chi ha armato il tiranno Assad?

 

cadaveri

 

Adesso l’Occidente vuol fare la guerra alla Siria. Ma da decenni a fornire ordigni chimici a Damasco sono state Francia e Germania. Attraverso società di brokeraggio olandesi, svizzere e austriache

queste riflessioni sull’ultimo numero de l’Espresso:

 

Mille tonnellate cubiche di “aggressivi chimici” sono custodite nell’arsenale più capiente del Medioriente e quarto nel mondo. Sono prodotte e stoccate in una cinquantina di siti sparsi in Siria. Ma negli ultimi mesi gran parte sarebbero state trasferite nelle aree dove è più sicuro il controllo da parte delle forze leali al dittatore Bashar al-Assad. Prima dell’attacco del 21 agosto scorso nell’area di Ghouta, dintorni di Damasco, che ha provocato, a seconda delle fonti, tra i 300 e i 1.300 morti costringendo la comunità internazionale a valutare un intervento armato dopo due anni e mezzo di guerra civile e oltre 100 mila morti, le armi chimiche erano già state usate, stando alle prove raccolte da varie intelligence, almeno cinque volte a partire da dicembre.

Per i ribelli del Libero esercito siriano il regime vi avrebbe fatto ricorso in almeno 18 occasioni. La famosa “linea rossa” tracciata dal presidente americano Barack Obama per muovere le truppe è stata abbondantemente superata. Assad sostiene che anche i suoi oppositori sono in possesso dei micidiali ordigni e ribalta su di loro le accuse. Il timore di tutti è che almeno una parte possa finire nelle mani della formazione filo-qaedista Jabhat al-Nusra o di altre organizzazioni di estremisti salafiti che si oppongono al tiranno.

L’arsenale è infatti l’oggetto del desiderio dei molti signori della guerra che soffiano sul fuoco nell’area più rovente del Pianeta. Il padre di Bashar, Hafez al-Assad, lo iniziò a costruire dopo la sconfitta nella Guerra del sei giorni contro Israele. Non avendo il denaro per finanziare un programma nucleare aveva ripiegato sulle più economiche armi chimiche come deterrente per il potente e vicino Stato ebraico. L’Egitto fu il primo a fornire, a partire dal 1973, quantità di iprite o gas mostarda, già massicciamente usato nella prima guerra mondiale: di colore giallo-brunastro, evapora molto lentamente, provoca ustioni, grosse vesciche, la morte per soffocamento o emorragia. Il salto di qualità ci sarebbe stato solo pochi anni dopo, grazie all’aiuto di alcune aziende farmaceutiche francesi che hanno esportato materiali “dual use” contenenti il sarin, gas nervino altamente tossico che colpisce il sistema nervoso: sarebbe quello sparato sulla popolazione di Ghouta. Nella tenacia con cui il presidente Hollande si è posto in prima fila tra gli interventisti conta forse la cattiva coscienza? Non solo Parigi, tuttavia, anche la Germania (allora Ovest) è responsabile della proliferazione, così come alcuni paesi inseriti tra gli Stati canaglia come la Corea del Nord e l’Iran. Il tutto mediato da società di brokeraggio attive in Olanda, Svizzera, Austria oltre che nelle già citate Francia e Germania.

Assad non disporrebbe tuttavia di tanti strumenti di morte senza l’ausilio, a partire dagli anni Novanta, della Russia grazie a un “accordo di cooperazione” tra le istituzioni scientifiche dei due Paesi. Sarebbe stato un ex generale russo, Anatoly Kuntsevich, a promuovere il trasferimento di ingenti quantità di sarin a Damasco. E a dotare la Siria dei missili grazie ai quali i gas possono essere sparati: Frog-7 all’inizio, e poi Scud-B. Dalla Corea sono arrivate le versioni più aggiornate, gli Scud-C e D, capaci di arrivare a colpire le principali città israeliane. La Cina dal canto suo avrebbe messo a disposizione la tecnologia necessaria per la costruzione dei missili M-9 con una gittata di 900 chilometri.

Un programma vasto, insomma, in continua evoluzione tanto da preoccupare gli 007 di mezzo mondo che, in mancanza di informazioni certe da parte di un regime impenetrabile, avviano inchieste per capire cosa davvero ci sia dentro gli arsenali di Damasco. Che sarebbero tra l’altro stati completamenti rinnovati a partire dal 2009 grazie a tecnologie più sofisticate in grado di mescolare i gas per renderli ancora più pericolosi. Gli americani sono certi che Assad produca VX, altro gas nervino classificato dall’Onu come “arma di distruzione di massa” e che abbia la capacità di stoccare «alcune centinaia di tonnellate di agenti chimici l’anno». Fino a un totale (stima del ministero della Difesa indiano) di mille tonnellate, conservate in circa 50 città, quasi tutte nel nord del Paese e dunque vicino al confine turco. Dettaglio che spiega l’attivismo di Ankara tra coloro che spingono per l’opzione militare.

Non solo chimica tuttavia. Il Centre d’études et de recerches scientifiques (Cers) che si trova appena fuori Damasco e l’omologo centro di ricerca situato a Cerin sarebbero i laboratori di fabbricazioni di armi biologiche. Secondo la consulente della Nato dottoressa Jill Dekker lì si lavora su «antrace, peste, tularemia, botulino, vaiolo, colera». L’antrace sarebbe già stato inserito in testate missilistiche. Anche per le armi biologiche sarebbero state decisive le importazioni “dual use”. Pur se il Paese nella farmaceutica ha raggiunto rispettabili risultati e conta una decina di grandi imprese in grado di svolgere attività di ricerca scientifica autonoma.

Secondo Rachel Schwartz, dell’International institute for counter-terrorism di Herzliya (Israele), autrice di uno degli studi più accurati sull’arsenale siriano, l’uomo chiave del regime con la delega alle armi chimiche è Ali Mamlouk, 67 anni, consigliere di Bashar, e indicato come il mandante di alcuni omicidi in Libano. E’ lui che si occupa della sicurezza e soprattutto dei trasferimenti da un luogo all’altro perché non cadano in mani nemiche. I siti di produzione principali si trovano ad Hama, Homs, Latakia e Al-Safira. Quelli di stoccaggio a Khan Abu Shamat, Furqlus, Masyaf, Palmyra (il famoso sito archeologico) e Dumayr.

