauro
in “la Repubblica” del 10 ottobre 2013

L’interesse per l’uomo è il cuore del lungo dialogo tra Papa Francesco ed Eugenio Scalfari. Più ancora ne è la ragione, l’inquietudine. Il non credente legge l’enciclica e pone un interrogativo di fondo al nuovo pontefice: chi non ha fede sarà perdonato alla fine dei tempi? Se ricerca verità relative, non credendo nell’assoluto, ciò sarà considerato un errore o un peccato? Qual è dunque lo status del non credente per il Papa di Roma, che ruolo assegna al libero pensiero, alla sua ricerca autonoma e indipendente, e in quale misura si sente interpellato da tutto questo? La decisione di rispondere da parte di Jorge Bergoglio è già in sé una manifestazione di interesse e di attenzione senza precedenti. Non c’era mai stata una lettera di un Papa a un giornale. Scegliendo di scriverla, Francesco sceglie anche di interloquire con una platea più vasta ed anomala rispetto all’uditorio costituito dei fedeli: è come se decidesse di passare dal popolo cristiano alla pubblica opinione, un soggetto distinto, autonomo, moderno, soggetto attivo e protagonista delle democrazie occidentali. La decisione di dialogare, dunque, è un messaggio in sé, è portatrice di significato, fa il giro del mondo. Scalfari è scelto dal nuovo Papa come il rappresentante di un universo esterno alla Chiesa, ma un universo che lo interessa, che lo raggiunge, di cui si sente in qualche modo responsabile. E qui c’è la seconda sorpresa, che è il secondo messaggio. Perché il Papa sceglie la strada del dialogo, dichiara subito che intende avviare un percorso di confronto per tentativi, tappe, incontri. Qualcosa di impegnativo, fuori dai canoni, dall’ufficialità, dalla meccanica curiale. Il Papa si sente investito dalle domande, dall’interlocutore, dall’occasione. Pensa che insieme si possa andare avanti a cercare, a scambiare porzioni di verità, forse a capire. Insieme. E qui, si arriva al contenuto, che è il terzo messaggio ed è ancora una sorpresa. Leggendo la lettera, quel pomeriggio in cui è arrivata a Scalfari, ho avuto la sensazione che il Papa fosse pervaso da un fortissimo interesse spirituale ma soprattutto intellettuale per la discussione che si stava avviando, quasi spinto dall’urgenza degli argomenti da mettere in campo, guidato dal desiderio autentico di quella ricerca comune. Il centro del suo discorso, l’urgenza che lo domina, è Gesù Cristo, Dio fatto uomo e poi risorto. Ma di fronte al non credente — e quasi insieme con lui — il Papa ripete la domanda del Vangelo quando Gesù ha calmato il mare fermando i venti e la tempesta: «Chi è costui?» E la risposta di Francesco spiega da sola le ragioni del dialogo. Perché l’autorità di Gesù non vuole esercitare un potere sugli altri, ma vuole servirli, dice il Papa, e dare loro libertà e pienezza di vita. Chi sono questi altri? Sono forse i credenti soltanto? Con ogni evidenza sono gli uomini, con i loro limiti e i loro errori, la loro incompiutezza e la tensione verso la bellezza, con la loro speciale (diversa per ognuno, ma intima e autentica) concezione del bene e del male, insomma con la loro speciale “umanità”. Ecco perché il Papa dà non soltanto ascolto, ma pari dignità al non credente e alla sua ricerca di significato per il mondo che ognuno di noi attraversa durante la sua esistenza. È il riconoscimento implicito che anche senza il legame con il trascendente — che per Francesco è ovviamente centrale e domina la sua vita — l’esperienza terrena può trovare un suo senso e la sua dignità più alta, quella appunto che sta nei limiti e nell’eccezionalità dell’“umano”. Il Papa compie qui quello che a me sembra un vero atto di fede nell’uomo. Dice infatti a Scalfari, sciogliendo il nodo di fondo di questo dialogo, che la vera questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza, perché il peccato, anche per chi non ha fede, si compie quando si va contro la coscienza. La coscienza può dunque essere la guida dell’uomo e la sua misura, la risorsa e il riferimento. È un riconoscimento senza precedenti, da parte di un Papa, della possibilità di autonomia morale e spirituale del libero pensiero laico, che troppi relegano in una posizione di minorità sostenendo che senza il legame col trascendente non sarebbe in grado di garantire i presupposti che afferma. Nell’intervista che prosegue e sistematizza il confronto, il Papa si muoverà invece ancora su questa nuova strada, ricordando che non esiste un Dio cattolico, esiste Dio, e «tutta la luce sarà in tutte le anime». E aggiunge che la grazia non fa parte della coscienza ma la precede,
perché non è sapienza o ragione, ma «la quantità di luce che abbiamo nell’anima ». Tutti, compresi i non credenti. Il dialogo che raccogliamo qui, nello scambio di lettere, nel testo dell’intervista, nei commenti di intellettuali laici, uomini di Chiesa, teologi — è avviato, partendo da posizioni distinte, che restano ferme e nette. Ma dopo questa testimonianza di fiducia nell’uomo da parte di Francesco si può camminare insieme

