il commento al vangelo della domenica

quella porta «stretta» per aprirci all’essenziale


Quella porta «stretta» per aprirci all'essenziale
Ermes Ronchi commenta il vangelo della ventunesima domenica del tempo ordinario (25 agosto 2019):

In quel tempo, Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Disse loro: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. […]»

Gesù è in cammino verso la città dove muoiono i profeti. Lungo la strada, un tale gli pone una domanda circa la salvezza: di Gerusalemme e di tutti. Tremore e ansia nella voce di chi chiede. E Gesù risponde con altrettanta cura: salvezza sarà, ma non sarà facile. E ricorre all’immagine della porta stretta. Un aggettivo che ci inquieta, perché «stretta» evoca per noi fatiche e difficoltà. Ma tutto il Vangelo è portatore non di dolenti, ma di belle notizie: la porta è stretta, cioè piccola, come lo sono i piccoli e i bambini e i poveri che saranno i principi del Regno di Dio; è stretta ma a misura d’uomo, di un uomo nudo ed essenziale, che ha lasciato giù tutto ciò di cui si gonfia: ruoli, portafogli gonfi, l’elenco dei meriti, i bagagli inutili, il superfluo; la porta è stretta, ma è aperta. L’insegnamento è chiaro: fatti piccolo, e la porta si farà grande. Quando il padrone di casa chiuderà la porta, voi busserete: Signore aprici. E lui: non so di dove siete, non vi conosco. Avete false credenziali. Quelli che si accalcano per entrare si vantano di cose che contano poco: abbiamo mangiato e bevuto con te, eravamo in piazza ad ascoltarti. Ma questo può essere solo un alibi di comodo. «Quando è vera fede e quando è solo religione? Fede vera è quando fai te sulla misura di Dio; semplice religione è quando fai Dio a tua misura» (Turoldo).
Abbiamo mangiato in tua presenza… Non basta mangiare il pane che è Gesù, spezzato per noi, bisogna farsi pane, spezzato per la fame d’altri. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia. Non vi conosco. Il riconoscimento sta nella giustizia fattiva. Dio non ti riconosce per formule, riti o simboli religiosi, ma perché hai mani di giustizia. Ti riconosce non perché fai delle cose per lui, ma perché con lui e come lui fai delle cose per i piccoli e i poveri. Non so di dove siete: il vostro modo di vedere è lontanissimo dal mio, voi venite da un mondo diverso rispetto al mio, da un altro pianeta. Infatti, quelli che bussano alla porta chiusa hanno compiuto sì azioni per Dio, ma nessun gesto di giustizia per i fratelli. La conclusione della piccola parabola è piena di sorprese: la sala è piena, oltre quella porta Gesù immagina una festa multicolore: verranno da oriente e occidente, dal nord e dal sud del mondo e siederanno a mensa. Viene sfatata l’idea della porta stretta come porta per pochi, solo per i più bravi. Tutti possono passare, per la misericordia di Dio. Il suo sogno è far sorgere figli da ogni dove, per una offerta di felicità, per una vita in pienezza. Lui li raccoglie da tutti gli angoli del mondo, variopinti clandestini del regno, arrivati ultimi e per lui considerati primi.

il commento al vangelo della domenica

siamo ricchi solo di ciò che doniamo


Siamo ricchi solo di ciò che doniamo
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della diciottesima domenica del tempo ordinario (4 agosto 2019):

In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede […]»

