Category Archives: materiale da rielaborare
necessario recuperare spazi di silenzio anche in tempo di vacanze
l’uomo è diventato un’appendice al rumore”
Max Picard
Siamo nel tempo delle vacanze, il tempo che vorremmo dedicare al riposo, ma facilmente dimentichiamo che per riposare occorre soprattutto il silenzio. Nella nostra società, come scrive Max Picard, “l’uomo è diventato un’appendice al rumore”, non conosce quel silenzio di cui ha assolutamente bisogno per ritrovare la propria umanità. Più che mai si deve riscoprire l’antichissima arte di “ascoltare il silenzio”: impresa certo non semplice se già Eraclito diceva dei propri simili che erano “incapaci di ascoltare e quindi di parlare”. Da allora ci illudiamo di aver compiuto passi in avanti nella capacità di parlare, ma in realtà la nostra parola ha perso autorità e forse proprio per la mancanza del silenzio da cui deve essere generata.
Abbiamo bisogno di una pedagogia all’ascolto autentico e alla comprensione di ciò che sentiamo e quindi è innanzitutto necessario ascoltare il silenzio. È significativo che nella tradizione spirituale dell’occidente sia attestato che l’arte oratoria ha per madre il silenzio e per padre la solitudine. Solo il silenzio, infatti, rende possibile l’ascolto, l’accoglienza non solo delle parole pronunciate ma anche della presenza di colui che parla. Il silenzio è linguaggio che esprime l’autorevolezza di chi prende la parola, è abilitato ad essere il linguaggio dell’amore, accompagna la parola conferendole una grande capacità di penetrazione.
Purtroppo oggi il silenzio è raro, è forse la realtà maggiormente assente nella nostra giornata: siamo bombardati da messaggi sonori e visivi, i rumori ci derubano della nostra interiorità e le parole stesse vengono immiserite dal loro essere urlate, ridotte a invettive o slogan ripetuti inutilmente. Ormai è diventato insopportabile assistere a quello che in teoria dovrebbe essere un “dialogo” o un “confronto” televisivo: prevale l’abitudine di alzare la voce per sopraffare, addirittura per coprire la parola dell’interlocutore. E così il necessario ed elementare ritmo che comprende silenzi alternati alla parola viene stravolto, occupato da parole urlate. E, per chi assiste, il programma che dovrebbe offrire occasioni per pensare, conoscere opinioni e visioni diverse della realtà, diventa un’intollerabile esibizione urlata.
Sì, il silenzio è più che mai necessario e nel tempo delle vacanze può essere più facile che si presentino occasioni per viverlo: in passeggiate nei boschi, sui sentieri delle montagne, o in riva al mare, al mattino o al tramonto. La natura silenziosa ci accompagna a praticare un silenzio che sa ascoltare le voci di ogni creatura e in quei momenti è anche possibile percepire il “non detto” che, come “parola degli altri”, ci risuona nel cuore come un’eco delle nostre relazioni.
So bene che il silenzio, come la solitudine, a chi non lo pratica può fare inizialmente paura e ispirare angoscia, ma occorre dare tempo anche al silenzio di diventare una realtà che possediamo e della quale disponiamo per la nostra umanizzazione.
È certamente cosa triste – e non ne comprendo il motivo – che venga ignorato dalla maggior parte delle persone che oggi ci sono ancora “uomini e donne del silenzio” nelle certose, nelle trappe e negli eremi, esseri umani che vivono in continuità l’esperienza umanissima di ascoltare il silenzio. Incontrando costoro forse capiremmo di più che il silenzio è linguaggio, non è mutismo, ed è relazione, comunione che non conosce barriere.
il commento al vangelo della domenica
il commento al vangelo della domenica
il commento al vangelo della domenica
il commento al vangelo della domenica
AL BALCONE DEL FUTURO
il commento di E. Ronchi al Vangelo della domenica di Pentecoste
Gv 15,26-27; 16,12-15
Lo Spirito Santo altro non è che il Dio nomade e libero, che inventa, spalanca porte, soffia sulle vele, fa cose che non t’aspetti. Che dà a Maria un figlio fuorilegge, a Elisabetta un figlio profeta e agli apostoli il coraggio di uscire all’aperto dal luogo chiuso, dalla vita bloccata. Un Dio che non sopporta statistiche né schemi, non recinti di parole, neppure sacre: Dio in libertà.
Parola nuova che si offre al navigante come nostalgia di casa, e all’uomo chiuso in casa come nostalgia del mare aperto.
Le letture bibliche della festa raccontano lo Spirito di Dio attraverso quattro registri musicali che vanno dal mosso vivace della prima lettura al grave e profondo della seconda, ma sono semplici feritoie sul mistero.
La prima porta che lo Spirito abbatte è quella di una casa, il Cenacolo, dove l’aria è chiusa, dove manca luce. Il Libro degli Atti ci racconta di quel cinquantesimo giorno dopo Pasqua, quando gli Apostoli parlavano come “ebbri”, fuori di sé, storditi da qualcosa che li aveva presi come un capogiro, una vertigine violenta e felice.
E’ la prima chiesa, fino ad allora arroccata sulla difensiva, terrorizzata, che viene lanciata fuori, nella Gerusalemme ostile. E la nostra chiesa oggi, anch’essa amata e infedele, proprio perché al bivio di grandi cambiamenti, ancora custodisce in molti suoi figli questo slancio originario.
La seconda porta la apre il salmo, come una melodia che naviga e aleggia sul mondo: del tuo Spirito, Signore, è piena la terra (Sal 103).-
Il Vento di Dio riempie la terra della sua santità, avvolge le cose con la sua luce: e scopro la santità delle stelle e del filo d’erba, del bambino che nasce, del giovane che ama, dell’anziano che pensa. L’umile santità del bosco e della pietra.
La terza porta dello Spirito immette su altre cento: la lettera di Paolo introduce un’orchestra dove ciascuno canta la sua nota, ciascuno porta in dono l’unicità della sua vita, incalzato da uno Spirito che vuole discepoli geniali, non ripetitori di stanche melodie.
Tempo di semine, il nostro. Tempo della pazienza del seme nella terra.
Quando verrà lo Spirito, vi guiderà alla verità. Appare l’umiltà di Gesù che non pretende di avere l’ultima parola, ma parla della nostra storia con Dio, soltanto con verbi al futuro: lo Spirito verrà, annuncerà, guiderà, parlerà.
Pregare lo Spirito è come affacciarsi al balcone del futuro, che è la terra fertile e incolta della nostra speranza.
Abbiamo bisogno che ciascuno creda al proprio dono, alle proprie originalità, unicità e bellezza, che sono i bellissimi doni dello Spirito. Lui, il Vento santo che non mancherà mai al mio veliero. O alla mia piccola vela, che Dio ha fatto sorgere sul vuoto del mare:
la scuola della pace a Lucca chiede una tregua immediata
la scuola per la pace della provincia di Lucca:
“si lavori per una tregua immediata”
L’appello: “Indispensabile è anche l’immediata apertura di corridoi umanitari che consentano la salvaguardia dei diritti basilari per la popolazione civile”
“Dare voce al popolo della pace di fronte all’escalation bellica”. È questo, in strema sintesi, l’appello lanciato dalla scuola per la pace della provincia di Lucca, che scrive una lunga riflessione in seguito alle terribili notizie sul conflitto tra Hamas e Israele.
“Nel 2003 allo scoppio della guerra in Iraq il movimento pacifista occupò le piazze di tutto il mondo in modo tanto forte da meritare la definizione giornalistica di superpotenza mondiale. Preceduto nel 2001 dal Forum di Porto Alègre, a sua volta spinto dal Popolo di Seattle (1999), il movimento seppe organizzare dal basso una critica radicale della globalizzazione e una potente strategia alternativa di ampiezza mondiale. Seppero collaborare intellettuali, movimenti sociali, sindacati, minoranze di ogni genere e tipo su una piattaforma intergenerazionale, transnazionale e interculturale. Il movimento seppe condizionare i governi nazionali”.
“La guerra tra Russia e Ucraina ha definitivamente spaccato il movimento, già indebolito dalla pervasività delle forme decise dal mercato 4.0, nonché dalla destrutturazione sociale provocata dalla pandemia – proseguono -. Nel contempo è divenuto sempre più evidente che il nodo di tutti i conflitti (sociali, energetici, climatici) e dei loro effetti – che Porto Alègre denunciava già vent’anni fa – si è spostato in Europa. Bisogna riconoscere che la crisi dell’Unione Europea corrisponde alla crisi del modello politico ed economico occidentale: è la crisi dell’Occidente, la crisi della civiltà dei diritti. Ne consegue che è necessario rivedere le forme attraverso le quali si ridefiniscono il bisogno e la possibilità di politiche del pacifismo per rafforzare l’Europa e la civiltà dei diritti. L’Unione Europea non è una comunità, ma è diventata un campo da gioco per la competizione degli Stati: il primo pericolo per l’Europa sono i nazionalismi e i forti principi identitari che ormai guidano o condizionano i governi di diversi Paesi. Con la vittoria della globalizzazione economica neoliberista è fallito il progetto di estensione della liberal democrazia occidentale a livello mondiale: il mercato ha vinto sui diritti. La guerra in Ucraina ha svelato l’inconsistenza diplomatica dell’Unione Europea, un Occidente a trazione nordamericana in contrapposizione al fronte Russia-Cina. Il resto del mondo si posiziona secondo dinamiche sempre meno prevedibili, che tuttavia si innestano in contraddizioni mai sanate, come testimonia la crescente virulenza del conflitto tra Hamas e Israele: noi scegliamo di guardarlo con gli occhi delle vittime dei due opposti fanatismi integralisti che intrappolano la vita delle persone in un conflitto feroce dove pagano i civili e gli inermi. Né possiamo tacere davanti alle politiche oppressive e coercitive che dal 2007 costringono 2 milioni di palestinesi a vivere in assoluta povertà nella striscia di Gaza“.
“Il processo di decolonizzazione dell’Africa testimonia ulteriormente la debolezza dell’Unione Europea e al tempo stesso non lascia intravedere reali processi di emancipazione dei popoli – proseguono -. Sono cambiate le logiche militari: oggi è in atto una guerra tecnologica 4.0, che si affianca a una guerra reale combattuta e sofferta, fin qui limitata a un preciso scacchiere geopolitico che tuttavia si sta pericolosamente allargando. Cambiamenti climatici e guerre regionali spingono ondate migratorie sempre più imponenti, mettendo in evidenza un altro conflitto che si va inasprendo, quello tra ricchi e poveri su scala mondiale. Di fronte a tutto questo, la scuola per la pace della Provincia di Lucca si mette a disposizione per riattivare la comunicazione tra le reti associative e facilitarne le forme organizzative al fine di: rielaborare gli strumenti di analisi politica e le forme di azione in grado di influire sull’opinione pubblica e sulle istituzioni; uscire dalla pigrizia mentale e dai perimetri identitari, cercando nuove forme per mediare gli inevitabili conflitti; produrre una cultura che evita le semplificazioni e smaschera le mistificazioni – strutturare convergenze che diano corpo e spazio alla fiducia nell’azione politica per la giustizia sociale, ambientale, di genere/i e intergenerazionale”.
“Nel vivo del nuovo fronte di guerra appena aperto, l’ente Provincia di Lucca si impegna attraverso il presidente a farsi portavoce presso le istituzioni sovraordinate dell’appello per una tregua immediata del conflitto tra Hamas ed Israele, affinché si possano porre le basi di una reale mediazione tra le parti – concludono -. Indispensabile è anche l’immediata apertura di corridoi umanitari che consentano la salvaguardia dei diritti basilari per la popolazione civile”.
il commento al vangelo della domenica
la giustizia del Padre è dare il meglio a ciascuno

«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”»(…)
il commento al vangelo della domenica
Gesù cerca seguaci vivi e coraggiosi per seguirlo
il commento di E. Ronchi al vangelo della ventiduesima domenica del tempo ordinario anno A
In quel tempo (…). Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!». (…)
Un avvio così leggero e liberante: se vuoi venire dietro a me. Se vuoi: farai come vorrai, andrai o non andrai con lui, il maestro degli uomini liberi, nessuna imposizione. Ma le condizioni sono da vertigine. La prima: rinnegare se stessi. Un verbo pericoloso se capito male. Non significa annullarsi, diventare sbiadito o incolore. Il maestro non vuole dei frustrati al suo seguito, ma gente dai talenti realizzati, seguaci vivi e coraggiosi. Lo Spirito cerca e crea discepoli geniali. Rinnegare se stesso significa: non sei tu il centro dell’universo, della famiglia, della comunità, e tutti a servirti per darti le gratificazioni di cui hai bisogno. Rinnega la concupiscenza di essere un Narciso allo specchio: tu sei il filo di un meraviglioso arazzo, piccolo, unico, insostituibile. Martin Buber riassume così il cammino dell’uomo: “a partire da me, ma non per me”. Perché chi guarda solo a se stesso non si illumina mai. La seconda condizione: prendere la propria croce. Immagine che abita gli occhi di tutti, che pende al collo di molti, che segna vette di monti, incroci, campanili, ambulanze, che abita i discorsi come sinonimo di disgrazie e di morte. Ma il suo senso profondo è altro. Per Gesù, è il luogo del dolore e dell’amore, incrocio delle più grandi passioni, nel doppio significato di appassionarsi e di patire. Sostituiamo la parola ‘croce’ con la parola ‘amo-re’, e la frase diventa: chi vuole venire con me, prenda tutto il “suo” amore, tutto quello di cui è capace, e mi segua. Viva e ami, come me, quelle cose che meritano di non morire, a partire da sé ma non per sé, e troverà una vita indistruttibile. Prendi su di te tutto l’amore di cui sei capace e poi prendi anche il dolore che ogni amore comporta, perché dove metti il tuo cuore, là troverai anche le tue ferite e le tue spine. Trasforma la ferita in benedizione. Gesù non sogna uno sterminato corteo di gente con la croce addosso, ma l’immenso pellegrinaggio verso più vita. Chi vuole salvare la propria vita…. La vita si salva come si salva un tesoro, spendendolo. Se chiudi le porte, la tristezza non può uscire e la gioia non può entrare. La vita ama le porte aperte, non la puoi possedere o fermare, deve scorrere; tutto scorre nell’universo, astri, pianeti, fiumi, uccelli migratori, sangue, nessun filo spinato può fermare il vento. La vita se si ferma, si ammala. Allora cammina la vita con me. Gesù riesce a far sentire le persone più grandi e più preziose e feconde di quello che gli altri pensano, di quello che loro stesse pensano; libera le forze imprigionate dentro, le ricchezze addormentate in loro, è il risvegliatore della vita profonda, come nessun altro sa fare.
(Letture: Geremia 20,7-9; Salmo 62; Romani 12,1-2; Matteo 16,21-27)
la fede e il ‘catechismo femminista’ di Michela Murgia
la ricerca e la fede
Michela Murgia e quella sete di assoluto
L’ultima volta che ci siamo visti, Michela Murgia aveva appena donato a papa Francesco una copia della rivista di cui era stata direttrice per un solo numero. In copertina c’era lei, elegantissima e sorridente come sempre appariva da quando, nel maggio scorso, aveva deciso di rendere pubblica la fase terminale della sua malattia. “Aspetta, ho bisogno di appoggiarmi un attimo”, aveva detto mentre cercava uno sgabello. Era affaticata ma orgogliosa: di quel giornale che era diventato un manifesto delle sue convinzioni (“La famiglia è di tutti”, annunciava il titolo principale) e del fatto di averlo potuto consegnare nelle mani del Papa che proprio lei, conosciuta come iconoclasta, aveva difeso dalle accuse piovutegli addosso all’indomani dell’elezione (a proposito di titoli, quel “Bergoglio e pregiudizio” scelto per sintetizzare le sue posizioni resta memorabile).
Michela Murgia era credente e non ne aveva mai fatto mistero. Fin dal suo libro di esordio, Il mondo deve sapere del 2006, non le dispiaceva definirsi teologa, una qualifica poi rivendicata in modo militante attraverso i suoi saggi, in particolare Ave Mary del 2011 e il controverso “catechismo femminista” God Save The Queer del 2022. Non erano mere provocazioni, anche se come tali si è cercato di farle passare. Tutto sommato, anche a Michela Murgia sarebbe convenuto metterla sul piano del paradosso intellettuale, dell’esagerazione argomentativa. Alla peggio, la si poteva buttare in politica, che in certi casi è il modo migliore per chiudere il discorso. Il punto è che la narratrice di Accabadora (il suo libro più celebre e compiuto, pervaso da un’incombenza del sacro per la quale è difficile trovare corrispettivi nella recente letteratura italiana) non si limitava a essere orgogliosa. Era anche una persona esigente, con gli altri e con sé stessa, con la propria scrittura e con le proprie convinzioni, sempre messe alla prova. Prendeva sul serio la fede e proprio per questo si aspettava molto dalla Chiesa.
La sua simpatia nei confronti di Francesco non aveva niente di ideologico. Era la condivisione intima e istintiva di una dottrina della misericordia dalla quale nessuno, per nessun motivo, può sentirsi escluso. Su questi, che erano i temi che più le stavano a cuore, sapeva essere polemica come sono a volte gli adolescenti, che alzano la voce e sbattono le porte solo per essere sicuri di essere amati nonostante tutto, senza condizioni. A volte esagerano, d’accordo, ma hanno dalla loro la certezza che un amore che ponga condizioni semplicemente non è amore.
Di tutto il resto si può discutere, ma a questo desiderio di assolutezza non si può né si deve aggiungere nulla. “Ho bisogno di appoggiarmi un attimo”, diceva Michela Murgia l’ultima volta che ci siamo visti. Ne abbiamo bisogno tutti, sempre, solo che spesso non abbiamo il coraggio di ammetterlo. Lei, invece, non ha voluto nascondere la sua fragilità finale. “Voglio andare avanti così, fino alla fine”, ripeteva. “Riesco a scrivere solo quando mi sento minacciata, quando il cuore mi impazzisce per la paura”, aveva confidato in un’altra occasione. Non so se fosse intenzionale, ma stava citando san Paolo, Seconda lettera ai Corinzi, “quando sono debole, è allora che sono forte”. È una bella definizione della fede. Senz’altro, è la definizione migliore per la fede di Michela Murgia, che sorrideva al Papa e si aspettava tanto – tutto – dalla Chiesa.