un mondo pacifico si può costruire

Sharing society

 

antidoto alla violenza

la sharing economy deve poter diventare sharing society

l’economia della condivisione deve inverarsi in una società della condivisione

di Nunzio Galantino
in “Il Sole 24 Ore” del 18 giugno 2016

guardare negli occhi il nemico, toccarlo, parlarci è audacia, provarci è rottura di uno schema che porta insospettabili risultatiGalantino

Violenza provocata, violenza subìta. Violenza che ti sorprende mentre sei in casa o che provoca distruzione mentre si sta cercando faticosamente di guadagnare per sé e per gli altri il diritto di vivere la propria condizione. Ma… siamo inesorabilmente condannati alla contrapposizione violenta? Nei giorni passati mi è parso che la risposta fosse purtroppo già scritta e avesse il colore del sangue sparso nelle diverse parti del mondo. Eppure sono possibili risposte diverse, perché vi sono storie diverse. Ugualmente vere. Faticosamente, ma positivamente vere.

Ne scrivo perché le ho incontrate in questi giorni. «Ci avete già rubato la terra e ora mi vuoi rubare anche la forchetta?!». È iniziato così il rapporto tra Kamelia, giovane palestinese, e Elad, giovane israeliano, incontratisi per la prima volta a Rondine, Cittadella della Pace nei pressi di Arezzo. Lei era scesa un’ora prima alla stazione di Arezzo dove lui, arrivato il giorno prima, l’aspettava per accoglierla e accompagnarla appunto a Rondine. Senza ancora stringergli la mano – all’età di 24 anni avrebbe toccato per la prima volta un israeliano senza divisa militare – lei era salita sull’auto da lui guidata per una decina di chilometri. Compiva così il primo atto di fiducia, conseguente a quella scelta di entrare a far parte del percorso di formazione di due anni che, a Rondine, porta al rovesciamento dell’inimicizia in amicizia. Un incontro che subito graffia: guardare negli occhi il nemico, toccarlo, parlarci è audacia. Provarci è rottura di uno schema che porta insospettabili risultati. Sono risultati che qui, a Rondine, crescono sotto gli occhi stupiti degli stessi protagonisti. «Quando ti vidi per la prima volta non ti detti la mano, quando ci salutammo per l’ultima ho scelto di abbracciarti», dice Elmira, ex studentessa azerbajana, a Sevak, ex studente armeno. E, avendo parlato fino a un attimo prima del sangue che ancora si versa in Nagorno Karabakh, aggiunge con un bagliore stupito: «Come è stato possibile tutto questo?». Raccolgo con attenzione questi frammenti di dialogo, che aprono squarci nella riflessione, possibilità fino a ieri insperate e che, quindi, danno ali all’impegno e leniscono un po’ la sofferenza per le vittime di questi giorni e per quelle senza numero di cristiani ancora perseguitati. Se fossero due o quattro i giovani che attestano la disponibilità di Kamelia ed Elad, di Elmira e Sevak, si potrebbe pensare a un caso; invece, incontrando in tre giorni di Festival Internazionale (Youtopic fest) i 30 studenti presenti nello Studentato internazionale e alcune decine dei 170 ex studenti ritornati dai 25 Paesi del mondo, susseguitisi qui per 18 anni, sorge il dubbio contrario. Si giunge, infatti, a pensare che in questa realtà toscana avvenga davvero qualcosa al fondo dell’umano, che possa interessare non solo i protagonisti di tragici conflitti internazionali, ma anche noi, protagonisti spesso distratti e annoiati, spaesati e impauriti, delle nostre società europee. Le politiche che in esse si fanno facendo rischiano sempre più di farci soffocare pigramente nel mediocre paesaggio delle piccole domande, dove il banale finisce per essere il piccolo mascherato da grande. L’unico modo per sfuggire a questo pericolo consiste nel vigilare perché la banalità non prenda il sopravvento sull’autenticità e sul vero e perché la cultura avvelenata del nemico non l’abbia vinta. È incontrovertibile, del resto, che i sentimenti di inimicizia crescono e dilagano in alcuni luoghi del pianeta, attraversando il corpo sociale dell’intera famiglia umana, suscitati e attizzati da potenti trasformazioni. A loro volta, diffidenza e paura generano regressioni difensive che, strutturandosi anche in processi economici e proposte politiche, rallentano il progresso morale e civile, rievocando pericolosi fantasmi. Tra questi, uno appunto è sempre pronto a materializzarsi: il