La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Una benedizione del cielo, secondo la visione biblica; un richiamo a vivere con molta attenzione, secondo la parabola di Gesù. Nel Vangelo le regole che riguardano la ricchezza si possono ridurre essenzialmente a due soltanto: 1. non accumulare; 2. quello che hai ce l’hai per condividerlo. Sono le stesse che incontriamo nel seguito della parabola: l’uomo ricco ragionava tra sé: come faccio con questa fortuna? Ecco, demolirò i miei magazzini e ne ricostruirò di più grandi. In questo modo potrò accumulare, controllare, contare e ricontare le mie ricchezze. Scrive san Basilio Magno: «E se poi riempirai anche i nuovi granai con un nuovo raccolto, che cosa farai? Demolirai ancora e ancora ricostruirai? Con cura costruire, con cura demolire: cosa c’è di più insensato? Se vuoi, hai dei granai: sono nelle case dei poveri». I granai dei poveri rappresentano la seconda regola evangelica: i beni personali possono e devono servire al bene comune. Invece l’uomo ricco è solo al centro del suo deserto di relazioni, avvolto dall’aggettivo «mio» (i miei beni, i miei raccolti, i miei magazzini, me stesso, anima mia), avviluppato da due vocali magiche e stregate «io» (demolirò, costruirò, raccoglierò…). Esattamente l’opposto della visione che Gesù propone nel Padre Nostro, dove mai si dice «io», mai si usa il possessivo «mio», ma sempre «tu e tuo; noi e nostro», radice del mondo nuovo. L’uomo ricco della parabola non ha un nome proprio, perché il denaro ha mangiato la sua anima, si è impossessato di lui, è diventato la sua stessa identità: è un ricco. Nessuno entra nel suo orizzonte, nessun «tu» a cui rivolgersi. Uomo senza aperture, senza brecce e senza abbracci. Nessuno in casa, nessun povero Lazzaro alla porta. Ma questa non è vita. Infatti: stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta indietro la tua vita. Quell’uomo ha già allevato e nutrito la morte dentro di sé con le sue scelte. È già morto agli altri, e gli altri per lui. La morte ha già fatto il nido nella sua casa. Perché, sottolinea la parabola, la tua vita non dipende dai tuoi beni, non dipende da ciò che uno ha, ma da ciò che uno dà. La vita vive di vita donata. Noi siamo ricchi solo di ciò che abbiamo dato via. Alla fine dei giorni, sulla colonna dell’avere troveremo soltanto ciò che abbiamo avuto il coraggio di mettere nella colonna del dare. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio. Chi accumula «per sé», lentamente muore. Invece Dio regala gioia a chi produce amore; e chi si prede cura della felicità di qualcuno, aiuterà Dio a prendersi cura della sua felicità.

il commento al vangelo della domenica

“Pace a questa casa!”

In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi quelli che vi lavorano! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi chi lavori nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. […]

il commento di E. Ronchi al vangelo della quattordicesima domenica del tempo ordinario (7 luglio 2019):

