il vangelo della domenica commentato da p. Maggi

IO SONO LA VIA, LA VERITÀ E LA VITA

commento al vangelo della quinta domenica di pasqua (14 maggio 2017) di p. Alberto Maggi:

Gv 14,1-12

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto». Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse. In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre».


L’annuncio, da parte di Gesù, del tradimento di Pietro, getta lo sconforto nella comunità dei discepoli, ed è solo l’anticipo di quella tempesta che si avventerà sul suo gruppo. Allora Gesù cerca di incoraggiare il suo gruppo; è così che inizia il capitolo 14 del vangelo di Giovanni. Afferma Gesù: “«Non sia turbato il vostro cuore”, appunto perché c’è stato questo annuncio, “Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me”, perché Gesù unisce la fede in Dio e la fede in lui? Perché Gesù verrà catturato, torturato ed assassinato in nome di Dio, come un bestemmiatore, come un nemico di Dio, e Gesù invece afferma che, tra lui e Dio, c’è la piena sintonia. Poi Gesù dà un’indicazione veramente importante, preziosa, una di quelle indicazioni che, se comprese, cambiano veramente la relazione con il Padre: “Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore”, cosa vuol dire Gesù con questo fatto che ci sono molte dimore? L’immensità di Dio non si può manifestare in una sola persona o in una sola comunità, ma ha bisogno di molteplici forme per fiorire attraverso forme inedite, nuove, originali, di amore, di perdono, di misericordia. Non si tratta qui di una dimora presso il Padre, Gesù non va a preparare appartamenti, ma figli di Dio, ma il Padre che viene a dimorare tra gli uomini. Infatti, più avanti, al versetto 23 dello stesso capitolo, Gesù affermerà: “se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà, e noi verremo a lui, e faremo dimora presso di lui”, quindi ogni individuo, ogni comunità è chiamata ad essere l’unico vero santuario, dove dimora l’amore, la misericordia del Padre. E continua Gesù: “Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto”, il termine indica il santuario, che quindi ogni persona diventa questo santuario visibile, “verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi”. Gesù è nella pienezza della dimensione divina, una pienezza che non è un suo esclusivo privilegio, ma una possibilità per tutti i credenti. “E del luogo dove io vado, conoscete la via»”, qual è la via? È quella che Gesù ha indicato: l’amore che si fa servizio.
E qui, a questo punto, c’è la replica di ben tre discepoli, qui nella versione liturgica ne abbiamo soltanto i primi due, il numero tre indica la totalità, quindi incomprensione da parte del gruppo. Il primo è Tommaso, che gli chiede: “«Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?»”. E qui Gesù risponde con questa affermazione importante, solenne: “«Io sono”, con “Io sono” rivendica la pienezza della condizione divina, “la via, la verità e la vita”. Gesù è la via perché lui è la verità; Gesù non dice  di avere la verità, e non chiede ai discepoli di avere la verità, ma di essere la verità. Cos’è la verità in questo vangelo? La verità in questo vangelo è un dinamismo divino, che non si esprime attraverso formule, attraverso la dottrina, ma solo attraverso opere e capacità d’amore. Questa via, che porta a questo dinamismo d’amore, conduce alla vita, e qui l’evangelista adopera il termine che indica la vita indistruttibile. “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto»”, quand’è che i discepoli hanno conosciuto e veduto il Padre? Nell’episodio precedente, che è stato quello della lavanda dei piedi: Gesù, che è Dio, si è messo al servizio dei suoi, indicando e mostrando chi è Dio. Chi è Dio? Amore generoso, che si mette al servizio dei suoi. Ed ecco la replica del secondo discepolo: “gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo?”, ed ecco l’altra affermazione importante: “Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”?”. Nel prologo a questo vangelo, l’evangelista aveva scritto che Dio nessuno l’aveva mai visto, soltanto il figlio ne era la rivelazione. Cosa significa questo? Che non Gesù è uguale a Dio, ma Dio è uguale a Gesù. Quindi l’evangelista invita a sospendere tutto quello che si sa, si conosce di Dio, e verificarlo, controllarlo, con quello che lui presenta di Gesù. Se coincide, si mantiene, se si distanzia, o peggio, se è differente, si elimina. Quindi in Gesù c’è l’unica possibilità di conoscere chi è Dio, e chi è questo Dio? L’abbiamo visto: amore che si fa servizio. “Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?”, ed ecco un’altra affermazione importantissima, “Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere”: nelle parole di Gesù si manifestano le opere del Padre, e la potenza creatrice del Creatore. Questo significa che ogni singola parola di Gesù, contiene in sé l’energia della stessa azione creatrice, di quel Dio che disse, e quello che disse fu, si realizzò. “Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse”, Gesù non chiede di credere in lui per una dottrina, per una teologia, ma per le opere, le opere che comunicano vita, perché la dottrina è discutibile, le azioni che comunicano vita, si vedono, si possono verificare. Le opere a favore degli uomini, sono l’unico criterio di credibilità per Gesù e i suoi discepoli. E infine un’affermazione che sorprende: “In verità, in verità io vi dico:”, questa duplice ripetizione di verità significa solennemente che quello che affermo ora è vero, “chi crede in me”, cioè chi mi dà adesione, “chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio”, quindi quest’azioni che comunicano vita, tutti le possono fare, ma addirittura, afferma Gesù: “e ne compirà di più grandi”, di Gesù, “di queste, perché io vado al Padre»”, Gesù avverte i suoi discepoli che la sua morte non sarà un’assenza, ma una presenza ancora più intensa. Il fatto che non c’è fisicamente Gesù, non sarà visto come una perdita, ma come un guadagno, e consentirà al discepolo e alla comunità, di compiere le stesse azioni di Gesù, con la stessa sua potenza.




a proposito della orribile morte delle tre sorelline rom

 

l’orribile morte di Francesca, Angelica ed Elisabeth Halinovich apre a interrogativi inquietanti sul ruolo della propaganda razzista nel discorso pubblico

Sarebbe meglio preoccuparsi. E stare attenti

Francesca, Angelica ed Elisabeth Halinovich. Due bambine piccole e una ragazza bruciate vive dentro una roulotte parcheggiata sul piazzale del supermercato Primavera, quartiere Centocelle, Roma. Le videocamere mostrano l’immagine di un uomo, forse a volto scoperto, che lancia una molotov e poi scappa. La polizia al termine di una giornata confusa smentisce la possibilità di una pista xenofoba, intuendone i disastrosi risvolti: più probabile, dicono, una faida tra rom. I fatti nudi e crudi sono questi, ma intorno ai fatti c’è molto di più. Ci sono, ad esempio, migliaia di commenti in rete – sui siti del Giornale e di Libero i più violenti – che apologizzano il rogo al grido di “tre di meno”. C’è uno stupefacente sfogo di odio collettivo. C’è la consapevolezza che, stavolta, questa roba non sia attribuibile al web: chi scrive (firmando con nome e cognome) «Io mi auguro ke tutti i rom facciano la stessa fine» non fa che echeggiare la violenza verbale con cui la politica e la tv si esprimono da anni sulla questione nomadi, sicurezza, microcriminalità.

Questo irresponsabile, martellante tam tam, negli ultimi due mesi ha subito un ulteriore salto di qualità, approdando dalle ruspe, dai lanciafiamme, dalle bombe da sganciare sui barconi con tutte le analoghe evocazioni di misure di forza estreme ma pur sempre “di Stato”, alla categoria del “facciamo da soli”. Il dibattito sulla legittima difesa, l’elogio dell’armarsi, dello sparare, del risolvere da se’ quel che le istituzioni non risolvono, del diritto a tutelare con le armi in pugno se stessi, la propria famiglia e per esteso la propria comunità, ha portato un elemento aggiuntivo al degrado di un dibattito già irresponsabile, caotico, evocatore di rancori oscuri e incontrollati. E non stupisce che gli inquirenti abbiano così velocemente escluso il raid xenofobo e annunciato la prevalenza di una “pista interna”: sono probabilmente consapevoli del carattere esplosivo della situazione, e della necessità di tamponarla in qualche modo prima che deflagri in mano alle autorità cittadine e alla politica tutta.

Il Far West che ogni giorno viene evocato da una parte della politica e della comunicazione, è lì, dietro l’angolo. Potrebbe succedere, non è impensabile che succeda. Le frasi d’odio con cui ci martellano certe trasmissioni radiofoniche o televisive, la caccia ai voti e agli ascolti fatta rimescolando i rancori

E però, davanti alla consapevolezza che per dodici ore, nella tollerante e disincantata città di Roma, tutti noi abbiamo ritenuto possibile l’ipotesi di una strage dettata da odio razziale, una riflessione collettiva andrebbe fatta. Il Far West che ogni giorno viene evocato da una parte della politica e della comunicazione, è lì, dietro l’angolo. Potrebbe succedere, non è impensabile che succeda. Le frasi d’odio con cui ci martellano certe trasmissioni radiofoniche o televisive, la caccia ai voti e agli ascolti fatta rimescolando i rancori, propagandando il diritto/dovere alla violenza difensiva, screditando il ricorso allo Stato – “Tanto non serve a niente” – e catalogando come “buonismo” ogni appello ai principi di umanità e ogni riferimento al diritto, sono gocce che scavano la pietra. Persino la pietra millenaria della Capitale, dove i sentimenti xenofobi sono rimasti sconosciuti per millenni.