Prima di Ghouta, i cinque casi in cui le intelligence occidentali hanno accumulato prove circa l’uso di armi chimiche sono questi. Homs, 23 dicembre 2012: 7 morti e 50 feriti a causa del gas nervino BZ (provoca asfissia). Khan al-Assal, 19 marzo 2013: 31 morti e 300 feriti per il gas nervino sparato da un missile. I ribelli hanno accusato il governo e viceversa. L’Onu ha concluso che è impossibile stabilire chi siano gli autori dell’attacco. Adra, 24 marzo: 2 morti e decine di feriti per una bomba al fosforo. Le forze di opposizione hanno documentato con un video gli effetti: crampi, problemi respiratori, convulsioni, vomito. Quartiere Sheikh Maqsoud, Aleppo, 13 aprile: 31 morti e decine di feriti per sostanze tossiche accertate anche dall’Onu. Saraqeb, 29 aprile: bombardamento da un elicottero col sarin eseguito «senza alcun dubbio», secondo il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius, dagli uomini di Bashar al-Assad.

sgombe-rom di S. Bontempelli

 

sgomberom

Anche nei paesi di origine si praticano quotidianamente sgomberi e allontanamenti forzati. La denuncia di Amnesty

 Ruspe in azione: una ditta ha acquistato un terreno per costruirvi un centro commerciale, e le precarie abitazioni che punteggiano l’area devono essere demolite. I mezzi pesanti buttano giù i muri, portano via i detriti e si accaniscono sugli effetti personali degli abitanti.
In quegli alloggi risiedevano stabilmente una trentina di famiglie rom: circa 150 persone, molte delle quali minorenni. Che ora si ritrovano in mezzo a una strada: nessun assistente sociale ha fornito a questa piccola comunità una qualche soluzione alternativa, e il Comune, più volte sollecitato, ha fatto orecchie da mercante.
Potrebbe essere la descrizione di uno dei tanti sgomberi che avvenivano – e avvengono tuttora – in molte città italiane. Potremmo essere a Roma, nei quartieri della periferia capitolina. O a Milano, in qualche terreno occupato dai rom romeni. O ancora a Bologna, nei campi lungo il fiume Reno.
E invece no, non siamo in Italia. Siamo nella capitale dell’Albania, Tirana, nell’area chiamata Rruga Kavaja. I rom sgomberati – tutti albanesi “autoctoni” – sono finiti in mezzo a una strada, nonostante le proteste delle Ong e la denuncia di Amnesty International. Proprio come accadeva – e accade tuttora – in Italia.
Gli sgomberi forzati non sono una peculiarità del Belpaese. E il caso di Rruga Kavaja non è un’eccezione nemmeno nei territori dell’Est Europa, dove i rom sono una minoranza numericamente importante. Amnesty International ha recentemente pubblicato un dettagliato rapporto sul fenomeno degli sgomberi forzati in Romania, paese di origine di molti rom immigrati in Italia (qui il testo).
I romeni più anziani ricordano ancora le folli politiche di Ceausescu, che negli anni ’70 varò il cosiddetto “programma di sistematizzazione”: interi villaggi, soprattutto nelle aree rurali, dovevano essere cancellati, e la popolazione trasferita nelle metropoli, o comunque nelle città più grandi. L’obiettivo era l’urbanizzazione della società rumena e la sparizione dei piccoli borghi di campagna. Secondo alcune stime, furono demoliti almeno 500 villaggi, e migliaia di persone furono costrette a traslocare nei “blocuri”, i casermoni fatiscenti delle periferie urbane.
Quelle vicende appartengono al passato (per fortuna). Eppure, anche oggi la Romania promuove trasferimenti forzati di popolazione: le vittime non sono più i contadini romeni, come ai tempi di Ceaucescu, ma le minoranze etniche. Soprattutto, manco a dirlo, i rom.

Emblematico è il caso di Baia Mare, capoluogo del distretto di Maramureş nella regione storica della Transilvania. Qui, nel sobborgo di Craica – il “quartiere rom” della città – circa 500 persone sono state allontanate con la forza: le loro case sono state demolite dalle ruspe, proprio come accade in Italia, e gli abitanti sono stati trasferiti nell’ex area industriale di Cuprum, all’esterno della cinta urbana.
«Al momento dello sgombero dell’insediamento di Craica», denuncia Amnesty, «gli edifici di Cuprum non vennero adattati ad un uso residenziale. A ciascuna famiglia furono assegnate una o due stanze, senza riscaldamento e con strutture igienico-sanitarie fatiscenti. I servizi igienici erano in comune, e ciascun bagno era condiviso da almeno 20 persone. Non c’erano cucine, e i rom dovevano improvvisare la preparazione dei cibi in camera da letto».
Lo sgombero a Craica è avvenuto in varie tappe, ma il ciclo più intenso di demolizioni e trasferimenti si è registrato tra Maggio e Giugno del 2012: guarda caso, proprio nel periodo della campagna elettorale per le amministrative. Il Sindaco Cătălin Cherecheș, esponente del centro-destra ed ex deputato, doveva farsi rieleggere, e gli “zingari” sono sempre un buon argomento per chi è a caccia di consensi. Il 10 Giugno, gli elettori hanno premiato l’intraprendenza del primo cittadino, regalandogli una rielezione con l’86 dei voti: una percentuale che, se non fossimo in Romania, potremmo definire bulgara…

Secondo dati diffusi recentemente da Amnesty International, in Romania vivono 1 milione e 850.000 rom, che rappresentano l’8,63 per cento della popolazione totale. L’80 per cento vive in condizioni di povertà, e quasi il 60 per cento risiede in “comunità segregate” senza accesso ai servizi pubblici essenziali. Il 23 per cento delle famiglie rom (su una media nazionale del 2 per cento) subisce multiple privazioni relative all’alloggio, tra cui il mancato accesso a fonti d’acqua potabile e a servizi igienico-sanitari.
E’ in questo quadro che va collocato il fenomeno degli sgomberi forzati. Le comunità rom abitano per lo più nei sobborghi poveri delle grandi città, o in villaggi rurali segregati dal contesto circostante. Questi insediamenti esistono da tempo, e molte famiglie vi abitano da decenni (a volte addirittura dal periodo socialista): spesso, però, non hanno titoli di proprietà formalizzati. Così, può accadere che una multinazionale, o un grande proprietario, acquistino un terreno o un villaggio, e i rom da un giorno all’altro diventino “abusivi” da cacciare e allontanare.

Perché è importante tutta questa storia? Perché spesso, in Italia, sentiamo parlare di sgomberi di rom stranieri. E alla domanda “dove vanno le famiglie sgomberate?” segue invariabilmente il ritornello “in Italia sono ospiti, che se ne tornino a casa loro”.
Ecco, è giusto sapere che le discriminazioni esistono ovunque, anche nei paesi di origine. E che “gli zingari” sono considerati stranieri un po’ dappertutto. Anche «a casa loro».

Sergio Bontempelli

Chiavacci visto da Antonietta Potente

 

 

coccinelle
“Chiavacci, teologo classico e postmoderno”

di Antonietta Potente

 

Non amo fare commemorazioni di nessun genere e, ancor meno, di persone con le quali ho condiviso parte del cammino professionale. Oltre tutto, in questo caso mi viene chiesto di ricordare un collega che incontrai a Firenze quando ero appena all’inizio del mio itinerario riflessivo nell’ambito dell’università, un ambito diverso da quello da cui provenivo. Dunque, conosciuto prima attraverso la sua sintesi e poi conosciuto personalmente.