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Questo Papa non ci piace

Le sue interviste e i suoi gesti sono un campionario di relativismo morale e religioso, l’attenzione del circuito mediatico-ecclesiale va alla persona di Bergoglio e non a Pietro. Il passato è rovesciato

Quanto sia costata l’imponente esibizione di povertà di cui Papa Francesco è stato protagonista il 4 ottobre ad Assisi non è dato sapere. Certo che, in tempi in cui va così di moda la semplificazione, viene da dire che la storica giornata abbia avuto ben poco di francescano. Una partitura ben scritta e ben interpretata, se si vuole, ma priva del quid che ha reso unico lo spirito di Francesco, il santo: la sorpresa che spiazza il mondo. Francesco, il Papa, che abbraccia i malati, che si stringe alla folla, che fa la battuta, che parla a braccio, che sale sulla Panda, che molla i cardinali a pranzo con le autorità per andare al desco dei poveri era quanto di più scontato ci si potesse attendere, ed è puntualmente avvenuto.

Naturalmente con gran concorso di stampa cattolica e paracattolica a esaltare l’umiltà del gesto tirando un sospirone di sollievo perché, questa volta, il Papa ha parlato dell’incontro con Cristo. E di quella laica a dire che, adesso sì, la chiesa si mette al passo con i tempi. Tutta roba buona per il titolista di medio calibro che vuole chiudere in fretta il giornale e domani si vedrà.

Non c’è stata neanche la sorpresa del gesto clamoroso. Ma, anche questa, sarebbe stata ben povera cosa, visto quanto Papa Bergoglio ha detto e fatto in solo mezzo anno di pontificato culminato negli ammiccamenti con Eugenio Scalfari e nell’intervista a Civiltà Cattolica.

Gli unici a trovarsi spiazzati, in questo caso, sarebbero stati i “normalisti”, quei cattolici intenti pateticamente a convincere il prossimo, e ancor più pateticamente a convincere se stessi, che nulla è cambiato. E’ tutto normale e, come al solito, è colpa dei giornali che travisano a bella posta il Papa, il quale direbbe solo in modo diverso le stesse verità insegnate dai predecessori.

Per quanto il giornalismo sia il mestiere più antico del mondo, riesce difficile dare credito a questa tesi. “Santità”, chiede per esempio Scalfari nella sua intervista, “esiste una visione del Bene unica? E chi la stabilisce?”. “Ciascuno di noi”, risponde il Papa, “ha una sua visione del Bene e anche del Male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene”. “Lei, Santità”, incalza gesuiticamente Eugenio, al quale non pare vero, “l’aveva già scritto nella lettera che mi indirizzò. La coscienza è autonoma, aveva detto, e ciascuno deve obbedire alla propria coscienza. Penso che quello sia uno dei passaggi più coraggiosi detti da un Papa”. “E qui lo ripeto”, ribadisce il Papa, al quale non pare vero neanche a lui. “Ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce. Basterebbe questo per migliorare il mondo”.

A Vaticano II già concluso e a postconcilio più che ben avviato, nel capitolo 32 della “Veritatis splendor”, Giovanni Paolo II scriveva, contestando “alcune correnti del pensiero moderno”, che “si sono attribuite alla coscienza individuale le prerogative di un’istanza suprema del giudizio morale, che decide categoricamente e infallibilmente del bene e del male (…) tanto che si è giunti a una concezione radicalmente soggettivista del giudizio morale”. Anche il “normalista” più estroso dovrebbe trovare difficile conciliare il Bergoglio 2013 con il Wojtyla 1993.

