un ‘fascistometro’ per valutare il nosrto ‘fascismo linguistico’

‘nostro’ è la parola che più mi spaventa, il fascismo comincia dalle parole”

intervista a Michela Murgia

parla la scrittrice sarda, in libreria con

“Istruzioni per diventare fascista”

“Salvini? Mi fa paura”

 

da Huffpost

“Tutto comincia sempre dal puntare l’indice verso i diversi e le donne. Tutto comincia additando gli stranieri e gli omosessuali. Se vuole riconoscere i prodromi del fascismo, guardi come il Governo si comporta con le donne”. Parla così la scrittrice Michela Murgia, adesso in libreria con “Istruzioni per diventare fascista” (Einaudi), che ha generato un dibattito prevedibile nelle contestazioni, meno nei toni.

Numerose le domande e le provocazioni nel testo – che si conclude in un “fascistometro” in 65 punti – volte a riflettere sui tempi che stiamo vivendo. In ogni pagina risuona una celebre massima di Benito Mussolini: “Quando il fascismo si è impadronito di un’anima, non la lascia più”. E per raccontare le anime contemporanee Murgia – già vincitrice del Premio Campiello per l’Accabadora nel 2009 – si è immersa nel linguaggio e nel presente. “Tutto – mi spiega – nasce a Lucca dal desiderio di approfondire il tema del neofascismo, in una città che ne ha percentuali significative. Nasce anche dal confronto con l’attore Marco Brinzi, in scena con ‘Autobiografia di un picchiatore fascista’, e di un gruppo di persone che si domandavano cosa fosse giusto fare per rispondere a ciò che stava accadendo”.

La sua risposta?

La mia idea è stata quella di cominciare dal linguaggio. È come nell’arte erboristica: per ogni erba buona ce n’è una velenosissima che le assomiglia molto. Prendi due parole come “avversario” e “nemico” che apparentemente vogliono dire la stessa cosa. Le analizzi e ti rendi conto che una risponde a un pensiero democratico e una no. Il fascismo comincia dalle parole.

In questo dizionario, qual è secondo lei la parola più pericolosa?

Nostro.

Perché?

Perché racconta una comunità in cui la chiusura viene scambiata per identità. In cui l’appartenenza reciproca diventa un muro rispetto a quello che viene da fuori. Le nostre tradizioni, il nostro popolo, le nostre radici: queste affermazioni mi spaventano.

Mi spieghi meglio.

L’ossessione per il possesso difensivo rivela l’idea di un nemico, non una comunità. Di per sé, nostro non è una parola negativa. Lo diventa nei discorsi in cui devi spaventare le persone contro qualcuno e far credere che tutto ciò che è nostro ci verrà portato via.

Il libro è uscito da cinque giorni, e le polemiche sono quotidiane.

Se avessi voluto fare un esperimento sociologico per dimostrare che quello di cui scrivevo era reale, non avrei potuto agire meglio. Mi hanno accusato di tutto. Ma soprattutto di banalizzare il fascismo chiamando fascisti questi tempi.

Cosa le ha dato più fastidio?

La malafede. Questo è un libro sul presente e sul rischio che stiamo correndo, non sul fascismo storico. Viviamo in tempi razzisti, xenofobi, machisti: che cos’altro deve succedere per chiamarlo fascismo?

Me lo dica lei: che cosa?

Per me il discrimine è chiaro: fascista è chi il fascista fa.

Definisce il suo approccio metodico, non ideologico.

Il fascismo storico è un fascismo ideologico. C’era un manifesto fascista. C’erano documenti, leggi razziali, uno sviluppo tematico. In questo momento nessuno userebbe una simile esplicitazione. La stragrande maggioranza della gente si offende a essere chiamata fascista, anche i nostalgici.

Mi parli del fascismo metodico.

Il fascismo metodico è un modo antidemocratico di pensarsi dentro la democrazia, è un proto-fascismo. L’educazione all’irrisione dell’avversario fino al suo annichilimento, l’abitudine di immaginare un nemico che ci minaccia, la perpetua condizione di pericolo e l’idea che un capo unico e forte possa risolvere tutto sono elementi principe di questo metodo.

Umberto Eco lo chiamava “il fascismo eterno”.

Solo pronunciare questa parola, fascismo, genera fastidio in chi vuole usare tale metodo, ma non vuole usare la parola fascismo per non doverne rispondere come fenomeno. Se lo ricorda Marcello Dell’Utri che diceva “la mafia non esiste. È un’invenzione giornalistica degli anti-mafia, così hanno qualcosa di cui occuparsi?”.