Con Enrico Chiavacci, avevo una sintonia di fondo, la stessa passione: la realtà contemporanea, con le sue più intriganti trasformazioni. La metodologia, l’approccio, lo stile, certamente erano diversi e, inoltre, dopo pochi anni persi le sue tracce, perché io feci il salto nell’altra prospettiva e partii per il Sudamerica. Così di Enrico Chiavacci, mi arrivavano solo echi e sintesi di pensiero scritte. Non lo sentii mai, in tutti questi anni, perdere il gusto e la passione per le problematiche storiche. Le sue sintesi etiche non lasciavano mai un gusto puramente ecclesiale. Le coordinate su cui si muoveva erano molto vaste, anche se il suo osservatorio non ha mai lasciato il territorio fiorentino.Ed è proprio questo che mi sembra di dover ricordare di Enrico Chiavacci: il suo pensiero era accompagnato e supportato dalla ricchezza del “suo” territorio geografico e culturale, oltre che ambientale. Chiavacci era un teologo colto e la sua morale sociale, oltre ad ispirarsi al clima postconciliare (i suoi commenti alla Gaudium et Spes erano sempre molto belli), si ispirava, a mio avviso, a questo ricco bagaglio culturale, che ispirava in lui anche la sua teologia.Acuto e critico, come un vero teologo postconciliare; e postmoderno, come chi non vuole mistificare la realtà. Ed è proprio questa realtà che si ritrova costantemente nei suoi testi, l’ambigua realtà che lui sapeva mettere in luce per trovare vie di un’etica cristiana saggiamente dialogante.

Enrico Chiavacci ha ispirato molte persone; molti studenti che attualmente sono preti della Chiesa fiorentina e, sottolineo, ha ispirato, perché la sua non mi risulta sia stata una scuola, ma piuttosto la consegna di elementi e strumenti, criteri di lettura importanti perché ciascuno impari a rileggere la vita e la storia che la vita faticosamente partorisce. Allora, forse, tra questi studenti che oggi sono preti fiorentini, si trovano persone diverse, impegnate nella storia in modo diverso, perché ciascuno ha ricevuto da Enrico Chiavacci strumenti di lettura, informazioni preziose, criteri di conoscenza delle situazioni.Come tante altre persone, anche Enrico Chiavacci, sparisce lasciando una scia tra luci e ombre che, a mio avviso non significano aspetti positivi e negativi, ma piuttosto tanti interrogativi.

Domande inquiete a cui aveva dedicato il suo studio attento e la sua fine e distinta passione per la realtà. Chiavacci infatti nella mia memoria, resta come un acuto, fine e distinto teologo della contemporaneità, proprio come la sua cravatta.Non patetico, ma elegantemente solidale. Non eroe, o rivoluzionario, ma intelligentemente impegnato a rileggere l’etica cristiana in mezzo alle molteplici ambiguità del cristianesimo e della Chiesa contemporanea.

* teologa domenicana

Gesù liberatore (Alberto Maggi)

 

cuore naturale

(…)Perché tanto astio attorno la figura di Gesù? Cosa ha detto e fatto di tanto grave da attirarsi contemporaneamente addosso diffidenza, ostilità, rabbia omicida e lo condurranno a finire, nella più completa solitudine abbandonato dalla famiglia, dai suoi discepoli e deriso dalle autorità religiose, inchiodato al patibolo riservato ai maledetti da Dio (Dt 21,23)?
Gesù nell’insegnamento e nella pratica ha distrutto il concetto stesso di religione proponendo – e dimostrando di essere – il Dio con noi (Mt 1,23), un Dio a servizio degli uomini, un Dio liberatore..L’immagine di Dio con Gesù cambia radicalmente: non più l’uomo al servizio di Dio ma Dio al servizio degli uomini, come insegna Paolo nel discorso di Atene:
“[Dio]non si lascia servire dall’uomo come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa” (At 17,24-25).
L’immagine di un Dio che si mette a servizio degli uomini per liberarli era completamente sconosciuta nel panorama religioso contemporaneo a Gesù. In ogni religione veniva insegnato che l’uomo – creato o no dal suo dio – aveva compito di servire il suo Dio. Un Dio presentato sempre come Sovrano. Un uomo sempre nella condizione di servo.
Un Dio che continuamente chiede agli uomini, sottraendo loro cose, tempo, energie.
La nuova immagine proposta da Gesù di un Dio a servizio degli uomini, è alla base della libertà dell’individuo. Questo nuovo rapporto con il Padre non incide soltanto nel rapporto dell’uomo verso Dio, ma pure quello nei rapporti tra gli uomini, inaugurando una nuova relazione nella quale viene esclusa qualunque forma di dominio o di potere nell’ambito dei rapporti umani: se Dio stesso non domina ma serve nessuno può più dominare gli altri – tantomeno in nome di Dio.
Ciò causa l’allarme nei tre ambiti dove dominio e potere venivano esercitati e il concetto di libertà era completamente sconosciuto:
La famiglia dove il marito era il padrone della moglie e dei figli,
la nazione dove chi deteneva il comando spadroneggiava sui sudditi,
e la religione, dove il dominio veniva esercitato in nome di Dio e giungeva dove gli altri ambiti di potere si fermavano: l’intimo della persona, la coscienza.
Questi tre poteri si scateneranno contro Gesù e i suoi discepoli:(…)
http://www.studibiblici.it/appunti/Presentazione%20del%20Vangelo.pdf

i trucchi di Berlusconi

una riflessione di C. Maltese

La minaccia di far cadere il governo era un bluff, come prevedibile, ed è durato ancora meno del previsto. Berlusconi in persona ha dato il contrordine, falchi e colombe sono rientrati nel pollaio. È andata male. Qualcuno del resto poteva credere che si facesse sul serio? La permanenza del governo Letta è l’unico salvacondotto possibile rimasto a Berlusconi. Un’ancora alla quale si è aggrappato con forza. Le ipotesi alternative sarebbero state una follia.

Da un lato, c’era la prospettiva di un Letta bis senza i voti decisivi del Cavaliere. Dall’altro, l’avventura di elezioni anticipate in autunno, che sarebbero state drammatiche per il Paese e probabilmente catastrofiche per il centrodestra. In entrambi i casi, per Berlusconi avrebbe significato la condanna all’irrilevanza politica. Come sempre, ha scelto la soluzione migliore per i propri interessi. Non senza aver inflitto al Paese l’ennesimo trucco. Per settimane i media sono corsi dietro al bestiario di falchi e colombe e pitonesse, prima di rendersi conto che era il solito teatrino di cortigiani dove il padrone passa ogni tanto a distribuire le parti in commedia.

La recita è finita secondo la logica. Il governo va avanti e il Parlamento voterà la decadenza di Berlusconi da senatore. La guerra o la guerricciola istituzionale è finita. Peccato che la destra si sia dimenticata di avvisare qualche amico del Pd. Nessuno per esempio ha avvertito Luciano Violante, che continua a combattere nella jungla come un soldato giapponese la sua battaglia contro il nemico che più l’ossessiona: l’antiberlusconismo.

Per la verità sono molte le cose delle quali il senatore sembra rimasto all’oscuro, almeno a giudicare dalla sortita di ieri. Il senatore Violante ha ricordato il diritto alla difesa di Berlusconi contro le tentazioni del Pd di trasformarlo in un nemico assoluto e ha esortato il proprio partito ad ascoltare le ragioni dell’avversario.

