il commento al vangelo della domenica

il Signore ci invita a entrare nella gioia


Il Signore ci invita a entrare nella gioia
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della trentatreesima domenica del tempo ordinario (15 novembre 2020):
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro (…)».
C’è un signore orientale, ricchissimo e generoso, che parte in viaggio e affida il suo patrimonio ai servi. Non cerca un consulente finanziario, chiama i suoi di casa, si affida alle loro capacità, crede in loro, ha fede e un progetto, quello di farli salire di condizione: da dipendenti a con-partecipi, da servi a figli. Con due ci riesce. Con il terzo non ce la fa. Al momento del ritorno e del rendiconto, la sorpresa raddoppia: Bene, servo buono! Bene! Eco del grido gioioso della Genesi, quando per sei volte, «vide ciò che aveva fatto ed esclamò: che bello!». E la settima volta: ma è bellissimo! I servi vanno per restituire, e Dio rilancia: ti darò potere su molto, entra nella gioia del tuo signore. In una dimensione nuova, quella di chi partecipa alla energia della creazione, e là dove è passato rimane dietro di lui più vita. L’ho sentito anch’io questo invito: «entra nella gioia». Quando, scrivendo o predicando il Vangelo, il lampeggiare di uno stupore improvviso, di un brivido nell’anima, l’esperienza di essere incantato io per primo da una grande bellezza, mi faceva star bene, io per primo. Oppure quando ho potuto consegnare a qualcuno una boccata d’ossigeno o di pane, ho sentito che ero io a respirare meglio, più libero, più a fondo. «Sii egoista, fai del bene! Lo farai prima di tutto a te stesso». E poi è il turno del terzo servo, quello che ha paura. La prima di tutte le paure, la madre di tutte, è la paura di Dio: so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso…ho avuto paura. Questa immagine distorta di un Dio duro, che ti sta addosso, il fiato sul collo, è lontanissima dal Dio di Gesù. E sotto l’effetto di questa immagine sbagliata, la vita diventa sbagliata, il luogo di un esame temuto, di una mietitura che incombe. Se nutri quell’idolo, se credi a un Dio padrone duro e spietato, allora lo incontrerai come maschera delle tue paure, come fantasma maligno; e il dono diventa, come per il terzo servo, un incubo: ecco ciò che è tuo, prendilo. Se credi a un Signore che offre tutto e non chiede indietro nulla, che crede in noi e ci affida tesori, follemente generoso, che intorno a sé non vuole dipendenti e rendiconti, ma figli, allora entri nella gioia di moltiplicare con lui la vita. Il Vangelo è pieno di una teologia semplice, la teologia del seme, del lievito, del granello di senape, del bocciolo, di talenti da far fruttare, di inizi piccoli e potenti. A noi tocca il lavoro paziente e intelligente di chi ha cura dei germogli. Siamo tutti sacerdoti di quella che è la liturgia primordiale del mondo. Dio è la primavera del cosmo, a noi di esserne l’estate profumata di frutti.
(Letture: Proverbi 31,10-13.19-20.30-31; Salmo 127; 1 Tessalonicesi 5,1-6; Matteo 25, 14-30).
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la libertà di satira è così assoluta da potersi ritenere sciolta da ogni responsabilità?