Vangelo di strade e di case. Vanno i settantadue, a cielo aperto, senza borsa né sacca né sandali, senza cose, senza mezzi, semplicemente uomini. A due a due, non da soli, un amico almeno su cui appoggiare il cuore quando il cuore manca; a due a due, per sorreggersi a vicenda; a due a due, come tenda leggera per la presenza di Gesù, perché dove due o tre sono uniti nel mio nome là ci sono io. E senti una sensazione di leggerezza, di freschezza, di coraggio: vi mando come agnelli in mezzo ai lupi, che però non vinceranno, che saranno forse più numerosi degli agnelli ma non più forti, perché su di loro veglia il Pastore bello. E le parole che affida ai discepoli sono semplici e poche: pace a questa casa, Dio è vicino. Parole dirette, che venivano dal cuore e andavano al cuore. Ma in cima a tutto una visione del mondo, lo sguardo esatto con cui andare per le strade e per le case: la messe è molta, ma gli operai sono pochi, pregate dunque… L’occhio grande, l’occhio puro di Dio vede una terra ricca di messi, là dove il nostro occhio opaco vede solo un deserto: la messe è molta. Gesù ci contagia del suo sguardo luminoso e positivo: i campi traboccano di buon grano, là dove noi vediamo solo inverni e numeri che calano. Gesù manda discepoli, ma non a intonare lamenti sopra un mondo distratto e lontano, bensì ad annunciare un capovolgimento: il Regno di Dio, Dio stesso si è fatto vicino. Noi diciamo: c’è distanza tra gli uomini d’oggi e la fede, si sono allontanati da Dio! E Gesù invece: il Regno di Dio è vicino. È davvero uno sguardo diverso (A. Casati). E i discepoli per strade e case portano il volto di un Dio in cammino verso di noi, che entra in casa, che non se ne sta asserragliato nel suo tempio, dietro muri di sacerdoti o di leviti. In qualunque casa entriate, dite: pace a questa casa. Non una pace generica, ma a questa casa, a queste pareti, a questa tavola, a questi volti. «La pace va costruita artigianalmente, a cominciare proprio dalle case, dalle famiglie, dal piccolo contesto in cui ciascuno vive» (papa Francesco). Pace è una parola da riempire di gesti, di muri da abbattere, di perdoni chiesti e donati, di fiducia concessa di nuovo, di accoglienza, di ascolti, di abbracci. Gesù e i suoi proclamano che Dio si è avvicinato, scavalcando tutto ciò che separava la terra dal cielo; è un padre esperto in abbracci e abbatte ciò che emargina pubblicani e peccatori, ciò che separa gli scribi dal popolo, i farisei dalle prostitute, i lebbrosi dai sani (R. Virgili), gli uomini dalle donne. Allora la pace, davvero il succo del Vangelo, dalla periferia delle case avanzerà fino a conquistare il centro della città dell’uomo.

il commento al vangelo della domenica dell’Ascensione

una «forza di gravità» che spinge verso l’alto


Una «forza di gravità» che spinge verso l'alto
il commento di E. Ronchi al vangelo della domenica dell’Ascensione (2 giugno 2019):

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto». Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo (…)

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Ascensione è la navigazione del cuore, che ti conduce dalla chiusura in te all’amore che abbraccia l’universo (Benedetto XVI). A questa navigazione del cuore Gesù chiama gli undici, un gruppetto di uomini impauriti e confusi, un nucleo di donne coraggiose e fedeli. Li spinge a pensare in grande, a guardare lontano, ad essere il racconto di Dio “a tutti i popoli”.
Poi li condusse fuori verso Betania e, alzate le mani, li benedisse. Nel momento dell’addio Gesù allarga le braccia sui discepoli, li raccoglie e li stringe a sé, prima di inviarli.
Ascensione è un atto di enorme fiducia di Gesù in quegli uomini e in quelle donne che lo hanno seguito per tre anni, che non hanno capito molto, ma che lo hanno molto amato: affida alla loro fragilità il mondo e il vangelo e li benedice.
È il suo gesto definitivo, l’ultima immagine che ci resta di Gesù, una benedizione senza parole che da Betania raggiunge ogni discepolo, a vegliare sul mondo, sospesa per sempre tra cielo e terra.
Mentre li benediceva si staccò da loro e veniva portato su, in cielo.
Gesù non è andato lontano o in alto, in qualche angolo remoto del cosmo. È asceso nel profondo delle cose, nell’intimo del creato e delle creature, e da dentro preme come benedizione, forza ascensionale verso più luminosa vita. Non esiste nel mondo solo la forza di gravità verso il basso, ma anche una forza di gravità verso l’alto, che ci fa eretti, che fa verticali gli alberi, i fiori, la fiamma, che solleva l’acqua delle maree e la lava dei vulcani. Come una nostalgia di cielo.
Con l’ascensione Gesù è asceso nel profondo delle creature, inizia una navigazione nel cuore dell’universo, il mondo ne è battezzato, cioè immerso in Dio. Se solo fossi capace di avvertire questo e di goderlo, scoprirei la sua presenza dovunque, camminerei sulla terra come dentro un unico tabernacolo, in un battesimo infinito.
Luca conclude, a sorpresa, il suo vangelo dicendo: i discepoli tornarono a Gerusalemme con grande gioia. Dovevano essere tristi piuttosto, finiva una presenza, se ne andava il loro amore, il loro amico, il loro maestro. Ma da quel momento si sentono dentro un amore che abbraccia l’universo, capaci di dare e ricevere amore, e ne sono felici (ho amato ogni cosa con l’addio (Marina Cvetaeva).
Essi vedono in Gesù che l’uomo non finisce con il suo corpo, che la nostra vita è più forte delle sue ferite. Vedono che un altro mondo è possibile, che la realtà non è solo questo che si vede, ma si apre su di un “oltre”; che in ogni patire Dio ha immesso scintille di risurrezione, squarci di luce nel buio, crepe nei muri delle prigioni. Che resta con me “il mio Dio, esperto di evasioni.” (M. Marcolini).