Violante non è stato informato che Berlusconi oggi non è più il nemico assoluto e tecnicamente neppure un avversario del Pd, ma il suo principale alleato di governo. Come tale le sue ragioni sono ascoltate tutti i giorni dal partito di Violante e anzi, secondo molti elettori del centrosinistra, perfino un po’ troppo.

Altra informazione non pervenuta al senatore è che il processo a Berlusconi si è già celebrato in questi anni, in cui l’imputato ha potuto largamente usare e anche abusare del diritto alla difesa dentro e fuori le aule, nel processo e dal processo. Ormai non rimane, secondo Costituzione, che prendere atto della sentenza definitiva. Berlusconi non intende farlo, ma ci vuole un bel coraggio per definire un simile atteggiamento «diritto alla difesa».

Ancora una volta il Pd riesce a trasformare un problema della destra in uno proprio. Alla fine la destra ha compiuto la scelta più raziocinante, la più conveniente. Ha evitato il voto anticipato e lo spettro di un’esclusione dalla maggioranza. La scelta più conveniente per il Pd, una volta svanita la minaccia e il bluff della destra, sarebbe stata di chiudere la vicenda in fretta, archiviare il caso Berlusconi e tornare a occuparsi dei problemi seri del Paese. Ecco che invece il partito riprende a lacerarsi con una discussione assurda e fuori tempo. È davvero difficile capirne la necessità. Chissà, forse siamo noi a non essere bene informati.

Dal ’96 in poi ci siamo chiesti perché il governo di centrosinistra non avesse approvato in Parlamento una legge sul conflitto d’interessi e sul sistema televisivo. Prima di apprendere un giorno, anni dopo, dalla voce dello stesso Violante in Parlamento che c’era un accordo sottobanco fra i dirigenti della sinistra e Berlusconi per «non toccare le televisioni e le aziende ». Se anche stavolta esistono «patti della crostata» fra vertici di centrosinistra e Berlusconi, i cittadini dovranno aspettare altri nove anni per saperlo?

finalmente Bertone esce di scena

 

bertone-vigano-155920_tn
CON LA CACCIATA DI BERTONE, SIMBOLO DEL MALE VATICANO, COMINCIA IL VERO PAPATO DI FRANCESCO

Inizia il purgatorio vaticano di Bertone: l’ex segretario è, suo malgrado, il simbolo della precedente e disgraziata gestione di oltretevere, quella delle magagne finanziarie e degli intrighi – C’è chi gli consiglia di stabilirsi dentro le mura vaticane perché fuori sarebbe esposto agli “sgarbi”…  (così il sito Dagospia)

invece:

Massimo Franco per “Corriere della Sera”

Con una iperbole significativa, si dice che il papato di Francesco è cominciato davvero solo ieri. È un omaggio al potere ingombrante rappresentato in questi anni dal segretario di Stato di Benedetto XVI, Tarcisio Bertone; e la conferma che senza la sua rimozione lo spartiacque fra passato e presente rimaneva nebuloso, incompiuto.

Probabilmente «Arci-Tarci», il nomignolo affettuoso datogli dai familiari ai tempi in cui era arcivescovo di Genova, cominciava a presentirlo. Eppure si è illuso. Non ha voluto, o forse non è stato in grado di capire che la sua stagione era finita: si era conclusa il 28 febbraio scorso, con le dimissioni di Benedetto XVI; ed era stata seppellita con l’elezione di Jorge Mario Bergoglio.

Gli amici lo avevano consigliato di presentare le dimissioni subito dopo l’arrivo del nuovo pontefice: gli stessi che ora suggeriscono al Segretario di Stato uscente di trovarsi un appartamento ben dentro le Sacre mura. Ricerca non semplice: anche in Vaticano, le porte si chiudono verso i potenti caduti in disgrazia. «Ma deve trovarlo. Fuori è in pericolo. Per l’immagine che si è creato, un personaggio come lui potrebbe subire qualche sgarbo…».

«Sgarbo»: il termine è gentile, somiglia a un eufemismo curiale. La verità cruda è che Bertone, alla vigilia dei suoi 80 anni, probabilmente deve prepararsi a un lungo purgatorio. Quel Vaticano dove per oltre sette anni ha dominato come «primo ministro» di Joseph Ratzinger o, per i suoi detrattori, come «vice Papa», si è trasformato in un luogo più che ostile, alieno.
Tarcisio BertoneTarcisio Bertone
Chi lo temeva, aspetta sulle rive dell’altra sponda del Tevere la sua giubilazione definitiva: formalmente il 15 ottobre, per dare tempo al sostituto di lasciare la sede diplomatica di Caracas. Ma le pedine della sua rete di potere sanno che, caduto lui, anche loro sono in bilico. Riviste adesso, le sue immagini rare accanto a papa Francesco nel recente viaggio in Brasile per la Giornata della Gioventù raccontano un rapporto quasi inesistente.
Fisichella bertone eFisichella bertone e
Bertone pensava di continuare a svolgere un ruolo almeno simile a quello concessogli da Benedetto XVI. Il suo ultimo tentativo è di resistere al vertice della commissione cardinalizia che controlla lo Ior. Lo ha proposto al Papa perché in fondo, ha argomentato, la proroga fu concessa anche al suo predecessore, il cardinale Angelo Sodano.
PAPA BENEDETTO XVI E TARCISIO BERTONEPAPA BENEDETTO XVI E TARCISIO BERTONE
Può darsi che accada, ma servirà a poco. Il colloquio con Francesco a metà agosto sarebbe stato una sorta di breve, imbarazzante dialogo fra sordi. Anzi, la richiesta di Bertone ha acuito i sospetti di quanti si chiedono se voglia accompagnare la tormentata operazione di trasparenza finanziaria dello Ior solo per il bene della Chiesa, o perché ci sono interessi corposi e ingombranti da difendere.

Quando si parla di «conti di religiosi», scatta una chiusura a riccio. Ma dalla corazza di un mondo spaventato dai propri segreti filtrano voci di somme ingenti che prima o poi richiederanno una spiegazione: sia in Vaticano che con la magistratura italiana. Su questo, Francesco ha dimostrato di non volere indietreggiare di un millimetro.
TARCISIO BERTONE PADRE GEORG PAPA BENEDETTO XVITARCISIO BERTONE PADRE GEORG PAPA BENEDETTO XVI
Il tramonto di Bertone, dunque, non sarà indolore, perché non è solo quello di un alto prelato, ma di un sistema di governo e di una mentalità dei quali, suo malgrado, è diventato da tempo il simbolo e la metafora. Non esistono problemi personali col nuovo pontefice. Ma l’ex arcivescovo gesuita di Buenos Aires è espressione di un Conclave che voleva ed è riuscito a eleggere un Papa chiamato a eliminare quello che l’ormai ex Segretario di Stato ha rappresentato, al di là delle sue vere responsabilità.
TARCISIO BERTONE CON LE CUFFIETARCISIO BERTONE CON LE CUFFIE
La litigiosità e gli intrighi del «partito italiano» ecclesiastico. I rapporti opachi con un sottobosco finanziario che ha prodotto scandali e beghe giudiziari perfino ai Salesiani come lui. La fuga di documenti dall’Appartamento di Benedetto XVI. Nomine che hanno esasperato un italocentrismo curiale avulso dagli equilibri del cattolicesimo mondiale.
luca di montezemolo cardinal bertone a maranelloluca di montezemolo cardinal bertone a maranello
E, alla fine, sono arrivate le dimissioni di Ratzinger. Scorrono come al rallentatore una serie di forzature che solo il rapporto speciale con Benedetto XVI poteva permettere; ma che Bertone si è illuso di poter perpetuare, almeno in parte, col successore. La verità è che l’abbandono del Papa tedesco ha sbriciolato qualunque posizione di rendita. E ha offerto mano libera a Francesco nel ridisegnare il governo della Chiesa. Nel suo papato, la segreteria di Stato non sarà più la stessa.