quando la satira si rifiuta di essere responsabile

di Vladimiro Zagrebelsky

in “La Stampa” del 4 novembre 2020

Una discussione della vicenda cui le vignette del Charlie Hebdo hanno dato inizio, richiede, per chiarezza, una secca premessa. La violenza barbarica di chi sgozza francesi per vendicare l’Islam, come dopo la strage del 2015, porta oggi immediatamente a schierarsi: contro il mondo da cui emergono quei selvaggi assassini e accanto alla Francia, alla sua cultura e alla sua storia. Una cultura e una storia che tanto hanno contribuito al riconoscimento dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone, che costituiscono il carattere specifico della cultura liberale d’Europa.
Ciò che è in ballo è la libertà di espressione. È evidente. Ma nel caso specifico non vi sono forse
problemi? Problemi nostri, problemi di chi tiene alla libertà di espressione come a uno dei «diritti
più preziosi dell’uomo»; così leggiamo nell’art. 11 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino, proclamata dall’Assemblea nazionale come primo atto della Rivoluzione del 1789.
La dimensione europea dei diritti e delle libertà è raccolta ora nella Convenzione europea dei diritti
umani, che afferma la libertà di opinione, di ricevere e di comunicare informazioni e idee, senza
ingerenze da parte di autorità pubbliche e senza considerazione di frontiere. La Corte europea ha
affermato che la libertà di espressione costituisce uno dei fondamenti essenziali della società
democratica, una delle condizioni del suo progresso e dello sviluppo della personalità di ciascuno.
Essa vale non soltanto per le informazioni o le idee che sono accolte con favore o sono considerate
inoffensive o indifferenti, ma – con il limite dell’istigazione all’odio, alla violenza e al razzismo –
anche per quelle che urtano, colpiscono, inquietano una qualunque parte della popolazione. È questa
un’esigenza propria del pluralismo, della tolleranza e dello spirito di apertura senza i quali non
esiste società democratica. Tuttavia, è una libertà che incontra limiti: tra gli altri specificamente per
il rispetto della reputazione e dei diritti altrui. La libertà di espressione è l’unico caso in cui la
Convenzione europea alla proclamazione aggiunge espressamente che il suo esercizio comporta
doveri e responsabilità. L’unico caso, come a sottolineare la speciale natura di quella libertà, che
mette sempre in relazione con l’altro o gli altri, i quali a loro volta hanno diritti che meritano
rispetto.
Si è dunque di fronte ad un diritto fondamentale che va difeso fermamente anche quando
infastidisce o urta gli altri e che però trova limite nei diritti altrui. Difficilissimo equilibrio che il
richiamo alla “responsabilità” cerca di assicurare e prevenire. Non si tratta di prevedere punizioni
per chi si sottrae al dovere di responsabilità, ma di denunciarne l’irresponsabilità rifiutando di
condividerla.
Dubito che quelle vignette pubblicate e ripubblicate siano compatibili con il dovere di
responsabilità. Si pretende che la satira abbia uno statuto speciale, di maggiore e assoluta libertà e
immunità. Si potrebbe convenire se servisse a garantire maggiore incisività, sintesi intelligente,
anche ferocia nella critica, ecc. Ma non si vede perché debba sottrarsi alla critica quando si traduca
in offesa diretta ed anche oscena. Tanto più quando si tratti di blasfemia e quindi colpisca il
sentimento religioso, che – citando ancora una volta la Corte europea dei diritti umani – costituisce
elemento tra i più essenziali dell’identità dei credenti e della loro concezione della vita ed è bene
prezioso anche per gli atei, gli agnostici, gli scettici.
Il dovere di responsabilità implica attenzione alle conseguenze, anche a quelle che non si possono
giustificare, ma si provocano. Non si tratta di rinunciare a una propria libertà, ma di gestirla,
modularla e attuarla evitando posture narcisistiche indifferenti agli effetti sugli altri. Non è grave
gettare a terra un cerino. Ma non ignorando di essere in un pagliaio. La difesa della pubblicazione
delle vignette sarebbe necessaria conseguenza della laicità dello Stato. Però sostenere che quelle
pubblicazioni sono irresponsabili non confligge con la laicità, che è altra cosa. Il presidente
dell’Osservatorio della laicità francese ha definito la laicità dello Stato dicendo che essa riposa su tre
pilastri: la libertà di credere e di non credere, la neutralità dello Stato, l’eguaglianza dei cittadini,
tutti diversi tra loro, ma eguali nei diritti e nei doveri.
Subito dopo l’atroce decapitazione dell’insegnante di storia Samuel Paty la reazione corale fu
guidata e riassunta da un alto discorso commemorativo del presidente Macron. Il suo tono marziale
sembrava richiamare l’idea dello scontro di civiltà, rischiando di fare di quegli assassini i
rappresentanti del vasto e variegato mondo islamico. Una guerra sciagurata. Saremmo chiamati a
combatterla con quelle vignette come stendardo? Non c’è altro di meglio nel carattere delle società
europee e delle nostre libertà?
Ora lo stesso presidente corregge il tono e riconosce comprensibile lo choc risentito dai musulmani.
E allora ha senso chiedere se l’identità francese ed europea meriti veramente d’essere rivendicata
con la difesa, senza un accenno di critica, della pubblicazione -e ripubblicazione- di quelle vignette.

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il commento al vangelo della domenica

qualcuno ci attende in fondo a ogni notte


Qualcuno ci attende in fondo a ogni notte
il commento di Ermes Ronchi al vangelo della trentaduesima domenica del tempo ordinario (8 novembre 2020):

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. […]»