Deve essersene accorta anche Giorgia Meloni, che ieri è stata la prima – quando ancora sembrava prevalente la tesi di un raid punitivo – a tagliar netto con ogni distinguo: «Orrore e profondo dolore – ha scritto – Mi auguro che i responsabili siano presto arrestati e che marciscano in galera per sempre». Chissà se aveva presenti altre stagioni di irresponsabile odio alimentate dalla politica “ufficiale”, per altri motivi, sotto il manto di giustificazioni ideologiche apparentemente più nobili e alte. Un altro rogo di un ragazzo e di un bambino, che chiunque provenga da destra non può dimenticare, e altre parole di disprezzo “razziale” pronunciate contro le vittime prima e dopo i fatti. Non sul web, che non esisteva, ma sui muri cittadini. La parola “Primavalle” è dura da pronunciare in questo contesto, e probabilmente fuori luogo: ma in questa città il solo precedente che viene alla memoria è quello, un’orribile e indimenticabile ferita.

La speranza è che la consapevolezza si allarghi, che si comincino a giudicare impronunciabili e impresentabili certe espressioni, non della Rete – che è solo una risonanza sguaiata di messaggi nati altrove – ma del discorso pubblico. A isolare chi le pronuncia. A demolire l’idea balzana che lo Stato sia impotente davanti al crimine e al degrado. Lo Stato ha poteri colossali, e se li non li utilizza bisogna contestare chi lo gestisce, incalzare i ministri incapaci, i sindaci imbelli, i capi della polizia inefficienti, smettere di votare chi li esprime e li nomina, usare le armi della democrazia e abbandonare l’idea che il fai-da-te ci renda più sicuri, più liberi, perchè è vero il contrario: nel Far West, di solito, sono i miti a soccombere, gli innocenti a morire.




va eliminato non il povero ma la povertà

si vuole rimuovere chi «disturba»

eliminare la povertà non gli ultimi


Camillo Ripamonti
invece di colpire la povertà, sii eliminano gli ultimi, sempre più criminalizzati. Sii spara a zero, in modo indiscriminato, su chi salva vite nel Mediterraneo. E’ la cultura dello SCARTO, che genera I muri e, come vediamo dalle cronache quotidiane, tantissime manifestazioni di razzismo, violenza, intolleranza..
 

Alzi la mano chi non desidera una città in cui il trasporto pubblico sia efficiente e continuativo, una città in cui l’inquinamento non sia una presenza con cui convivere. Una città in cui un lavoro sia un diritto e non un privilegio. In cui i nidi siano una possibilità accessibile per tutte le famiglie, in cui la scuola di tutti non abbia bisogno di donazioni periodiche di carta igienica e matite colorate, in cui prenotare un’ecografia in un servizio pubblico non richieda 6 mesi di attesa, in cui chi arriva da un altro Paese non per turismo possa immaginare percorsi di integrazione e non di abbandono.

Tutto lascia intendere però che viviamo in un Paese in cui le politiche sociali non rappresentano una priorità, in cui la noncuranza, la superficialità, l’immobilismo limitano fortemente l’accesso delle persone a servizi basilari che diventano sempre più un privilegio. Oggi sembrerebbe che chi ha la responsabilità di guidare il nostro Paese abbia deciso di partire dalla sicurezza e dal decoro. E allora quello che non si riesce a ottenere attraverso politiche sociali serie che si mettano al passo di chi è più fragile e svantaggiato lo si risolve allontanandolo dalla vista (per decoro) o voltando la faccia e dicendo che il problema non esiste perché non esiste chi rimane indietro, e forse dopo tutto, per alcune categorie (senza dimora, migranti carcerati), è un po’ colpa loro se rientrano nella cultura dello scarto. Pensiamo nei giorni scorsi a Roma e Milano.

Assolutamente in linea con questo ragionamento è parso ovvio che la povertà, la cultura dello scarto, si risolve allontanando i poveri dalla nostra vista. Milano e Roma in quelle occasioni hanno mostrato il loro aspetto peggiore, quello più debole, anche se si è mostrato il lato forte, l’aspetto muscolare: quanto di più lontano c’è dalla città in cui vorremmo vivere. Quanta distanza, quanto stridore tra quello che vorremmo e quello che ci sta accadendo, o meglio, quello che la politica ci sta offrendo. Aveva ragione papa Francesco quando, nell’udienza generale del 5 giugno 2013, lanciava l’allarme: «La persona umana è in pericolo: questo è certo, la persona umana oggi è in pericolo, ecco l’urgenza dell’ecologia umana! E il pericolo è grave perché la causa del problema non è superficiale, ma profonda: non è solo una questione di economia ma di etica e di antropologia».

Abbiamo la responsabilità di eliminare la povertà e le sue cause: sbagliato e pericoloso pensare di poter eliminare dalla vista fisicamente i poveri, e nel caso dei poveri migranti eliminarli proprio fisicamente abbandonandoli nel mare (anche delle polemiche) o nel deserto. Non si può eliminare chi non ci piace, chi puzza, chi dà fastidio, frutto dell’odierna cultura dello scarto. Un povero «che muore non è una notizia, ma se si abbassano di dieci punti le Borse è una tragedia! Così le persone vengono scartate, come se fossero rifiuti». L’unico modo per ottenere la decorosa armonia di vita cui tutti ambiamo è trovare soluzioni, alternative, che accrescano ogni giorno di più la gamma dei diritti esigibili dal maggior numero possibile di persone. Occorre tornare all’idea che il godimento dei diritti civili sia sciolto da vincoli di cittadinanza intesa come una cittadinanza escludente. I diritti ineriscono l’uomo e tutto l’uomo.

A noi servono politiche e politici che si occupino dei nostri diritti, non misure di facciata che colpiscono chi è più debole. Chiediamo risposte (questa è democrazia, non solo i clic o le primarie), non accontentiamoci di sentirci dire che prima viene il decoro poi verrà il resto… perché tutto il resto è molto più urgente. La politica dimostri prima di tutto che sa adempiere alla missione che le compete: lavorare per la felicità e la dignità dei cittadini, di tutti. Eliminare gli ultimi non risolverà nessuno dei nostri problemi, Si farà spazio solo a nuovi ultimi. Oggi sono gli immigrati e i senza dimora, domani a chi toccherà?

*sacerdote, presidente Centro Astalli Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati in Italia




il vangelo della domenica commentato da p. Maggi

IO SONO LA PORTA DELLE PECORE

commento al vangelo della quarta domenica di pasqua (7 maggio 2017) di p. Alberto Maggi:


Gv 10,1-10

In quel tempo, Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro. Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».