Il cosiddetto «G8 vaticano», gli otto cardinali del mondo chiamati a consigliare in modo permanente il pontefice, già prefigurano una sorta di governo collegiale della Chiesa che rende il «primo ministro» una figura più tecnica e di servizio. E il ritorno a Roma del «giovane» Pietro Parolin, il diplomatico della scuola di Agostino Casaroli, che non è ancora neanche cardinale, suona come la sconfitta totale del modello precedente. Soprattutto indica la volontà del Vaticano di riprendere a fare politica estera dopo una fase di immobilismo e di improvvisazione.

Sia chiaro. Bertone non è stato la causa dello schianto del cuore del potere vaticano, al massimo l’ha rivelato. Ma certamente la sua figura controversa ne ha segnalato e estremizzato le contraddizioni e l’anacronismo. E le dimissioni di Benedetto XVI sono apparse come un atto d’accusa implicito verso i collaboratori più stretti. A quel punto è stato ancora più chiaro agli episcopati mondiali che il sistema andava riformato radicalmente, per evitare derive e guerre interne devastanti.
TARCISIO BERTONETARCISIO BERTONETREMONTI E BERTONETREMONTI E BERTONE
Quando alla fine di luglio Timothy Dolan, arcivescovo di New York e presidente dell’episcopato Usa, ha detto al National Catholic Reporter che si aspettava da Francesco un rinnovamento più rapido, pensava soprattutto a Bertone. E infatti ha aggiunto che se non fosse successo nulla si sarebbe sorpreso.

Da almeno un mese si parlava di sostituzione a inizio settembre. E da qualche settimana si sapeva che il Papa aveva deciso. Il nome di Parolin circolava in Vaticano da giorni. E in alcune ambasciate del Centro e Sud America era arrivata informalmente la notizia della promozione del nunzio in Venezuela, con tanto di data.

Uno dei suoi grandi sostenitori è stato il cardinale honduregno di Tegucigalpa, Óscar Rodríguez Maradiaga, coordinatore del «G8 vaticano»; e dietro di lui si scorge la filiera potente degli episcopati latino-americani. D’altronde, si aveva l’impressione che fino a quando Bertone rimaneva al suo posto, seppure ridimensionato, alla «rivoluzione» di Bergoglio mancasse qualcosa. Ma c’era la necessità di non umiliare Benedetto XVI mandando a casa in modo sbrigativo il suo braccio destro.
BERTONE-BERGOGLIOBERTONE-BERGOGLIOBERTONE VS VIGANOBERTONE VS VIGANO
Il problema è che la resistenza di Bertone impedisce di parlare di avvicendamento fisiologico. La sua uscita di scena suona come la fine di un’epoca. Alle dimissioni volontarie e disperate di Benedetto XVI si aggiungono dopo sei mesi quelle forzate e al rallentatore di Bertone. Il volto del «cardinale del sorriso», titolo di una vecchia, benevola biografia scritta da Bruno Viani, oggi appare segnato da una smorfia di sorpresa: come se all’improvviso gli fosse crollato addosso il suo mondo. Ma l’universo autoreferenziale di Bertone era già pericolante. Francesco e il Conclave ne hanno soltanto preso atto, coi tempi lenti, ma inesorabili di una Chiesa tornata a guardare avanti.

tempo di crisi

tempo-di-crisi

non ricordo più dove ho trovato in internet questa riflessione sulla crisi che è un vero grido realistico e angosciato sulla situazione che molti, troppi, sono costretti a toccare con mano e a vivere in prima persona

lo pubblico in solidarietà a quanti vivono questa sofferenza scusandomi con l’autore per non poterlo citare (almeno per ora), ma ringraziandolo per la bellezza veristica del quadro che delinea e dello spiraglio di speranza che nonostante tutto riesce in fondo a farci gustare:

Tempo di crisi, ma davvero. Un’ escalation di persone che sono agli estremi, una ricerca affannosa di un lavoro che manca. Ognuno deve far conto con bollette, condominio, vestiario, cibo e si corre al risparmio. Con un solo stipendio e se ci sono anche problemi di salute in famiglia, la cosa diventa terribile, figuriamoci se il lavoro manca addirittura. Se la cultura prima veniva minimamente aiutata, economicamente, oggi è un lusso che pochi Enti si permettono e così i sacrifici cadono sulle spalle dei volontari. Io sono da una vita una volontaria della cultura, tranne le irrilevanti quote di iscrizioni che il più delle volte non sono neanche pagate, il carico è sulle mie spalle e a volte rinuncio anche a una semplice pizzata per comprare medaglie, coppe, stampare diplomi con innumerevoli e sudati Patrocini “morali”… E in un clima così guardo le mie librerie strapiene, sembrano miracolose.

Antologie che raccolgono liriche, racconti, curriculum splendidi di persone che scrivono, che credono negli ideali, che hanno itinerari di vita caratterizzati da amicizia, solidarietà, amore nelle sue variegate forme “I poeti dell’aurora”, “Il pianeta dell’anima”, “L’Universo degli angeli”, “Nel silenzio delle anime”, “Una vita in poesia” il mio volume più recente e tanti, tantissimi altri. E quanti poi della “Carello Editore” da “Olimpo lirico” a “Un sorriso e la vita si veste di gioia”, di “Cronache Italiane”, innumerevoli antologie che, anno dopo anno, raccolgono sogni, stupori, desideri d’amore, dolori, speranze. Portano tutti la mia prefazione, i miei cenni critici. ass.VesuviusSiamo l’esercito dei volontari della cultura che combatte con l’arma dei versi, della narrativa la battaglia della vita. E quanti cataloghi! Pagine di opere di pittura, di scultura, con la mia critica e prefazione. Se ci fosse un grado in questo mondo artistico, forse sarei un capitano o magari un colonnello, ma sarei felice anche di essere un soldato semplice lungo le frontiere della vita a combattere contro la disonestà, il gozzoviglio, la compravendita di corpi lussuriosi… Suona il campanello… il postino mi porta un’altra bolletta, quella dell’Enel… ma l’ho pagata poco fa… Come passa il tempo! E c’è chi guadagna stipendi da nababbo e si droga, alimenta i suoi vizi e la sua immoralità!