Nessuno dei protagonisti della parabola fa una bella figura: lo sposo con il suo ritardo esagerato mette in crisi tutte le ragazze; le cinque stolte non hanno pensato a un po’ d’olio di riserva; le sagge si rifiutano di aiutare le compagne; il padrone chiude la porta di casa, cosa che non si faceva, perché tutto il paese partecipava alle nozze, entrava e usciva dalla casa in festa. Eppure è bello questo racconto, mi piace l’affermazione che il Regno di Dio è simile a dieci ragazze che sfidano la notte, armate solo di un po’ di luce. Di quasi niente. Per andare incontro a qualcuno. Il Regno dei cieli, il mondo come Dio lo sogna, è simile a chi va incontro, è simile a dieci piccole luci nella notte, a gente coraggiosa che si mette per strada e osa sfidare il buio e il ritardo del sogno; e che ha l’attesa nel cuore, perché aspetta qualcuno, «uno sposo», un po’ d’amore dalla vita, lo splendore di un abbraccio in fondo alla notte. Ci crede. Ma qui cominciano i problemi. Tutte si addormentarono, le stolte e le sagge. Perché la fatica del vivere, la fatica di bucare le notti, ci ha portato tutti a momenti di abbandono, a sonnolenza, forse a mollare. La parabola allora ci conforta: verrà sempre una voce a risvegliarci, Dio è un risvegliatore di vite. Non importa se ti addormenti, se sei stanco, se l’attesa è lunga e la fede sembra appassire. Verrà una voce, verrà nel colmo della notte, proprio quando ti parrà di non farcela più, e allora «non temere, perché sarà Lui a varcare l’abisso» (D.M. Turoldo). Il punto di svolta del racconto non è la veglia mancata (si addormentano tutte, tutte ugualmente stanche) ma l’olio delle lampade che finisce. Alla fine la parabola è tutta in questa alternativa: una vita spenta, una vita accesa. Tuttavia lo scatto in alto, l’inatteso del racconto è quella voce nel buio della mezzanotte, capace di risvegliare alla vita. Io non sono la forza della mia volontà, non sono la mia capacità di resistere al sonno, io ho tanta forza quanta ne ha quella Voce, che, anche se tarda, di certo verrà, a ridestare la vita da tutti gli sconforti, a consolarmi dicendo che di me non è stanca, a disegnare un mondo colmo di incontri e di luci. A me serve un piccolo vaso d’olio. Il Vangelo non dice in che cosa consista quell’olio misterioso. Forse è quell’ansia, quel coraggio che mi porta fuori, incontro agli altri, anche se è notte. La voglia di varcare distanze, rompere solitudini, inventare comunioni. E di credere alla festa: perché dal momento che mi mette in vita Dio mi invita alle nozze con lui. Il Regno è un olio di festa: credere che in fondo ad ogni notte ti attende un abbraccio.
(Letture: Sapienza 6,12-16; Salmo 62; Prima Lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicesi 4,13-18; Matteo 25,1-13)

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il ricordo di Casaldáliga del teologo Victor Codina

 

Il mistero di Casaldáliga

il mistero di Casaldáliga

da: Adista Documenti n° 34 del 03/10/2020

 

La tenerezza e l’indignazione del vescovo profeta

Víctor Codina

la tenerezza e l’indignazione del vescovo profeta

La morte del vescovo Pedro Casaldáliga ha avuto un grande impatto. Come un giovane catalano, che si è unito ai Cordimarianos (dediti al cuore di Maria, e Casaldáliga apparteneva ai Missionari figli del Cuore Immacolato di Maria o Congregazione Claretiana, ndt) ai tempi della Spagna franchista e della Chiesa preconciliare, andando in Brasile, si è convertito in un santo padre della Chiesa dei poveri?

Dove ha trovato la forza per lavorare, come pastore, a Sao Felix de AraguaIa con gli indigeni, difendere i contadini dai grandi proprietari terrieri, promuovere organizzazioni civili ed ecclesiali in Brasile e in America Latina, criticare il Nord e suggerire al papa di lasciare la curia? Come ha avuto la libertà profetica di maledire le proprietà private che schiavizzano la terra e gli esseri umani? Chi lo ha fatto resistere alle minacce di morte dei potenti e alle critiche dei suoi fratelli col pastorale?

Come ha saputo affrontare la povertà, i lunghi viaggi e le limitazioni del Parkinson? Da dove gli è venuta la sicurezza che stiamo andando verso la Speranza con la lettera maiuscola? Non era semplicemente un pianificatore pastorale, sociologo, economista o rivoluzionario politico. Qual è stata la radice ultima della sua vita?

Le sue poesie ci offrono la chiave, ci aprono al Mistero, che è Gesù di Nazareth, versione di Dio nella piccolezza umana. Per lui, Gesù è la sua forza e il suo fallimento, la sua eredità e la sua povertà, la sua morte e la sua vita. È il Gesù di Betlemme, dei pastori, delle beatitudini, dei poveri e dei piccoli, assassinato dal Tempio e dall’Impero, ma la cui tomba vuota annuncia la Pasqua. Per Pedro ci sono solo due assoluti, Dio e la fame; dove c’è il pane, lì c’è Dio.