Al cospetto di tale inversione di rotta, i giornali fanno il loro onesto e scontato lavoro. Riprendono le frasi di Papa Francesco in evidente contrasto con ciò che i papi e la chiesa hanno sempre insegnato e le trasformano in titoli da prima pagina. E allora il “normalista”, che dice sempre e ovunque quello che pensa l’Osservatore Romano, tira in ballo il contesto. Le frasi estrapolate dal benedetto contesto non rispecchierebbero la mens di chi le ha pronunciate. Ma, ed è la storia della chiesa che lo insegna, certe frasi di senso compiuto hanno senso e vanno giudicate a prescindere. Se in una lunga intervista qualcuno sostiene che “Hitler è stato un benefattore dell’umanità”, difficilmente potrà cavarsela davanti al mondo invocando il contesto. Se un Papa dice in un’intervista “io credo in Dio, non in un Dio cattolico” la frittata è fatta a prescindere. Sono duemila anni che la chiesa giudica le affermazioni dottrinali isolandole dal contesto. Nel 1713, Clemente XI pubblica la costituzione “Unigenitus Dei Filius” in cui condanna 101 proposizioni del teologo Pasquier Quesnel. Nel 1864, Pio IX pubblica nel “Sillabo” un elenco di proposizioni erronee. Nel 1907, San Pio X allega alla “Pascendi dominici gregis” 65 frasi incompatibili con il cattolicesimo. E sono solo alcuni esempi per dire che l’errore, quando c’è, si riconosce a occhio nudo. Una ripassatina al “Denzinger” non farebbe male.

Per altro, nel caso delle interviste di Bergoglio, l’analisi del contesto può persino peggiorare le cose. Quando, per esempio, Papa Francesco dice a Scalfari che “il proselitismo è una solenne sciocchezza”, il “normalista” subito spiega che si sta parlando del proselitismo aggressivo delle sette sudamericane. Purtroppo, nell’intervista, Bergoglio dice a Scalfari: “Non voglio convertirla”. Ne scende che, nell’interpretazione autentica, quando si definisce “solenne sciocchezza” il proselitismo, si intende il lavoro fatto dalla chiesa per convertire le anime al cattolicesimo.

Sarebbe difficile interpretare il concetto altrimenti, alla luce delle nozze tra Vangelo e mondo, che Francesco ha benedetto nell’intervista alla Civiltà Cattolica. “Il Vaticano II”, spiega il Papa, “è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi. Basta ricordare la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta. Sì, ci sono linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità, tuttavia una cosa è chiara: la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile”. Proprio così, non più il mondo messo in forma alla luce del Vangelo, ma il Vangelo deformato alla luce del mondo, della cultura contemporanea. E chissà quante volte dovrà avvenire, a ogni torno di mutamento culturale, ogni volta mettendo in mora la rilettura precedente: nient’altro che il concilio permanente teorizzato dal gesuita Carlo Maria Martini.

Su questa scia, si sta alzando sull’orizzonte l’idea di una nuova chiesa, “l’ospedale da campo” evocato nell’intervista a Civiltà Cattolica dove pare che i medici fino a ora non abbiano fatto bene il loro mestiere. “Penso anche alla situazione di una donna che ha avuto alle spalle un matrimonio fallito nel quale ha pure abortito”, dice sempre il Papa. “Poi questa donna si è risposata e adesso è serena con cinque figli. L’aborto le pesa enormemente ed è sinceramente pentita. Vorrebbe andare avanti nella vita cristiana. Che cosa fa il confessore?”. Un discorso costruito sapientemente per essere concluso da una domanda dopo la quale si va capo e si cambia argomento, quasi a sottolineare l’inabilità della chiesa di rispondere. Un passaggio sconcertante se si pensa che la chiesa soddisfa da duemila anni tale quesito con una regola che permette l’assoluzione del peccatore, a patto che sia pentito e si impegni a non rimanere nel peccato. Eppure, soggiogate dalla straripante personalità di Papa Bergoglio, legioni di cattolici si sono bevute la favola di un problema che in realtà non è mai esistito. Tutti lì, con il senso di colpa per duemila anni di presunte soperchierie ai danni dei poveri peccatori, a ringraziare il vescovo venuto dalla fine del mondo, non per aver risolto un problema non c’era, ma per averlo inventato.

L’aspetto inquietante del pensiero sotteso a tali affermazioni è l’idea di un’alternativa insanabile fra rigore dottrinale e misericordia: se c’è uno, non può esservi l’altra. Ma la chiesa, da sempre, insegna e vive esattamente il contrario. Sono la percezione del peccato e il pentimento di averlo commesso, insieme al proposito di evitarlo in futuro, che rendono possibile il perdono di Dio. Gesù salva l’adultera dalla lapidazione, la assolve, ma la congeda dicendo: “Va, e non peccare più”. Non le dice: “Va, e sta tranquilla che la mia chiesa non eserciterà alcuna ingerenza spirituale nella tua vita personale”.

