il commento al vangelo della domenica

IL TEMPO VERTICALE DELL’ATTESA
 Luca 13,1-9
il commento di E. Ronchi al vangelo della terza domenica di quaresima
Un vangelo di cronache sanguinose, disgrazie e stragi, contemporaneo all’uomo di sempre.
La risposta di Gesù è netta: non è Dio che fa cadere torri o palazzi, non è la mano di Dio ad architettare tragedie o guerre.
E tuttavia nei giorni del dolore la prima domanda che brucia è un’altra: perché, Dio? Dov’eri quel giorno? Quando la mia bambina è stata investita da quell’ubriaco, dov’eri?
Dio era lì, e moriva nella tua bambina; era lì anche in quel giorno dell’eccidio dei Galilei nel tempio; era là come il primo a subire violenza, il primo dei trafitti.
E non c’è altra risposta al pianto del mondo che il primo vagito dell’alleluia pasquale.
Se non vi convertirete, perirete tutti. Non è una minaccia all’umanità, non c’è nessuna scure calata alle radici dell’albero.
È un lamento, una supplica. E’ Dio che ci implora: convertitevi, invertite la direzione di marcia, ovunque voi siate. Nella politica del potere, nell’economia che uccide, nell’ecologia derisa, nella finanza padrona del mondo, nell’investire in nuove armi.
Non è l’uomo che si rivolge a Dio, qui è Dio che si rivolge all’uomo e ci prega, ci implora: tornate umani!
Bellissima la poesia di J. Donne che ci ricorda: Non domandarti per chi suona la campana/ Essa suona sempre un poco anche per te.
Conversione è un termine austero, ma sulla bocca di Gesù ha un altro suono; vuol dire essere freschi, essere rinnovabili; essere nuovi e incamminati. Vieni di qua, il cielo è più azzurro, l’aria è più limpida. La vite, l’ulivo, il fico sono pieni di frutti. Di qua è più bello!
E il vangelo ci porta via dai campi della morte, per farci camminare nei campi della luce.
“Sono tre anni che vengo a cercare e in questo fico non ho trovato un solo frutto. Mi sono stancato, taglialo!”
No, padrone!
Il contadino sapiente che è Gesù, dice: “no, padrone; no alla misura breve del demolire, sì alla misura lunga della pazienza e della cura. Sì al tempo verticale che sa aspettare.
Proviamo ancora, un altro anno e poi vedremo”.
Lui ha fiducia in me: l’albero dell’umanità è sano e ha radici buone, tu non sei sterile e forse porterai frutto.
Il mio Dio ortolano lascia la scure e si appoggia, si aggrappa a un forse, a una parolina che ci fa sbirciare nel cuore di Dio. Un forse che profuma di speranza come fai a negarlo?
Il finale della piccola parabola resta aperto, non è detto cosa sarà del frutto futuro. Ma è detto l’atto di fede di Dio in me: tu puoi diffondere un gusto di bontà, la dolcezza di un piccolo fico. Tu puoi.
Signore, tu vedi in me il santo prima del peccatore, la luce prima del buio. E io spero in te perché tu speri in me, credo in te perché tu credi in me.

il commento al vangelo della domenica

LECH LECHA’
il commento di E. Ronchi al vangelo della seconda domenica di quaresima
il 9,28b-36
E il Signore disse ad Abramo: vattene dalla tua terra e dalla casa di tuo padre! «Lech lechà», gli disse, “vai verso te stesso”.
Sei tu la meta, non casa, terra o patria.
A un bambino che nasce, cosa augureresti?
A un uomo, a una donna di oggi, con la terra che brucia, cosa diresti?
Le stesse parole di Dio ad Abramo, “lech lechà”, vattene da questa visione del mondo, sporca e bugiarda.
Vattene da questa storia, dove ha ragione il più armato, il più violento, il più immorale.
Vai a te stesso.
Dentro di te non hai armi, non cercare di riempire i tuoi vuoti con la violenza. Ma non senti dentro che la pace è più umana che non uccidere?
E poi gli direi, come Dio ad Abramo: alza la testa, conta le stelle. Perditi con gli occhi nel cielo a fare quello che sembra impossibile.
L’immensità ti rende giudice davanti ad ogni dittatore.
Guarda in altro modo, guarda da un altro punto di vista, non quello piccolo di casa, di patria, ma con l’ottica del grande, dell’infinito, dell’immenso, delle stelle e del loro mistero.
Questa domenica della luce ci ricorda che abbiamo urgente bisogno di una trasfigurazione, di un cambiamento radicale. Di andare via da questi bassipiani per guardare le cose dall’alto.
Mentre pregava il suo volto cambiò di aspetto.
Pregare trasforma, contemplare ti cambia il cuore, e tu diventi ciò che contempli; diventi come Colui che preghi.
Guardano i tre, e sono storditi perché gettano lo sguardo sull’abisso di Dio.
“Che bello, Signore!” esclama Pietro. La mia fede per essere pane, sale, luce, lievito deve discendere da un “che bello” gridato a piena voce, da un innamoramento.
Dio è bellissimo. E ha un cuore di luce, come Gesù sul monte.
Che questa immagine resti viva nei tre discepoli, e in tutti noi; viva per i giorni in cui il volto di Gesù invece di luce gronderà sangue, come sarà nel Giardino degli Ulivi, come oggi accade nelle infinite guerre del mondo, nelle infinite croci dove Cristo è ancora crocifisso nei suoi fratelli. Alza la testa, guarda la luce del Tabor, guarda le stelle e vai, ritorna al cuore.
Preghiamo non per convincere Dio, ma perché ci aiuti ad essere fedeli ai piccoli del mondo contro tutti i potenti: “tienili per mano, baciali in fronte”.
Ci aiuti a credere che, nonostante tutte le smentite, il filo rosso della storia è saldo fra le tue dita e che noi dobbiamo porre mano non al futuro del mondo ma al mondo del futuro, oltre il muro d’ombra delle cose e degli avvenimenti.
Per capire le linee di fondo su cui camminare abbiamo le ultime parole del Padre in quel giorno luminoso:
“questi è mio figlio, ascoltatelo, ascoltate Lui”.

il commento al vangelo della domenica

I DUE CUORI

 il commento di E. Ronchi al Vangelo della trentunesima domenica del tempo ordinario

Qual è, fra tutti, il più grande comandamento?

Aiutaci a ritornare al semplice, al principio di tutto… Gesù lo fa, uscendo dagli schemi con una risposta che tra i comandamenti non c’è. Che bella la libertà, l’intelligenza anti conformista di Gesù, icona limpidissima della libertà e dell’immaginazione.

La risposta comincia con un verbo: tu amerai, al futuro, a indicare una storia in-finita, perché l’amore è il futuro del mondo, perché senza amore non c’è futuro per l’umanità. 

Amerai con tutto il cuore; non da sottomesso, ma da innamorato.

Qualcuno ha proposto un’altra traduzione: amerai Dio con tutti i tuoi cuori. Come a dire: con il tuo cuore di luce e con il cuore d’ombra, amalo con il cuore che crede e anche con il cuore che dubita; come puoi, come riesci, magari col fiatone, quando splende il sole e quando si fa buio, e a occhi chiusi quando hai un po’ paura, anche con le lacrime. Santa Teresa d’Avila in una visione riceve questa confidenza dal Signore: “Per un tuo ‘ti amo’ rifarei da capo l’universo”. 

In fondo, nulla di nuovo. Le stesse parole le ripetono i mistici di tutte le religioni, i cercatori di Dio di tutte le fedi, da millenni.

La novità evangelica è nell’aggiunta inattesa di un secondo comandamento, che è simile al primo… Il genio del cristianesimo dice: amerai l’uomo è simile all’amerai Dio. Il prossimo è simile a Dio. Il prossimo ha volto e voce, fame d’amore e bellezza, simili a Dio.

Cielo e terra non si oppongono, si abbracciano. Vangelo strabico, verrebbe da dire: un occhio in alto, uno in basso, occhi nel cielo e piedi per terra.

Ma chi è il mio prossimo? Gli domanderà un altro dottore. Ho trovato una risposta che mi ha allargato il cuore, quella di Gandhi, un non cristiano: “il mio prossimo è tutto ciò che vive con me, su questa terra”, le persone, ma anche l’acqua, il sole, il fuoco, le nuvole, le piante, gli animali.

Sorella madre terra e tutte le sue creature.

Il comandamento diventa: Ama la terra come ami te stesso, amala come l’ama Dio. Vivere è convivere, esistere è coesistere. Non già obbedire a comandamenti o celebrare liturgie, ma semplicemente, meravigliosamente, felicemente: amare.

«Dio non fa altro che questo, tutto il giorno: sta sul lettuccio della partoriente e genera» (M. Eckhart).

Che cosa genera? Amore, che è vita.

il commento al vangelo della domenica

uguale a fiorire

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventottesima domenica del tempo ordinario

Mc 10, 17-30

In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”». Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni. (…)

Seguire Cristo non è un discorso di sacrifici, ma di moltiplicazione: lasciare tutto ma per avere tutto. Avrai cento fratelli e un cuore moltiplicato.

Il vangelo si apre con una corsa verso Gesù: un tale gli corse incontro. Come chi ha fretta, chi è in ritardo e ha fame. E non sa che sta per affrontare un grande rischio: interroga Gesù per sapere la verità su se stesso, e non sarà capace di sopportarla.

Grande rischio, ma anche grande fortuna, se qualcuno scoperchia il pozzo della nostra vita e ci mostra chi siamo davvero.

Maestro buono, è vita o no, la mia? Domanda grandiosa. Tutta la bibbia ruota attorno a questo: sapere cosa è vita e cosa no.

È un appassionato, questo giovane, è uno convinto, ci crede. E incanta Gesù, quando risponde: ‘tutto questo che dici l’ho sempre osservato. Ma non mi ha riempito la vita’. Vive quella beatitudine che conosciamo tutti, dolce e amara, ma generativa: “Beati gli insoddisfatti, gli inquieti, perché diventeranno cercatori di tesori”.

Ora il giovane fa un’esperienza da brivido, sente su di sé lo sguardo di Gesù, incrocia i suoi occhi amanti, può naufragarvi dentro: Gesù fissò lo sguardo su di lui e lo amò. Per Gesù guardare e amare sono la stessa cosa. E se io dovessi continuare il racconto direi: adesso gli va dietro, adesso subisce l’incantamento del Signore, non resiste a quegli occhi.

Invece la conclusione del racconto va nella direzione che non ti aspetti: “Una cosa ti manca, va’, vendi, dona ai poveri…”

Come i veri maestri Gesù risponde alzando l’asticella, creando visioni nuove, donando ali perché quel ragazzo possa volare più alto e più lontano. Vuoi vivere davvero? Sappi che la tua vita non è garantita dal tuo patrimonio economico, ma dal tuo patrimonio relazionale.

E poi vieni con me: mettiamo in tavola la vita. E lo facciamo per amore dei poveri, non della povertà. L’ideale del maestro di Nazaret non è un pauperismo che basta a se stesso, ma riempire di volti e di nomi il cuore di ognuno. Prima le persone, dopo le cose.

Nel vangelo offre due sole regole circa i beni materiali, semplicissime e rivoluzionarie. Primo, non accumulare. Secondo, quello che hai è per condividere. Quanto basta a capovolgere la direzione della vita.

Le bilance della felicità pesano sui loro piatti la valuta più pregiata dell’esistenza: dare e ricevere segni d’amore.

Seguire Cristo non è un discorso di sacrifici, ma di moltiplicazione: lasciare tutto ma per avere tutto. Infatti il vangelo continua: Pietro allora prese a dirgli: Signore, ecco noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito, cosa avremo in cambio?

Avrai in cambio cento volte tanto, avrai cento fratelli e un cuore moltiplicato. Il vangelo non è rinuncia, se non della zavorra che impedisce il volo, la bella notizia è una addizione di vita.

Chi prova a farlo, solo per frammenti certo, può dire:

“con gli occhi nel sole/

a ogni alba io so/

che rinunciare per te/

è uguale a fiorire” (M. Marcolini).

il commento al vangelo della domenica

“in principio non era così”

 

il commento di E. Ronchi al vangelo della ventisettesima domenica del tempo ordinario

Mc 10,2-16

In quel tempo, alcuni farisei domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; (…) Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».(…) Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.

Il sogno di Dio è che i due si cerchino, si trovino, si amino; che diventino e rimangano uno. Questo è il suo nome: ‘Dio congiunge’. Il nome del nemico dell’amore è esattamente l’opposto: colui che separa, il divisore, il diavolo. Allora uno più uno uguale a uno.

Alcuni farisei vanno da Gesù per metterlo alla prova. Quello che gli chiedono è risaputo: “E’ lecito a un marito ripudiare la moglie?”. Chiaro che sì, la tradizione, avallata dalla Parola di Dio, lo permetteva.

Gesù prende subito le distanze e dice: “cosa vi ha ordinato Mosè?” Da buon ebreo, avrebbe invece dovuto dire “che cosa ci ha comandato Mosè?”.

‘Mosè ha permesso l’atto di ripudio’. Ebbene, Gesù prende le distanze anche da Mosè e sottolinea: “per la durezza del vostro cuore egli scrisse questa norma.

Afferma così qualcosa di enorme: La legge che noi diciamo di Dio non sempre riflette la sua volontà. E per questo non ha valore assoluto. Gesù non si ferma a redigere altre norme, non gli interessa regolamentare la vita, ma rinnovarla; custodire il fuoco, non venerare la cenere.

Come bambini che non comprendono, ci prende per mano e ci accompagna nei territori di Dio e del suo sogno iniziale: all’inizio Dio li fece maschio e femmina, per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e i due diventeranno una carne sola.

Il sogno di Dio è che i due si cerchino, si trovino, si amino; che diventino e rimangano uno. Allora uno più uno uguale a uno.

L’uomo non separi quello che Dio ha congiunto. Questo è il suo nome: ‘Dio congiunge’. Il nome biblico del nemico dell’amore è esattamente l’opposto: colui che separa, il divisore, il diavolo.

Allora il problema non è ripudio o non ripudio, separarsi o meno, ma è alla radice: si tratta della manutenzione, tenace, del sogno, perché l’amore è fragile e affamato di cure.

Se non ti impegni a fondo per le tue relazioni, se non dai loro tempo, se non le custodisci con fedeltà, con timore e tremore, le hai già ripudiate nel tuo cuore.

‘Portavano dei bambini a Gesù perché li toccasse. Ma i discepoli li rimproverarono. Al vedere questo, Gesù si indignò’. L’indignazione è un sentimento proprio dei profeti davanti all’ingiustizia o all’idolatria; è la reazione di Gesù per la profanazione del tempio (Gv 2,14).

Qui reagisce allo stesso modo, perché i bambini sono cosa sacra: a chi è come loro appartiene il regno di Dio.

Chi è come loro? I bambini non sono più buoni degli adulti, ma sono maestri nell’arte della fiducia e dello stupore. Loro sì sanno vivere come i gigli del campo e gli uccelli del cielo, sanno giocare tutto il giorno come i delfini, incuriositi da ciò che porterà loro, facili al sorriso e all’abbraccio. Il bambino fino ai 12 anni non ha obblighi verso la Legge, è ai margini, non ha riti da osservare, e Gesù lo addita a modello! Prima la persona e poi la legge!

Nessuno ama la vita più appassionatamente di un bambino che si rialza da terra.

Prendendoli fra le braccia li benediceva: perché nei loro occhi il sogno di Dio brilla non contaminato ancora.

il commento al vangelo della domenica

IL TEPORE DI UN ABBRACCIO

 Mc 9, 30-37

il commento di E. Ronchi al vangelo della venticinquesima domenica del tempo ordinario

Il vangelo introduce tre nomi di Gesù totalmente sbagliati e impossibili: ultimo, servo, bambino.
E i dodici non capiscono, proprio come noi.
Gesù sta dicendo loro che tra poco sarà assassinato e quelli parlano d’altro, parlano di carriere: chi è più grande tra noi?
Il rabbi li stravolge con quel limpidissimo pensiero: chi vuol essere il primo sia l’ultimo e il servo di tutti.
Di cosa stavate parlando?
Di chi è il più grande.
Questione infinita, che inseguiamo da millenni. Questa fame di potere, questa furia di comandare è da sempre annuncio di distruzione.
Gesù si colloca a una distanza abissale da tutto questo: se uno vuol essere il primo sia il servo.
Ma non basta: Servo di tutti, senza limiti. E non basta ancora: prese un bambino, lo pose in mezzo e lo abbracciò.

Un bambino!

E’ il modo magistrale di Gesù, che s’inventa qualcosa di inedito come un abbraccio all’ultimo della fila, grande schiaffo in faccia ad ogni potere.

Tutto il vangelo in un abbraccio è rivelazione, è altissima teologia sulla verità di Dio.

In quella casa di Cafarnao c’è una parabola in azione: è Dio che si scioglie in un abbraccio al più piccolo perché nessuno sia perduto, non una briciola di pane, non un agnellino in fondo al gregge, non due spiccioli di un tesoro.

Proporre il bambino come modello del credente è l’impensato.
Cosa ne sa lui? Solo la tenerezza degli abbracci, l’emozione delle corse, il vento sul viso. Non sa niente di filosofia, di teologia, di morale, ma conosce come nessuno il senso della fiducia, da cui imparare.

Chi accoglie un bambino accoglie me! Gesù compie un enorme passo avanti, lo indica come sua immagine. Vertigine del pensiero. Il Re dei re, il Creatore, l’Eterno, l’infinito, l’assoluto, l’immenso, sta in un cucciolo d’uomo.
E questo vuol dire che come ogni bambino anche Dio va protetto, accudito, custodito, aiutato, accolto, perché “chi accoglie un bambino accoglie me, accoglie il Padre”.

Accogliere, verbo che plasma il mondo come Dio lo sogna.
Avremo un futuro buono solo quando l’accoglienza sarà il nome nuovo della civiltà; quando accogliere o respingere i disperati, i piccoli, sarà considerato accogliere o respingere Dio stesso. Se vogliamo un mondo che stia in piedi davvero non c’è altra strada che ripartire dal più bisognoso.
Questa è la fede, che poggia sulla giustizia.
Il bambino conosce la speranza perché sa aprire la bocca in un sorriso quando ancora non ha smesso di asciugarsi le lacrime.

I bambini danno ordini al futuro.
Loro sì, sanno vivere come i gigli del campo e gli uccelli del cielo.
Proviamoci anche noi: quando ci sentiamo senza appoggio e speranza, ricordiamo quel bambino abbracciato, e anche noi come lui sentiremo lo stupore tiepido delle braccia di Dio.

le beatitudini per un mondi nuovo

LE BEATITUDINI PER NOI …
la versione di E. Ronchi
Beati i poveri in spirito, sono loro i re di domani
Beati quelli che scelgono di stare con i piccoli e gli ultimi della fila
Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia
Beati quelli che hanno fame e sete di dignità e di diritti per tutti
Beati quelli che scelgono sempre l’umano contro il disumano
Beati quelli che salvano vite, dalla morte, da ogni forma di morte
Beati quelli che costruiscono ponti e non muri
Beati quelli che: avevo fame e mi avete dato da mangiare
ero straniero e mi avete accolto
ero senza terra e mi avete dato un paese buono
Beati quelli che hanno il cuore dolce, perché saranno i signori di domani
Beati quelli che sanno ancora piangere,
che provano dolore per il dolore di un bimbo, una donna, un figlio della terra…
Beati quelli che sanno provare stupore e rabbia di fronte agli orrori del mondo
Beati quelli che si prendono cura di una esistenza con la loro esistenza
Beati quelli che sentono il morso del più: più passione, più umanità, più diritti
Beati i coraggiosi: quelli che “meglio trasgressivi che complici”
Beati quelli che non sono muti e inerti
Beati gli oppositori, che si oppongono alla legge
quando la legge si oppone all’umanità
Beati quelli che sono in minoranza, controcorrente,
che non si accodano al pensiero dei più
Beati quelli che la vita non la vedono in funzione del loro io,
ma il loro io in funzione della vita.
Loro hanno in dono la vita indistruttibile
Ermes Ronchi

il commento al vangelo della domenica

LA SORGENTE PULITA
Marco 7,1-8.14-15.21-23
Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano.
Gesù indirizza la nostra attenzione verso il cuore, quegli oceani interiori che ci minacciano e che ci generano; che ci sommergono talvolta di ombre e di sofferenze ma che più spesso ancora producono isole di generosità, di bellezza e di luce.
Gesù veniva dai campi del mondo dove piange e ride la vita, veniva dai villaggi dove il suo andare era un perenne bagno nel dolore.
Dovunque arrivava, gli portavano i malati sulle piazze, sulle porte, li calavano dai tetti. E mendicanti ciechi lo chiamavano, donne piagate di Tiro e da Sidone cercavano di toccargli la frangia del mantello, o almeno che la sua ombra passasse sopra di loro come una carezza.
E ora che cosa trova?
Gente che collega la religione a macchioline, a mani e piatti lavati, a oggetti esteriori, che collocano il male all’esterno e non nell’interiorità.
Gesù, anziché scoraggiarsi, diventa eco del grido antico dei profeti: è dal cuore degli uomini che escono le intenzioni cattive. E inaugura così la religione dell’interiorità, proponendo una radicale “ecologia del cuore”: curare il cuore per guarire la vita.
Il problema centrale è pulire non le mani, ma la sorgente.
Che vuol dire attenzione, premura, terapia intensiva del nostro piccolo Eden interiore, dove nascono i sogni, dove intrecciano le loro radici energie bellissime e generative, piante guaritrici e le spine di vecchie ferite, l’infinito e il quotidiano, attorno all’albero sempre verde della vita.
La nostra sorgente è sana; l’uomo non è cattivo, solo che si sbaglia facilmente. Ma non esiste vicenda umana senza un grammo di luce: perché ogni cosa è “tôv”, bella e buona, illuminata, l’intero creato è un atto d’amore sussurrato.
Che aria di libertà! Apri il vangelo e senti che ti riporta a casa. Senti una boccata d’aria fresca dentro l’afa pesante dei soliti, piccoli discorsi, uno spruzzo d’acqua fresca e buona come l’essenziale.
Qual è la differenza tra superfluo ed essenziale?
Non ho più dimenticato un antico professore che me lo spiegava così: superfluo è tutto ciò che va dalla pelle in fuori; essenziale è tutto ciò che va dalla pelle in dentro. I farisei andavano dalla pelle in fuori: lava, pulisci risciacqua, spolvera. Gesù va dalla pelle in dentro.
Ritorna al tuo cuore: per quasi mille volte nella Bibbia ricorre il termine cuore, che non indica la sede dei sentimenti o delle emozioni, ma il luogo dove nascono le azioni e i sogni, dove si sceglie la vita o la morte, dove si è felici oppure no. Dove ci sono campi di grano e anche erbe cattive.
Gesù vuole evangelizzare il cuore, far scendere vangelo sulle nostre zolle di durezza e sui desideri oscuri.
Tu non concederai loro il diritto di sedere alla tua tavola, non permettere loro di galoppare sulle praterie del tuo cuore, perché tracciano strade di morte.
Evangelizzare significa far scendere sul cuore un messaggio felice, e quello di Gesù ribadisce che la sorgente è pura, ma ha bisogno della tua cura.
Custodisci con ogni cura il tuo cuore,
perché da esso sgorga la vita (Proverbi 4,23)
Bellissimo compito profetico: chiamati tutti a bypassare tanta polvere, tanto fumo, tanta apparenza.
Liberiamo la Parola di Dio dai sequestri anche ecclesiastici, da regoline, da piccolezze polverose che rubano luce al messaggio, e il vangelo ci darà ali per volare su un mondo bello, su un mondo nato buono.