Pedro era colpito dal capitolo 21 del Vangelo di Giovanni: la pesca nel lago di Tiberiade dopo il fallimento della notte, mentre sulla riva Qualcuno invita a mangiare e chiede a Pietro se lo ama:

«Gesù di Nazaret, figlio e fratello, / vivente in Dio e pane nella nostra mano, / via e compagno di viaggio, / Liberatore totale della nostra vita / che viene al mare, con l’alba, / le braci e le piaghe ardenti».

Ora Pedro giace sepolto vicino al fiume Araguaia. Sulla riva c’è Qualcuno che lo aspetta a braccia aperte per condividere il pane. Il mistero della vita di Casaldáliga ci si svela: i poveri gli hanno insegnato a leggere il Vangelo. Grazie, Pedro, perché la tua vita evangelica rende la nostra fede più credibile e reale. (…)

Pedro Casaldáliga, poeta, mistico, profeta

L’idea che il “vaccino” brevettato da Gesù di Nazareth potesse rimanere “in superficie” era un desiderio di extraterrestri o terrestri estranei alla durezza della vita quotidiana. Ma l’immersione nel pozzo del virus neoliberista è penetrata così tanto e così in profondità da essere visto come non negoziabile. Nessuno sembra sfuggire alla morsa gigantesca del sistema neoliberista.

La verità è che il pianeta Terra sta esplodendo perché questo pericoloso virus ha superato tutti i limiti e minaccia di affondare la nave stessa del pianeta Terra. Nasce la consapevolezza che il virus-sistema neoliberista può porre fine alla vita di alcuni e di tanti, di tutti.

Sarebbe un segno di speranza capovolgere radicalmente un sistema fallito. È la prima cosa ed è il minimo che deve accadere: che suoni l’allarme dei profeti, nella Chiesa, negli Stati, nel commercio mondiale, in politica. Non c’è speranza, non c’è futuro, né c’è vita se non c’è cambio di rotta, abbracciato e condiviso da tutti.

Casaldaliga. La grandezza della sua testimonianza rende credibili le sue parole

– Nella Chiesa (28 febbraio 1986)

«Caro fratello Giovanni Paolo II: senza “conformarsi a questo mondo”, la Chiesa di Gesù, per essere fedele al Vangelo del Regno, deve essere attenta “ai segni dei Tempi” e dei Luoghi e annunciare la Parola, in tono culturale o storico e con una testimonianza di vita e pratica tali che uomini e donne di ogni tempo e luogo possano comprendere questa Parola e siano incoraggiati ad accettarlo».

«Concretamente, riguardo al campo sociale, non possiamo dire, con molta verità, che abbiamo già fatto l’opzione per i poveri. In primo luogo, perché non condividiamo nelle nostre vite e nelle nostre istituzioni la reale povertà che loro sperimentano. E, in secondo luogo, perché non agiamo, di fronte alla “ricchezza dell’iniquità”, con quella libertà e fermezza che erano adottate dal Signore. L’opzione per i poveri, che non escluderà mai la persona del ricco – poiché la salvezza è offerta a tutti e il ministero della Chiesa è dovuto a tutti –, esclude il modo di vivere dei ricchi, “insulto alla miseria dei poveri”, e il loro sistema di accumulazione e privilegio, che necessariamente depreda ed emargina la stragrande maggioranza della famiglia umana, dei popoli e di interi continenti».

«Non ho fatto la visita ad limina, neanche dopo aver ricevuto, come gli altri, un invito dalla Congregazione per i Vescovi che ci ha ricordato questa pratica. Volevo e desidero aiutare la Sede Apostolica a rivedere la forma di quella visita. Sento critiche da parte di molti vescovi, perché, pur riconoscendo che favorisce un contatto con i Dicasteri romani e un cordiale incontro con il papa, la modalità di questa pratica si rivela incapace di produrre un vero scambio di collegialità apostolica dei Pastori delle Chiese Particolari con il Pastore della Chiesa universale. Si affronta una grande spesa, si stabiliscono contatti, si realizza una tradizione. Ma si compie la tradizione del videre Petrum e di aiutare Pietro a vedere tutta la Chiesa? La Chiesa non ha oggi altri modi più efficaci di scambio, di stabilire contatti, valutare, esprimere la comunione dei Pastori e delle loro Chiese con la Chiesa universale, più concretamente con il vescovo di Roma?».

«Il papa ha bisogno, come tutti i vescovi della Chiesa, di un corpo di ausiliari, anche se il tutto dovrebbe essere sempre semplificato e più partecipativo. Tuttavia, fratello Giovanni Paolo, per molti di noi alcune strutture della Curia non rispondono alla testimonianza di quella semplicità evangelica e di quella comunione fraterna che il Signore e il mondo ci richiedono; né tali strutture traducono nei loro atteggiamenti, a volte centralizzatori e impositivi, una cattolicità veramente universale, né rispettano sempre le esigenze della corresponsabilità adulta; neppure, a volte, i diritti fondamentali della persona umana o dei diversi popoli. Né mancano, frequentemente, in settori della Curia romana, pregiudizi, attenzione unilaterale alle informazioni, o anche posizioni, più o meno inconsce, di etnocentrismo culturale europeo rispetto all’America Latina, all’Africa e all’Asia»

– Nelle relazioni internazionali: Primo mondo/Terzo mondo (agosto 1990) «Dico sempre, cambiando quello che diceva Ortega y Gasset, che io sono io e le mie cause, e le mie cause valgono più della mia vita. Le mie cause, ma non solo le mie, sono: la terra, l’acqua, l’ecologia, le nazioni indigene, i neri, la solidarietà, la vera integrazione continentale, lo sradicamento di ogni emarginazione, di ogni imperialismo, di tutto il colonialismo, il dialogo interreligioso e interculturale, il superamento di quello stato di schizofrenia umana che è l’esistenza di un Primo e di un Terzo mondo (e anche di un quarto mondo) mentre siamo un unico mondo, la grande famiglia umana, figli del Dio di tutta la vita».

«Ciò che intendiamo, assumendo queste cause, è umanizzare l’umanità praticando la prossimità… La scienza, la tecnologia, il progresso sono degni dei nostri pensieri e delle nostre mani solo se ci umanizzano di più. E questo ci impegna a trasformare il mondo insieme… Dato che ora tutti incontriamo tutti, dobbiamo scegliere se scontrarci gli uni con gli altri, nell’intolleranza e nell’aggressione, o abbracciarci nella comprensione e nella complementarità. Faccio mie le parole di Baltasar Porcel: le nazioni sono contenuto, non frontiere. È tempo, quindi, di credere, in plurale unità, nel Dio della vita e dell’amore e di praticare la religione come giustizia, servizio e compagnia. Un Dio che separa l’umanità è un idolo mortifero».

«Non possiamo celebrare l’Eucaristia all’ombra dei signori». «I poveri sono la pupilla dei miei occhi. Mi ha sempre spezzato il cuore vedere la povertà da vicino. Mi trovo bene con gli esclusi. Non sono in grado di assistere a una sofferenza senza reagire. D’altronde, non ho mai dimenticato di essere nato in una famiglia povera. Mi sento male in un ambiente borghese. Mi sono sempre chiesto perché, se posso vivere con tre camicie, me ne servano dieci nell’armadio. I poveri della mia Prelatura vivono con due».

«Se dovessi dire qual è il motivo di questa mia lotta, direi: questa è la mia passione per l’utopia. Una passione scandalosamente inattuale in quest’epoca di pragmatismi, di produttività, di commercializzazione totale, di postmodernità senza speranza. Ma, in altre parole, è la passione della Speranza; è, in termini cristiani, la passione per il Regno, che è la passione di Dio e del suo Cristo. Una passione che, in prima e ultima istanza, coincide con la migliore passione dell’umanità stessa, quando vuole essere pienamente umana, autenticamente viva e definitivamente felice… Non voglio la globalizzazione neoliberista omicida, suicida; ma la mondializzazione della solidarietà per la costruzione (certamente progressiva e perfino dialettica) dell’uguaglianza nella dignità, nei diritti e nelle responsabilità degli individui e dei loro popoli, che faranno una l’umanità, sebbene plurale nelle sue alterità».

Convinciti, mi diceva Casaldáliga in un’intervista: «Solo nella misura in cui il Primo Mondo cessa di essere Primo Mondo può aiutare il Terzo Mondo. Per me questo è un dogma di fede. Se il Primo Mondo non si suicida come Primo Mondo, il Terzo Mondo non può esistere “umanamente”. Finché ci sarà un Primo Mondo ci saranno privilegi, esclusione, dominio, lusso ed emarginazione. Se voi nel Primo Mondo non decidete di essere un mondo umano, noi non potremo esserlo. Perché c’è un solo mondo. La liberazione presuppone consapevolezza e possesso della propria identità».

«Sono convinto che non si possa essere rivoluzionari o profeti o liberi senza essere poveri. Essendo povero mi sento libero da tutto e per tutto. Il mio motto è: essere libero di essere povero. Se senti la povertà come una questione di giustizia e di decenza umana, proverai necessariamente compassione, mostrerai amore e ti ribellerai con indignazione».