Visto il consenso praticamente unanime nel popolo cattolico e l’innamoramento del mondo, contro il quale però il Vangelo dovrebbe mettere in sospetto, verrebbe da dire che sei mesi di Papa Francesco hanno cambiato un’epoca. In realtà, si assiste al fenomeno di un leader che dice alla folla proprio quello che la folla vuole sentirsi dire. Ma è innegabile che questo viene fatto con grande talento e grande mestiere. La comunicazione con il popolo, che è diventato popolo di Dio dove di fatto non c’è più distinzione tra credenti e non credenti, è solo in piccolissima parte diretta e spontanea.

Persino i bagni di folla in piazza San Pietro, alla Giornata mondiale della gioventù, a Lampedusa o ad Assisi sono filtrati dai mezzi di comunicazione che si incaricano di fornire gli avvenimenti unitamente alla loro interpretazione.

Il fenomeno Francesco non si sottrae alla regola fondamentale del gioco mediatico, ma, anzi, se ne serve quasi a diventarne connaturale. Il meccanismo fu definito con grande efficacia all’inizio degli anni Ottanta da Mario Alighiero Manacorda in un godibile libretto dal godibilissimo titolo “Il linguaggio televisivo. O la folle anadiplosi”. L’anadiplosi è una figura retorica che, come avviene in questa riga, fa iniziare una frase con il termine principale contenuto nella frase precedente. Tale artificio retorico, secondo Manacorda, è divenuto l’essenza del linguaggio mediatico. “Questi modi puramente formali, superflui, inutili e incomprensibili quanto alla sostanza” diceva “inducono l’ascoltatore a seguire la parte formale, cioè la figura retorica, e a dimenticare la parte sostanziale”.

Con il tempo, la comunicazione di massa ha finito per sostituire definitivamente l’aspetto formale a quello sostanziale, l’apparenza alla verità. E lo ha fatto, in particolare, grazie alle figure retoriche della sineddoche e della metonimia, con le quali si rappresenta una parte per tutto. La velocità sempre più vertiginosa dell’informazione impone di trascurare l’insieme e porta a concentrarsi su alcuni particolari scelti con perizia per dare una lettura del fenomeno complessivo. Sempre più spesso, giornali, tv, siti internet, riassumono i grandi eventi in un dettaglio.

Da questo punto di vista, sembra che Papa Francesco sia stato fatto per i mass media e che i mass media siano stati fatti per Papa Francesco. Basta citare il solo esempio dell’uomo vestito di bianco che scende la scaletta dell’aereo portando una sdrucita borsa di cuoio nera: perfetto uso di sineddoche e metonimia insieme. La figura del Papa viene assorbita da quella borsa nera che ne annulla l’immagine sacrale tramandata nei secoli per restituirne una completamente nuova e mondana: il Papa, il nuovo Papa, è tutto in quel particolare che ne esalta la povertà, l’umiltà, la dedizione, il lavoro, la contemporaneità, la quotidianità, la prossimità a quanto di più terreno si possa immaginare.
L’effetto finale di tale processo porta alla collocazione sullo sfondo del concetto impersonale di Papato e la contemporanea salita alla ribalta della persona che lo incarna. L’effetto è tanto più dirompente se si osserva che i destinatari del messaggio recepiscono il significato esattamente opposto: osannano la grande umiltà dell’uomo e pensano che questi porti lustro al Papato.

Per effetto di sineddoche e metonimia, il passo successivo consiste nell’identificare la persona del Papa con il Papato: una parte per il tutto, e Simone ha spodestato Pietro. Questo fenomeno fa sì che Bergoglio, pur esprimendosi formalmente come dottore privato, trasformi di fatto qualsiasi suo gesto e qualsiasi sua parola in un atto di magistero. Se poi si pensa che persino la maggior parte dei cattolici è convinta che quanto dice il Papa sia solo e sempre infallibile, il gioco è fatto. Per quanto si possa protestare che una lettera a Scalfari o un’intervista a chicchessia siano persino meno di un parere da dottore privato, nell’epoca massmediatica, l’effetto che produrranno sarà incommensurabilmente maggiore a qualsiasi pronunciamento solenne. Anzi, più il gesto o il discorso saranno formalmente piccoli e insignificanti, tanto più avranno effetto e saranno considerati come inattaccabili e incriticabili.