il commento al vangelo della domenica

quell’invito a cambiare rotta su ogni fronte


Quell'invito a cambiare rotta su ogni fronte
il commento di E. Ronchi al vangelo della terza domenica di quaresima (24 marzo 2019):

In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù rispose: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».

Che colpa avevano i diciotto morti sotto il crollo della torre di Siloe? E quelli colpiti da un terremoto, da un atto di terrorismo, da una malattia sono forse castigati da Dio? La risposta di Gesù è netta: non è Dio che fa cadere torri o aerei, non è la mano di Dio che architetta sventure. Ricordiamo l’episodio del “cieco nato”: chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché nascesse così? Gesù allontana subito, immediatamente, questa visione: né lui, né i suoi genitori. Non è il peccato il perno della storia, l’asse attorno al quale ruota il mondo. Dio non spreca la sua eternità e potenza in castighi, lotta con noi contro ogni male, lui è mano viva che fa ripartire la vita. Infatti aggiunge: Se non vi convertirete, perirete tutti. Conversione è l’inversione di rotta della nave che, se continua così, va diritta sugli scogli. Non serve fare la conta dei buoni e dei cattivi, bisogna riconoscere che è tutto un mondo che deve cambiare direzione: nelle relazioni, nella politica, nella economia, nella ecologia. Mai come oggi sentiamo attuale questo appello accorato di Gesù. Mai come oggi capiamo che tutto nel Creato è in stretta connessione: se ci sono milioni di poveri senza dignità né istruzione, sarà tutto il mondo ad essere deprivato del loro contributo; se la natura è avvelenata, muore anche l’umanità; l’estinzione di una specie equivale a una mutilazione di tutti. Convertitevi alla parola compimento della legge: ” tu amerai”. Amatevi, altrimenti vi distruggerete. Il Vangelo è tutto qui. Alla gravità di queste parole fa da contrappunto la fiducia della piccola parabola del fico sterile: il padrone si è stancato, pretende frutti, farà tagliare l’albero. Invece il contadino sapiente, con il cuore nel futuro, dice: “ancora un anno di cure e gusteremo il frutto”. Ancora un anno, ancora sole, pioggia e cure perché quest’albero, che sono io, è buono e darà frutto. Dio contadino, chino su di me, ortolano fiducioso di questo piccolo orto in cui ha seminato così tanto per tirar su così poco. Eppure continua a inviare germi vitali, sole, pioggia, fiducia. Lui crede in me prima ancora che io dica sì. Il suo scopo è lavorare per far fiorire la vita: il frutto dell’estate prossima vale più di tre anni di sterilità. E allora avvia processi, inizia percorsi, ci consegna un anticipo di fiducia. E non puoi sapere di quanta esposizione al sole di Dio avrà bisogno una creatura per giungere all’armonia e alla fioritura della sua vita. Perciò abbi fiducia, sii indulgente verso tutti, e anche verso te stesso. La primavera non si lascia sgomentare, né la Pasqua si arrende. La fiducia è una vela che sospinge la storia. E, vedrai, ciò che tarda verrà.