«Chi crede in Dio deve credere nella dignità dell’uomo. Chi ama il Padre deve servire i fratelli. Il Vangelo è un fuoco che brucia la tranquillità. Non si può essere cristiani e sopportare l’ingiustizia con la bocca chiusa. Gesù dice nel Vangelo che Dio ci giudicherà l’ultimo giorno per quello che abbiamo fatto con i nostri fratelli più poveri e più piccoli».

La sua profezia

Parlare di Pedro come profeta è un buon modo per capire la sua personalità cristiana.

La società che rimane senza profeti rimane cieca. Ma succede che i profeti non abbondino, sicuramente perché i profeti offrono una visione della realtà che la maggior parte di noi non ha o non vuole avere.

Il profeta è un veggente realista, che percepisce la realtà di Dio principalmente attraverso gli eventi della vita, le persone che lo attorniano, gli avvenimenti che lo accompagnano. È una persona libera e coraggiosa: non sposa nessuno e canta la verità ovunque manchi e davanti a chiunque. E per questo motivo entra in conflitto con ogni tipo di potere: monarchie, regimi politici, caste sacerdotali, multinazionali, ecc. E il profeta agisce con la parola parlata e scritta e con azioni simboliche.

«Dio è la ragione più grande o la migliore, la passione della mia vita, è una realtà ineludibile, una presenza certa, anche se libera e sovrana. Una presenza mai rivelata, sempre più riferita al futuro totale della più grande speranza, ma sempre operativa, di apparizione improvvisa e invocata».

«Chiedermi se farei quello che faccio se Dio non esistesse è come chiedermi cosa farei io se non esistessi o se non fossi una persona e un cristiano. So che altri senza Dio chiaramente fanno di più e danno tutto, e danno se stessi. Credo sempre che Dio sia con loro».

«Ho avuto un incontro esplicito con Dio, in Gesù Cristo, all’interno della comunità di fede, che è la sua Chiesa. E questo è un mistero che mi travolge e che mi costringe a credere che Dio è più grande dei nostri cuori, dei nostri dogmi e della nostra comunità».

Fu questa la fede che lo portò a “cantare” quando morì Che Guevara:

Riposa in pace. / E aspetta già al sicuro / con il petto guarito / dall’asma della stanchezza; / pulito dall’odio lo sguardo morente; / senza più armi, amico, / che la spada nuda della tua morte.

Né il “buono”, da una parte, / né il “cattivo”, dall’altra, / capiranno il mio canto. / Diranno che sono semplicemente un poeta. / Penseranno che la moda mi ha preso. / Ricorderanno che sono un prete “nuovo”.

Mi importa di tutto lo stesso! / Siamo amici / e parlo con te ora / attraverso la morte che ci unisce; / allungandoti un ramo di speranza, / un’intera foresta fiorita / di jacaranda perenni iberoamericani, / caro Che Guevara!

Libertà, povertà e profezia sono le insegne di Pedro Casaldáliga.

Per prima cosa, prendersi cura dell’uomo

Racconta Pedro che, navigando sul Rio de las Mortes (nello Stato del Mato Grosso, ndt), dovette prendersi cura di un uomo morente. La comunità gli chiese di celebrare una messa. Non c’erano né pane né vino. Non aveva con sè nulla per dire la messa perché, racconta, «Io ero andato con la preoccupazione di assistere l’uomo. C’era una piccola taverna lì. Presi dei biscotti e della caña (simile alla grappa, ndt) e ho celebrato la messa. Ho pensato che fosse una bella messa. La gente mi chiedeva la messa e io ero prete; la Pasqua di Cristo si può celebrare con il vino delle vigne d’Italia o di Spagna, ma se non c’era vino, perché non si poteva celebrare con alcol da canna da zucchero?».

La scomunica delle haciendas

Un’altra volta, racconta, è arrivato a un atto estremo: «Ho maledetto una struttura di accumulazione, capitalizzazione, esclusione e dominio. Sono persino arrivato al punto di scomunicare due tenute, La Piraguacu e La Frenova, perché avevano uomini armati che hanno ucciso i peones, ne hanno tagliate delle parti e le hanno portate alla hacienda per provare la loro morte. Quella vol ta ho seppellito uno di quei peones assassinati, ho preso una manciata di terra dalla sua tomba, l’ho messa sull’altare e ho scomunicato queste tenute. Ma è stato un atto contro le haciendas, non contro il popolo».