Per aver aperto gli occhi al cieco nato, Gesù è stato accusato di essere un peccatore, perché, per essi, il peccato è la trasgressione della legge divina. Bene, Gesù ribatte, affermando che sono loro, i farisei, i peccatori, perché, per Gesù, il peccato è quello che offende l’uomo, ed è ai farisei che Gesù rivolge il monito, che è contenuto nel capitolo decimo, del vangelo di Giovani, lo rivolge ai farisei del tempo, ma anche a quelli di oggi. Sentiamo cosa ci scrive l’evangelista. “In verità, in verità”, quando si usa questa espressione nel vangelo di Giovanni, significa: vi assicuro, vi dico con fermezza, “io vi dico”, quindi è rivolto il discorso ai farisei, “chi non entra nel recinto”, qui l’evangelista, per il termine recinto, ha adoperato quello che si usa non per le pecore, ma l’atrio del tempio, perché vuole far comprendere: attenzione, non si tratta di recinti e di pecore, ma si tratta di popolo ed istituzione religiosa, “nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante”. Gesù è molto chiaro, sta parlando ai farisei: siete dei ladri, perché vi siete impadroniti del popolo di Dio, Gesù era il Dio, era il vero pastore, e, soprattutto, siete dei briganti, perché avete usato la violenza per sottomettere questo popolo. Nello sfondo della denuncia di Gesù, c’è tutta l’accusa che il profeta Ezechiele, specialmente nel capitolo 34, fa ai pastori, che governano il gregge soltanto per il proprio interesse, per la propria convenienza, e non si interessano del bene e del benessere delle pecore. E continua Gesù: “Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore”, Gesù rivendica lui di essere, come Dio, il vero pastore del suo popolo, “Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce”, perché le pecore ascoltano la sua voce? Perché riconoscono, nella voce di Gesù, la risposta al bisogno, al desiderio di pienezza di vita, che ogni persona si porta dentro. “egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome”, Gesù non ha un rapporto con la folla, con la massa, con un gregge, ma Gesù c’ha un rapporto speciale con ogni individuo, con ogni pecora, “e le conduce fuori”, il verbo adoperato dall’evangelista, è quello che è stato usato nel libro dell’Esodo, per indicare la liberazione dalla schiavitù, verso la terra della libertà. “E quando ha spinto”, letteralmente cacciato fuori, “tutte le sue pecore” – già Gesù, nell’episodio dell’entrata a Gerusalemme, aveva scacciato fuori le pecore dal tempio – “E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce”: Gesù libera le pecore dal recinto dell’istituzione religiosa, ma non le richiude in un altro recinto, seppur migliore, concede loro la piena libertà. E continua Gesù: “Un estraneo invece non lo seguiranno”, questa di Gesù non è una constatazione, è un consiglio che lui dà, “ma fuggiranno via da lui”, bisogna fuggire via da questi che si presentano come pastori, ed invece, vedremo, sono soltanto dei lupi rapaci, “perché non conoscono la voce degli estranei»”, le pecore conoscono la voce di chi le ama, e non di chi le vuole sfruttare,  riconoscono, nella voce dei falsi pastori, l’ansia di potere, l’ansia di dominio. “Gesù disse loro”, quindi è rivolto ai farisei, “questa similitudine”, ma ecco la sorpresa, “ma essi non capirono di che cosa parlava loro”, come fanno a non capire? Semplice, perché non sono le sue pecore, perché non sono sordi, ma sono ostinati nella loro tentazione di potere, di ambizione. “Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono”, e questa è la rivendicazione del nome di Dio, quindi la pienezza della condizione divina che si manifesta in Gesù, “io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti”, quindi Gesù ribadisce l’accusa, ai capi religiosi, di essersi impadroniti del gregge che era di Dio, Dio era il pastore, e di averlo sottomesso attraverso la violenza, “ma le pecore non li hanno ascoltati”, ecco la constatazione di Gesù: il popolo può essere stato sottomesso per paura, ma non per propria scelta. “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà”, questo entrare ed uscire significa che Gesù non richiude il gregge in un altro recinto, e la porta non viene chiusa, la chiusura della porta indica sicurezza per il gregge, però mancanza di libertà, no, seguendo Gesù, c’è la piena libertà, si entra e si esce. “e troverà”, e qui l’evangelista gioca sui termini della lingua greca, “troverà pascolo”, pascolo, nella lingua greca, si dice “nome”, mentre legge si dice “nomos”. Allora, con Gesù, non si trova una legge a cui obbedire, ma si trova pascolo, cioè un alimento che dà la vita. E la conclusione, e la conclusione, Gesù adopera per questi sedicenti pastori le stesse caratteristiche dei lupi, quindi non sono pastori, ma sono lupi, bisogna stare attenti, “Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere”, e qui c’è l’eco dell’accusa che aveva fatto già  il profeta Ezechiele, qui nel capitolo 22: “i suoi capi in mezzo ad essa sono come lupi che dilaniano la preda versano il sangue fanno perire la gente per turpi guadagni”. Quindi Gesù identifica questi pastori come dei lupi, quindi bisogna stare attenti, bisogna fuggire, “rubare, uccidere e distruggere”, le vere vittime del culto al tempio sono le persone, “io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza»”, quindi è un invito a (di) Gesù a emanciparsi da questi pastori, che impongono, che obbligano, e (ad) accogliere il dono della pienezza di vita, che Gesù offre incondizionatamente, ad ogni persona che ascolta la sua voce.




la musica e la festa rivelano meglio di ogni altra cosa l’identità rom – il C.C.I.T. 2017 a Madrid

se vuoi conoscere nel profondo il cuore rom lasciati accompagnare dalla sua musica

 

 

 

 

Si è svolto nei giorni scorsi, 21-23 aprile, a GADARRAMA, ridente località appena fuori di MADRID, il C.C.I.T. 2017 (Comitato Cattolico Internazionale per la pastorale rom), che, per meglio capire il vero cuore rom, non poteva che avere come focus:

“LA MUSICA NELLA VITA TRA FESTA E LEGAME SOCIALE”

La distanza geografica rispetto soprattutto ai paesi dell’est europeo ha comportato una leggera flessione di partecipazione rispetto alle altre edizioni in luoghi più ravvicinati, ma la qualità ha rispettato le attese.

La prima serata ha visto la tradizionale accoglienza con la cena comune e la preghiera introduttiva animata dai membri della pastorale spagnola tra i rom e dal momento conviviale di un buon bicchiere di ‘vino dell’amicizia’.

Il sabato ci ha visti impegnati in vari significativi momenti:

   1. i saluti ufficiali del gruppo spagnolo della pastorale rom 

   2. ascolto del messaggio Vaticano al C.C.I.T.

   3. l’introduzione al C.C.I.T. 2017 da parte di CLAUDE DUMAS, il prete rom attuale animatore del C.C.I.T.

La proiezione di alcuni stralci del film ‘LACIO DROM’ di Tony Galtif ci ha evidenziato modalità diverse del canto e della musica rom capace di veicolare con estrema efficacia di volta in volta messaggi di festa, gioia, lamento, protesta …

Ciò è stato motivo di dialogo e riflessione nei ‘gruppi di studio’ guidati da domande precise in merito alle nostre reazioni immediate ma anche, scendendo più in profondità nel cuore della cultura rom, ci si è chiesti se il nostro incontrare e incrociare il cammino dei rom-sinti ha lasciato in noi segni e tracce che ci hanno cambiato donandoci uno sguardo nuovo su di loro attraverso suoni, riti, feste … e se in questo cammino sia mutata in noi la stessa immagine di Dio che come ‘evangelizzatori’ siamo portati a ‘preconfezionare’ in base ai nostri bisogni  e parametri culturali e ad ‘esportare’ in modo scontato e acritico senza accorgerci di altre ‘immagini di Dio’ diverse dalle nostre provenienti da minoranze etnico-culturali capaci di arricchire e purificare le nostre.

E’ il pomeriggio che ha visto il momento fondamentale del C.C.I.T. con la conferenza della teologa

CRISTINA SIMONELLI:

“IL CANTO DI TUTTI: LA COLONNA SONORA DELLA VITA”

La musica e il canto hanno una valenza incommensurabile per la capacità di incontro che offre e la capacità di convertire  occhi e cuore allo sguardo e alla persona dell’ ‘altro’:

“La musica … può partecipare a questa conversione e diventare soglia (threshold english; seuil; umbral) per molti accessi. Consente infatti di affacciarsi all’esperienza della gioia e del dolore, della festa e del lutto. Consente di stare sulla soglia della casa e della festa dell’Altro, imparando da questo spostamento a esprimere i propri sentimenti, a pronunciare le proprie lodi, a cambiare la propria vita. Consente ancora di stare sulla soglia delle interazioni culturali: certo evitandogli ostacoli delle maschere che possono nasconderci gli uni agli altri, ma aprendo vie inedite di incontro, proprio là magari dove i conflitti sono più aspri. Come si esprime infatti mettendo in relazione contesti e elementi diversi, così può aprire vie di incontro e benedizione, senza moralismi ma con profonda eticità” (dalla relazione di C. Simonelli).

L’intensità di tale relazione è diventata ovviamente motivo di dialogo e approfondimento nei gruppi di riflessione dialogata

La celebrazione eucaristica in diverse lingue con l’omelia di Clade Dumas ha portato a termine la giornata con un messaggio e una sollecitazione forte ed efficace ad ‘accordarci’ ai progetti di Dio per noi e per la storia.

“Accordarci ai progetti di Dio significa accordarsi alla vita come si presenta a noi. Accordarsi come ci si accorda alla musica in una danza. Come in una danza bisogna accordarsi anche con il suo partner. Da sempre Dio si fa alleanza con noi e sposa la nostra umanità per farci entrare nella danza del suo amore … E se con Dio noi ci lasciamo guidare, non saremo capaci di ballare? … Lui conosce la musica. L’Ha scritta Lui. Conosce i passi. Allora accettiamo di lasciarci guidare per entrare nella danza della vita” (dall’omelia di Dumas).

La serata ha visto la tradizionale ‘cena condivisa’ con tante tavole di cibi diversificati quante i paesi presenti al C.C.I.T. (ci sono stati a volte ben ventitré paesi presenti) mettendo in mostra e in condivisione fraterna il meglio della propria cucina del paese di provenienza; ovviamente non è mancata musica e balli a rendere davvero una festa ala serata.