il commento al vangelo della domenica

dal deserto al giardino

cammino verso la vita


Dal deserto al giardino, cammino verso la vita
il commento di E. Ronchi al vangelo della prima domenica di quaresima (10 marzo 2019):

In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”». […]

Dal deserto al giardino: dal deserto di pietre e tentazioni al giardino del sepolcro vuoto, fresco e risplendente nell’alba, mentre fuori è primavera: è questo il percorso della Quaresima. Non penitenziale, quindi, ma vitale. Dalle ceneri sul capo, alla luce che «fa risplendere la vita» (2Tm 1,10). Deserto e giardino sono immagini bibliche che accompagnano la storia e i sogni di Israele, che contengono un progetto di salvezza integrale che avvolgerà e trasfigurerà ogni cosa esistente, umanità e creature tutte, che insieme compongono l’arazzo della creazione. Con la Quaresima non ci avviamo lungo un percorso di penitenza, ma di immensa comunione; non di sacrifici ma di germogli. L’uomo non è polvere o cenere, ma figlio di Dio e simile a un angelo (Eb 2,7) e la cenere posta sul capo non è segno di tristezza ma di nuovo inizio: la ripartenza della creazione e della fecondità, sempre e comunque, anche partendo dal quasi niente che rimane fra le mani. Le tentazioni di Gesù nel deserto costituiscono la prova cui è sottoposto il suo progetto di mondo e di uomo, il suo modello di Messia, inedito e stravolgente, e il suo stesso Dio. La tentazione è sempre una scelta tra due amori. Di’ a questa pietra che diventi pane. Trasforma le cose in beni di consumo, riduci a merce anche i sassi, tutto metti a servizio del profitto. Le parole del Nemico disegnano in filigrana un essere umano che può a suo piacimento usare e abusare di tutto ciò che esiste. E così facendo, distrugge anziché «coltivare e custodire» (Gen 2,15). Ognuno tentato di ridurre i sogni a denaro, di trasformare tutto, anche la terra e la bellezza, in cose da consumare. Ti darò tutto il potere, tutto sarà tuo. Il paradigma del potere che ha sedotto e distrutto regni e persone, falsi messia e nuovi profeti, è messo davanti a Gesù come il massimo dei sogni. Ma Gesù non vuole potere su nessuno, lui è mendicante d’amore. E chi diventa come lui non si inginocchierà davanti a nessuno, eppure sarà servitore di tutti. Buttati giù, e Dio manderà i suoi angeli a portarti. Mostra a tutti un Dio immaginario che smonta e rimonta la natura e le sue leggi, a piacimento, come fosse il suo giocattolo; che è una assicurazione contro gli infortuni della vita, che salva da ogni problema, che ti protegge dalla fatica di avanzare passo passo, e talvolta nel buio. Gesù risponde che non gli angeli, ma «la Parola opera in voi che credete» (1Ts 2,13). Che Dio interviene con il miracolo umile e tenace della sua Parola: lampada ai miei passi; pane alla mia fame; mutazione delle radici del cuore perché germoglino relazioni nuove con me stesso e con il creato, con gli altri e con Dio.
(Letture: Deuteronomio 26,4-10; Salmo 90; Romani 10,8-13; Luca 4,1-13)

il commento al vangelo della domenica

«Beati voi»

… ma il nostro pensiero dubita


«Beati voi». Ma il nostro pensiero dubita
il commento di E. Ronchi al vangelo della quinta domenica del tempo ordinario (17 febbraio 2019):
Luca 6,17.20-26

In quel tempo, Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone. Ed egli, alzati gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. […]».