Non a caso la simbologia che sorregge questo fenomeno è fatta di povere cose quotidiane. La borsa nera portata in mano sull’aereo è un esempio di scuola. Ma anche quando si parla della croce pettorale, dell’anello, dell’altare, delle suppellettili sacre o dei paramenti, si parla del materiale con cui sono fatte e non più di ciò che rappresentano: la materia informe ha avuto il sopravvento sulla forma. Di fatto, Gesù non si trova più sulla croce che il Papa porta al collo perché la gente viene indotta a contemplare il ferro in cui l’oggetto è stato prodotto. Ancora una volta la parte si mangia il Tutto, che qui va scritto con la “T” maiuscola. E la “carne di Cristo” viene cercata altrove e ciascuno finisce per individuare dove vuole l’olocausto che più gli si confà. In questi giorni a Lampedusa, domani chissà.
E’ l’esito della saggezza del mondo, che san Paolo bandiva come stoltezza e che oggi viene usata per rileggere il Vangelo con gli occhi della tv. Ma già nel 1969, Marshall McLuhan scriveva a Jacques Maritain: “Gli ambienti dell’informazione elettronica, che sono stati completamente eterei, nutrono l’illusione del mondo come sostanza spirituale. Questo è un ragionevole fac simile del Corpo Mistico, un’assordante manifestazione dell’anticristo. Dopo tutto, il principe di questo mondo è un grandissimo ingegnere elettronico”.

Prima o poi ci si dovrà pur risvegliare dal grande sonno massmediatico e tornare a misurarsi con la realtà. E bisognerà anche imparare l’umiltà vera, che consiste nel sottomettersi a Qualcuno di più grande, che si manifesta attraverso leggi immutabili persino dal Vicario di Cristo. E bisognerà ritrovare il coraggio di dire che un cattolico può solo sentirsi smarrito davanti a un dialogo in cui ognuno, in omaggio alla pretesa autonomia della coscienza, venga incitato a proseguire verso una sua personale visione del bene e del male. Perché Cristo non può essere un’opzione tra le tante. Almeno per il suo vicario.

di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro

(Giornalista e studioso di letteratura il primo, canonista e docente di Bioetica il secondo, gli autori sono espressione autorevole del mondo tradizionalista cattolico).

ancora sulla lettera del papa a Scalfari

 

papa veglia
Scalfari e la lettera di papa Francesco:
“Il coraggio che apre alla cultura moderna”

Il fondatore di Repubblica risponde, sul quotidiano in edicola, alla missiva del Pontefice sul rapporto tra fede e ragione: “Parole che fanno riflettere, una visione mai sentita dalla cattedra di San Pietro”. “Sta cercando di far prevalere la Chiesa missionaria su quella istituzionale, ma difficilmente ci sarà un Francesco II”

Le parole di papa Francesco nella sua lettera a Repubblica sono “al tempo stesso una rottura e un’apertura; rottura con una tradizione del passato, già effettuata dal Vaticano II voluto da papa Giovanni, ma poi trascurata se non addirittura contrastata dai due pontefici che precedono quello attuale; e apertura ad un dialogo senza più steccati”. Il fondatore Eugenio Scalfari risponde su Repubblica in edicola alla lettera inviata dal Pontefice come risposta e riflessione sul tema fede e ragione. E lo fa dicendo che “un’apertura verso la cultura moderna e laica di questa ampiezza, una visione così profonda tra la coscienza e la sua autonomia, non si era mai sentita finora dalla cattedra di San Pietro”.

“Leggendo le parole del Papa – spiega Scalfari – il nostro pensiero è chiamato e stimolato a riflettere di fronte alla concezione del tutto originale che papa Francesco esprime sul tema ‘fede e ragione'”. E continua: c’è un importante aspetto politico “quando il Papa scrive della distinzione tra la sfera religiosa e quella politica (….) La pastoralità, la Chiesa predicante e missionaria, c’è sempre stata e Francesco d’Assisi ne ha rappresentato la più fulgida ma non certo la sola manifestazione. Tuttavia non ha quasi mai avuto la prevalenza sulla Chiesa istituzionale. Papa Francesco ha interrotto e sta cercando di capovolgere questa situazione. La trasformazione in corso nella Curia e nella Segreteria di Stato sono segnali estremamente importanti. Temo però che molto difficilmente ci sarà un Francesco II e del resto non è un caso se quel nome non sia stato fin qui mai usato per il successore di Pietro”.

“Il Papa mi fa l’onore di voler fare un tratto di percorso insieme. Ne sarei felice. Anch’io vorrei che la luce riuscisse a penetrare e a dissolvere le tenebre anche se so che quelle che chiamiamo tenebre sono soltanto l’origine animale della nostra specie.