La domenica mattina ha visto la descrizione della

“SITUAZIONE SOCIALE E LA PASTORALE DEI GITANI IN SPAGNA”

dell’animatore pastorale FERNANDO JORDAN PERMAN della pastorale rom spagnola, col preciso e ribadito invito ad “ascoltare la vita interiore del gitano”, ad “andare loro incontro”, “incoraggiare il dialogo”, “cercare la comunione”. Indubbiamente atteggiamenti molto apprezzabili perché:

“la diversità ci fa crescere, ci stimola. E’ la ricchezza della nostra Chiesa. Il Vangelo nel mondo degli zingari è l’interesse per l’altro e il desiderio di avvicinarsi all’altro con simpatia. E’ fondamentale per crescere nel dialogo, non come tecnica pastorale con intenzione di arrivare a convincere l’altro ma come un mezzo per celebrare la verità e condividerla. Possiamo evangelizzare solo partendo dalla reciprocità. Evangelizzare è un’interazione: annuncio una buona novella e ottengo una buona novella” (dalla relazione di Perman).

Peccato che a volte il linguaggio sembra contraddirsi nella velata, ma non troppo, intenzionalità di trasformare l’ “ambiguità dell’immagine del cristiano Zingaro” in “un nuovo gitano cristiano” (e perché no anche ‘cattolico’?).

La celebrazione eucaristica e una visita turistica all’Escorial e alla ‘Valle de los caidos’ ha concluso il C.C.I.T. 2017 dandoci appuntamento tra un anno in Belgio per il C.C.I.T.2018.

nota personale:

Il recarmi al C.C.I.T. 2017 a Madrid con il camper dell’amico p. Agostino Rota Martir ha rappresentato un percorso lungo che ci ha imposto necessariamente delle soste all’andata e al ritorno; la noia e pesantezza del viaggio è stata largamente compensata dell’accoglienza gentilissima, festosissima, gioiosissima di una famigliola rom con i suoi cinque bambini che dall’Italia, che non offriva niente di umano e positivo per la loro situazione di profughi (che anzi minacciava di toglierle i bambini a causa della povertà più totale fino alla vera e propria fame!) ha dovuto affrontare avventurosamente un viaggio’ abramitico’ verso la Francia che ha loro messo a disposizione fin da subito le prime strutture di accoglienza umana in attesa dei tempi necessari per il vaglio della loro richiesta di stato di profughi; richiesta che proprio negli ultimi giorni è stata felicemente accettata con la gioia di tutti che ha compensato l’infinita sofferenza della lunga ‘via crucis’ percorsa da questa famigliola, sofferenza arrecata dalla durezza e crudeltà di strutture pubbliche del nostro paese, perfino dei servizi sociali …

Un’esperienza di accoglienza, festa, generosità, desiderio di farci contenti e a nostro agio nella loro casa

(ho ancora davanti agli occhi il bel vassoio di cous cous coi gamberi che il papà con cura ci ha preparato, ma anche il buon risotto allo scoglio cucinatoci dalla mamma, oltre al resto …) che credo sia stata la migliore preparazione al C.C.I.T. e la migliore conclusione di esso. Un’esperienza difficilmente dimenticabile. Grazie infinite!




C.C.I.T. 2017 Madrid – programma

PROGRAMMA

“La musica nella vita tra festa e legame sociale”

Venerdi 21 Aprile

Pomeriggio :  Accoglienza

19 h: Cena

20 h: Preghiera animata dalla Spagna

30 21 h: vino dell’amicizia 

Sabato 22 Aprile
8 h 30: Saluti da parte del gruppo pagnolo 

              Messaggio del Consiglio Pontificale Sr Alessandra (Vat)

              Introduzione Claude Dumas (F)
09 h 00: Incroccio a partire di estratti del Film « Latcho Drom » di Tony Gatlif

10 h 30:Pausa 

11h: Assemblea plenaria : restituzione dei lavori in carrefour 

12h: Spiegazioni relative al voto del comitato di vigilanza secondo al nuovo organigramma

12 h 30: Pranzo

15 h 00:  Conferenza : « il canto di tutti : la colonna sonora della vita» Cristina Simonelli teologa (I)

16 h 00: Pausa

16 h 30: Discussione, scambi in carrefour 

18 h 30: Eucaristia CCIT (Presidenza ( ?)+ omelia Claude Dumas (F) 

19 h: Preparazione serata festiva

 30 20 h: Serata festiva

Domenica 23 Aprile
8 h 30: La situazione in Spagna 

9 h00: Scambi con la conferenziera

10h: Pausa

10h15-11h: Risultati dei voti e constituzione del Comitato di Vigilanza

                     Informazioni- data e luogo del prossimo CCIT 

                     Conclusione
11 h 30: Eucaristia (presidenza + omelia ?)

12 h 45: pranzo

14h: Partenza per la visita turistica (San Lorenzo del Escoriai, + El valle de los Caidos) — ritorno in serata




C.C.I.T.2017 – Madrid relazione di Cristina Simonelli

Il canto di tutti: la colonna sonora della nostra vita

Gracias a la vida que me ha dado tanto
me ha dado la risa y me ha dado el llanto
así yo distingo dicha de quebranto
los dos materiales que forman mi canto
y el canto de ustedes que es el mismo canto
y el canto de todos que es mi propio canto
Gracias a la vida, gracias a la vida….1

spagnolo nel testo, traduzione in nota

Parlare della musica è un po’ come parlare della nostra vita, che ha un ritmo, sempre: quello del cuore e del respiro – materno nella gestazione e nell’allattamento e anche certo quello proprio, finché ce n’è un briciolo. Questo ritmo conosce forme elementari e per questo profondissime, come le cantilene e le ninne nanne, e le espressioni di affetto, le manifestazioni di gioia e anche i lamenti di dolore. Si può così vedere come questa musicalità sia personale sì ma non individuale, perché nasce comunque in una relazione e in uno scambio, tra persone e con il creato. Tale dimensione relazionale è ancora più forte poi nelle forme elaborate, che hanno anche una connotazione collettiva e culturale. Non è un caso se abbiamo iniziato questa riflessione con una strofa di Gracias a la vida, canto inciso a Santiago del Cile nel 1965 da Violeta Parra Sandoval in relazione a una situazione personale, ma diventato poi una sorta di inno alla pace e alla dignità dei popoli, prima in Argentina (fu cantato da Mercedes Sosa) per poi raggiungere fama internazionale grazie alla voce e all’impegno di Joan Baez negli anni ’70. La gioia e il dolore nelle loro forme più alte diventano canto e il canto di ognuno può diventare canto di tutti e per tutti.

Con queste chiavi seguiamo un breve percorso biblico e pastorale, per provare poi a mettere in parola la nostra esperienza di «persone rom e non/rom» nell’ottica dell’espressione musicale, in senso antropologico e culturale e non certo in quello banale del folclore.

      1. Hai mutato il mio lamento in danza

Hai mutato il mio lamento in danza,

la mia veste di sacco in abito di gioia,

perché il mio cuore ti possa cantare inni senza posa

Signore, mio Dio, ti loderò per sempre

(Sal 30,12-13)

E’ chiaro per tutti come la Scrittura porti con sé moltissime attestazioni sia di canto/musica, nel senso personale e relazionale appena segnalato, che del suo uso collettivo e anche specificamente cultuale, a esprimere il dolore e la lode, la benedizione per la vita ricevuta e l’invocazione per la sua pienezza, non solo dei singoli ma del Popolo e, infine, di tutti e di ognuno. Se non mancano elementi musicali in tutta la raccolta biblica – si pensi ad esempio alla profetessa Miriam che guida il canto e la danza dopo il passaggio del mare in Esodo 15– ma certo spicca l’importanza in questo senso del Salterio, che è, fra l’altro, un “microcosmo musicale”. Il Salmo 30, del quale alcuni versetti danno il titolo a questo paragrafo e sono riportati sopra, porta con sé dimensioni personali profonde: in primo piano c’è il lamento di dolore per una malattia grave e il canto di gioia per la guarigione, per il mondo che si apre nuovamente. Grazie a questa concretezza fisica è potuto diventare anche il canto politico per una sconfitta evitata e l’inno religioso per la morte che si apre alla risurrezione.