 

L’essere umano è un mendicante di felicità, ad essa soltanto vorrebbe obbedire. Gesù lo sa, incontra il nostro desiderio più profondo e risponde. Per quattro volte annuncia: beati voi, e significa: in piedi voi che piangete, avanti, in cammino, non lasciatevi cadere le braccia, siete la carovana di Dio. Nella Bibbia Dio conosce solo uomini in cammino: verso terra nuova e cieli nuovi, verso un altro modo di essere liberi, cittadini di un regno che viene. Gli uomini e le donne delle beatitudini sono le feritoie per cui passa il mondo nuovo. Beati voi, poveri! Certo, il pensiero dubita. Beati voi che avete fame, ma nessuna garanzia ci è data. Beati voi che ora piangete, e non sono lacrime di gioia, ma gocce di dolore. Beati quelli che sentono come ferita il disamore del mondo. Beati, perché? Perché povero è bello, perché è buona cosa soffrire? No, ma per un altro motivo, per la risposta di Dio. La bella notizia è che Dio ha un debole per i deboli, li raccoglie dal fossato della vita, si prende cura di loro, fa avanzare la storia non con la forza, la ricchezza, la sazietà, ma per seminagioni di giustizia e condivisione, per raccolti di pace e lacrime asciugate. E ci saremmo aspettati: beati perché ci sarà un capovolgimento, una alternanza, perché i poveri diventeranno ricchi. No. Il progetto di Dio è più profondo e più delicato. Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno, qui e adesso, perché avete più spazio per Dio, perché avete il cuore libero, al di là delle cose, affamato di un oltre, perché c’è più futuro in voi. I poveri sono il grembo dove è in gestazione il Regno di Dio, non una categoria assistenziale, ma il laboratorio dove si plasma una nuova architettura del mondo e dei rapporti umani, una categoria generativa e rivelativa. Beati i poveri, che di nulla sono proprietari se non del cuore, che non avendo cose da donare hanno se stessi da dare, che sono al tempo stesso mano protesa che chiede, e mano tesa che dona, che tutto ricevono e tutto donano. Ci sorprende forse il guai. Ma Dio non maledice, Dio è incapace di augurare il male o di desiderarlo. Si tratta non di una minaccia, ma di un avvertimento: se ti riempi di cose, se sazi tutti gli appetiti, se cerchi applausi e il consenso, non sarai mai felice. I guai sono un lamento, anzi il compianto di Gesù su quelli che confondono superfluo ed essenziale, che sono pieni di sé, che si aggrappano alle cose, e non c’è spazio per l’eterno e per l’infinito, non hanno strade nel cuore, come fossero già morti. Le beatitudini sono la bella notizia che Dio regala vita a chi produce amore, che se uno si fa carico della felicità di qualcuno il Padre si fa carico della sua felicità.

il commento al vangelo della domenica

attendere è l’infinito del verbo “amare”

il commento di Ermes Ronchi al vangelo della quarta domenica di avvento (23 dicembre 2018):

 Luca 1, 39-45)


In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha ceduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».