Più volte ho scritto che noi siamo una scimmia pensante. Guai quando incliniamo troppo verso la bestia da cui proveniamo, ma non saremo mai angeli perché non è nostra la natura angelica, ove mai esista”

lettera di papa Francesco a Scalfari

il papa

 

PREGIATISSIMO Dottor Scalfari,

è con viva cordialità che, sia pure solo a grandi linee, vorrei cercare con questa mia di rispondere alla lettera che, dalle pagine di Repubblica, mi ha voluto indirizzare il 7 luglio con una serie di sue personali riflessioni, che poi ha arricchito sulle pagine dello stesso quotidiano il 7 agosto.

La ringrazio, innanzi tutto, per l’attenzione con cui ha voluto leggere l’Enciclica Lumen fidei. Essa, infatti, nell’intenzione del mio amato Predecessore, Benedetto XVI, che l’ha concepita e in larga misura redatta, e dal quale, con gratitudine, l’ho ereditata, è diretta non solo a confermare nella fede in Gesù Cristo coloro che in essa già si riconoscono, ma anche a suscitare un dialogo sincero e rigoroso con chi, come Lei, si definisce “un non credente da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth”.

Mi pare dunque sia senz’altro positivo, non solo per noi singolarmente ma anche per la società in cui viviamo, soffermarci a dialogare su di una realtà così importante come la fede, che si richiama alla predicazione e alla figura di Gesù. Penso vi siano, in particolare, due circostanze che rendono oggi doveroso e prezioso questo dialogo.
Esso, del resto, costituisce, come è noto, uno degli obiettivi principali del Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII, e del ministero dei Papi che, ciascuno con la sua sensibilità e il suo apporto, da allora sino ad oggi hanno camminato nel solco tracciato dal Concilio.

La prima circostanza – come si richiama nelle pagine iniziali dell’Enciclica – deriva dal fatto che, lungo i secoli della modernità, si è assistito a un paradosso: la fede cristiana, la cui novità e incidenza sulla vita dell’uomo sin dall’inizio sono state espresse proprio attraverso il simbolo della luce, è stata spesso bollata come il buio della superstizione che si oppone alla luce della ragione. Così tra la Chiesa e la cultura d’ispirazione cristiana, da una parte, e la cultura moderna d’impronta illuminista, dall’altra, si è giunti all’incomunicabilità. È venuto ormai il tempo, e il Vaticano II ne ha inaugurato appunto la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro.

La seconda circostanza, per chi cerca di essere fedele al dono di seguire Gesù nella luce della fede, deriva dal fatto che questo dialogo non è un accessorio secondario dell’esistenza del credente: ne è invece un’espressione intima e indispensabile. Mi permetta di citarLe in proposito un’affermazione a mio avviso molto importante dell’Enciclica: poiché la verità testimoniata dalla fede è quella dell’amore – vi si sottolinea – “risulta chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti” (n. 34). È questo lo spirito che anima le parole che le scrivo.

La fede, per me, è nata dall’incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato reso possibile dalla comunità di fede in cui ho vissuto e grazie a cui ho trovato l’accesso all’intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, immagine vera del Signore. Senza la Chiesa – mi creda – non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell’immenso dono che è la fede è custodito nei fragili vasi d’argilla della nostra umanità.

Ora, è appunto a partire di qui, da questa personale esperienza di fede vissuta nella Chiesa, che mi trovo a mio agio nell’ascoltare le sue domande e nel cercare, insieme con Lei, le strade lungo le quali possiamo, forse, cominciare a fare un tratto di cammino insieme.
Mi perdoni se non seguo passo passo le argomentazioni da Lei proposte nell’editoriale del 7 luglio. Mi sembra più fruttuoso – o se non altro mi è più congeniale – andare in certo modo al cuore delle sue considerazioni. Non entro neppure nella modalità espositiva seguita dall’Enciclica, in cui Lei ravvisa la mancanza di una sezione dedicata specificamente all’esperienza storica di Gesù di Nazareth.

Osservo soltanto, per cominciare, che un’analisi del genere non è secondaria. Si tratta infatti, seguendo del resto la logica che guida lo snodarsi dell’Enciclica, di fermare l’attenzione sul significato di ciò che Gesù ha detto e ha fatto e così, in definitiva, su ciò che Gesù è stato ed è per noi. Le Lettere di Paolo e il Vangelo di Giovanni, a cui si fa particolare riferimento nell’Enciclica, sono costruiti, infatti, sul solido fondamento del ministero messianico di Gesù di Nazareth giunto al suo culmine risolutivo nella pasqua di morte e risurrezione.