il commento al vangelo della domenica

MOLTA FOLLA, MOLTA SOLITUDINE
il commento di E. Ronchi al vangelo della decima domenica del tempo ordinario
Marco 3,20-35
Da sud, arriva per il giovane rabbi una commissione d’inchiesta, con i primi teologi dell’istituzione religiosa pronti ad accusarlo.
Dal nord scendono invece i suoi, per riportarselo a casa.
Sembra una manovra a tenaglia contro quel maestro fuori legge.
Non s’è mai visto in Israele un rabbino che cammina sempre, sempre in giro, con la strada come casa e aula scolastica, seguito da una carovana colorata di uomini e donne.
I dottori della legge arrivano a Cafarnao da Sud e da Ovest, per metterlo in riga, lui che ha fatto di dodici ragazzi il suo esercito, di una parola che guarisce, la sua arma.
E sentenziano che Gesù è figlio del diavolo, marchiato di scomunica.
Eppure la pedagogia del maestro incanta sempre: invece di offendersi, come avrei fatto io, dice Marco “ ma egli li chiamò”, chiama vicino quelli che l’hanno giudicato da lontano, e parla con loro. Gesù ha dei nemici, ma non è nemico di nessuno. Lui è l’amico della vita.
Sua madre e i suoi fratelli, da fuori mandarono a chiamarlo.
Il vangelo di Marco, concreto e asciutto, ci rimette con i piedi per terra, dopo le ultime grandi feste che ci hanno fatto volare alto.
Si riparte dalla casa, dal basso, dai problemi: il Vangelo non nasconde che durante il suo ministero pubblico le relazioni di Gesù con la madre e la famiglia siano segnate da contrasti e distanza.
E alla loro chiamata Gesù risponde, ma solo a quelli seduti attorno a lui: Chi sono i miei fratelli e le mie sorelle? Quelli la fuori? Che si vergognano di me? Del matto di casa?
Particolare drammatico, sembra una canzonatura: c’è tua madre!
E io credo che qui Marco riferisca uno dei momenti più dolorosi della vita di Maria, che si sente dire dal figlio: chi è mia madre?
Un disconoscimento. L’unica volta che Maria appare nel vangelo di Marco è qui (e non ne riporta il nome se non in una menzione indiretta nelle parole dei nazareni: “non è costui il figlio di Maria?”), ed è l’immagine di una madre e di un figlio distanti, ognuno immerso nel proprio dolore.
Anche Maria, come noi, ha dovuto cercare e faticare, affrontare dubbi e parole dure.
Chi fa la volontà del Padre, questi è per me madre, sorella, fratello.
La volontà del Padre è semplice: vuole che sorga un mondo fatto di coraggio, libertà e amore, di fratelli tutti.
Assediato, Gesù non si arrende, si oppone a ciò che è mediocre! Non si ferma, non torna indietro.
Lo immagino: molta folla e molta solitudine.
Ma dove passa lui, fiorisce un sogno di maternità, sorellanza e fraternità nel quale ci invita a entrare.
Un sogno che forse abbiamo spezzato mille volte, ma di cui non ci è concesso stancarci.