Il biblista italiano Gianfranco Ravasi, ora cardinale, così descrive in generale il mondo musicale del salterio attraverso il vertice della raccolta, che è il Salmo 150:

L’ultimo carme del salterio, il 150, è una specie di sinfonia a cui è convocata tutta l’orchestra del tempio con i suoi strumenti (vv. 3-5), ma a cui si associa anche il filo musicale che nasce da ogni essere: cielo e terra, dimora infinita di Dio e sua residenza terrestre (= tempio) si uniscono verticalmente in un alleluia cosmico. Il corno (ŝofar) e la tromba sacerdotale, il nebel, cioè l’arpa, e il kinnor, la lira […] strumenti a corda e a fiato, strumenti noti dei professionisti e altri di cui oggi si fatica a ricostruire la effettiva forma, si uniscono al mizmor (cioè salmeggiare, termine che deriva il suo significato dal gesto di toccare le corde) e alla danza, al grido gioioso, o all’urlo della vittoria, in un quadro in cui non manca il dialogo antifonale fra coro e solista2.

Anche il nuovo Testamento conosce molte forme di Inni, che ad esempio nell’Apocalisse assumono anche tutto lo spessore di una liturgia, con diversi soggetti che intervengono e si rispondono. Sarebbe lungo poi ricordare le molte forme con cui questo è stato vissuto e interpretato, riporto solo, per la sua originalità, uno stralcio di uno scritto “apocrifo” che descrive una danza pasquale di Cristo:

Il tutto partecipa alla danza. Amen. Colui che non danza ignora ciò che è accaduto. Amen. […] Non ho casa e ho delle case. Amen. Non ho luogo e ho dei luoghi. Amen Lampada sono io per te che mi vedi. Amen. Specchio sono io per te che mi comprendi. Amen. Porta sono io per te che bussi. Amen. Via sono io per te che sei viandante. Amen. Rispondi ora alla mia danza, vedi te stesso in me che parlo[…] Tu che danzi, comprendi ciò ch’io faccio3

Tutto il mistero pasquale dunque viene espresso e insieme sperimentato in una musicalità che diventa anche danza. Anche al di là di questo testo particolare, è significativo – e sarà utile per la seconda parte della nostra riflessione – ricordare anche che di fatto non conosciamo con sicurezza quale fosse la musica dei salmi, così come degli inni più antichi extra biblici, anche se molti se ne sono posti alla ricerca: essa dunque oggi esiste solo nelle molteplici forme in cui è stata interpretata, riespressa, contaminata e dunque vissuta.

Nella sua forma collettiva, spesso organizzata e dunque ordinata e condivisa sia nella forma che nel significato, la musica diventa festa. Anche con l’aiuto degli studiosi di antropologia culturale, il mondo della teologia e della spiritualità ne ha maggiormente compreso l’importanza:

La riscoperta della dimensione festiva costituisce uno dei maggiori segni indicatori della capacità di memoria e di celebrazione dell’esistenza umana e del suo mistero nella storia di un popolo. Partecipare ad una festa significa rievocare insieme il suo messaggio ideale e impegnarsi a realizzarlo. Il fare festa diventa per una comunità un atto unificante, capace di coniugare simbolicamente nei segni posti, il passato, il presente e il futuro (Giuseppe De Virgilio)4

Dobbiamo infatti riconoscere che se oggi nessuno studioso della Bibbia negherebbe questa dimensione, non sempre il concreto atteggiamento pastorale è capace di vivere con serenità e carattere evangelico questa realtà.

2. Nella gioia del Vangelo

Ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua. Però riconosco che la gioia non si vive allo stesso modo in tutte la tappe e circostanze della vita, a volte molto dure. Si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto (Evangelii Gaudium n. 6)

Quando dalla considerazione della Scrittura ci spostiamo a prendere in esame gli atteggiamenti pastorali, rischiamo sempre di essere molto generici. In questo caso ci aiuta però il magistero di Papa Francesco, molto attento a questi aspetti. Il testo che abbiamo appena letto è dell’Esortazione Apostolica da lui stesso più volte indicata come programmatica del pontificato e di questa stagione ecclesiale. Il passo è giustamente noto, perché si collega non solo al titolo generale (la gioia del Vangelo, ben diversa dalla lugubre comunicazione che a volte ci ha contraddistinto), ma anche alle tentazioni pastorali: in sintesi si può dire che la “faccia da Quaresima” che non conosce Pasqua non è affatto una virtù, bensì una malattia dello spirito, quella che si chiamava anche “accidia”, che si mostra come sfiducia negli altri e mancanza di speranza, ma denota carenza di fede e di carità, infine, di umanità. Spesso è il confronto con la diversità a permettere che questo sintomo emerga con forza devastante: allora sono, a turno, i giovani che appaiono disastrosi, le donne che rovesciano l’ordine stabilito, gli “altri” nel senso di stranieri e migranti, ma anche delle popolazioni da sempre presenti in contesti maggioritari, come le famiglie tzigane a sembrare portatori di trasgressione e disagio.

Anche il cammino sinodale ha indicato rischi analoghi ed ha rappresentato una risorsa di conversione pastorale. Averlo percorso:

significa aver dato prova della vivacità della Chiesa Cattolica, che non ha paura di scuotere le coscienze anestetizzate o di sporcarsi le mani discutendo animatamente e francamente sulla famiglia.

Significa aver cercato di guardare e di leggere la realtà, anzi le realtà, di oggi con gli occhi di Dio, per accendere e illuminare con la fiamma della fede i cuori degli uomini, in un momento storico di scoraggiamento e di crisi sociale, economica, morale e di prevalente negatività.

Significa aver testimoniato a tutti che il Vangelo rimane per la Chiesa la fonte viva di eterna novità, contro chi vuole “indottrinarlo” in pietre morte da scagliare contro gli altri.

Significa anche aver spogliato i cuori chiusi che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa, o dietro le buone intenzioni, per sedersi sulla cattedra di Mosè e giudicare, qualche volta con superiorità e superficialità, i casi difficili e le famiglie ferite.

Significa aver affermato che la Chiesa è Chiesa dei poveri in spirito e dei peccatori in ricerca del perdono e non solo dei giusti e dei santi, anzi dei giusti e dei santi quando si sentono poveri e peccatori.5

Una condizione anestetizzata, incapace di riconoscere il dolore e la gioia, la festa e il lutto di chi incontra, è spesso sintomo della incapacità di riconoscere i propri sentimenti, in quella che potrebbe essere indicata come “alessitimia”, termine che indica un disturbo della sfera emotiva, connotato dalla difficoltà di incapacità di percepire, riconoscere ed esprimere gli stati emotivi, propri e degli altri. Non basta una buona volontà singola per uscirne, abbiamo necessità di un lavoro collettivo: sinodale in termini ecclesiali, o politico e culturale in termini laici. Questi nostri incontri e lo “spirito del CCIT” possono contribuire a questo percorso di consapevolezza e di conversione pastorale, fatta anche attraverso gli occhi, i suoni, i riti “degli altri”.

3. Le musiche tzigane come ingegneria culturale e legame sociale

«La musica è il collante che unisce le persone umane […] la libertà e il soffio che consente di andare all’incontro degli altri nel mondo (Toni Gatlif) 6

Il film di Toni Gatlif, Latcho Drom, rappresenta oggi per noi, in questo nostro Incontro ben più di una conferenza. Mostra in sequenze filmiche quello che tutti sappiamo per esperienza e su cui vogliamo anche riflettere: quello che vale per ogni cultura ha un valore singolare per alcune. In questo caso l’espressione musicale è molto importante nella vita romani (tzigana) nelle molte differenze così come nelle dimensioni comuni. Così importante che, appunto, il regista riesce a indicare gli itinerari e le soste di tali popolazioni seguendone le musiche e le danze, dall’India alla Spagna, le feste e i lutti, gli incontri più o meno autentici.

Alcune sue forme sono così note e fondamentali per la cultura europea da farne parte in maniera inseparabile: le musiche ungheresi, cui si ispirò fra gli altri Franz Liszt e il Cante Flamenco in primo luogo, ma anche la musica dei Lautari rumeni, riuniti in gruppi denominati Taraf (composti di violino, fisarmonica, cimbalom – strumento di origine ungherese costituito da una serie di corde metalliche suonate con bacchette di legno – clarinetto o sassofono, più recentemente anche chitarra), e le composizioni balcaniche. Ma si deve ricordare anche la musica del nordafrica, in cui ad esempio emergono gli “Gypsy of the Nile” e i “Moroccan Gypsies”, con Sidi Mimoun e Ben Souda, o le forme legate alle tarantelle (danze popolari) del sud Italia. Alcuni nomi hanno tale risonanza da uscire anche da registri strettamente etnici, come quello del jazzista Django Reinhardt, di Manitas de Plata (= Ricardo Baliardo, Montpellier 2014), del complesso dei Gipsy Kings o di Goran Bregović.