Dunque, occorre confrontarsi con Gesù, direi, nella concretezza e ruvidezza della sua vicenda,così come ci è narrata soprattutto dal più antico dei Vangeli, quello di Marco. Si costata allora che lo “scandalo” che la parola e la prassi di Gesù provocano attorno a lui derivano dalla sua straordinaria “autorità”: una parola, questa, attestata fin dal Vangelo di Marco, ma che non è facile rendere bene in italiano. La parola greca è “exousia”, che alla lettera rimanda a ciò che “proviene dall’essere” che si è. Non si tratta di qualcosa di esteriore o di forzato, dunque, ma di qualcosa che emana da dentro e che si impone da sé. Gesù in effetti colpisce, spiazza, innova a partire – egli stesso lo dice – dal suo rapporto con Dio, chiamato familiarmente Abbà, il quale gli consegna questa “autorità” perché egli la spenda a favore degli uomini.

Così Gesù predica “come uno che ha autorità”, guarisce, chiama i discepoli a seguirlo, perdona… cose tutte che, nell’Antico Testamento, sono di Dio e soltanto di Dio. La domanda che più volte ritorna nel Vangelo di Marco: “Chi è costui che…?”, e che riguarda l’identità di Gesù, nasce dalla constatazione di una autorità diversa da quella del mondo, un’autorità che non è finalizzata ad esercitare un potere sugli altri, ma a servirli, a dare loro libertà e pienezza di vita. E questo sino al punto di mettere in gioco la propria stessa vita, sino a sperimentare l’incomprensione, il tradimento, il rifiuto, sino a essere condannato a morte, sino a piombare nello stato di abbandono sulla croce. Ma Gesù resta fedele a Dio, sino alla fine.

Ed è proprio allora – come esclama il centurione romano ai piedi della croce, nel Vangelo di Marco – che Gesù si mostra, paradossalmente, come il Figlio di Dio! Figlio di un Dio che è amore e che vuole, con tutto se stesso, che l’uomo, ogni uomo, si scopra e viva anch’egli come suo vero figlio. Questo, per la fede cristiana, è certificato dal fatto che Gesù è risorto: non per riportare il trionfo su chi l’ha rifiutato, ma per attestare che l’amore di Dio è più forte della morte, il perdono di Dio è più forte di ogni peccato, e che vale la pena spendere la propria vita, sino in fondo, per testimoniare questo immenso dono.

La fede cristiana crede questo: che Gesù è il Figlio di Dio venuto a dare la sua vita per aprire a tutti la via dell’amore. Ha perciò ragione, egregio Dott. Scalfari, quando vede nell’incarnazione del Figlio di Dio il cardine della fede cristiana. Già Tertulliano scriveva “caro cardo salutis”, la carne (di Cristo) è il cardine della salvezza. Perché l’incarnazione, cioè il fatto che il Figlio di Dio sia venuto nella nostra carne e abbia condiviso gioie e dolori, vittorie e sconfitte della nostra esistenza, sino al grido della croce, vivendo ogni cosa nell’amore e nella fedeltà all’Abbà, testimonia l’incredibile amore che Dio ha per ogni uomo, il valore inestimabile che gli riconosce. Ognuno di noi, per questo, è chiamato a far suo lo sguardo e la scelta di amore di Gesù, a entrare nel suo modo di essere, di pensare e di agire. Questa è la fede, con tutte le espressioni che sono descritte puntualmente nell’Enciclica.

Sempre nell’editoriale del 7 luglio, Lei mi chiede inoltre come capire l’originalità della fede cristianain quanto essa fa perno appunto sull’incarnazione del Figlio di Dio, rispetto ad altre fedi che gravitano invece attorno alla trascendenza assoluta di Dio.
L’originalità, direi, sta proprio nel fatto che la fede ci fa partecipare, in Gesù, al rapporto che Egli ha con Dio che è Abbà e, in questa luce, al rapporto che Egli ha con tutti gli altri uomini, compresi i nemici, nel segno dell’amore. In altri termini, la figliolanza di Gesù, come ce la presenta la fede cristiana, non è rivelata per marcare una separazione insormontabile tra Gesù e tutti gli altri: ma per dirci che, in Lui, tutti siamo chiamati a essere figli dell’unico Padre e fratelli tra di noi. La singolarità di Gesù è per la comunicazione, non per l’esclusione.