Il Vangelo a favore dei poveri, contro i ricchi

Dove Pedro non dà spazio a compromessi è il tema dei ricchi e dei poveri: «Abbiamo detto tante volte che, qui, o stai da una parte o dall’altra. Dico sempre che il Vangelo è per i ricchi e per i poveri. È per tutti ma è a favore dei poveri ed è anche a favore dei ricchi, ma contro la loro ricchezza, contro i loro privilegi, contro la possibilità che hanno di sfruttare, dominare ed escludere. Posso relazionarmi con i ricchi, a patto di dire loro le verità e che io non mi lasci trasportare… Non è che non posso andare un giorno a fare uno spuntino a casa di un uomo ricco, ma se ci vado ogni settimana e non succede niente, non dico niente, non scuoto quella casa, non scuoto quella coscienza, mi sono venduto e ho negato la mia opzione per i poveri».

A favore della proprietà privata, non privativa

«Una volta ho avuto l’opportunità di intervenire in un procedimento pubblico nell’Assemblea nazionale, dove si trattava di una questione fondiaria. E allora alcuni dei senatori e deputati più conservatori – molti di loro molto cattolici e praticanti – mi hanno detto: Monsignore, lei è contro la proprietà privata! Ho risposto: no, se avete una maglietta e tutti possono averne una, io sono favorevole alla proprietà privata di ogni maglietta. Ma se hai 50 megliette e la maggioranza delle persone non ne ha nessuna, la proprietà privata è privativa».

Consumismo

«In questi tempi di tanto consumismo, credo che la Chiesa di Gesù, e specialmente quelli di noi che sono o dovrebbero essere più responsabili all’interno della Chiesa, dobbiamo offrire una testimonianza di anti-consumismo. Il progetto del mercato, in fondo, è il consumismo… Ciò che mi costituisce non è ciò che ho, ma ciò che sono, ciò che amo, le ragioni della mia vita… È ciò che do che mi costituisce, non quello che ho. Ma se ho molto e do poco, ho meno perché sono meno».

Teologia della liberazione

Una volta gli ho posto questa domanda: cosa resta della Teologia della Liberazione? Con una sacra indignazione, mi ha risposto:

«Sono stufo di sentire questa domanda. Mi hanno chiesto se è ancora attuale o del passato compagni, vescovi, giornalisti… Che non continuino a enumerarmi, almeno per vergogna, le barbarità – vere calunnie – che affibbiano alla Teologia della Liberazione e ai suoi teologi! Noi, teologi della liberazione, i vescovi che ci accompagnano e le Chiese che beneficiano delle nostre dottrine, non abbiamo optato per Marx ma per il Dio e Padre di nostro Signore Gesù Cristo, per il suo Regno e per i suoi poveri.

Il nostro Dio vuole la liberazione da ogni schiavitù, da ogni peccato e dalla morte. Analizzare la tragica situazione di due terzi dell’umanità, segnalarla come contraria alla volontà di Dio e assumere impegni concreti per trasformare questa situazione sono passi obbligati della Teologia della Liberazione. Ai nemici del popolo non piace la Teologia della Liberazione. Festeggerebbero così tanto i cristiani se pensassero solo al Cielo… disprezzando la Terra! Mentre noi vogliamo guadagnare il Cielo conquistando la Terra. Figli liberi di Dio Padre e veri fratelli».

«Non avere niente. Non prendere niente. Non potere niente. Non chiedere niente. E, pure, non uccidere niente; non tacere. / Solo il Vangelo, come un coltello affilato, / e le lacrime e il riso negli occhi, / e la mano tesa e stretta, / e la vita, a cavallo, data. / E questo sole, e questi fiumi, e questa terra acquistata, / per testimoniare la rivoluzione che è già scoppiata. / E più niente!».

La sua radicalità lo ha portato a dire:

«Il teologo Karl Rhaner ha scritto: Nel XXI secolo un cristiano o sarà un mistico o non sarà un cristiano. Che si sappia, considero Rhaner il più grande teologo del XX secolo. Tuttavia, credo, con la più ferma convinzione evangelica, che oggi, già nel XXI secolo, un cristiano o una cristiana, o è povero e/o alleato o alleata visceralmente con i poveri, o non è cristiano, non è cristiana. Nessuna delle affermazioni famose della Chiesa rimane in piedi se si dimentica questa fondamentale, la più evangelica di tutte: l’opzione per i poveri».

Pedro Casaldáliga in prima linea nella giustizia e nella carità

(…)

– Leonardo Boff

«Quando i perturbati tempi attuali saranno passati, quando le diffidenze e meschinità saranno inghiottite dal vortice del tempo, quando guarderemo indietro e considereremo gli ultimi decenni del XX secolo e l’inizio del XXI secolo, identificheremo una stella nel cielo della nostra fede, splendente, dopo aver fermato le nuvole, sopportato le tenebre e superato le tempeste: è la figura semplice, povera, umile, spirituale e santa di un vescovo che, straniero, diventa connazionale, distante si fa prossimo e, prossimo, si fa fratello di tutti, fratello universale: don Pedro Casaldáliga».