Attendere: infinito del verbo amare. Solo le madri sanno come si attende. E infatti il vangelo ci offre, mentre il Natale è qui, la guida di due donne in attesa. Maria si mise in viaggio in fretta. Ecco il genio femminile: l’alleanza con un’altra donna, Elisabetta. Da sola non sa se ce la farebbe a portare il peso del mistero, del miracolo. Invece insieme faranno rinascere la casa di Dio.
Maria va leggera, portata dal futuro che è in lei, e insieme pesante di vita nuova, di quel peso dolce che mette le ali e fa nascere il canto: una giovane donna che emana libertà e apertura. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. L’anziana, anche lei catturata dal miracolo, benedice la giovane: benedetta tu fra le donne, che sono tutte benedette.
Dove Dio giunge, scende una benedizione, che è una forza di vita che dilaga dall’alto, che produce crescita d’umano e di futuro, come nella prima di tutte le benedizioni: Dio li benedisse dicendo «crescete e moltiplicatevi» (Gen 1,28).
Due donne sono i primi profeti del nuovo testamento, e le immagino avvicinarsi «a braccia aperte,/ inizio di un cerchio /
che un amore più vasto / compirà» (Margherita Guidacci). Il canto del magnificat non nasce nella solitudine, ma nell’abbraccio di due donne, nello spazio degli affetti. Le relazioni umane sono il sacramento di Dio quaggiù.
Magnifica l’anima mia il Signore. Maria canta il «più grande canto rivoluzionario d’avvento» (D. Bonhoeffer), coinvolge poveri e ricchi, potenti e umili, sazi e affamati di vita nel sogno di un mondo nuovo.
Mi riempie di gioia il fatto che in Maria, la prima dei credenti, la visita di Dio abbia l’effetto di una musica, di una lieta energia. Mentre noi sentiamo la prossimità di Dio come un dito puntato, come un esame da superare, Maria sente Dio venire come un tuffo al cuore, come un passo di danza a due, una stanchezza finita per sempre, un vento che fa fremere la vela del futuro.
È così bello che la presenza di Dio produca l’effetto di una forza di giustizia dirompente, che scardina la storia, che investe il mondo dei poveri e dei ricchi e lo capovolge: quelli che si fidano della forza sono senza troni, i piccoli hanno il nido nella mani di Dio.
Il Vangelo, raccontando la visita di Maria ad Elisabetta, racconta anche che ogni nostro cammino verso l’altro, tutte le nostre visite, fatte o accolte, hanno il passo di Dio e il sapore di una benedizione.
Il Natale è la celebrazione della santità che c’è in ogni carne, la certezza che ogni corpo è una finestra di cielo, che l’uomo ha Dio nel sangue; che dentro il battito umile e testardo del suo cuore batte – come nelle madri in attesa- un altro cuore, e non si spegnerà più.

il commento al vangelo della domenica

“convertirsi partendo da un solo verbo: dare”

il commento di E. Ronchi al vangelo della terza domenica di avvento(16 dicembre 2018):

In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». […]

«Esulterà, si rallegrerà, griderà di gioia per te, come nei giorni di festa». Sofonia racconta un Dio che esulta, che salta di gioia, che grida: «Griderà di gioia per te», un Dio che non lancia avvertimenti, oracoli di lamento o di rimprovero, come troppo spesso si è predicato nelle chiese; che non concede grazia e perdono, ma fa di più: sconfina in un grido e una danza di gioia. E mi cattura dentro. E grida a me: tu mi fai felice! Tu uomo, tu donna, sei la mia festa.
Mai nella Bibbia Dio aveva gridato. Aveva parlato, sussurrato, tuonato, aveva la voce interiore dei sogni; solo qui, solo per amore, Dio grida. Non per minacciare, ma per amare di più. Il profeta intona il canto dell’amore felice, amore danzante che solo rende nuova la vita: «Ti rinnoverà con il suo amore».
Il Signore ha messo la sua gioia nelle mie, nelle nostre mani. Impensato, inaudito: nessuno prima del piccolo profeta Sofonia aveva intuito la danza dei cieli, aveva messo in bocca a Dio parole così audaci: tu sei la mia gioia.
Proprio io? Io che pensavo di essere una palla al piede per il Regno di Dio, un freno, una preoccupazione. Invece il Signore mi lancia l’invito a un intreccio gioioso di passi e di parole come vita nuova. Il profeta disegna il volto di un Dio felice, Gesù ne racconterà il contagio di gioia (perché la mia gioia sia in voi, Giovanni 15,11).
Il Battista invece è chiamato a risposte che sanno di mani e di fatica: «E noi che cosa dobbiamo fare?». Il profeta che non possiede nemmeno una veste degna di questo nome, risponde: «Chi ha due vestiti ne dia uno a chi non ce l’ha». Colui che si nutre del nulla che offre il deserto, cavallette e miele selvatico, risponde: «Chi ha da mangiare ne dia a chi non ne ha». E appare il verbo che fonda il mondo nuovo, il verbo ricostruttore di futuro, il verbo dare: chi ha, dia!
Nel Vangelo sempre il verbo amare si traduce con il verbo dare. La conversione inizia concretamente con il dare. Ci è stato insegnato che la sicurezza consiste nell’accumulo, che felicità è comprare un’altra tunica oltre alle due, alle molte che già possediamo, Giovanni invece getta nel meccanismo del nostro mondo, per incepparlo, questo verbo forte: date, donate. È la legge della vita: per stare bene l’uomo deve dare.
Vengono pubblicani e soldati: e noi che cosa faremo? Semplicemente la giustizia: non prendete, non estorcete, non fate violenza, siate giusti. Restiamo umani, e riprendiamo a tessere il mondo del pane condiviso, della tunica data, di una storia che germogli giustizia. Restiamo profeti, per quanto piccoli, e riprendiamo a raccontare di un Dio che danza attorno ad ogni creatura, dicendo: tu mi fai felice.