Si, me lo ricordo.

Ecco: se neghi la parola, neghi il fenomeno. Se neghi il fenomeno, questo può svilupparsi senza rendere conto a nessuno.

Qual è stato il suo primo contatto con il fascismo?

Avevo quattordici anni. Una donna anziana, per molti anni presidente parrocchiale, figlia del podestà, mi parlava dei tempi del Duce con nostalgia. E mi diceva che allora tutto era in ordine, che tutti sapevano quale fosse il loro posto. Mi confessava che non sapeva adattarsi al cambiamento. Ma adattarsi al cambiamento è una caratteristica fondamentale dell’intelligenza evolutiva. Negando di averla, lei stava dichiarando la sua estinzione.

Eppure nel suo libro lei svela l’adattabilità del fenomeno, una resilienza quasi camaleontica.

Oggi siamo di fronte a qualcosa di diverso dal passato. Il dibattito pubblico sui social è una cosa nuova. Non c’era ai tempi di Spadolini o di Craxi, ma c’è ora. Questo abbassa nelle persone ogni potenziale conflittualità verso l’autoritarismo moderno.

In che modo?

Il fascismo mandava al confino i suoi avversari. Adesso, questi vengono lasciati sui social a esprimere la loro opinione in una sorta di instancabile rumore bianco. Le persone sono convinte che parlare sempre e comunque con tutti possa essere indice di libertà. Ma se quello che dici non conta niente, come si esprime la tua forza di dissentire?

Me lo dica lei.

(sospirando) Ormai i social sono una forma di disorganizzazione del dissenso.

Lei è Sarda. La Sardegna è razzista?

Essere razzisti sarebbe illogico: siamo un popolo di emigrati e tradizionalmente di dominati. Uno, dieci, cento sardi hanno paura dello straniero. Ma questo non fa di loro dei razzisti.

E l’Italia?

Io non penso che l’Italia sia razzista. I razzisti veri sono pochissimi. CasaPound ce l’abbiamo anche noi, certo, ma le organizzazioni che teorizzano il razzismo non vanno confuse con le popolazioni in preda a tentazioni xenofobe. Se con queste ultime è possibile utilizzare una pedagogia per arrivare alla riflessione, con i primi non ci può essere dialogo.

Secondo lei Salvini è fascista?

Poiché considero il fascismo un metodo, la sua modalità d’azione è sicuramente fascista.

Lei ha paura di Salvini?

Certo. Solo uno stupido non avrebbe paura di Salvini e di quello che sta facendo. Come si fa a non aver paura di un ministro degli interni che lascia una nave della Guardia Costiera, la Diciotti, in alto mare piena di persone sofferenti e stremate, solo per fare a braccio di ferro con l’Europa?

Luigi Di Maio è razzista?

No. Il Movimento Cinque Stelle in sé non è razzista, ma ha la colpa di essere accomodante rispetto a Salvini. Anche in questo caso se appoggi il razzista diventi razzista anche tu. Non si possono fare compromessi politici sui diritti umani.

Prima ha accennato al machismo come caratteristica di questo Governo.

È palese. La narrazione dell’uomo forte necessita di quella della donna fragile, docile e funzionale. Pensi alle foto di Elisa Isoardi che stira e le consideri materiale politico, come tutto quello che esce dai social di Matteo Salvini. Quando dice che “una donna deve sempre dare luce al suo uomo”, sostiene un’idea di docilità funzionale conservatrice e retrograda.

Come considera la norma in manovra secondo cui al terzo figlio si accede a un podere?

Una strategia comunicativa capace di distogliere l’attenzione. E di sostenere l’idea che la maternità sia un merito sociale e non una scelta personale. Se vuoi aiutare i genitori dai loro l’asilo gratis, la baby sitter di quartiere, tutele e sicurezze, non un podere!

Del disegno Pillon cosa pensa?

Fa arretrare la libertà delle donne sia in tema di divorzio che sulle denunce per violenza. Tutte le associazioni femministe sono unite in questa battaglia.

Le pare che questa reazione sia isolata?

No. Io vedo gli intellettuali reagire. Abbiamo uno schieramento pacifico che non si è mai verificato prima. Se tanti artisti e scrittori si mettono insieme vuol dire che il pericolo è percepibile in modo organico, e richiede una risposta organica.

Eppure questa stenta ad arrivare.

La colpa è della mancanza di un interlocutore politico che sia in grado di raccogliere tutto questo. Gli scrittori devono fare il loro mestiere. È la politica che non sembra più capace di fare il suo.