Certo, da ciò consegue anche – e non è una piccola cosa – quella distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel “dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare”, affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell’Occidente. La Chiesa, infatti, è chiamata a seminare il lievito e il sale del Vangelo, e cioè l’amore e la misericordia di Dio che raggiungono tutti gli uomini, additando la meta ultraterrena e definitiva del nostro destino, mentre alla società civile e politica tocca il compito arduo di articolare e incarnare nella giustizia e nella solidarietà, nel diritto e nella pace, una vita sempre più umana. Per chi vive la fede cristiana, ciò non significa fuga dal mondo o ricerca di qualsivoglia egemonia, ma servizio all’uomo, a tutto l’uomo e a tutti gli uomini, a partire dalle periferie della storia e tenendo desto il senso della speranza che spinge a operare il bene nonostante tutto e guardando sempre al di là.

Lei mi chiede anche, a conclusione del suo primo articolo, che cosa dire ai fratelli ebrei circa la promessa fatta loro da Dio: è essa del tutto andata a vuoto? È questo – mi creda – un interrogativo che ci interpella radicalmente, come cristiani, perché, con l’aiuto di Dio, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, abbiamo riscoperto che il popolo ebreo è tuttora, per noi, la radice santa da cui è germinato Gesù. Anch’io, nell’amicizia che ho coltivato lungo tutti questi anni con i fratelli ebrei, in Argentina, molte volte nella preghiera ho interrogato Dio, in modo particolare quando la mente andava al ricordo della terribile esperienza della Shoah. Quel che Le posso dire, con l’apostolo Paolo, è che mai è venuta meno la fedeltà di Dio all’alleanza stretta con Israele e che, attraverso le terribili prove di questi secoli, gli ebrei hanno conservato la loro fede in Dio. E di questo, a loro, non saremo mai sufficientemente grati, come Chiesa, ma anche come umanità. Essi poi, proprio perseverando nella fede nel Dio dell’alleanza, richiamano tutti, anche noi cristiani, al fatto che siamo sempre in attesa, come dei pellegrini, del ritorno del Signore e che dunque sempre dobbiamo essere aperti verso di Lui e mai arroccarci in ciò che abbiamo già raggiunto.

Vengo così alle tre domande che mi pone nell’articolo del 7 agosto. Mi pare che, nelle prime due, ciò che Le sta a cuore è capire l’atteggiamento della Chiesa verso chi non condivide la fede in Gesù. Innanzi tutto, mi chiede se il Dio dei cristiani perdona chi non crede e non cerca la fede. Premesso che – ed è la cosa fondamentale – la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire.

In secondo luogo, mi chiede se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato. Per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: “Io sono la via, la verità, la vita”? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt’uno con l’amore, richiede l’umiltà e l’apertura per essere cercata, accolta ed espressa. Dunque, bisogna intendersi bene sui termini e, forse, per uscire dalle strettoie di una contrapposizione… assoluta, reimpostare in profondità la questione. Penso che questo sia oggi assolutamente necessario per intavolare quel dialogo sereno e costruttivo che auspicavo all’inizio di questo mio dire.
Nell’ultima domanda mi chiede se, con la scomparsa dell’uomo sulla terra, scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio. Certo, la grandezza dell’uomo sta nel poter pensare Dio. E cioè nel poter vivere un rapporto consapevole e responsabile con Lui. Ma il rapporto è tra due realtà. Dio – questo è il mio pensiero e questa la mia esperienza, ma quanti, ieri e oggi, li condividono! – non è un’idea, sia pure altissima, frutto del pensiero dell’uomo. Dio è realtà con la “R” maiuscola. Gesù ce lo rivela – e vive il rapporto con Lui – come un Padre di bontà e misericordia infinita. Dio non dipende, dunque, dal nostro pensiero. Del resto, anche quando venisse a finire la vita dell’uomo sulla terra – e per la fede cristiana, in ogni caso, questo mondo così come lo conosciamo è destinato a venir meno – , l’uomo non terminerà di esistere e, in un modo che non sappiamo, anche l’universo creato con lui. La Scrittura parla di “cieli nuovi e terra nuova” e afferma che, alla fine, nel dove e nel quando che è al di là di noi, ma verso il quale, nella fede, tendiamo con desiderio e attesa, Dio sarà “tutto in tutti”. Egregio Dott. Scalfari, concludo così queste mie riflessioni, suscitate da quanto ha voluto comunicarmi e chiedermi. Le accolga come la risposta tentativa e provvisoria, ma sincera e fiduciosa, all’invito che vi ho scorto di fare un tratto di strada insieme. La Chiesa, mi creda, nonostante tutte le lentezze, le infedeltà, gli errori e i peccati che può aver commesso e può ancora commettere in coloro che la compongono, non ha altro senso e fine se non quello di vivere e testimoniare Gesù: Lui che è stato mandato dall’Abbà “a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore” (Lc 4, 18-19).

Con fraterna vicinanza
Francesco

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