Fonte:www.avvenire.it

il commento al vangelo della domenica


Il Signore è vicino: vitale e nuovo come la primavera
il commento di E. Ronchi al vangelo della domenica trentatreesima (18 novembre 2018) del tempo ordinario:
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. (…) Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno (…)».

L’universo è fragile nella sua grande bellezza: in quei giorni, il sole si oscurerà, la luna si spegnerà, le stelle cadranno dal cielo… Eppure non è questa l’ultima verità delle parole di Gesù: se ogni giorno c’è un mondo che muore, ogni giorno c’è anche un mondo che nasce, un germoglio che spunta, foglioline di fico che annunciano l’estate.
Quante volte si è spento il sole, le stelle sono cadute a grappoli dal nostro cielo, lasciandoci vuoti, poveri, senza sogni: una disgrazia, una delusione, la morte di una persona cara, una sconfitta nell’amore. Fu necessario ripartire, un’infinita pazienza di ricominciare, guardare oltre l’inverno, all’estate che inizia con il quasi niente, una gemma su un ramo, guardare «alla speranza che viene a noi vestita di stracci perché le confezioniamo un abito da festa» (P. Ricoeur).
Gesù non ama la paura (la sua umanissima pedagogia è semplice: non avere paura, non fare paura, liberare dalla paura), vuole raccontare non la fine ma il fine della storia: Dio è vicino, è qui; bello, vitale e nuovo come la primavera del cosmo.
Dalla pianta di fico imparate: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Gesù ci porta alla scuola delle piante, del fico, del germoglio, perché le leggi dello spirito e le leggi profonde della creazione coincidono. Così un albero e le sue gemme diventano personaggi di una rivelazione. «Ogni essere vivente, ogni cosa, perfino il granello di polvere è un messaggio di Dio» (Laudato si’).
Imparate dalla sapienza degli alberi: quando il ramo si fa tenero, l’intenerirsi del ramo lo puoi percepire toccando; l’ammorbidirsi per la linfa che riprende a gonfiare i suoi piccoli canali non è all’occhio che si rivela, ma al tatto: vai vicino, tocca con mano. I sensi sono il nostro radar per addentrarci nella sapienza del mondo. Toccate. Guardate. Anzi: contemplate.E spuntano le foglie: piccole gemme che l’albero spinge fuori, che erompono al sole e all’aria, come un minimo parto, da dentro a fuori. Voi capite che l’estate è vicina. In realtà le gemme indicano la primavera, che però in Palestina è brevissima, pochi giorni ed è subito estate. Così anche voi sappiate che egli è vicino, alle porte. Da una gemma di fico imparate il futuro del mondo: «che non compiuto così com’è, ma è qualcosa che deve svilupparsi ancora oltre, e che deve essere inteso più in profondità. Il mondo è una realtà germinante» (R. Guardini), incamminata verso una pienezza profumata di frutti.
Da una gemma imparate il futuro di Dio: che sta alla porta, e bussa; viene non come un dito puntato, ma come un abbraccio; non portando un’accusa ma un germogliare di vita.

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