il commento al vangelo della domenica

LE PORTE CHIUSE DI GESU’
il commento di E. Ronchi al angelo della seconda domenica di pasqua
La sera di quel giorno mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Tommaso, uno dei Dodici, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo il segno dei chiodi io non credo». (…)
Gv 20,19-31
Aria di paura in quella casa.
Paura dei Giudei ma anche e soprattutto paura di se stessi, della propria viltà nella notte del tradimento.
Venne Gesù a porte chiuse.
La sua prima venuta sembra senza effetto, e otto giorni dopo tutto è come prima.
Eppure lui è di nuovo lì, ad aprire le porte della paura nonostante i cuori inaffidabili: venne Gesù e stette in mezzo a loro.
Secoli dopo è ancora qui, irremovibile davanti alle mie porte chiuse.
La fede non è nata dal ricordo del Risorto. Il ricordo non basta a rendere viva una persona, al massimo può far nascere una scuola. La Chiesa è nata da una presenza, e non da una rievocazione: “e stette in mezzo a loro”.
Il Vangelo parla di ferite che Gesù non nasconde, che a Tommaso quasi esibisce: il foro dei chiodi, toccalo! Il costato, puoi entrarci con la mano!
Piaghe che non ci saremmo aspettati, convinti che la risurrezione avrebbe rimarginato, cancellato per sempre il dolore del venerdì santo.
E invece no.
Perché la Pasqua non è il superamento festoso della Passione, ne è la continuazione, il frutto maturo, la conseguenza.
Le piaghe restano, per sempre. Ed è proprio a causa di quelle che Cristo è risorto.
L’amore ha scritto la sua storia sul corpo del Nazareno con la scrittura delle ferite, indelebili, come l’amore. Dalle piaghe non sgorga più sangue ma luce, le ferite non sfigurano ma trasfigurano.
Allora capiamo che proprio attraverso i colpi duri della vita diventiamo capaci di aiutare altri attraversando le stesse tempeste, nella condivisione.
La nostra debolezza, come quella di Pietro, dei discepoli, di Maddalena, non è un ostacolo, ma una risorsa per meglio seguire il Signore. La debolezza non è più un limite, perché nonostante i nostri dubbi si trasfigura in un’opportunità da cogliere.
Per tre volte il Vangelo parla di pace donata da Gesù.
Ed è a questa esperienza di pace che Tommaso alla fine si arrende, e neppure sappiamo se abbia toccato o meno il corpo del Risorto.
Si arrende non al toccare, non ai suoi sensi, ma alla pace, passando dall’incredulità all’estasi, si arrende a questa parola che da otto giorni lo accompagna e che ora dilaga: Pace a voi!
La pace è una voce silenziosa, non grida, non si impone, si propone, come il Risorto; con piccoli segni umili, un brivido nell’anima, una gioia che cresce, sogni senza più lacrime. E ad essa ci consegniamo anche se appare come poca cosa, perché «se in noi non c’è pace non daremo pace, se in noi non è ordine non creeremo ordine» (G.Vannucci).
Non un augurio, ma una certezza: la pace è qui, è in voi, è iniziata.
Cerca aiuto per scendere su ogni cuore stanco, sulle nostre guerre, su ogni storia di dubbi e sconfitte.
Scende come benedizione gioiosa, immeritata e felice che mi spinge a osare di più; così inizia la mia sequela, la mia porta che si spalanca al rischio di essere felice.
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