Pensare di renderne anche solo minimamente ragione qui sarebbe altrettanto arrogante che pensare di aver parlato in maniera sufficiente della musica nella Scrittura. Senza contare che quello che a noi interessa non sono soltanto i grandi nomi, bensì la trama della vita quotidiana, della nostra comune esperienza, che si esprime in forme meno alte ma ugualmente artistiche, come pure nella semplice abitudine di ascoltare musica prodotta da altri, facendone però in certo senso la colonna sonora della nostra vita. L’ottica che vogliamo assumere è piuttosto un’altra: si usa dire che le differenze fra questi tipi di musiche sono tali e tante da lasciare sullo sfondo le somiglianze, che pure si potrebbero raccogliere nella frequenza di cambi di registro, nella capacità di seguire il ritmo come nel blues, nella prorompente improvvisazione come nel jazz. Infatti:

Ciò che distanzia questi artisti dalle lontane origini comuni sembra maggiore di ciò che li avvicina. Eppure nei numerosi stili che si sono venuti a creare si possono riconoscere vari elementi in comune, prima fra tutte la pratica molto frequente dell’improvvisazione, con rapidi cambi di tempo, ritmi assai sostenuti, talvolta note lunghe e appassionate, un alto grado di virtuosismo, una forte sensibilità quasi sentimentale e una ricca “ornamentazione”, fatta di cesellature e arabeschi. Talvolta, inoltre, le esecuzioni vengono arricchite da suoni prodotti con qualsiasi mezzo si abbia a disposizione, dalla percussione di una vecchia lattina al battito di mani (Francesca Ferrando).

Di fatto qui vogliamo sottolineare in maniera particolare proprio le differenze, perché sono il segno di quella che, seguendo Leonardo Piasere, possiamo indicare come “ingegneria culturale” degli zingari, categoria sintetica [politetica7] che si riferisce con uno stigma negativo a gruppi dalle diverse autodenominazioni, la più frequente delle quali è Rom. Infatti «le reti di famiglie rom nascono nella storia e sono il prodotto di innumerevoli microsituazioni in continua evoluzione»8, caratterizzate dalla dispersione in un contesto diverso, rispetto al quale sono in continuo scambio culturale. Questa interazione prevede l’assunzione di elementi di vario tipo, che vengono adottati, riadattati, in parte conservati e in parte trasformati: questa è appunto l’idea e la pratica della “ingegneria culturale”. Tale pratica culturale riguarda tutti gli aspetti della vita, dalla lingua all’uso dei new media e perfino gli aspetti religiosi: non c’è motivo dunque di dubitare che riguardi anche la musica, che anzi ne diventa un prezioso indicatore, un luogo in cui si può fare concreta esperienza di questo mondo vitale di scambio. E’ in fondo la stessa cosa che si è detto per i Salmi, che cioè non vivono nell’archeologia irraggiungibile di un suono puro, ma nella contaminazione plurale delle molte esecuzioni.

Per questo motivo possiamo lasciare, pur senza sottovalutarlo, il mondo dei nomi famosi e dei complessi diffusi sul web, per consentire ad ognuno di andare alla propria esperienza. Io stessa riporto alcuni miei ricordi, per invitare così ognuno a fare lo stesso. Sono momenti a volte ridicoli, spesso drammatici, in ogni caso tanto comuni e altrettanto particolari. Ricordo innanzi tutto un amico con alcuni disagi fisici, Rom italiano di origine slovena, che aveva acquistato con tuttoil denaro che aveva uno stereo di dimensioni notevoli, come erano tali strumenti negli anni ’80/90. Finiti i soldi, si trattava di portarlo a casa, che era distante, e dunque con un taxi percorse 150 km, finché arrivato presso la famiglia del fratello, candidamente, disse che si doveva pagare l’autista. Dopo lo sconcerto, il pagamento e certo un po’ di rabbia… fu acceso lo strumento e tutta la famiglia iniziò a ballare un mondo diverso possibile!

Altri momenti musicali che non posso dimenticare sono quelli funebri: il suono del violino dell’anziano Sinto che onorava così tra le lacrime la sepoltura della moglie, le musiche contrastanti delle bande musicali che, secondo un uso appreso da alcune regioni italiane come la laica Emilia, accompagnano la via che porta al cimitero, alternando musiche felici, magari amate dal defunto, ad altre tristi, consentendo così l’espressione dell’affetto e del cordoglio.

Infine, un’esperienza di altro tipo, ma estremamente significativa: in un paese italiano a forte densità di politiche e discorsi xenofobi, particolarmente accesi nei confronti degli “zingari”, si tenne pochi anni or sono un concerto di Goran Bregović, cui ebbi occasione di assistere. La maggior parte dei brani, lo comprendevo molto bene, erano in romanes, le musiche erano quelle balcaniche, tipico esempio di mixage e contaminazione di suoni. Bregović non spiegava, non faceva discorsi di bontà e integrazione, semplicemente suonava e cantava insieme al suo complesso: tutti i partecipanti, xenofobi o meno che fossero, in visibilio, saltavano, ballavano, applaudivano!!

Soprattutto l’ultimo esempio consente una riflessione: come ha efficacemente mostrato Daniele Todesco in un suo studio sul pregiudizio positivo9, ogni forma di sterotipia è un modo di allontanare gli uni dagli altri. Certo i pregiudizi negativi sono pessimi, ma forse più scoperti ed evidenti. Anche quelli positivi, che rendono in maniera iperbolica e irreale le caratteristiche che dipingono hanno una propria perniciosità e sono anche più subdoli. Anche l’idea dello zingaro musicista romantico e della Carmen ballerina irresistibile possono assumere questa funzione, che è in fondo di distanziamento e occultamento. Da questo rischio può non essere esente l’azione sociale e la pratica pastorale: esserne consapevoli può essere il primo modo per evitarlo. Tuttavia questo rischio è presente, ma non è l’unico aspetto: la musica, come si è visto, rappresenta per più aspetti l’espressione e la realizzazione di un legame sociale. All’interno dei gruppi familiari e interfamiliari che la vivono, nella rete amicale come in quella che ha segnato la vita mia e della mia comunità, ma anche nel contesto più largo nel quale le comunità tzigane dimorano o nomadizzano. Questo è già di per sé parte della forma musicale interattiva e contaminata, mixata e riespressa che come abbiamo visto è una caratteristica costante attraverso le molteplici differenze. Ed è evidente fino alla ironia più sottile nell’esempio dei giovani xenofobi che ballano sfrenati musiche Rom.

4 Gli occhi degli altri: la conversione del “principio di distinzione”

In quel giorno ci sarà una strada dall’Egitto verso l’Assiria; l’Assiro andrà in Egitto e l’Egiziano in Assiria; gli Egiziani serviranno il Signore insieme con gli Assiri. In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti: «Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità (Isaia 19, 23-25).

Come negli Incontri del CCIT ci siamo più volte detti, ci troviamo costantemente a dover negoziare fra due principi che si fronteggiano: stiamo, sia a livello di azione sociale/politica/culturale che di pratica religiosa, tra il timore della “etnicizzazione” [=riduzione di tutte le questioni ad un unico registro, quello etnico] e quello della omologazione, cioè tra il rischio di rendere tutto speciale, tutto etnico – costrizione e identificazione a cui ognuno di noi giustamente reagisce! – e quello, opposto, di non saper riconoscere niente di culturalmente valido e positivo al mondo tzigano. Il difetto, mi sembra sta proprio in una visione rigidamente binaria: o bianco o nero, o.. niente!

Mi sembra che potrebbe aiutarci in questa riflessione un suggerimento di Jan Assmann, un egittologo che, avvicinandosi alla figura di Mosè, protagonista dell’Esodo biblico, ma, appunto “straniero necessario”, egiziano ed ebreo a un tempo. Assmann parla come di “distinzione mosaica”per indicare la forma di identitarismo esclusivo cui dà vita quel particolare monoteismo. La questione, così come si deposita nella memoria culturale e religiosa del Libro biblico e della sua memoria attualizzata, nasce da un pasticcio etnico, da un disprezzo che era diventato sottomissione e schiavitù. Ad esso ha reagito un uomo/tipo, meticcio e appartenente alle due culture, quella maggioritaria e dominante e quella minoritaria e sottomessa. La storia che ne trae origine è segnata, appunto, dall’esclusivismo: un Dio, un popolo, una Legge, diversi e separati da tutti gli altri. Tuttavia, come lo stesso Assmann segnala, in quella narrazione plurale (=la raccolta biblica) e nelle tradizioni viventi che vi si riferiscono, c’è anche un’altra possibilità ed è quella di convertire la distinzione/separata in differenza/accogliente. In Assmann questo si concretizza nell’idea di conversione del monoteismo:

Solo come religio duplex, vale a dire come una religione a due piani, che ha imparato a concepirsi come una tra le molteplici e a guardarsi con gli occhi degli altri, e che nondimeno non ha perso di vista il Dio nascosto o la verità nascosta come punto di fuga comune a tutte le religioni, la religione stessa può trovare un posto nel nostro mondo globalizzato10

Nello stesso senso – e anche se lo studioso utilizza qui comunque una categoria binaria, attraverso l’idea di “duplice” – si potrebbe pensare a una forma di conversione dell’identità di distinzione, convocata a conversione non nel senso del suo annullamento ma in quello della sua forma di legame solidale e inclusivo11.

Lo scenario geopolitico nel quale infatti oggi viviamo – e viviamo dunque la nostra fede – è quanto mai complesso e violento e resiste ad ogni semplificazione. Anche la Scrittura non fa sconti sulla durezza dei conflitti a diversi livelli, e oggi abbiamo forse maggior lucidità di un tempo per leggere anche le pagine dure, se, ad esempio, anche l’esortazione post-sinodale Amoris laetitia può parlare di un sentiero di sofferenza e di sangue che attraversa molte pagine della Bibbia, a partire dalla violenza fratricida di Caino su Abele (AL n.20). Guerre e rumori di guerre, ingiustizie strutturali, violenza sui deboli, fra cui le donne anche nella famiglie dei patriarchi e del re Davide e di conseguenza fughe, deportazioni, esilio e esodo di popoli: non manca nulla. Guardando anche quelle pagine, troviamo spesso in esse delle perle che sono preziose, perché non nascono in contesti romantici, ma nel cuore delle contraddizioni e dei conflitti. Tale è un breve oracolo, la cui importanza accolgo tramite una lettura a suo tempo fornitane da Piero Stefani. Si trova in un contesto defatigante e certo non incoraggiante, denominato – ed è tutto un programma – “oracoli contro i popoli stranieri”, che occupa nell’attuale disposizione di Isaia i capitoli 13-23. I vaticini – parte nella forma di predizione post/evento dai toni apocalittici, parte nella forma della imprecazione, sono raggruppati come in Amos 1-2; e Geremia, in cui occupano i capp 46-51 (nel testo masoretico, collocati dopo il 25 nei LXX) e Ezechiele 25-32. La loro iterazione, sia pure con alcune differenze, da una parte li colloca in un genere letterario diffuso, che non riguarda solo la scrittura ebraica, li fa diventare stile. I “popoli”sono tutti i confinanti nonché i nemici tradizionali – Egitto, Assiria, Filistei – e alcuni altro, tra cui Etiopi e Arabi.. Ripeto la perla che si apre e cambio lo scenario radicalmente:

In quel giorno ci sarà una strada dall’Egitto verso l’Assiria; l’Assiro andrà in Egitto e l’Egiziano in Assiria; gli Egiziani serviranno il Signore insieme con gli Assiri. In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti: «Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità (Isaia 19, 23-25).

E’ una profezia messianica, in fondo, come quella secondo cui il lupo dormirà con l’agnello e le armi diverranno strumenti di lavoro, che si applica però ai nemici tradizionali di Israele. Non sarà sfuggito,inoltre, che ai due popoli vengono applicati i titoli riservati al popolo eletto: l’egiziano è ammi, mio popolo, e l’Assiro “opera delle sue mani”.

Che resta di Israele?: non solo non ha i titoli consueti, ma diventa addirittura “terzo”. Si può però vedere come questa terzietà, se così si può dire, che sembra anti/identitaria, in realtà compie la sua più propria ragion d’essere: è benedizione, altro nome di shalom. Israele qui non “perde” niente, anzi… la sua identità è berakah, benedizione, “in mezzo alla terra”. Quella conversione dell’identità di cui si è appena detto sopra.

La musica, nel senso in cui l’abbiamo considerata, può partecipare a questa conversione e diventare soglia (threshold english; seuil; umbral) per molti accessi. Consente infatti di affacciarsi all’esperienza della gioia e del dolore, della festa e del lutto. Consente di stare sulla soglia della casa e della festa dell’Altro, imparando da questo spostamento a esprimere i propri sentimenti, a pronunciare le proprie lodi, a cambiare la propria vita. Consente, ancora, di stare sulla soglia delle interazioni culturali: certo evitando gli ostacoli delle maschere che possono nasconderci gli uni agli altri, ma aprendo vie inedite di incontro, proprio là magari dove i conflitti sono più aspri. Come si esprime infatti mettendo in relazione contesti e elementi diversi, così può aprire vie di incontro e benedizione, senza moralismi ma con profonda eticità.

Infine, come nel salmo 30, la soglia che fa sperimentare è anche quella radicale, in cui la vita si apre nel suo Oltre, quella del gemito dello Spirito (Rm 8) che attraversa le parole e fa sì che il canto di ognuno diventi il canto di tutti e di tutte le cose: Gracias a la vida.

Cristina SImonelli

1Grazie alla vita che mi ha dato tanto

Mi ha dato il riso e mi ha dato il pianto

Così io distinguo la felicità dal rimpianto

I due materiali che formano il mio canto

E la vostra canzone che è il mio stesso canto

E la canzone di tutti che è il mio proprio canto

Grazie alla vita che mi ha dato tanto

2Gianfrano Ravasi, Il libro dei salmi. Commento e attualizzazione, Vol I,, EDB, Bologna 1985, pg 28: la seconda parte della citazione è una mia sintesi del suo scritto.

3Atti di Giovanni, 94-96. Scritto apocrifo, che tuttavia conserva elementi innici e liturgici interessanti

4La festa costituisce comunque un momento particolarmente privilegiato anche in senso religioso: chiamando l’uomo ad uscire da se stesso e dal proprio quadro ordinario di esistenza, lo apre in maniera nuova all’esperienza del sacro, del divino, della fede. In questo senso, la festa fa parte delle ricchezze più preziose della nostra umanità” (AA. VV., Riscoperta della festa, Roma 1991, 27).

5http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/october/documents/papa-francesco_20151024_sinodo-conclusione-lavori.html

7Leonardo Piasere, I rom d’Europa. Una storia moderna, Laterza, Roma-Bari 2004, 3;15. «Ci sono almeno due modi di guardare e descrivere i rom e gli altri gruppi detti “zingari”. Il primo ruota attorno ai concetti di integrazione anomia, anche quando tali termini non sono apertamente pronunciati. […]. Il secondo considera il rapporto tra rom e non zingari come fortemente radicato nel continuum spazio-temporale della modernità europea e come suo momento strutturale profondo» (ibidem,VII).

8Piasere, I rom d’Europa, 89.Questo paragrafo riprende le osservazioni dell’intero capitolo Le concezioni del mondo, 89-105.

9Daniele Todesco, Le maschere dei pregiudizi: l’innocenza perduta dei pregiudizi positivi. Una categoria esemplare: gli zingari, Quaderno Migrantes, Roma 2004.

10Jan Assmann, Monoteismo e distinzione mosaica, Morcelliana, Brescia 2015, 20.

11Hans Küng, Teologia in cammino. Un’autobiografia spirituale, Mondadori, Milano 1987, 269ss




C.C.I.T. 2017 Madrid – di omelia Claudes Dumas

CCIT – Guadarrama 2017

Omelia del 22 aprile

Claude Dumas

« A chi paragonerò questa generazione? »

Questa pagina del Vangelo ce la dice lunga sull’opinione che si facevano di Cristo gli uomini del suo tempo e in particolare quelli che gli erano ostili. Che direbbe Lui della nostra generazione ? Che direbbe Lui di noi ?

Questo Vangelo ci parla di quelli che giudicano in maniera negativa il modo di comportarsi di Giovanni il Battista e di Cristo. Niente di quello che il Cristo insegna è accettato tanto dal mondo di ieri che da quello di oggi per il fatto che siamo immersi in una società che offre solo beni di consumo e occasioni di piacere.

« A chi paragonero … » Queste parole un po’ ironiche del Cristo si applicano dunque bene alla nostra società e tracciano un quadro chiaro del nostro comportamento umano…ora Gesù fa capire a quelli che l’ascoltano e dunque a noi tutti ! – la loro incoerenza, la loro incostanza, la loro mentalità mutevole e persino capricciosa : se è il momento della gioia e della danza, tengono il broncio e hanno «  un’aria da quaresima » ; se è il momento del lutto e del raccoglimento, non piangono e non fanno silenzio !

Giovanni il Battista che non mangia e non beve è tacciato di ossesso o di pazzo . Lui invita alla conversione… il suo stile profetico urta e irrigidisce i dottori della legge ; la sua ascesi scoraggia una generazione rammollita . Predica una religione severa e non funziona… non è distinto domandare di cambiare vita… di rimettersi in questione…

Gesù , il Figlio dell’ Uomo, che partecipa alle gioie dell’umanità (nozze di Cana) viene con una religione d’amore e non funziona neanche… Lui è criticato per la sua umiltà , perchè insegna a non umiliare i piccoli ,perchè invita ad avere un cuore puro , perchè insiste sull’aspetto passeggero delle cose materiali , perchè ci domanda di perdonare anche ai nostri nemici. Frequenta la tavola dei peccatori pubblici ed è trattato da « ingordo » e da « lassista »!beve forte,e non seleziona le sue amicizie.

Non rifiuta alcun invito spingendosi addirittura a provocarli. Il suo gusto , il suo bisogno di convivialità è cosi smisurato che gli valgono critiche aspre dai dottori della Legge. La tavola è il luogo in cui Gesù , in mancanza degli invitati che non hanno accettato , invita tutti gli umani, anche se fossero marginali,scomunicati,respinti . La tavola apre sulla gioia di un incontro a cuore aperto

« L’ingordigia » di Gesù ci rivela qualcosa di grande : il desiderio di Dio di gratificarci della sua misericordia.Non siamo come i ragazzini del Vangelo, insensibili al flauto di questa musica. Danziamo di gioia per la sua « ingordigia » di salvarci.

Si, ma sapremo accordarci ai fatti del mondo d’oggi…Siamo spesso cosi poco o per niente accordati a quello che succede.

Ora, attraverso tutte queste critiche, Gesù ci invita ad accordarci ai progetti di Dio per noi e per la storia . I progetti di Dio , noi possiamo percepirli solo nella vita . Accordarci ai progetti di Dio significa , accordarsi alla vita come si presenta a noi. Accordarsi come ci si accorda alla musica in una danza . Come in una danza bisogna accordarsi anche con il suo partner . Da sempre, Dio fa alleanza con noi e sposa la nostra umanità per farci entrare nella danza del suo amore .

Non so ballare, non ho mai imparato . Faccio difficoltà a seguire la musica , sto là a guardare senza en

trare nella danza…è in quel momento che sento qualcuno che mi dice : « non fa niente…lasciati

guidare , io so ballare, conosco i passi da fare »… E se con Dio noi ci lasciassimo guidare, non saremmo capaci di ballare ?…Lui conosce la musica. L’ha scritta Lui. Conosce i passi. Allora accettiamo di lasciarci guidare per entrare nella danza della Vita.




l’introduzione di Claud Dumas al CCIT 2017 di Madrid

CCIT – Guadarrama 2017

 

 

 

 

 

INTRODUZIONE

di  Claude Dumas

Buongiorno a tutti, Non ritomerò sui saluti e le parole di benvenuto pronunciate precedentemente alle quali mi associo pienamente ma desidero solo ringraziare più particolarmente la direzione e il personale del centro di congressi FrayLluis de Léon che ci apre in grande le porte, ringraziamenti anche alla conferenza episcopale spagnola nella persona dei nostri amici Belen e Ramon e al gruppo che li accompagna… organizzare un incontro del CCIT non è una delle cose più facili …grazie per il vostro impegno.
« La musica nella vita tra festa e legami sociali »
Un tema piuttosto sorprendente… Come questo soggetto potrebbe ricollegarsi alla nostra pastorale ?… eppure… un semplice sguardo alla Bibbia in particolare all’antico testamento ci rivela che la musica, fin dagli inizi, appare come la sola arte che gli Israeliti sembrano aver praticato…Musica vocale e strumentale, religiosa e profana, benefica o malefica : tutti gli aspetti attuali del dominio musicale vi sono abbordati, tutti i momenti della giornata, tutte le époque dell’anno sono impregnati di canti imparati o improvvisati… musica sempre e dovunque…allora, non è da stupirsi ,che la musica abbia un posto importante nella vita degli zigani di ieri come di oggi, lei ne è l’espressione della vita quotidiana.
Julia Talon, musicologa nella sua memoria « La Musica e la costruzione dell’individuo », precisa che per quel che la riguarda « che essendo accessibile a tutte le popolazioni, la musica è un’arte che illustra l’appartenenza a un gruppo sociale, a una fascia d’età… » d’altra parte non è forse quello che esprime attualmente la maggioranza dei giovani Roma come Gadjé, che senza tregua si servono dei loro telefoni per ascoltare e condividere con i loro parenti musiche in cui si riconoscono e grazie alle quali rivendicano un’ identità, un posto, una storia.
Per Tony Gatlif, autore di numerosi film come Latcho Drom che servirà da supporto alla nostra riflessione, la musica è « il cemento che unisce gli umani » ,o ancora « Il soffio che permette di andare verso gli altri.
Questa è la dimensione che desideriamo esplorare durante il nostro incontro : quella di non considerare la musica come diabolica, la musica che è vista spesso come un luogo di perdizione quando è associata alla festa per, senza nascondere le difficoltà che ad essa si collegano (violenza, alcool), ridarle un senso di comunione, di reciprocità, di condivisione , di gioia e raggiungere in questo senso la « Gioia del Vangelo » come l’esprime il papa Francesco : « ci sono dei cristiani che sembrano avere un aria da Quaresima senza Pasqua »(n°6)
Concretamente questo rimanda ognuno , a lasciar interrogare il suo sguardo e i suoi sensi, per attraverso la musica di cui lei non è che un elemento, sentirsi invitare alla festa come spazio di pace e di incontro per quanto effimera essa sia…
Tutti noi abbiamo ,ne sono certo, fatto l’esperienza di quei momenti, in cui portati dalla musica, ci sentivamo in profonda comunione gli uni con gli altri, un lasso di tempo in cui cadono i muri, le barriere di razza , di religione o anche della gerarchia …per sostenere i miei propositi, mi basta pensare a quello che noi viviamo nei nostri incontri quando ciascuno di noi vibra , per esempio , al suono della musica di Viktor e altri gruppi musicali…in quel preciso momento, non c’è più bisogno di parlare , più bisogno di parole… la musica si fa silenzio interiore per lasciar uscire le emozioni che abitano in noi, gioia, malinconia, rivolta , evasione… La musica, e più particolarmente in questi decenni , con l’era delle nuove comunicazioni, è diventata più che mai creatrice di vincoli sociali…è uno strumento di costruzione o addirittura di ricostruzione per le persone in stato di fragilità instaurando una forma nuova di comunicazione…in questo senso molti musicisti non esitano a dare parte del loro tempo per andare verso persone in situazione di handicap, di malattia di precarietà…non so se questo esista altrove ma a Tolone un gruppo musicale porta il nome « senza voce » …un titolo sufficientemente evocatore per dire quanto la musica sia linguaggio…
Allora sapremo durante il nostro incontro lasciarci sorprendere, interrogarci , trasferire per collegare festa e vincoli sociali…
Sapremo anche ,più concretamente ,lasciarci destabilizzare dall’organizzazione di questi giorni nella misura in cui noi non cominceremo come d’abitudine con l’ascolto della nostra oratrice , ma con la proiezione di 4 estratti del Film Latcho Drom, seguita poi da un tempo d’incontro per il quale tutte le consegne sono state date agli animatori .
Si è proprio questo il tema del nostro incontro…tra festa e legame sociale Cosa significa questo legame creato dalla musica, che ne facciamo nei nostri incontri ? Come la sfruttiamo nella nostra pastorale ?…
Tante domande e altre ancora alle quali il nostro conferenziere Cristina Simonelli saprà questo pomeriggio chiarire, meglio di me , con il suo sguardo di teologo Non mi resta più che augurarvi un buon incontro nello spirito del CCIT cioè nell’ascolto e l’incontro dell’altro… Buon lavoro !!




le domande al centro della riflessione e del dialogo al CCIT 2017 di Madrid

CCIT 2017 Spagna

 

 

 

 

 

 

DOMANDE CARREFOUR

1. Frequentando i Rom-Sinti e ascoltando la loro/nostra musica:

• quali sono le nostre reazioni immediate?

• quale la nostra lettura dopo una seria riflessione e confronto con altri operatori?

• Ci è possibile cogliere il legame spontaneo con la loro vita nelle varie situazioni (feriali, di esclusione, festive, di lutto ecc.)?

2. Come può la Festa diventare un mezzo per superare e vincere i momenti difficili di un popolo?

3. La Musica che armonizza il Passato, Presente e Futuro, ma anche la vita, i drammi, il rifiuto, la festa, la religione ((ingegneria culturale). Come cogliere questo legame così intrecciato nelle vite dei Rom?

4. Le feste dei Rom-Sinti, ai nostri occhi, appaiono molto “sprecone” considerando il loro stile di vita “feriale” e l’attività della sopravvivenza, l’elemosina. “Ci sono Cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua.” (papa Francesco) . Chi rispecchia di più l’esperienza raccontata nella Parola della Bibbia?

5. Il CCIT è il nostro cammino frutto dell’incontro con il cammino dei Rom-Sinti. Questo viaggio particolare ha lasciato segni e tracce che ci hanno cambiato, donandoci uno sguardo nuovo attraverso suoni, riti, voci diverse. In questo cammino è mutata in noi anche l’immagine di Dio? Come?