Mio figlio a letto reclama “Mamma le gocce non me le hai date”… “Ecco, subito! ” Il boccettino sta per finire e mica li danno gratis i medicinali, neanche ai riconosciuti invalidi civili. E poi ci sono gli stipendi d’oro di quelli che dovrebbero tutelare le fasce deboli. Un marasma di politica insana in questo scenario così critico!

Ma che balorda società! Ma che assurda esistenza! Un raggio di luna filtra dalle finestra, nel cielo sono già comparse le stelle… Recito, piano piano il finale di una mia poesia “Dint”o silenzio ca se fà poesia…’e stelle saie che sò? Parole…’e Ddio”. Poso il libro che avevo preso tra le mani “‘E vvie d”o core”, uno dei miei, tutto napoletano e stringo il pugno… poi apro la mano, mi pare di avere sul palmo proprio una piccola, brillante, fantastica stella… e sarà una parola di Dio “Coraggio!”.

si allarga il fronte antiguerra per la pace

 

bandiera_della_pace-1

Siria.

Si risveglia il fronte antiguerra

Dall’Egitto di Sissi all’Iran, passando per la Russia e l’America Latina, si moltiplicano le prese di posizione contro la guerra

L’Egitto contrario a ogni tipo di intervento in Siria
Il ministro egiziano degli affari esteri, Nabil Fahmy, certamente seguendo le istruzioni dategli dal generale Al Sissi, ha alzato i toni giovedì 29 agosto affermando che il suo paese si oppone con forza a ogni tipo di intervento militare contro la Siria, La differenza di toni rispetto all’epoca di Mubarak è radicale. E soprattutto rispetto all’era di Morsi che aveva dichiarato, due settimane prima di essere deposto, la “jihad contro la Siria”.

“L’Egitto non prenderà parte ad alcun attacco militare contro la Siria e vi si oppone con forza, conformemente alla sua posizione di principio contraria a ogni intervento militare straniero in questo paese”, ha sottolineato Fahmy in un comunicato.

Ha invitato il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a fare “tutto il possibile per verificare i fatti (circa la presunta utilizzazione di armi chimiche) e ad assumere le misure adeguate nei confronti questo orrendo crimine”.

Il 20 luglio Fahmy aveva promesso di “riesaminare” le relazioni diplomatiche con la Siria, rotte in giugno dal deposto presidente Morsi.

Il nasseriano Sabbahi: “Un’aggressione contro l’Egitto comincia da un attacco contro la Siria”
Da parte sua, il capo del Movimento Popolare egiziano, Hamdeen Sabbahi, si è detto contrario a qualsiasi aggressione contro la Siria. “La storia prova che tutte le aggressioni contro l’Egitto cominciano con un attacco alla Siria” ha scritto martedì su Twitter. Sabbahi ha definito “barbara ogni aggressione contro il popolo siriano”, aggiungendo: “L’aggressione occidentale contro la Siria distrugge, non libera”.

Secondo Sabbahi, “è necessario che vi sia una presa di posizione del governo e popolare araba unita in difesa della nostra sicurezza regionale”.

Tamarrod chiede la chiusura del canale di Suez
Anche il movimento Tamarrod, protagonista delle lotte che hanno portato alla caduta del regime dei Fratelli Mussulmani, ha invitato l’Egitto a prendere una posizione ferma nei confronti di un eventuale attacco statunitense contro la Siria.
Il portavoce di Tamarrod, Hassan Chahine, ha chiesto la chiusura del Canale di Suez per impedire il passaggio delle cacciatorpediniere e delle navi da guerra destinate a colpire la Siria.

“Sostenere l’esercito siriano arabo è un dovere nazionale”, ha sottolineato. E ha aggiunto: “E’ giunto il momento che i popoli arabi si ribellino dopo che sono stati ormai smascherati i piani dell’ESL (Esercito Siriano Libero, una delle milizie dei “ribelli” siriani, finanziata e addestrata dall’Occidente, ndt) e dei suoi alleati terroristi, diretti a destabilizzare la patria araba tutta intera.

Tamarrod ha inoltre annunciato di volere al più presto lanciare una campagna che inviti i popoli arabi a boicottare le merci USA e di tutti gli altri paesi che parteciperanno all’attacco contro la Siria.

Diplomazia russa. Niente guerra contro la Siria, né oggi né domani
Secondo un diplomatico russo, citato dal quotidiano libanese al Akhbar, “non vi sarà guerra, né oggi né domani”, in quanto “l’amministrazione Obama ha deciso di perseguire tutte le istanze della legittimità internazionale prima di prendere la decisione unilaterale di agire contro la Siria”.

Il diplomatico russo, che ha chiesto di mantenere l’anonimato, ha spiegato che “la prossima tappa sarà la riunione del Consiglio di Sicurezza. Una riunione che promette di essere burrascosa tra i cinque membri permanenti del Consiglio, e il cui esito già si conosce: tre voti contro due. Washington, Londra e Parigi contro noi e Pechino”. “Questa tappa da sola promette di durare una settimana. L’amministrazione Obama cerca infatti di guadagnare tempo, vuole che il Congresso gli accordi una autorizzazione a intraprendere un’azione militare unilaterale. Perché? Forse per dei calcoli politici interni. Vale a dire uno scambio di compromesso tra l’amministrazione Obama e i suoi oppositori. Per dire il vero, non vi è una politica estera statunitense. Tutto quanto accade nel mondo, per gli Stati Uniti costituisce un affare interno”.

E ha aggiunto: “Secondo le nostre informazioni, il Congresso USA non conta di risolvere la questione in questa o nella prossima settimana. Vi saranno quindi diversi giorni di attesa. E questa attesa non sarà improduttiva. Noi abbiamo, da Mosca, avviato una interlocuzione con gli Statunitensi. Il nostro ministro degli affari esteri Lavrov è in comunicazione permanente col suo omologo USA Kerry, sia telefonicamente che attraverso messaggi. E ciò con l’intento di evitare qualsiasi malinteso o mancanza di comunicazione. Lo stesso con gli Europei, ma a un ritmo meno intenso. Di qui l’abbassamento dei toni nelle dichiarazioni politiche di questo fine settimana. Ciò non significa peraltro che un attacco militare contro la Siria non sia più presente nell’agenda degli Stati uniti. Ma assistiamo, nel corso delle ultime ore, ad un abbassamento dei toni. E noi scommettiamo sulla prosecuzione di questa tendenza e contiamo di impegnarci in essa seriamente”.

Il diplomatico russo ha precisato che “l’annullamento della riunione di Le Haye, previsto in un primo momento per mercoledì 28 agosto, non ci ha per niente toccati. Questa riunione era riservata agli esperti che lavorano all’organizzazione di Ginevra 2. Il suo annullamento è la naturale risposta di Washington alle nostre posizioni relative alla armi chimiche e alla nostra determinazione a respingere le loro accuse che noi abbiamo invece rivolto ai loro alleati di Ghuta-Damasco. Occorre sapere che questo tipo di messaggi diplomatici è del tutto naturale nelle nostre relazioni”.