nemico. Il nemico trova sempre categorie umane da vestire con i suoi panni e genera una irresistibile e mostruosa forza attrattiva. La fabbrica del nemico è sempre produttiva: la cronaca, anche quella della settimana che si chiude, stenta perfino a darne conto. Perché… che si può scrivere di nuovo davanti alla follia omicida che spazza via la vita di 49 persone? Da Orlando a Parigi – ripiombata nell’incubo del terrorismo con l’assassinio di due pubblici ufficiali – a Londra, dove è stata barbaramente uccisa una giovane deputata laburista da uno squilibrato pro-Brexit; sul fronte siriano e iracheno, poi,  l’orrore sembra costretto ad arretrare, ma per esplodere in un Occidente ritenuto il principale nemico da abbattere. Sono situazioni che non possono essere affrontate semplicemente con parole di circostanza; portano, piuttosto, a chiedersi cosa stia succedendo nel nostro mondo. Compreso in quello che vorremmo fosse soltanto un mondo sportivo: non basta certo la vittoria della nostra Nazionale sul Belgio, nel quadro degli Europei in Francia, a farci dimenticare le vergognose violenze di questi giorni tra diverse tifoserie, anche qui all’insegna della logica del nemico, quasi che il calcio funzionasse semplicemente da detonatore, valvola di sfogo di disagi sociali, economici, culturali. A Rondine si insegna e si pratica l’opposto; ci si allena a vedere gli altri con uno sguardo nuovo, a creare linguaggi che possano rappresentare un ponte, contribuendo all’accoglienza e all’abbattimento di muri, ostacoli, sospetti e diffidenze. È partendo da esperienze come questa che si mette in piedi un sistema di smontaggio del nemico, di dissoluzione di questa categoria, svelando concretamente come esso sia frutto di una relazione malata, mentre proprio la cura della relazione – di ogni relazione – sia ciò che permette di giungere a guarigione. A Rondine la speranza ha il volto dei 27 studenti – splendidi ragazzi che mi hanno davvero commosso – che hanno concluso l’innovativo progetto di Quarto anno liceale d’eccellenza, provenienti da altrettante scuole e città di tutte le regioni italiane: sono testimoni su scala italiana della possibilità di educare a essere contemporaneamente unici e uniti, differenti e coesi, superando tutti i precursori del “nemico”: pregiudizio, isolamento, sfiducia, perdita di senso. Abbiamo bisogno di riscoprire la forza di una inedita reciprocità tra nemici, una Gegenseitigkeit, come dicono i tedeschi, che letteralmente descrive come due persone acquisiscono ciascuna qualcosa dell’altro, nell’incontro. Proprio attorno alla dinamica dell’incontro – come continua a ricordarci papa Francesco – occorre puntare incessantemente l’attenzione, per riscoprirne il dinamismo spirituale, culturale e sociale, crescere nella verità della relazione, imparare a smantellare difese inutili e autodistruttive, generare saggezza. Ne va della stessa nostra possibilità di restare umani. Del resto, più volte su queste pagine autorevoli studiosi hanno usato la parola fiducia per denunciarne la mancanza e diagnosticare che taluni processi sociali ed economici non potranno mai essere o tornare positivi senza di essa. Anche laddove i numeri e la dimensione più materiale dell’umano formano le coordinate fondamentali, senza “prodotti” immateriali come la fiducia essi non possono di fatto accadere. Per usare un adagio ricordato da Lamberto Zannier, segretario generale Osce, anch’egli presente a Rondine, «si può portare il cammello alla fonte, ma se non vuol bere…». Così, comprendiamo sempre meglio che la sharing economy deve poter diventare sharing society; che l’economia della condivisione deve inverarsi in una società della condivisione, ma questo non avverrà spontaneamente. Dovremo educarci ed educare a tutto questo e dovremo farlo presto, prima che sia troppo tardi. Vi sembra troppo? Forse, ma in tempo di tempeste oceaniche ci deve pur essere qualcuno che si fa carico di indicare la rotta; qualcuno che si faccia testimonianza e provocazione per la politica, a ogni livello, come per quella cultura che crede di risolvere tutto affidandosi a criteri di efficienza e di snellimento burocratico o riducendo impropriamente la rappresentanza, per consegnare il governo a poche persone se non a una sola.

l’autore è Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana