vivere o vivacchiare? vivere non è vegetare, ci ripete Tonino Bello

VIVERE NON È TRASCINARE LA VITA

”dammi, Signore, un’ala di riserva’

‘di don Tonino Bello

Voglio ringraziarti, Signore, per il dono della vita.
Ho letto da qualche parte che gli uomini sono angeli con un’ala soltanto:
possono volare solo rimanendo abbracciati.
A volte, nei momenti di confidenza, oso pensare, Signore,
che anche Tu abbia un’ala soltanto. L’altra, la tieni nascosta:
forse per farmi capire che anche tu non vuoi volare senza di me.
Per questo mi hai dato la vita: perché io fossi tuo compagno di volo.

Insegnami, allora, a librarmi con te. Perché vivere non è «trascinare la vita»,
non è «strappare la vita»,
non è «rosicchiare la vita».
Vivere è abbandonarsi, come un gabbiano, all’ebbrezza del vento.
Vivere è assaporare l’avventura della libertà.
Vivere è stendere l’ala, l’unica ala, con la fiducia di chi sa di avere nel volo
un partner grande come te!

Ti chiedo perdono per ogni peccato contro la vita.
Anzitutto, per le vite uccise prima ancora che nascessero.
Sono ali spezzate. Sono voli che avevi progettato di fare e ti sono stati impediti.
Viaggi annullati per sempre. Sogni troncati sull’alba.

Ma ti chiedo perdono, Signore, anche per tutte le ali che non ho aiutato a distendersi.
Per i voli che non ho saputo incoraggiare.
Per l’indifferenza con cui ho lasciato razzolare nel cortile, con l’ala penzolante,
il fratello infelice che avevi destinato a navigare nel cielo.
E tu l’hai atteso invano, per crociere che non si faranno mai più.
Perdonami, Signore!

Aiutami ora a planare, Signore.
A dire, terra terra, che l’aborto è un oltraggio grave alla tua fantasia.
È un crimine contro il tuo genio.
È un riaffondare l’aurora nelle viscere dell’oceano.
È l’antigenesi più delittuosa.
È la «decreazione» più desolante.

Ma aiutami a dire, anche, che mettere in vita non è tutto.
Bisogna mettere in luce. E che antipasqua non è solo l’aborto,
ma è ogni accoglienza mancata. È ogni rifiuto del pane,
della casa, del lavoro, dell’istruzione, dei diritti primari.

Antipasqua è la guerra: ogni guerra.
Antipasqua è lasciare il prossimo nel vestibolo malinconico della vita,
dove «si tira a campare», dove si vegeta solo.
Antipasqua è passare indifferenti vicino al fratello che è rimasto con l’ala,
l’unica ala, inesorabilmente impigliata nella rete della miseria e della solitudine.
E si è ormai persuaso di non essere più degno di volare con te.
Soprattutto per questo fratello sfortunato
dammi, o Signore, un’ala di riserva.

don Tonino Bello




la chiesa del grembiule che lascia in sagrestia i segni del potere

don Tonino Bello

il grembiule del sacerdote

da Altranarrazione 

 carissimo fratello sacerdote,

lascia in sacrestia non solo tutti i segni del potere e del lusso ma direi anche del ruolo (che pensi di svolgere).

Sono sicuro: Dio è allergico all’oro e rischiamo di metterlo seriamente in imbarazzo.

A lui piace il legno, soprattutto perché gli ricorda il momento in cui ha amato di più. Pensare a Lui nudo sulla croce e poi vederti con quei tessuti così finemente ricamati stona e scandalizza.

Il nostro Dio ha conosciuto un altro tipo di polvere: non quella dei riti ma quella della strada.

Il nostro Dio si è stancato, la sua missione l’ha sfinito.

Pregava, ma non credo avesse tempo per andare dal barbiere o in palestra.

Il nostro Dio non assomigliava ad un funzionario e neanche ad uno che conta socialmente. Ecco perché mi piacerebbe vederti ai semafori a parlare con i poveri più che presenziare alle inaugurazioni insieme alle c.d. autorità.

Informati sulle sofferenze che vivono disoccupati e precari, partecipa alle loro lotte di rivendicazione così sarai credibile quando parlerai del mistero e della straordinaria bellezza del matrimonio.

Sostieni concretamente le donne in difficoltà spirituale o materiale,  così sarai credibile quando parlerai in difesa della vita nascente.

Coinvolgiti in ogni sofferenza che esiste e separati solo per pregare.

Non stare rintanato nelle tue strutture mentali e non.

Fuori ti aspetta il Regno di Dio. Da costruire. Tutti insieme.

Con affetto ti auguro buon cammino.

testi di don Tonino Bello

“Forse a qualcuno può sembrare un’espressione irriverente, e l’accostamento della stola col grembiule può suggerire il sospetto di un piccolo sacrilegio. Sì, perché, di solito, la stola richiama l’armadio della sacrestia, dove, con tutti gli altri paramenti sacri, profumata d’incenso, fa bella mostra di sé, con la sua seta e i suoi colori, con i suoi simboli e i suoi ricami. Non c’è novello sacerdote che non abbia in dono dalle buone suore del suo paese, per la prima messa solenne, una stola preziosa. Il grembiule, invece, ben che vada, se non proprio gli accessori di un lavatoio, richiama la credenza della cucina, dove, intriso di intingoli e chiazzato di macchie, è sempre a portata di mano della buona massaia. Ordinariamente, non è articolo da regalo: tanto meno da parte delle suore per un giovane prete. Eppure è l’unico paramento sacerdotale citato nel Vangelo. Il quale Vangelo, per la messa solenne celebrata da Gesù della notte del giovedì santo, non parla né di casule né di amitti, né di stole né di piviali. Parla solo di questo panno rozzo che il Maestro si cinse ai fianchi con un gesto tipicamente sacerdotale. Chi sa che non sia il caso di completare il guardaroba delle nostre sacrestie con l’aggiunta di un grembiule tra le dalmatiche di raso e le pianete di samice d’oro, tra i veli omerali di broccato e le stole a lamine d’argento”.

don Tonino Bello, Chiesa, Stola e Grembiule, Edizioni Messaggero Padova, Padova 2006, p. 46-47

“Il problema delle nostre chiese locali è quello di passare da tende di parcheggio e di protezione per chi da sempre vi sta dentro, ad accampamenti di speranza e di salvezza per chi da tempo o da sempre ne sta fuori.”

don Tonino Bello, Chiesa, Stola e Grembiule, Edizioni Messaggero Padova, Padova 2006, p. 38

“Si tratta di fare affidamento su di loro, pensando che la salvezza del mondo Dio la opera per mezzo dei poveri. Si tratta di accettare che, come Gesù, pur essendo Dio, non ha disdegnato di farsi uomo e assumere la condizione del servo, così la chiesa, se vuole essere segno di epifania del Cristo, deve scegliere la strada dello svuotamento, della povertà. Si tratta in ultima analisi, di scegliere la strada battuta dagli ultimi come il luogo da dove parte la liberazione operata dal Signore”.

don Tonino Bello, Chiesa, Stola e Grembiule, Edizioni Messaggero Padova, Padova 2006, p.65




la riabilitazione del teologo Castillo esempio di chiesa “contemplattiva”

 papa Francesco riabilita J. Castillo

di: Jesús Bastante

Lorenzo Tommaselli ha tradotto questa riflessione di Jesús Bastante apparsa sulla rivista online Religión Digital lo scorso 21 aprile e ripresa dal sito Fine Settimana il 22 aprile 2018

«Due uomini innamorati di Dio e appassionati dell’uomo».

«Siamo sempre una Chiesa “contemplattiva”, innamorata di Dio e appassionata dell’uomo»

Questo venerdì il papa viaggiava verso la punta dello stivale italiano per rendere omaggio a don Tonino Bello, il vescovo-pastore del sud Italia (di Molfetta, ndt). Un anticipatore della Chiesa delle periferie che tanto promuove Francesco.

Alcune ore prima Bergoglio riceveva, abbracciava e riabilitava (oramai è il caso di togliere le virgolette) uno dei nostri migliori teologi e una bellissima persona: José María Castillo.

Tutti e due, “gesuiti irregolari”, da anni si seguivano senza vedersi. Francesco aveva già tentato di incontrare Castillo per lettera e per telefono, ma il momento dell’incontro è stato emozionante.

E, come Tonino Bello, Bergoglio e Castillo sono due esempi di questa Chiesa “contemplattiva” della quale ha parlato il papa ad Alessano. Uomini innamorati di Dio e appassionati dell’uomo. Persone di orazione e di azione, che non capiscono quest’assurda dissociazione tra le due realtà, intimamente legate in ogni seguace di Gesù.

Castillo e Bergoglio, il teologo e il papa, sono due uomini di profonda orazione e decisi nell’azione. Nell’insegnamento, nella predicazione e nell’esempio. Tutti e due si sono riconosciuti non appena si sono guardati negli occhi. La “teologia popolare” di José María Castillo è senza dubbio uno degli assi portanti della Chiesa-misericordia di Francesco.

Una Chiesa contemplattiva, che accoglie tutti, che non innalza muri tra gli uni e gli altri, che lavora per la riconciliazione e l’abbraccio invece delle porte chiuse e delle espulsioni sommarie. Anche se alcuni se ne dispiacciono, Castillo e Bergoglio trasudano Vangelo di Gesù, un uomo (il nostro Messia) che ha unito come nessuno l’azione del contemplativo e l’orazione dell’attivista.

Il Vangelo è questo, orazione e cammino, aiuto e abbraccio, sguardi e Parola. Costruzione di un mondo nuovo, in definitiva. Qualcosa in cui Castillo e Bergoglio, Francesco e José María sono maestri eccezionali. È un orgoglio far parte di questa storia benedetta.




la cosiddetta crisi delle vocazioni è forse crisi di identità evangelica della chiesa

la crisi delle vocazioni

«E tu Chiesa rinuncia pure ai segni del potere. Non convertono nessuno. Ma non rinunciare al potere dei segni. È un potere povero che dà fastidio, perché disturba il manovratore»

(Don Tonino Bello, 7/3/1987)

La diminuzione delle vocazioni sacerdotali e religiose in generale è un importante segno profetico che dobbiamo leggere con attenzione. Non possiamo farci sviare dalla lettura miope di quelli che attribuiscono il fenomeno alla c.d. crisi dei valori. Sarebbe sufficiente ricordare, a tal proposito, che nel periodo cattolicissimo di chiese e seminari pieni, di rosari quotidiani recitati nelle famiglie e di matrimoni senza divorzi formali, abbiamo avuto: fascismo, nazismo, Shoah, e due guerre mondiali con oltre 91 milioni di vittime. Viene da chiedersi: di quali valori si trattava? L’attuale crisi deve aprirci ad nuovo paradigma di testimonianza. Il tempo del celebrante liturgico che parla di sofferenze che non conosce è finito. La vera crisi infatti non è sui valori (che non ci sono mai stati nel mondo) ma sulla credibilità di sacerdoti e religiosi. Nella migliore delle ipotesi si mantiene una forma di rispetto, ma sono considerati sempre meno punti di riferimento. I “sì” fatti con il capino durante le omelie sono altrettanti “no” nella coscienza. Lo scollamento tra la “recita” domenicale e le decisioni nella vita concreta è imbarazzante. Allora come agire? La Chiesa deve fare innanzitutto un bagno di umiltà. E il Signore attraverso questa crisi sta provvedendo. Chi vuole bene a Dio e alla Chiesa deve gioire e non preoccuparsi. Anzi deve sperare che si aggravi il più presto possibile. Ciò deve portare ad nuovo paradigma si diceva sopra togliendo potere e denaro alla Chiesa. Calata di nuovo nella realtà diventerà segno di speranza e ritroverà  la sua vocazione. D’altronde nei palazzi ci si ammala, girano virus letali, agevolati  nella diffusione da riforme di compromesso e non radicali. Povera con i poveri, non ricca con i ricchi. Sofferente in cerca dei sofferenti, non potente in cerca dei potenti. Appunto comunità non istituzione burocratica, secondo il Vangelo.

testi di don Tonino Bello:

“Condividere, intanto, la ricchezza di noi singoli con gli ultimi. È necessario che ognuno faccia una revisione globale della propria vita. Forse i parametri che la sorreggono sono di fabbrica antievangelica”.

don Tonino Bello, Chiesa, Stola e Grembiule, Edizioni Messaggero Padova, Padova 2006, p.52

“Rivedere certe formulazioni tariffarie che danno l’impressione di una chiesa interessata più alla borsa dei valori che alla vita dei poveri, e insinuano il sospetto che anche i sacramenti si diano dietro il compenso segnato dal listino prezzi. Studiare le forme adatte per mettere in circuito di fruibilità terreni, case, beni in genere, appartenenti alla chiesa. Esaminare il problema di come restituire agli ultimi case religiose vuote e conventi chiusi. Eliminare lo spreco delle feste che si fanno in nome dei santi o col pretesto di onorarli. Educare chi si blocca di fronte al sospetto sistematico che sotto forme di pseudo povertà si camuffi il raggiro degli imbroglioni, avendo per certo che è molto meglio rischiare di mandare a piene mani nove impostori su dieci, che mandar via a mani vuote il solo bisognoso. Infine condividere con gli ultimi la loro povertà. Parlare il loro linguaggio. Entrare nel loro mondo attraverso la porta dei loro interessi. Aiutarli a crescere, rendendoli protagonisti del loro riscatto, e non terminali delle nostre esuberanze caritative o destinatari inerti delle nostre strutture assistenziali. […] Per le nostre comunità parrocchiali si pongono allora alcuni interrogativi concreti: i poveri si sentono a casa nelle nostre assemblee? Ha peso il loro parere nelle decisioni comunitarie?”.

don Tonino Bello, Chiesa, Stola e Grembiule, Edizioni Messaggero Padova, Padova 2006, p.53-54

pubblicato da ‘altranarrazione’

 




un augurio di buona pasqua con le parole di Tonino Bello

Cari amici,

come vorrei che il mio augurio, invece che giungervi con le formule consumate del vocabolario di circostanza, vi arrivasse con una stretta di mano, con uno sguardo profondo, con un sorriso senza parole!
Come vorrei togliervi dall’anima, quasi dall’imboccatura di un sepolcro, il macigno che ostruisce la vostra libertà, che non dà spiragli alla vostra letizia, che blocca la vostra pace!
Posso dirvi però una parola. Sillabandola con lentezza per farvi capire di quanto amore intendo caricarla: “coraggio”!
La Risurrezione di Gesù Cristo, nostro indistruttibile amore, è il paradigma dei nostri destini. La Risurrezione. Non la distruzione. Non la catastrofe. Non l’olocausto planetario. Non la fine. Non il precipitare nel nulla.
Coraggio, fratelli che siete avviliti, stanchi, sottomessi ai potenti che abusano di voi.
Coraggio, disoccupati.
Coraggio, giovani senza prospettive, amici che la vita ha costretto ad accorciare sogni a lungo cullati.
Coraggio, gente solitaria, turba dolente e senza volto.
Coraggio, fratelli che il peccato ha intristito, che la debolezza ha infangato, che la povertà morale ha avvilito.
Il Signore è Risorto proprio per dirvi che, di fronte a chi decide di “amare”, non c’è morte che tenga, non c’è tomba che chiuda, non c’è macigno sepolcrale che non rotoli via.
Auguri. La luce e la speranza allarghino le feritoie della vostra prigione.
Vostro don Tonino, vescovo




come spiegare facilmente il mistero più difficile

Come spiegare la Trinità?

don Tonino Bello 

“Io ai miei zingari sai come spiego il mistero di un solo Dio in tre Persone? Non parlo di uno più uno più uno: perché così fanno tre. Parlo di uno per uno per uno: e così fa sempre uno. In Dio, cioè, non c’è una Persona che si aggiunge all’altra e poi all’altra ancora. In Dio ogni Persona vive per l’altra.

E sai come concludo? Dicendo che questo è uno specie di marchio di famiglia. Una forma di ‘carattere ereditario’ così dominante in ‘casa Trinità’ che, anche quando è sceso sulla terra, il Figlio si è manifestato come l’uomo per gli altri” (don Vincenzo)

trinità

 Bello
carissimi fratelli,
l’espressione me l’ha suggerita don Vincenzo, un prete mio amico che lavora tra gli zingari, e mi è parsa tutt’altro che banale.
Venne a trovarmi una sera nel mio studio e mi chiese che cosa stessi scrivendo. Gli dissi che ero in difficoltà perché volevo spiegare alla gente (ma in modo semplice, così che tutti capissero) un particolare del mistero della Santissima Trinità: e cioè che le tre Persone divine sono, come dicono i teologi con una frase difficile, tre relazioni sussistenti.
Don Vincenzo sorrise, come per compatire la mia pretesa e comunque, per dirmi che mi cacciavo in una foresta inestricabile di problemi teologici. Io, però, aggiunsi che mi sembrava molto importante far capire queste cose ai poveri, perché, se il Signore ci insegnato che, stringi stringi, il nucleo di ogni Persona divina consiste in una relazione, qualcosa ci deve essere sotto.
E questo qualcosa è che anche ognuno di noi, in quanto persona, stringi stringi, deve essere essenzialmente una relazione. Un io che si rapporta con un tu. Un incontro con l’altro. Al punto che, se dovesse venir meno questa apertura verso l’altro, non ci sarebbe neppure la persona. Un volto, cioè, che non sia rivolto verso qualcuno non è disegnabile…
Colsi l’occasione per leggere al mio amico la paginetta che avevo scritto. Quando terminai, mi disse che con tutte quelle parole, la gente forse non avrebbe capito nulla. 
Poi aggiunse: “Io ai miei zingari sai come spiego il mistero di un solo Dio in tre Persone? Non parlo di uno più uno più uno: perché così fanno tre. Parlo di uno per uno per uno: e così fa sempre uno. In Dio, cioè, non c’è una Persona che si aggiunge all’altra e poi all’altra ancora. In Dio ogni Persona vive per l’altra.
E sai come concludo? Dicendo che questo è uno specie di marchio di famiglia. Una forma di ‘carattere ereditario’ così dominante in ‘casa Trinità’ che, anche quando è sceso sulla terra, il Figlio si è manifestato come l’uomo per gli altri”.
Quando don Vincenzo ebbe finito di parlare, di fronte a così disarmante semplicità, ho lacerato i miei appunti.
Peccato: perché, tra l’altro, avevo scritto delle cose interessanti. Per esempio: che l’uomo è icona della Trinità (“facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”) e che pertanto, per quel che riguarda l’amore, è chiamato a riprodurre la sorgività pura del Padre, l’accoglienza radicale del Figlio, la libertà diffusiva dello Spirito.
Ero ricorso anche a ingegnose immagini, come quella del pozzo di campagna la cui acqua sorgiva viene accolta in una grande vasca di pietra e di qui, in mille rigagnoli, va a irrigare le zolle.
Ma forse don Vincenzo aveva ragione: avrei dovuto spiegare molte cose. Sicché ho preferito trattenere questa sola idea: che, come le tre Persone divine, anche ogni persona umana è un essere per, un rapporto o, se è più chiaro, una realtà dialogica. Più che interessante, cioè, deve essere inter-essente.
don Tonino Bello
 



20 aprile: giorno anniversario della morte di don Tonino Bello

caro don Tonino…

13006473_10153981267473819_331024970992478110_n

lettera aperta a don Tonino Bello

nel giorno dell’anniversario della sua morte


20 aprile 2016

 Renato Sacco

coordinatore nazionale di Pax Christi

Caro don Tonino,
nell’anniversario della tua nascita al cielo pensavo di scrivere alcune righe per ricordare, anche a chi non ti ha conosciuto, le tante cose belle che hai fatto durante la tua vita. Ma non ci sono riuscito, e allora scrivo direttamente a te, non per imitare la tua grande capacità di scrivere lettere personali un po’ a tutti, non ne sono capace, ma perché così posso dirti liberamente alcuni pensieri, come mi vengono…
Volevo dirti che qui, sulla terra, abbiamo ancora bisogno di te: aiutaci a non perdere il coraggio di essere “in piedi, anzi in marcia, costruttori di pace”. Perché tira un’aria di guerra mica male.
Nel 2015 si sono spesi nel mondo quasi 1700 miliardi di dollari in armamenti.
Ti sarà giunta notizia anche lassù che l’Italia vende armi un po’ a tutti, anche ai Paesi sostenitori dell’Isis: Arabia Saudita, Qatar. Facciamo affari d’oro proprio con le armi! Altro che sogno di Isaia “forgeranno le lance in falci…”! Ma di guerre ce sono un mucchio, più o meno dimenticate. Ovviamente continua il progetto degli aerei F35 e qualcuno ha brindato perché Finmeccanica ha venduto al Kuwait ben 28 aerei da guerra Eurofighter Typhoon. Pensa che qualche autorevole quotidiano titolava mesi fa: “Quelle idee appassite: essere pacifisti in un mondo così bellicoso”.
Come vedi non è cambiato molto dai tuoi tempi, la cultura della guerra ha buone radici e forti sponsor. Insomma, come scrivevi tu, nella tua lettera ad Abramo, c’è ancora “nell’aria odore di zolfo”.

Tonino Bello
A dire il vero c’è papa Francesco (sai che molti vedono grandi somiglianze tra voi due) che continua a denunciare questa follia delle armi e della guerra, è arrivato anche a dire “Maledetti”. Ma per lui tira un’aria un po’ difficile. Molti lo criticano in modo esplicito, altri in modo più sottile. E tu sai bene cosa vuol dire essere criticato, anche pesantemente: lettere inviate a Roma con i tuoi scritti giudicati poco ortodossi, critiche per non aver usato il “pilleolo” durante una celebrazione, critiche per essere andato a Bari, allo stadio, nel luglio 1991 quando arrivarono migliaia di profughi dall’Albania. “A fame peste et bello… libera nos domine”, scrisse qualcuno.
E Francesco viene criticato per le sue aperture che “rovinano” la Chiesa, per essere andato l’altro giorno a Lesbo e aver portato con sé al ritorno 12 profughi. Tu ne sai qualcosa, visto che avevi ospitato in casa tua alcune famiglie sfrattate…
E allora ti chiedo, cerca (cercate un po’ tra tutti voi di lassù) di sostenere questo Papa. Anche noi ci proviamo a non lasciarlo solo, ma un vostro aiutino dall’alto non guasta. E, già che ci sei, dai un occhio anche a tutto il popolo della pace e anche a noi di Pax Christi che ci troviamo in assemblea nei prossimi giorni ad Assisi, (Misericordia è disarmo, giustizia, condivisione) proprio nella città di un altro Francesco, a te molto caro, visto che sulla tua tomba c’è scritto ‘terziario francescano’.
Che dire ancora? Grazie don Tonino!!
d. Renato Sacco,
coordinatore nazionale di Pax Christi




Tonino Bello un grande vescovo precursore di papa Francesco

don Tonino, il prete che sposò la pace

di Sandra Amurri

in “il Fatto Quotidiano” del 4 aprile 2016

Bello

Figlio del Concilio Vaticano II, precursore di Papa Francesco, di quella “Chiesa del grembiule contro la Chiesa delle Stole” per usare una metafora a lui cara, don Tonino Bello, il vescovo di Molfetta che non si fece mai chiamare Monsignore, è nato ad Alessano, a pochi chilometri da Santa Maria di Leuca, lembo estremo del Salento dove i due Mari, Adriatico e Ionio, si separano dando vita a uno spettacolo imperdibile.

Consumato dal cancro: aveva soltanto 58 anni

E qui è stato sepolto a 58 anni, consumato dal cancro. A dare l’ultimo saluto al Vescovo, Presidente di Pax Christi, nel porto di Molfetta, arrivarono 60 mila persone. Malattia che non gli impedì, solo quattro mesi prima, di partecipare alla “marcia dei 500” pacifisti che violarono il divieto di entrare nella Sarajevo assediata. “Il seme della nonviolenza attecchirà?”, si chiede nel diario da Sarajevo. “Sarà possibile cambiare il mondo col gesto semplice dei disarmati quando le istituzioni non si muovono? E il popolo si potrà organizzare per conto suo e collocare spine nel fianco a chi gestisce il potere? ”. E qual è “il tasso delle nostre colpe di esportatori di armi in questa delirante barbarie?”. Domande che irrompono nella drammatica attualità, definita da Papa Francesco: “La terza guerra mondiale a pezzi”.

Qui nella Piazza di Alessano che porta il suo nome c’è la sede della Scuola della Pace e la casa di famiglia trasformata in Fondazione. Leggendo il librone all’ingresso si capisce che, giovani e meno giovani, non arrivano fin qui, da ogni parte d’Italia, spinti da un retorico esercizio della memoria ma dal bisogno di condividere i suoi valori, oggi più che mai, oggi, faro in questa eclissi permanente di umanità.

“Caro Don Tonino, mi sforzo di assomigliarti”, scrive Paola, 18 anni di Napoli, mentre Luca, 50 anni: “Mi manchi”. Mancano gli esempi: quando la parola è credibile perché impastata con la coerenza. “Cari fratelli, solo se avremo servito potremo parlare e saremo creduti…” leitmotiv delle sue omelie.

tonino_bello4

A farci da Cicerone, Stefano Bello, nipote del Vescovo di Molfetta che lavora in un centro di riabilitazione psichiatrica, papà di Tonino, un bimbo di 5 anni, ancora ignaro di essere unico erede di tanto nome. Varchiamo l’ingresso del cimitero, sulla destra, un anfiteatro in miniatura, al centro, un’aiuola dove è adagiata una grande pietra con su una piccola scritta: don Tonino Bello, terziario francescano, vescovo di Molfetta- Ruvo-Terlizzi-Giovinazzo.

Nato ad Alessano il 18 marzo 1935, morto a Molfetta il 20 aprile 1993”. Intorno grandi massi dove sono state scolpite alcune delle frasi più significative del Vescovo visionario che scriveva preghiere poetiche sul molo, mentre il sole scompariva all’orizzonte: “Ama la gente, i poveri soprattutto. E Gesù Cristo”…”. In piedi, costruttori di pace”. Quella Pace che campeggia anche sullo striscione appeso a due alberi, per don Tonino non era solo assenza di guerra, ma ricerca costante di verità e giustizia sociale.

Come il ritornello della canzone che, in una sera di pioggia scrosciante, intonavano i bimbi di Kiseljak, e che don Tonino aveva registrato: “Mir, do neba, do moga naroda, kada se probude da rata ne bude…”.

(Pace fino al cielo, fino al mio popolo, affinché al risveglio non trovi la guerra).

Un figlio della guerra nato senza camicia

Nato da una famiglia povera aveva provato il dolore per la perdita degli affetti più cari morti in guerra. La mamma Maria, rimasta sola, sfamava lui e i suoi due fratelli, Marcello e Trifone, con le verdure che raccoglieva nei campi e con quei pochi denari che racimolava ricamando e facendo la domestica. Tonino per studiare fu mandato in seminario a soli 10 anni. Quando, terminati gli studi a Bologna tornò a Tricase come parroco scrisse: “Grazie terra mia, piccola e povera che mi hai fatto nascere povero come te e mi hai dato la ricchezza di capire i poveri e di potermi oggi disporre a servirli”. Divenuto Vescovo, a chiunque bussasse alla porta, credenti e non, offriva “una parola e una frisa”. Con l’avvento dell’equo canone molte famiglie povere vennero sfrattate “Zio le ospitò nell’ Arcivescovado” racconta Stefano. Non perdeva occasione di criticare i politici

“Ero un bambino, ma ricordo benissimo un giorno, dopo tre ore di auto, arrivammo a Molfetta per cenare con lo zio e ripartire l’indomani mattina ma lui ci rispedì a casa, dicendoci con un sorriso che lì non c’era posto e noi un tetto dove dormire l’avevamo”.

Non perdeva occasione per bacchettare i politici di non fare nulla o, di fare poco, contro la povertà. Tant’è che smisero di partecipare al consueto appuntamento per gli auguri natalizi per non “subire” le sue prediche-ramanzine. Ma don Tonino non si arrese, le registrò e inviò loro le cassette. Così come non lasciò soli gli operai delle acciaierie di Giovinazzo, sfilò accanto a loro contro la chiusura dello stabilimento. E dal palco spiegò: “La Chiesa ha il compito di schierarsi con gli ultimi. E in questo momento gli ultimi siete voi. Stare con voi significa anche condividere la vostra protesta contro una politica che non ha salvaguardato i livelli occupazionali attraverso le necessarie riconversioni e ristrutturazioni….”. Ma fece di più, per sostenerli, prelevò undici milioni di lire dal fondo per la costruzione delle chiese. Non aveva alcun timore reverenziale. Da poco eletto Presidente di Pax Christi, non esitò a scrivere una lettera di fuoco a Indro Montanelli, direttore de “Il Giornale”, che in un articolo di fondo aveva ridicolizzato monsignor Bettazzi accusandolo di invitare all’evasione fiscale, anziché all’obiezione fiscale (non pagare tasse finalizzate all’acquisto delle armi).

Polemiche scomode, mal digerite anche all’interno della Chiesa.

A sostenerlo David Maria Turoldo: “Caro don Tonino, mi dicono che sei stato richiamato perché parli troppo contro le armi… dì pubblicamente che sei stato richiamato perché di questo hanno paura. Sono anche vili, come sappiamo: forti con i deboli e deboli coi forti. Per amore dei poveri e della verità; e cioè per amore della Chiesa e della pace, non scoraggiarti, caro fratello vescovo! Di vescovi in cui confidare ce ne sono così pochi!”.

E, forse, nessuno, che nel cuore della notte, alla guida della cinquecento, andava alla stazione a raccogliere i barboni o che scriveva ad un immigrato parole di fratellanza, la grande assente alla tavola della modernità: “Dimmi,fratello marocchino ma sotto quella pelle scura hai un’anima pure tu? Quando rannicchiato nella macchina consumi un pasto veloce, qualche volta versi anche tu lacrime amare nella scodella?… Perdonaci se, pur appartenendo a un popolo che ha sperimentato l’amarezza dell’emigrazione, non abbiamo usato misericordia verso di te. Anzi ripetiamo su di te, con le rivalse di una squallida nemesi storica, le violenze che hanno umiliato e offeso i nostri padri in terra straniera. Perdonaci, se non abbiamo saputo levare coraggiosamente la voce per forzare la mano dei nostri legislatori… Un giorno, quando nel cielo incontreremo il nostro Dio, questo infaticabile viandante sulle strade della terra, ci accorgeremo con sorpresa che egli ha il colore della tua pelle. P.S. Se passi da casa mia, fermati”. L’unico riferimento è sempre stato il Vangelo

La chiave del suo operato, come spiega efficacemente il Vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, Vito Angiuli, è “mettere in pratica il Vangelo sine glossa e sine modo”, cioè senza aggiunte o menomazioni. “Ma anche senza confini e senza misura”. E così la sua utopia resiste oltre la morte e vive nelle viscere della terra oltraggiata e nel sangue dolente degli ultimi.




i primi 6 capitoli della biografia di Tonino Bello

tonino_bello4

 

BIOGRAFIA DEL SERVO DI DIO ANTONIO BELLO

di Sergio Magarelli

 

(l’ho trovata su fb e la pubblico volentieri, purtroppo coi limiti con cui l’ho trovata, cioè con i tanti sbagli contenuti nel primo capitolo non rivisto)

1. La croce del sud

I trattati di pace del 1919 e del 1920, all’indomani della prima guerra mondiale, avevano in qualche modo arginato i problemi causati dal grande conflitto. Una delle novità più concreteed innovative di quella fittissima rete diplomatica fu la creazione della Società delle Nazioni, una Organizzazione internazionale che doveva garantire alle popolazioni vittime della guerra il mantenimento della pace e di un nuovo assetto politico e sociale.

Le aspettative furono peròdeluse, perché una radicale trasformazione dei sistemi politici nell’Europacentro-occidentale e l’avvento di Hitler al potere (30 gennaio 1933),rappresentarono una seria minaccia alla pace. Infatti, il principale obiettivodella politica nazista era quello di assicurare alla Germania un incontrastatodominio su tutti gli altri Stati, e per raggiungere questo scopo Hitler nonrisparmiò mezzi antidemocratici, nonché brutali.

Nell’ostacolare il grave pericoloche ormai la Germania rappresentava, i Paesi europei ed extra-europei nonavevano che pochissime scelte: o costituire una coalizione contro la Germania,o allacciare con essa relazioni diplomatiche per evitare dissapori cheavrebbero potuto degenerare pericolosamente. La seconda possibilità fupreferita alla prima.

Ma le nuove relazioniinternazionali, in realtà, non fecero altro che nascondere le vere crisipolitiche e le apparenti distensioni che di lì a poco avrebbero generatol’orrore più inspiegabile che la storia ha poi partorito: la seconda guerramondiale. Erano quelli gli anni che vedevano l’Italia passare dallo Statoliberale alla dittatura fascista; erano gli anni della politica imperialistica.E mentre tutto questo accadeva, nel 1935 un’altra storia, una tutta d’amore,preparava Maria Imperato a partorire Tonino, la contropartita alla guerra, luiche della pace farà l’anelito più grande della sua vita.

Era il 18 marzo. Alessano,piccolo paese in provincia di Lecce, metteva alla luce l’ennesimo figlio, anchelui destinato a fare i conti con la povera condizione meridionale. Quella delsud è una realtà difficile da spiegare, è una “croce” ormai radicata da secoliin una avversa congiuntura storico-sociale che, accompagnata anche da pochi edinefficaci interventi di natura politica, non ha permesso di allontanare il meridionedal suo antico stato di arretratezza. Anche Alessano è coperta dall’ombra diquesta croce.

L’abitazione della famiglia Belloera sistemata in via Scipione Sangiovanni, al numero civico 17. E fu proprio lìche il piccolo Tonino aprì gli occhi al sole consegnando all’anagrafe, e allastoria, il suo nome: Antonio Giuseppe Mario Bello. Il papà, Tommaso, in passatoera già stato sposato e da quel matrimonio erano nati due figli maschi:Giacinto Antonio Carmine e Vittorio Nunzio Emilio. Rimasto poi vedovo, sposò inseconde nozze Maria Imperato dalla quale ebbe altri tre bambini. Tonino fu ilprimo a nascere, e a lui seguirono in ordine Trifone Nazzareno e MarcelloFernando.

Tommaso, che era maresciallo deicarabinieri in congedo, fece appena in tempo a mettere al mondo i suoi tre caripargoletti perché da loro, e dalla moglie Maria, dovette veramente congedarsiper sempre. La stessa sorte toccherà ai due figli del primo matrimonio.Carmine, che era radiotelegrafista sui MAS, morirà per infarto a Milano, nell’abitazionedella sua fidanzata. Vittorio, cannoniere in Marina, perderà la vita in seguitoall’affondamento della corazzata “Roma”. Era in pieno svolgimento la grandeguerra.

La croce del sud aveva cosìallungato la sua ombra, oscurando la casa e la famiglia Bello. Ma la signoraImperato con i suoi tre piccoli, messa a dura prova dal destino, non si lasciòcadere nella disperazione e nello sconforto. Anzi! Lo stesso Tonino, quandosarà vescovo, racconterà così: «Sono nato in una famiglia molto modesta, mamolto amante del Signore. Ho perduto mio padre a cinque anni. Ma mia madre nonsi è scoraggiata ed ha avuto molta fiducia nel Signore. Non era una bigotta edha condotto avanti tutta una famiglia».

Arrivarono per Tonino i tempidestinati a ricevere i primi sacramenti. Battesimo e Cresima gli furonoamministrati nella chiesa di Alessano, a volte designata come la cattedrale delpaese. Fu prorpio in questo luogo che Tonino cominciò a muovere i primi passidi un lungo cammino, imparando di certo qui il passo degli “ultimi” che loporterà alla sequela di Cristo.

I primi passi nella vita sonosempre i più difficili e non raramente si è soli in questa circostanza; Tonino,invece, ebbe attorno a sé qualcuno che intuì in lui inclinazioni particolari.Don Carlo Palese, per esempio, che era il parroco del paese, aveva già capitoche in quel ragazzo si sarebbe realizzato un grande progetto e lo seguiva conparticolare attenzione nella sua crescita spirituale. Anche la mamma, lasignora Maria, vuole la sua parte nell’aver accreditato al proprio figliolo unagiusta strada. Anzi, fu proprio lei a confidare al parroco, don Carlo, le sueintenzioni su quello che sarebbe stato di Tonino.

Infatti, quando il ragazzoterminò le elementari, i parenti non avevano alcun minimo sospetto di ciò chesarebbe accaduto. Per loro era normale pensare che Tonino frequentasse lascuola media nel proprio paese. Rimasero invece stupefatti quando vennero asapere che il ragazzo stava per essere avviato al seminario diocesano diUgento, dove avrebbe dovuto compiere gli studi ginnasiali. Questo fu decisodalla mamma, e Tonino consenziente rimase contento.

Nel paese, intanto, il piccoloTonino aveva già iniziato a conoscere la “sua” gente. Coetanei e adultidivennero subito i suoi privilegiati interlocutori. Nel tempo libero anche ilmare diventò la sua grande passione. Le lunghissime nuotate e gli interminabilituffi nel mare di Leuca lo vedevano assoluto protagonista di vere e propriegare con amici. Nel nuoto non aveva rivali, era il migliore. Anche da adultoconserverà questo entusiasmo per il mare. Quando il tempo e il lavoro gliconcedevano un po’ di tregua ne approfittava per trasferirsi nella sua terrad’origine, dove trascorreva brevi vacanze a nuotare nel mare di Santa Maria diLeuca.

Tutta l’infanzia fu da Toninovissuta nella semplicità e nell’umiltà, e in quei valori si forgiò il suo animoe la sua personalità. Era ormai pronto a realizzare quel grande progetto che sistava manifestando per volontà di sua madre. Intanto la seconda guerra mondialeera da poco finita. La miseria, la disoccupazione, le distruzioni furono anchein Italia le sue conseguenze. La gente iniziò a trovare fortuna altrove,lasciando le proprie città per recarsi in terre lontane.

Anche per Tonino giunse il giornodella partenza, il seminario di Ugento apriva le sue porte al novellinoalessanese. Ugento non dista poi tanto da Alessano, ma se pensiamo che neglianni quaranta le strade erano ancora senza asfalto, anche le distanza più brevidiventavano irraggiungibili. Basti pensare pure che l’unico mezzo di trasportodisponibile a quei tempi era il cavallo, e fu proprio uno di questi a tirare ilcalesse su cui viaggiava Tonino accompagnato dalla mamma e dal parroco donCarlo. Quel primo distacco fu veramente doloroso. Nonostante la giovane età,Tonino vide passare attorno al suo cuore una schiera di sentimenti che in luidiedero vita a qualche lacrima. Lasciava alle sue spalle Alessano, i fratelliniTrifone e Marcello, i piccoli amici del paese, ma nel cuore se li portavatutti.

Don Tito Oggioni Macagnino, cheall’epoca nel seminario di Ugento era vice prefetto di disciplina e incaricatodell’accoglienza dei novellini, racconta così il suo primo incontro con Tonino:«Ricordo le lacrime di quel ragazzino confuso e smarrito quando i parenti, lamamma soprattutto, andarono via e rimase solo con i seminaristi e i superiori.Aveva paura di non farcela e voleva tornare a casa da mamma Maria. Non so cosadissi e feci per distrarre e confortare il novellino, ma la serata andò per ilmeglio tra presentazioni, conoscenze e ricreazione improvvisata nei corridoi.Nei giorni successivi tutto si rasserenò! Venne a trovarlo anche il suoparroco. E la vita del seminario andò avanti».

Nel seminario di Ugento iniziòuna nuova vita. Gli anni di permanenza in quell’ambiente di formazioneculturale e spirituale furono cinque. Qui Tonino frequentò i tre anni dellemedie e i due del ginnasio, il suo impegno nello studio e in tutte le attivitàcomunitarie richiamarono l’attenzione dei superiori i quali, compiaciuti per ledoti di quel ragazzo, non ebbero grandi difficoltà a prevedere per lui unfuturo ricco di grandi soddisfazioni.

Erano quelli gli anni dellaadolescenza. Anni difficili per la crescita di ogni ragazzo; anche Toninoattraversò quei momenti importanti e da adulto li ricorderà con queste parole: «Ricordoi miei anni del ginnasio, un mare di dubbi. Dubitavo perfino della mia capacitàdi affrontare la vita. Che età difficile! Hai paura di non essere accettatodagli altri, della tua capacità di impatto con gli altri e non ti fai avanti. Epoi problemi di crescita, problemi di cuore».

E già, problemi di cuore! Anchese questi non mancarono, non furono mai tanto pericolosi da mettere a rischiola vocazione sacerdotale. Quest’ultima era ormai evidente, Tonino avevamaturato la sua scelta. Una scelta definitiva. Una volta, in una intervista,gli chiesero se aveva mai avuto la tentazione di tornare indietro. Quale fu larisposta? Eccola: «La tentazione del ritorno sui propri passi è una tentazionedi tutti. Sarei stato un anormale se non avessi avuto la tentazione a tornareindietro. Però ho visto che era molto bello dare una mano al Signore perannunciare il Regno di Dio in questo modo».

Terminati gli studi ginnasiali,Tonino si trasferì al seminario regionale di Molfetta per compiere i tre annidi liceo. Qui conseguì la maturità a pieni voti ma con gli occhi di tutti iprofessori puntati su di lui. Persino il vescovo di Ugento, monsignor Ruotolo,constatò di persona l’intelligenza e la cultura di Tonino e pensò ditrasferirlo a Bologna, presso il seminario ONARMO a studiare Teologia. Ilseminario ONARMO differisce dagli altri per il semplice motivo che prepara ifuturi sacerdoti ad avere contatti con il mondo operaio, una realtà, questa,delicata ed importante. In quel periodo, inoltre, arcivescovo di Bologna era ilcardinale Lercaro, un nome abbastanza conosciuto negli ambiente della Chiesacattolica; addirittura era uno tra i più papabili alla morte di papa GiovanniXXIII. Era noto a tutti l’impegno del cardinale Lercaro per la riformaliturgica, e lo stesso Tonino, che era alla “corte” dell’arcivescovo bolognese,di questa corrente condivideva i canoni.

Era contento di quella esperienzache stava vivendo, ed era altresì soddisfatto di come procedevano i suoi studi.L’esperienza vissuta nel capoluogo emiliano, durata cinque anni, fu decisiva edeterminante per la formazione sacerdotale del giovane Antonio Bello, ormaipronto ad essere consacrato al Signore.

 

 

2. Prete a ventidue anni!

 

 

Era il 1957. Tonino a Bolognaaveva terminato il quadriennio di Teologia. E dopo essere stato consacratoDiacono dallo stesso cardinale Lercaro, si accingeva a realizzare il suo piùgrande sogno. Ma per la giovanissima età, appena ventidue anni, occorreva unadispensa che autorizzasse l’Ordinazione sacerdotale. Il vescovo di Ugento –Santa Maria di Leuca, monsignor Ruotolo, che conosceva Tonino e che era giàstato informato della incredibile stima che il giovane contava, non trovòalcuna difficoltà a concedere l’autorizzazione. E fu lui stesso a presiedere ilrito di consacrazione l’8 dicembre 1957, festa dell’Immacolata, nella chiesa diAlessano. Circondato dalla presenza e dall’affetto dei suoi familiari, ilgiovane don Tonino si apprestava a percorrere una nuova e lunghissima strada.

La prima tappa del camminosacerdotale fu caratterizzata dal conseguimento della Licenza alla Facoltàteologica di Milano. A dire il vero fu sempre Lercaro a coinvolgere don Toninoin quella avventura, e lo stesso cardinale bolognese lavorava per poterlotenere con sé. Ma nel sud della Puglia c’era pure chi lavorava per garantire algiovane prete un’altra sistemazione. Infatti, il vescovo Ruotolo aveva pensatodi trasferire don Tonino (per lui sarebbe stato un gradito ritorno in un luogogià familiare) nel seminario di Ugento ad educare i ragazzi, e con tonischerzosi in una lettera indirizzata al cardinale Lercaro scriveva così: «Titieni don Tonino solo se me ne mandi due in cambio».

A soli ventidue anni, quindi, ungiovane prete era già conteso da un cardinale ed un vescovo. Non furono perògli unici a volere don Tonino. Monsignore Bnelli, allora responsabile dei pretioperai, lo considerava già un ottimo cappellano del lavoro nell’Emilia Romagna comunistaed anticlericale, o in altre zone industrializzate del nord. Anche i superioridel seminario ONARMO di Bologna lo volevano per fargli vivere esperienzepastorali di notevole considerazione. Ma alla fine prevalse la decisione dimonsignor Ruotolo. Don Tonino si trasferì ad Ugento nel 1958. Appena giunto nelseminario di Ugento, oltre ad essere incaricato della disciplina, don Tonino funominato professore di più materie scolastiche. Durante la sua permanenza,durata diciotto anni, fu prima prefetto, poi vice rettore e in ultimo dal 1974al 1976 rettore del seminario. Quegli anni risultano essere fondamentali perchémettono a nudo ulteriormente le capacità educative e pastorali di don Tonino,il suo impegno senza sosta, la sua cultura senza confronti.

Nonostante i delicati compiti dicui don Tonino fu investito e l’importanza di quel ruolo, il giovane prete non amòdistinguersi dagli altri. Don Tito Oggioni Macagnino, anch’egli educatore nelseminario, ricorda un episodio dei primi giorni: «Don Tonino era seduto arefettorio, al tavolo dei superiori, in seguito sceglierà di stare sempre con iseminaristi e di condividere in tutto i loro pasti, senza nessuna “variante”.Quella mattina si era fermato a prendere il caffè con noi, mentre i seminaristierano saliti nei corridoi per la ricreazione. A tazzina ultimata mi accorsi chesul tavolo non c’era la zuccheriera. “L’hai preso senza zucchero!” – notaimortificato – “perché non l’hai chiesto?” E lui, calmo: “Pensavo che usasteprenderlo così!” Era sempre così, si adattava ad ogni situazione, amavaperdersi nell’anonimato, essere l’ultima ruota del carro, lui che un giorno nesarebbe diventato il cocchiere».

Ancora oggi quei ragazzi che sonostati educati da lui, alcuni poi diventati preti, lo ricordano con nostalgia edimmutato affetto. Ricordano il suo spirito vivace, pronto, sempre in trinceaper sorprendere con le sue iniziative chi lo circondava. Nell’agosto del 1965,durante il seminario estivo che ogni anno si svolgeva a Tricase Porto, donTonino diede origine alla “Società dei rizzivendoli”. Antonio Andrea Ciardo,che all’epoca frequentava la prima media nel seminario di Ugento, ricorda chedon Tonino e i suoi ragazzi ogni giorno, invece di comprare i “rizzi” dairizzivendoli, all’ora del bagno e al grido di “Regina ricciorum” si tuffavanonell’acqua muniti di maschere e pinne e facevano i “rizzi” vendendoli poi almisero prezzo di cinque lire l’uno. A quell’estate appartiene un componimentodi don Tonino il quale, immedesimandosi nei panni di un riccio, così siesprimeva:

«Ti ringrazio o Signore, per leprofondità del mare, che mi hai dato come dimora. Per le valli sconfinate dialghe e di madrepore, che mi hai dato come compagne. Per la moltitudine deipesci, che mi guizzano velocemente d’intorno. Per l’incanto del paesaggio,fatto miracolosamente sbocciare dai raggi del sole. Per il misterioso silenziodegli abissi, che Tu hai creato mentre ti libravi sulle a cque. Grazie,Signore, per gli aculei pungenti che mi hai dato a difesa dagli attacchi di tuttigli abitatori del mare. Grazie, per l’onore che mi dai quando l’uomo, fatto atua immagine, violando il segreto degli abissi, mi coglie per assaporare sullasua mensa il mio profumato corallo».

Sempre Ciardo racconta che neldicembre ’64 don Tonino decise di fare il presepio tutto di pietra. Unaconseguenza di quella decisione fu che da quel giorno i muri delle campagne diUgento si abbassarono, mentre nella Cappella del seminario cresceva ilpresepio. E quando il 27 gennaio 1965 “La Gazzetta del Mezzogiorno” pubblicò lanotizia che «il nostro presepio era stato giudicato il migliore in assoluto intutta la provincia di Lecce, don Tonino trasudava felicità. Gridava la suagioia. Ci contagiò. E la sera don Tonino rientrò nello studio del seminario conla coppa levata al cielo».

Era fatto così. Semplice,spontaneo, genuino, agiva sempre con naturalezza. Ancora una volta don Toninofu protagonista ed ispiratore anche di una improvvisata. Nel seminario diUgento si aspettava la visita di un certo monsignor Panico, venuto a visitareil vescovo Ruotolo. Mentre accompagnavano l’ospite lungo i corridoi cheaccedono all’episcopio, don Tonino fermò la comitiva e pregò l’arcivescovoPanico di ascoltare una musica in suo onore. I ragazzi al cenno del loroeducatore cacciarono fuori dai loro nascondigli gli “strumenti musicali” ecominciarono ad esibirsi: pettini avvolti in plastica per clarinetti, pezzi ditubi di gomma per bassi, coperchi di pentole d’alluminio per “piatti”, altristrumenti a percussione ottenuti con posate, pezzi di ferro, cartoni… Don Titoera pronto a ricorrere ai ripari e alle scuse nei confronti dell’ospite che,invece, volle riascoltare i “musicisti” e il loro don Tonino nei panni didirettore di banda. «I complimenti andarono a me», racconterà poi don Tito,«perché come spesso accadeva, quando don Tonino sentiva odor di lodi sparivadalla circolazione o si disperdeva tra i suoi prodi».

Con i suoi ragazzi che lochiamavano ABEL (Antonio Bello), don Tonino fondò l’Antenna, un giornale che lui stesso dirigeva e che preparava contanta pazienza e meticolosità. Pure se il suo carattere e la sua personalitàdavano segnali di eccezionalità, ed era ben stimato dai ragazzi e dai superiorisuoi colleghi, don Tonino a volte lamentava la presenza di alcune “scorie” nelsuo modo di essere e di comportarsi. Ciò lo dimostra un breve componimento cherisale al 2 aprile 1932: «Sono un impasto di mansuetudine e di ira, di superbiae di modestia, di bontà e di durezza. Sono un intruglio di fervore e difrigidezza, di dissipazione e di raccoglimento, di slanci impetuosi e diapatiche immobilità. Sono un polpettone di carne e di spirito, di passioniindomite e di mistiche elevazioni, di ardimenti coraggiosi e di depressionisenza conforto. Dio mio, purificami da queste scorie in cui naviga l’anima mia;fammi più coerente, più costante. Annulla queste misture nauseanti di cui sonocomposto, perché io ti piaccia in tutto, o mio Dio».

Durante la permanenza nelseminario di Ugento, don Tonino riuscì a vivere anche una esperienzainteressante ed importante. Nel 1962 il Concilio Vaticano II, voluto da papaGiovanni XXIII, stava per iniziare e monsignor Ruotolo che doveva seguirne ilavori a Roma decise di portare con sé don Tonino, ormai lo considerava suopersonale teologo. Infatti, le tracce degli interventi che il vescovo di Ugentofece durante le sessioni conciliari furono preparate da don Tonino il qualetrovò anche il tempo di scrivere un diario su quella esperienza romana.L’ultima pagina del diario, intitolato “Appunti sul mio soggiorno romano inoccasione del Concilio Vaticano II”, nasconde il vivo desiderio di don Toninodi ritornare in seminario forse perché l’ambiente, troppo cerimonioso perquella particolare circostanza, lo metteva a disagio. «Sono così passati diecigiorni», annoterà don Tonino, «stasera riparto. Me ne torno a casa, a lavorarein diocesi, nel mio seminario, tra i miei ragazzi, nel mio umile posto divicerettore. Francamente in questi giorni ho più volte desiderato di fareritorno nel mio campo di lavoro… ».

È inutile sottolineare comel’aria di rinnovamento lanciata dal Concilio Ecumenico gli condizionerà moltola già ricca cultura pastorale che, successivamente, evidenzierà durante il suomagistero episcopale. Anche nella diocesi ugentina don Tonino si impegnò etanto per applicare gli insegnamenti che il Concilio aveva lasciato. GigiLecci, un laico impegnato pastoralmente in quegli anni, ricorda tuttora i primicorsi formativi e le settimane teologiche animati da don Tonino, quegliincontri che diventarono poi così familiari. Dirà Lecci che don Tonino «sapevaparlare ai più esigenti e farsi capire dai più semplici e che, senzasceglierlo, contribuì a promuovere e rafforzare l’unità della Chiesa (a livellolocale) tra le diverse persone, le varie associazioni e le 39 parrocchie».

Nel frattempo, il contributonotevole che don Tonino offrì al suo vescovo nel soggiorno a Roma era servito apreparare una grande sorpresa. Il vescovo Ruotolo lo fece nominare“monsignore”. A ventotto anni don Tonino era già monsignore! Naturalmente egliaccettò di buon grado quella sorpresa, ma continuò a farsi chiamare “don”Tonino, e lo farà pure dopo la sua nomina episcopale. Non dimentichiamo,inoltre, che mentre era a Roma don Tonino si iscrisse all’UniversitàLateranense, laureandosi, nel 1965, in Teologia.

Gli anni di permanenza nellacittà di Ugento avevano messo in risalto un’altra passione di don Tonino: losport. Ogni attività sportiva ed agonistica lo trovavano pronto ad impegnarsicon i suoi ragazzi fino all’estremo delle sue forze fisiche. Era riuscito,addirittura, ad ottenere il patentino di arbitro di calcio, sostenendo irelativi esami. Giocava appassionatamente a pallone, non accettava le sconfittee pur di riuscire a vincere le gare prolungava ulteriormente la regolamentaredurata delle partite. Era tifoso del Cagliari. Anche la pallavolo loentusiasmava. Anzi, egli stesso diede origine ad una squadra del seminario,riuscendo ad imporsi ed a raggiungere in quella disciplina sportiva incredibilirisultati nel campionato nazionale. Il migliore piazzamento, il secondo posto,fu ottenuto nel 1975. Ogni gara con i suoi valorosi atleti era una avventura.

Ogni cosa nella vita terrenafinisce, e quasi sempre ciò che più piace. Anche per don Tonino giunse il tempodi lasciare i suoi ragazzi e il seminario per adempiere ad un altro incarico.Questo avvenne nel 1978 quando il vescovo monsignor Mincuzzi, succeduto nelfrattempo a Ruotolo, nominò don Tonino amministratore parrocchiale del SacroCuore di Ugento. Amministratore parrocchiale vuol dire occupareprovvisoriamente il ruolo di parroco, ma assumerne tutte le responsabilità e idiritti. Appena arrivato in parrocchia don Tonino si tuffò a tempo pieno nelsuo nuovo lavoro. Ricostituì subito il Consiglio parrocchiale, dedicòparticolare attenzione al canto sacro e alla preparazione al commento delleletture della domenica. La gente ricorda ancora quando don Tonino girava incontinuazione per le strade della parrocchia. Infatti conosceva tutti, echiamava ciascuno per nome. Per tutti aveva un sorriso e una parola diincoraggiamento. Anche in questo nuovo ambiente, dunque, don Tonino lavoròmolto ed appassionatamente, conquistando immediatamente la stima e l’affettodei suoi parrocchiani a tal punto che nel 1979, quando fu eletto parroco aTricase, la gente contestò vivamente il vescovo.

Don Tonino si preparò così atrasferirsi nella nuova parrocchia di Tricase che gli era stata affidata dalvescovo Mincuzzi .

 

 

3. Il pane e la tenda

 

 

Tricase era in festa per l’arrivodel nuovo parroco. D’altronde don Tonino già conosceva molte persone di quelpiccolo paese distante appena sette chilometri dalla sua Alessano. La gente loaccolse con tanto affetto, entusiasmo e mille attenzioni, considerandolo unfiglio della propria patria. Tre anni di parroco a Tricase, nella parrocchiadella Natività di Maria, basteranno per fare capire a “qualcuno” che quelministero era soltanto una prova generale. Da quel gennaio del 1979 all’estatedel 1982, don Tonino rivoluzionò il paese con il suo impegno dinamico, conscelte nuove e rinnovatrici, sforzandosi di applicare nel suo popolo gliinsegnamenti che il Concilio Vaticano II aveva lasciato. «È necessaria un po’di follia nella Chiesa», diceva don Tonino, e di quella “follia” si servì peristituire il Consiglio pastorale parrocchiale, i corsi prematrimoniali; percreare la festa del fanciullo e una sezione dei volontari del sangue; perriordinare la questione delle confraternite e delle processioni.

I parrocchiani, la gente delpaese, tutti avevano inteso che quel prete era diverso dagli altri, e perciòdon Tonino cominciò a vedere la sua chiesa riempirsi di tantissime personeaffascinate e conquistate dalle sue omelie. Talvolta quelle prediche gliservivano per lanciare “sferzate” ai politici e agli amministratori locali iquali, pur non risparmiandosi, rispondevano con battute bagnate al veleno. Laparrocchia di cui don Tonino era il parroco diffondeva un fogliettosettimanale, “Comunità”, un ciclostilato su due facciate di carta comune, maricco di tanti spunti di riflessione oltre che di informazioni. Un piccolospazio don Tonino lo riservava a loro, gli ultimi, alla loro condizione divita, alla situazione sociale del paese. Una volta, racconta Ercole Morciano, «suun numero di “Comunità” don Tonino scrisse l’articolo “Gli ultimi e il pianoregolatore”, pochissimi righi nel suo stile, facendo rilevare che il pianoregolatore dovrebbe considerare i bisogni della popolazione e non gli interessidi pochi. Si seppe che i destinatari dell’invito snobbarono l’intervento ecircolò qualche battuta su don Tonino esperto in urbanistica».

Intanto la popolarità di donTonino cresceva. Anche i giovani di Tricase si lasciavano conquistare da lui,soprattutto i suoi alunni. Già, perché don Tonino insegnava e si incontravatutti i giorni a scuola con i giovani, vivendo l’impegno scolastico non come unlavoro ma come una missione, come un momento di espansione e di verifica delsuo ministero sacerdotale e pastorale. Questo dimostra il fatto che spessodimenticava di riscuotere il suo stipendio, e quando una volta, dirà VitoCassiano, «il segretario gli fece rilevare che giaceva presso la segreteria ilsuo onorario, don Tonino lo prese e acquistò delle riviste o fece degliabbonamenti per i giovani». Nel paese non si faceva altro che parlare di lui,di quel parroco moderno, umile, coraggioso e semplice. E forse quelle vocierano penetrate anche negli “ambienti romani”, tanto è vero che già nel 1980don Tonino dovette recarsi a Roma perché convocato dalla Congregazione deivescovi.

Qui incontrò il cardinaleSebastiano Baggio, Prefetto della Congregazione, il quale dopo un lungo colloquiogli propose la nomina a vescovo con destinazione Palmi, in Calabria. Quell’eventolo turbò, e non poco, ma alla fine decise di declinare la proposta. Non passòmolto tempo da quel primo incontro che una seconda convocazione a Roma gliprocurò la proposta di nomina a vescovo nella diocesi di Tursi, in Basilicata.Ancora una volta don Tonino non accettò l’invito, lo tormentava la sola idea dilasciare Tricase, la sua parrocchia, la sua gente che egli amava ma,soprattutto, la sua mamma ormai troppo anziana che, infatti, morirà nelnovembre del 1981.

L’anno successivo, a metà giugno,don Tonino ricevette la terza proposta. Era indeciso, ma propenso ad accettarela nomina, e così scrisse al papa, Giovanni paolo II, questa bellissimalettera: «Beatissimo padre, le significo la mia gratitudine per la stima, lafiducia e l’onore di cui mi degna elevandomi al ministero episcopale. La miaaccettazione, oltre che carica di incertezze, è anche permeata di moltatristezza: mi fa così soffrire il pensiero di dover lasciare questo popolo cheho amato e servito per tre anni, che riterrei una grazia straordinaria delSignore poter continuare a lavorare nella mia parrocchia ancora per qualchetempo. Se non insisto per essere liberato da questo onore e da questaresponsabilità che mi spaventano, è perché temo di intralciare con i mieicalcoli i disegni di Dio. Beatissimo Padre, mi rimetto alle sue decisioni qualiche siano e chiedo sulla mia povera vita la sua paterna benedizione. Don ToninoBello».

Non trascorsero che solo alcunigiorni, e il 10 agosto 1982 don Tonino Bello fu nominato vescovo di Molfetta,Giovinazzo e Terlizzi e, successivamente, anche di Ruvo di Puglia unita alleprecedenti città “in persona episcopi” ed entrata a fr parte della nuovadiocesi il 30 settembre 1986. A Molfetta, la notizia fu data al clerointerdiocesano il sabato del 4 settembre alle ore 12 da monsignor Aldo Garzia,che nel frattempo era stato trasferito nella diocesi di Gallipoli. Due giornidopo, il 6 settembre, don Tonino conobbe di persona, nell’aula magna delseminario vescovile di Molfetta, il clero delle tre città della diocesidicendo, con tono scherzoso, di aver voluto subito incontrare la «fidanzata chela Santa Sede gli aveva trovato per corrispondenza», e cioè la Chiesa diMolfetta. Il 19 settembre, invece, in tutte le chiese della diocesi fu letto ilprimo messaggio del nuovo vescovo Antonio Bello:

«Miei cari fratelli delle Chiesedi Molfetta, Giovinazzo e Terlizzi, il Signore mi manda in mezzo a voi perchémi metta a camminare alla Sua sequela, cadenzando il mio passo col vostro, cheso agile e spedito. Finora ho camminato con altri fratelli nella fede, che mihanno edificato con la loro bontà e che ora lascio con tanta amarezza. Apareggiare, però, e a sopravanzare il dolore del distacco, c’è in me la gioiadi poter testimoniare in mezzo a voi la fede, la speranza e l’amore dellacomunità da cui provengo. Non è bello anche per voi vedersi raggiungere lungola strada da un altro viandante che vi dice come mille altre carovane corronodietro Gesù e Gli vogliono bene? Sulla via ci aiuteremo a vicenda. Spartiremoil pane e la tenda. Anzi, faremo in modo che la nostra tenda e il nostro panesiano disponibili per quanti, dispersi o sbandati, incontreremo nel viaggio.Saluto il vostro Pastore che vi ha guidati e sorretti con cuore generoso e conmano sicura. Saluto tutte le vostre autorità. Ancora non conosco i vostrivolti, però stringo egualmente la mano di tutti, non solo di voi credenti, maanche di coloro che, pur non condividendo le nostre speranze cristiane,sperimentano come noi la durezza della strada e si impegnano perché la lorovita e quella degli altri sia più degna dell’uomo. Ma non è già questa unasperanza cristiana? La madonna ci assista e ci accompagni nel cammino».

Iniziarono così i preparativi perla celebrazione di consacrazione episcopale, che avvenne a Tricase il 30ottobre nei pressi della chiesa di San Domenico. Una immensa folla eraconvenuta in piazza Pisanelli. Dopo alcuni giorni dalla consacrazione, donTonino dovette recarsi a Roma per prestare giuramento davanti al presidentedella repubblica, Sandro Pertini. Oggi questo rito non ha più luogo conl’entrata in vigore dell’Accordo di Villa Madama del 1984. Pertini tenne unlungo colloquio con il nuovo vescovo di Molfetta, durante il quale rimasecolpito dalla semplicità con cui il novello vescovo vestiva, e sbalordito nelvedere la croce pettorale fatta in legno, una cosa insolita per un vescovo,chiese spiegazioni in merito. Don Tonino, naturalmente, spiegando i motivi diquella sua scelta sollevò la croce dal petto e togliendola da collo la posenelle mani del Presidente facendone a lui dono.

Di ritorno da Roma, don Toninorimase qualche settimana ancora a Tricase per sistemare alcune faccende utilial suo trasferimento in Molfetta. Intanto era stato deciso che l’ingresso nellasua nuova Chiesa avvenisse il 21 novembre 1982. Gli ultimi preparativi, però,lo angosciavano, gli dispiaceva molto lasciare Tricase, la gente che amava, madovendo giustificare a chi gli chiedeva il motivo di quella sua scelta usavaqueste parole: «Ho accettato per lo stesso motivo per cui mi sono fatto prete eper le stesse ragioni per le quali, dopo venti anni spesi in seminario, sonovenuto qui a Tricase: obbedire a una chiamata che, per me credente, non èsoltanto umana. Ho accettato, perché continuare a dire no mi sarebbe parsa unaforma di egoismo camuffato di modestia. Ho accettato, perché mi sono accortoche il prezzo di questa decisione per me sarebbe stato altissimo: se itricasini non mi avessero amato, forse sarei rimasto. A qualcuno può sembrareuna logica strana, ma è la stessa logica che ha indotto Abramo a lasciare laterra, la tenda e gli amici per andare nel paese indicatogli da Dio. Se inquesta decisione è entrata un’ombra di vanagloria, ne chiedo perdono a tutti.Una cosa, comunque, oso sperare: che l’amarezza di chi resta e il dolore di chiparte non rimangano sterili».

Nessuno ormai poteva più trattenerlo, don Tonino si accingeva a guidare la Chiesa di Molfetta.