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il sogno di papa Francesco di un’Europa sanamente laica

la lettera del papa all’Europa:

sii te stessa, ritrova i tuoi ideali


nella lettera al cardinale Parolin sulla Unione Europea:
“Sogno un’Europa sanamente laica, in cui Dio e Cesare siano distinti ma 

Il Papa all'Europa: sii te stessa, ritrova i tuoi ideali

L’Europa ha avuto e deve ancora avere “un ruolo centrale”: lo sottolinea papa Francesco in una lettera al cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, in occasione di alcuni anniversari: il 40° anniversario della Commissione degli Episcopati dell’Unione Europea, il 50° anniversario delle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e l’Unione Europea e il 50° anniversario della presenza della Santa Sede come Osservatore Permanente al Consiglio d’Europa.

IL TESTO INTEGRALE DELLA LETTERA DEL PAPA

“Tale ruolo – sottolinea il Pontefice parlando dell’Europa – diventa ancor più rilevante nel contesto di pandemia che stiamo attraversando. Il progetto europeo sorge, infatti, come volontà di porre fine alle divisioni del passato. Nasce dalla consapevolezza che insieme e uniti si è più forti, che l’unità è superiore al conflitto e che la solidarietà può essere uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita”.

“Nel nostro tempo che sta dando segno di ritorno indietro, in cui sempre più prevale l’idea di fare da sé, la pandemia – dice il Papa – costituisce come uno spartiacque che costringe a operare una scelta: o si procede sulla via intrapresa nell’ultimo decennio, animata dalla tentazione all’autonomia, andando incontro a crescenti incomprensioni, contrapposizioni e conflitti; oppure si riscopre quella strada della fraternità, che ha indubbiamente ispirato e animato i Padri fondatori dell’Europa moderna, a partire proprio da Robert Schuman“.

Il Papa lancia, quindi, un appello all’Europa affinché ritrovi sé stessa. “All’Europa allora vorrei dire: tu, che sei stata nei secoli fucina di ideali e ora sembri perdere il tuo slancio, non fermarti – scrive il Papa nel messaggio al Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, per condividere con lui delle riflessioni in occasione delle celebrazioni di alcuni anniversari – a guardare al tuo passato come a un album dei ricordi. Nel tempo, anche le memorie più belle si sbiadiscono e si finisce per non ricordare più. Presto o tardi ci si accorge che i contorni del proprio volto sfumano, ci si ritrova stanchi e affaticati nel vivere il tempo presente e con poca speranza nel guardare al futuro. Senza slancio ideale ci si riscopre poi fragili e divisi e più inclini a dare sfogo al lamento e lasciarsi attrarre da chi fa del lamento e della divisione uno stile di vita personale, sociale e politico”.

“Europa, ritrova te stessa! Ritrova dunque i tuoi ideali – prosegue il Papa – che hanno radici profonde. Sii te stessa!”

“Non avere paura della tua storia millenaria che è una finestra sul futuro più che sul passato. Non avere paura del tuo bisogno di verità che dall’antica Grecia ha abbracciato la terra, mettendo in luce gli interrogativi più profondi di ogni essere umano; del tuo bisogno di giustizia che si è sviluppato dal diritto romano ed è divenuto nel tempo rispetto per ogni essere umano e per i suoi diritti; del tuo bisogno di eternità, arricchito dall’incontro con la tradizione giudeo-cristiana, che si rispecchia nel tuo patrimonio di fede, di arte e di cultura”.

Sogno un’Europa sanamente laica, in cui Dio e Cesare siano distinti ma non contrapposti. Una terra aperta alla trascendenza, in cui chi è credente sia libero di professare pubblicamente la fede e di proporre il proprio punto di vista nella società” scrive ancora papa Francesco nella Lettera al cardinale Parolin.

“Sono finiti i tempi dei confessionalismi, ma – si spera – anche quello di un certo laicismo che chiude le porte verso gli altri e soprattutto verso Dio, poiché è evidente che una cultura o un sistema politico che non rispetti l’apertura alla trascendenza, non rispetta adeguatamente la persona umana. I cristiani hanno oggi una grande responsabilità: come il lievito nella pasta, sono chiamati a ridestare la coscienza dell’Europaper animare processi che generino nuovi dinamismi nella società. Li esorto dunque a impegnarsi con coraggio e determinazione a offrire il loro contributo in ogni ambito in cui vivono e operano”.

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