E ha sottolineato: “Noi non abbiamo alcuna fretta di organizzare la seconda Conferenza di Ginevra. Sono loro ad avere fretta. Da tempo tentano con ogni mezzo di fare avanzare le cose e guadagnare tempo. Noi pensiamo che un’altra data sarà prossimamente fissata. In effetti sono stati i media occidentali che si sono impuntati su un imminente raid USA il cui obiettivo sarebbe di accelerare Ginevra 2. In ogni caso noi, a Mosca, siamo persuasi che la seconda fase del dialogo siriano sarà possibile già questo autunno, addirittura tra ottobre e novembre”.

Interrogato sulla posizione russa nel caso di un attacco degli Stati Uniti contro la Siria, il diplomatico russo ha risposto: “Le parole di Lavrov circa il rifiuto della Russia a partecipare ad una guerra contro chicchessia sono dichiarazioni puramente diplomatiche. Si è trattato di una risposta diretta a una domanda posta nel corso di una conferenza stampa. In realtà le cose sono diverse. Vi sono circa 17.000 cittadini russi attualmente in Siria. Sono tecnici che lavorano in tutte le istituzioni statali siriane. Noi diciamo a tutto il mondo e ai nostri concittadini che Mosca è impegnata a garantire la loro protezione e la loro sicurezza fisica. Punto e basta!

Non vi saranno grandi operazione di evacuazione nelle prossime ore. L’ultima evacuazione in ordine di tempo ha riguardato un centinaio di famiglie che hanno preferito lasciare Damasco. Queste famiglie sono state rimpatriate da Beirut. I 17.000 Russi che sono rimasti a Damasco sono dei tecnici e noi contiamo di difenderli con tutti i mezzi possibili”.

Questa risposta da parte del diplomatico russo pone un’altra questione di natura militare, vale a dire quale sia l’equilibrio delle forze militari nel Mediterraneo, al largo della Siria.

E la risposta è: “La mobilitazione statunitense non è il risultato dell’attacco chimico di Ghuta. Secondo informazioni sicure e certe in nostro possesso, essa è cominciata un mese fa. Al contrario la nostra presenza militare nel Mediterraneo è da tutti conosciuta e si è rafforzata da circa due anni. Da quando voi avete scritto, il 29 novembre 2011, che la battaglia di Siria è diventata la battaglia di Russia”.

E le conclusioni: “In effetti tutte le opzioni sono possibili. Quanto accade oggi è comparabile alla crisi dei missili di Cuba. Il presidente Obama ammira John F. Kennedy, e Putin sembra l’erede del russo Kruscev. E dunque tutto è possibile. Ciò che è importante sapere è che noi pensiamo che in questa settimana non succederà niente…”

L’America Latina contro un intervento militare in Siria
La maggioranza dei paesi dell’America Latina si è pronunciata mercoledì contro un intervento militare in Siria, nel momento in cui gli Stati Uniti e alcuni dei loro alleati europei progettavano un attacco contro la Siria.

“Una aggressione contro la Siria avrebbe conseguenze estremamente gravi per il Medio oriente, una regione già teatro di disordini”, ha dichiarato in un comunicato il ministro cubano degli affari esteri.

“Costituirebbe una violazione flagrante dei principi fissati nella Carta delle Nazioni Unite e dal diritto internazionale e accrescerebbe i pericoli per la pace e la sicurezza internazionale”, ha commentato il ministro cubano.

Il presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, ha espresso “il ripudio di ogni ingerenza, a maggior ragione nella vicenda siriana”.

Il suo omologo boliviano, Evo Morales, ha anch’egli condannato le minacce di attacco. “Noi respingiamo, noi condanniamo” ogni intervento militare straniero in Siria, ha dichiarato dal Palazzo presidenziale di La Paz.

Morales ha menzionato le informazioni di stampa secondo le quali delle armi chimiche sarebbero state usate nei pressi di Damasco, non dal governo ma dai “ribelli”, allo scopo di provocare un intervento internazionale.

“Noi non accettiamo l’uso di agenti chimici che, secondo queste informazioni, sono usate da gruppi che destabilizzano la democrazia e il governo” siriano, ha dichiarato il presidente boliviano.

Il Brasile non sosterrà un intervento militare in Siria senza l’avallo del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ha dichiaro mercoledì ilnuovo ministro degli affari esteri, Luiz Alberto Figueiredo. A suo avviso, si tratterebbe di una violazione del diritto internazionale e della Carta dell’ONU.

Maduro ha evocato un collegamento tra i complotti per assassinarlo e l’intervento in Siria
Anche il presidente del Venezuela, Nicolas Maduro, ha condannato le minacce occidentali di attacco contro la Siria, nel corso di una visita a Tachira, nell’ovest del paese.

E ha affermato che le autorità venezuelane hanno sventato un complotto per assassinarlo in concomitanza degli attacchi occidentali contro la Siria.

Maduro ha ricordato l’arresto in Venezuela, annunciato lunedì dalle autorità, di due Colombiani che sarebbero coinvolti in questo progetto di assassinio. “Il piano era di eliminarmi durante l’attacco contro la Siria”, ha affermato.

“Il progetto degli Occidentali era di farli coincidere (temporalmente), proprio come avevano progettato nel 2002, quando un tentativo di colpo di Stato contro Chavez aveva preceduto l’aggressione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti”, hanno riferito i media venezuelani.

Il segretario generale dell’OEA “contrario” a un intervento in Siria
In questo ambito, il segretario generale dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA), il cileno José Miguel Insulza, si è dichiarato mercoledì “profondamente contrario” ad un eventuale intervento militare in Siria.
“Sono profondamente contrario agli interventi militari. Non vi sono molti esempi al mondo di interventi di questi tipo che abbiano avuto effetti positivi”, ha dichiarato Insulza alla stampa.

Attacco alla Siria. Triplo messaggio iraniano agli Occidentali

I messaggi iraniani agli Occidentali non conoscono tregua. Quasi tutte le istanze politiche e militari della Repubblica islamica d’Iran sono impegnate a fondo per solidarizzare con la Siria, minacciata da un attacco occidentale.

Riassumendo, il nocciolo dei loro messaggi è che l’intervento occidentale non resterebbe senza risposta, e lascia intendere la possibilità di un intervento iraniano per aiutare il governo siriano.

Teheran privilegia una tripla equazione
Avverte tra l’altro che Israele non sarebbe risparmiata dalla risposta ad un eventuale attacco. Nella notte tra martedì e mercoledì, la Commissione per la Sicurezza Nazionale del Parlamento iraniano ha assicurato che “ogni missile USA che si abbatterà sulla Siria avrà per risposta un missile siriano su Tel Aviv”.

Stesso tono da parte del Capo di Stato Maggiore delle forze armate iraniane, il generale Hassan Firuzabadi che ha assicurato che le fiamme dell’eventuale aggressione militare contro la Siria bruceranno l’entità sionista. E da parte del comandante dei Guardiani della Rivoluzione, il generale Mohammad Ali Jaafari, secondo il quale “gli Israeliani devono sapere che lo scoppio di una guerra nella regione per iniziativa degli USA provocherà la prossima distruzione di Israele”.

Un secondo Vietnam
La seconda equazione divulgata dagli Iraniani è che la guerra contro la Siria sarà un secondo Vietnam per gli Statunitensi. “Gli Statunitensi, e nonostante la sceneggiata delle sconfitte che hanno accumulato in Iraq e in Afghanistan, perseverano ostinatamente su questa strada e potranno gustare ancor più l’amarezza delle loro prossime sconfitte, perché la Siria sarà il cimitero dei conquistatori, la sua guerra è più pericolosa di quella del Vietnam, essa sarà un nuovo Vietnam”, ha proseguito Jaafari.

Una dichiarazione simile e assai sulfurea è stata rilasciata dal Comandante dell’Unità AlQuds dei Guardiani della Rivoluzione, il generale Kassem Souleimani. “Il paese del Levante è il luogo della nostra ascensione al cielo, e sarà il cimitero degli Statunitensi”, ha detto a porte chiuse, prima che la dichiarazione fosse divulgata dai media iraniani. E ha assicurato che “ogni soldato USA che sbarcherà dal suo aereo o dalla sua nave dovrà portare la sua bara con sé”.

L’Iran interverrà

Queste prese di posizione sono venute a completare quelle della Guida Suprema, l’Imam Ali Khamenei, il quale ha assicurato che un attacco contro la Siria provocherà un incendio in tutta la regione, lasciando intendere che il suo paese non resterà inerte di fronte a ciò che accade in Siria. E che ha nelle mani tutti i piani e le opzioni da adottare in caso di attacco.
Si tratta di affermazioni di grande importanza, soprattutto quando è noto fino a qual punto Washington abbia interesse a tenere lontana Teheran.

Oltre all’influente politico Jeffrey Feltmann, Washington ha inviato nella capitale iraniana anche uno dei suoi alleati nella regione, il monarca dell’emirato dell’Oman, Sultane Kabouss. Secondo fonti iraniane che hanno seguito da vicino la visita di tre giorni svoltasi la settimana scorsa, quest’ultimo ha chiesto agli Iraniani di levare mano in Siria, in cambio di un riconoscimento USA dei diritti nucleari iraniani e di una sospensione delle sanzioni imposte contro la Repubblica Islamica d’Iran.

Contemporaneamente, Feltmann si è sforzato di far credere agli Iraniani che l’attacco occidentale (del quale ha rivelato la data per domenica prossima) sarebbe limitato, ponendo l’accento sul fatto che esso non ha come obiettivo l’eliminazione del regime, ma solo di indebolirlo per giungere a Ginevra 2 in modo da garantirne il successo.

Questi discorsi arabi e statunitensi non sembrano avere convinto gli Iraniani. Senza indugio, Teheran ha risposto a Feltmann che la Siria è una linea rossa, non può essere barattata con nessun altro dossier. Secondo Al Akhbar, gli ha anche spiegato che, anche se l’attacco sarà limitato, niente impedisce che la risposta non lo sia.

Giustamente Teheran evoca l’incendio di tutta la regione. E’ soprattutto il parere del comandante dei Guardiani della rivoluzione, secondo cui la guerra non si limiterà alla Siria, ma colpirà tutti gli istigatori della guerra e i loro protettori

il nuovo segretario di stato del Vaticano

pietro-parolin-tuttacronaca-nomina

Il prossimo 15 ottobre avverrà il passaggio di consegne: Pietro Parolin, attuale nunzio in Venezuela, prenderà il posto di Tarcisio Bertone assurgendo a segretario di Stato. In seguito alla nomina arrivata da Papa Francesco, Parolin ha espresso la sua “profonda e affettuosa gratitudine” al Pontefice per aver riposto in lui una “immeritata fiducia”, manifestandogli “rinnovata volontà e totale disponibilità a collaborare con Lui”. Giorgio Napolitano ha inviato un messaggio di auguri al nuovo segretario di Stato, un italiano, facendo riferimento ai suoi precedenti incarichi: “Nei lunghi anni trascorsi alla Segreteria di Stato, unanimemente apprezzata è stata la Sua costante attenzione per le relazioni fra lo Stato italiano e la Santa Sede ed il Suo impegno affinchè il rapporto di esemplare concordia e armoniosa convivenza esistente fra le due sponde del Tevere potesse ancor più consolidarsi, nel rispetto dell’indipendenza e della sovranitá di cui ciascuna delle due parti è, nel proprio ordine titolare. Sono certo che grazie alla Sua presenza al vertice della Segreteria di Stato, le nostre relazioni continueranno ad arricchirsi di nuovi contenuti e la nostra collaborazione a difesa della pace e della giustizia nei diversi scenari internazionali potrá ulteriormente consolidarsi”. Il Papa ha inoltre confermato negli incarichi il sostituto alla segreteria di stato mons. Angelo Becciu, il segretario per i rapporti con gli stati, mons.Dominique Mamberti, il prefetto della casa pontificia, mons. Georg Gaenswein, l’assessore per gli Affari generali mons. Peter Wells e il sottosegretario per i rapporti con gli stati, Antoine Camilleri.

Ma chi è il nuovo segretario di Stato? L’arcivescovo veneto monsignor Pietro Parolin è uno stimato diplomatico di lungo corso. Originario di Schiavon, dove è nato il 17 gennaio 1955, ordinato prete nella diocesi di Vicenza il 27 aprile del 1980, Parolin si è poi dedicato agli studi alla pontificia università Gregoriana (dove si è laureato in diritto canonico) e il primo luglio del 1986 è entrato nel servizio diplomatico della Santa Sede. Dal 1986 al 1989 ha prestato la sua opera in Nigeria e in Messico dal 1989 al 1992 per poi rientrare a Roma nella seconda sezione della Segreteria di stato, quella che appunto si occupa dei rapporti con gli stati. Era il 30 novembre 2002 quando è stato nominato sotto-segretario della sezione per i rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato da Papa Giovanni Paolo. Parolin si è occupato in particolare delle relazioni tra la Santa Sede e i Paesi orientali curando soprattutto i dossier riguardanti la Cina e il Vietnam. Il suo impegno ha riguardato anche su un altro fronte, quello dei negoziati tra Israele e Santa sede che, dopo aver allacciato relazioni diplomatiche nel 1992, sono ancora impegnati nella definizione delle questioni giuridiche e fiscali.Benedetto XVI l’ha promosso, il 17 agosto 2009, arcivescovo (sede titolare di Acquapendente) e gli viene affidata la delicata e prestigiosa nunziatura di Caracas nel Venezuela di Hugo Chavez, dove la sua azione diplomatica ha favorito la riconciliazione tra stato e chiesa dopo un lungo periodo di tensioni. Il 12 settembre 2009 Parolin ha ricevuto l’ordinazione episcopale direttamente dalle mani di papa Ratzinger nella basilica di San Pietro. Il nuovo segretario di Stato, legato da vecchia conoscenza a Papa Francesco, conosce l’inglese, il francese e lo spagnolo ed è una personalità molto apprezzata in curia a cui vengono riconosciute capacità e sensibilità anche dal punto di vista umano e pastorale. E’ il più giovane segretario di stato dai tempi di Eugenio Pacelli che lo divenne nel 1930 a un mese dal compiere 54 anni.

image_pdfimage_print