 

 

4. Una Chiesa povera

 

Dopo il lunghissimo episcopato di Achille Salvucci (1935-1978) il più lungo del novecento, e quello transitorio di Aldo Garzia (1975-19782), Molfetta si preparava ad accogliere il nuovo vescovo. L’ingresso nella diocesi avvenne il 21 novembre 1982, festa della presentazione di Maria al Tempio. Sul sagrato della Cattedrale il sindaco molfettese, Beniamino Finocchiaro, e tutte le altre autorità civili di Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi pronunciarono i discorsi di saluto e di benvenuto al nuovo Pastore. È inutile nascondere la massiccia partecipazione e la curiosità dei fedeli convenuti in chiesa per quella rara occasione. Ma la convinzione che quel nuovo vescovo avrebbe “dirottato” la Chiesa molfettese verso altre strade, si ebbe durante l’omelia che don Tonino preparò per quella solenne cerimonia. In evidente stato di imbarazzo, don Tonino esordì con queste parole: «Miei cari fratelli, Dio solo sa come in questo momento vorrei essere libero dalla preoccupazione di dovervi fare un discorso “intelligente”, uno di quei discorsi tra le cui righe ci si senta poi autorizzati a leggere orientamenti e prospettive, a spiare svolte o ristagni, a intuire speranze o involuzioni. A nessuno è lecito strumentalizzare l’incontro con la Parola di Dio. Per cui a me non è lecito, in questo momento, cedere alla debolezza di darvi, come si suol dire, una buona impressione sin dalle prime battute. E non è lecito neppure a voi indugiare su analisi estetizzanti, quasi per studiare le mie mosse, piuttosto che per convertirvi». Continua ancora don Tonino rivolgendosi al popolo: «Aiutatemi, vi prego, con la vostra comprensione e con la vostra indulgenza, perché la solennità di questo primo incontro con voi non mi carichi della suggestione di dirvi necessariamente delle cose raffinate, ma cose vere, cose semplici, cose di tutti i giorni, cose buone come il pane, cose di cui voi avete bisogno e che Lui, il Signore, mi suggerisce. Aiutatemi, soprattutto, a rispondere a quella domanda essenziale che avete nel cuore e che sulle vostre labbra stasera si traduce così: “Messaggero che vieni da lontano, quale buona notizia ci porti”?».
Un esordio semplice quello di don Tonino, che continuando l’omelia giunge ad un punto chiave di quel suo primo discorso ufficiale: «Ma se io, cari fratelli nella fede, sono stato inviato a voi a proclamare che Gesù è risorto ed è l’unico Re e Signore; se io, chiamato ad essere vostro Vescovo, sono stato incaricato di svegliare l’aurora che già vi dorme nel cuore… chi porterà questo annuncio di speranza agli “altri”, a quella porzione del popolo delle nostre diocesi che non coincide più col perimetro della Chiesa, a coloro ai quali i valori cristiani non dicono più nulla? […] Tocca a noi, allora, popolo tutto intero di battezzati, depositari della speranza cristiana, passare per le strade del mondo e proclamare insieme: Coraggio, gente, non ti deprimere…». Altro che ristagni o involuzioni! In queste poche righe è concentrato il succo di un vero e proprio programma pastorale, denso di prospettive, di svolte e di speranze. Ancora qualche pensiero, e don Tonino conclude così la sua prima omelia innanzi ad una immensa folla: «Eccomi, cari fratelli. Nel giorno della presentazione di Maria al Tempio, mi presento anch’io a questo tempio umano, fatto di pietre vive, glorioso di tradizioni di fede e di impegno, carico di Storia e di cultura. Accoglietemi come fratello e amico, oltre che come padre e Pastore. Liberatemi da tutto ciò che può ingombrare la mia povertà. Di mio non ho molte cose da darvi. Però nella mia valigia ho due cose buone. La prima me l’ha messa il Signore: ed è la sua Parola, perché la dispensi lungo la strada a voi, miei nuovi compagni di viaggio, in modo che cambi il vostro povero cuore e affretti la cadenza dei vostri passi. E poi c’è un’altra cosa. Ed è la tenerezza, la sofferenza, la fede, l’amore, la speranza indistruttibile della mia piccola stupenda Chiesa d’origine e delle mie indimenticabili comunità di Alessano, di Ugento e di Tricase».
Quelle non furono soltanto parole. L’azione seguì ben presto al pensiero. La gente imparò a conoscerlo per strada, nei locali pubblici, nel salone del barbiere. Si interessava dei problemi dei più sfortunati, impegnandosi in prima persona a risolverli. Un esempio eclatante che don Tonino riuscì a dare, a pochi mesi dalla sua elezione a vescovo, fu quando egli stesso partecipò allo sciopero che gli operai delle ferriere di Giovinazzo attuarono per la chiusura dello stabilimento. Nel suo messaggio assicurò loro «che la Chiesa ha un compito e una competenza che nessuno ci può contestare, quello di schierarci con gli ultimi. E in questo momento gli ultimi siete voi». Non è questo il solito messaggio di circostanza che nasconde il debole profumo della retorica e della demagogia, perché don Tonino riesce a spiegare, ma non solo con la parola, cosa significa stare con gli ultimi. «Stare con voi», ribadisce il vescovo molfettese, «significa anche condividere la vostra protesta. Protesta contro le latitanze, le lentezze, i ritardi, le scelte che hanno reso estremamente pesante la situazione. Protesta contro una politica che non ha salvaguardato i livelli occupazionali attraverso le necessarie riconversioni e ristrutturazioni. Protesta, dobbiamo pur dirlo, contro la leggerezza, l’assenteismo, il doppio o triplo lavoro, la mancanza di serietà…».
Per gli operai in agitazione don tonino prelevò undici milioni di lire dal fondo per la costruzione delle chiese; seguì l’intera vicenda, anche giudiziaria, tra lo stupore degli stessi operai, increduli a riconoscere quell’uomo nei panni di un vescovo. Forse perché abituati ad altre concezioni di intendere e riconoscere un vescovo. Col passare dei mesi, don Tonino intensificò ulteriormente i suoi aiuti verso coloro che versavano in condizioni pietose. Aprì le porte del suo appartamento vescovile agli sfrattati, a chi aveva bisogno di una casa, di un po’ di pane, o anche solo di un po’ di affetto. E non lo faceva per pietismo, ma soltanto perché era convinto che dai poveri poteva venire la “salvezza”. La sua era e doveva essere una Chiesa povera, una Chiesa sempre al servizio di tutti. Da qui nascerà poi l’espressione che lo stesso don tonino diede alla sua Chiesa: «Ed eccoci all’immagine che mi piace intitolare “la Chiesa del grembiule”. Che sembra un’immagine un tantino audace, discinta, provocante. Una fotografia leggermente scollacciata di Chiesa. Di quelle che non si espongono nelle vetrine per non far mormorare la gente e per evitare commenti pettegoli, ma che tutt’al più si confinano in un album di famiglia, a disposizione di pochi intimi…».
Continua don Tonino: «La chiesa del grembiule non totalizza indici altissimi di consenso. Nell’hit parade delle preferenze il ritratto meglio riuscito di Chiesa sembra essere quello che la rappresenta con il lezionario fra le mani, o con la casula addosso. Ma con quel cencio ai fianchi. Con quel catino nella destra e con quella brocca nella sinistra, con quel piglio vagamente ancillare, viene fuori proprio un’immagine che declassa la Chiesa al rango di fantesca». Le ultime parole di questo discorso sono suggestive, sono l’invito del vescovo a “simpatizzare” il servizio: «cari fratelli, riprendiamo la strada della condiscendenza, della condivisione, del coinvolgimento in presa diretta nella vita dei poveri. Solo se avremo servito, potremo parlare e saremo creduti. Solo allora potremo riprendere le vesti sontuose del nostro prestigio sacerdotale e nessuno avrà nulla da dire».
E il suo servizio era ormai evidente a tutti. Un impegno senza sosta. Fu lui a volere e a far nascere nel 1985, nei pressi della provinciale Ruvo-Terlizzi, la C.A.S.A. (Comunità di Accoglienza e Solidarietà “Apulia”) con la collaborazione di don Nino Prudente che ne diventerà direttore. L’obiettivo di quella iniziativa era, ed è tuttora, quello di recuperare e rieducare i giovani tossicodipendenti, preparandoli attraverso il lavoro ad un nuovo inserimento nella società. Molto lavoro fu svolto da don Tonino per quella preziosa iniziativa, e don Prudente spiegherà con queste parole l’impegno del vescovo: «La comunità C.A.S.A. deve molto a don Tonino. Egli si è impegnato in prima persona anche dal punto di vista economico, facendo pazzie per una somma di oltre quattrocento milioni. Spesse volte di sera o di notte mi telefonava e andavamo a raccogliere alla stazione di Molfetta dei barboni, alcolizzati, a rischio personale. A volte mi affidava situazioni di coppie disperate, di drammi familiari. Tutto questo egli lo faceva con profonda sofferenza. Una volta mi disse: “senti, Nino, io ti devo confessare che certe volte, un po’ per tante amarezze e un po’ per la difficoltà di soluzione di tante situazioni, vorrei andarmene in missione, vorrei tornare a fare il parroco, vorrei stare in mezzo alla gente, rimboccarmi le maniche ogni giorno con loro”».
Con la collaborazione di qualche sacerdote, don Tonino istituì a Ruvo una Casa di accoglienza per extracomunitari. A Molfetta, invece, per sua iniziativa nacque la “casa per la pace”. Erano le azioni, dunque, a precedere i discorsi, che perciò diventavano credibili. Erano comunque e sempre i poveri la sua grande passione. Per loro don Tonino orientò tutto il suo magistero episcopale, e fu felice quando eletto vescovo perché capì che era giunto per lui il momento di mettersi al loro servizio: «Grazie, terra mia, piccola e povera, che mi hai fatto nascere povero come te, ma che, proprio per questo, mi hai dato la ricchezza incomparabile di capire i poveri e di potermi oggi disporre a servirli». I molti avvenimenti tristi e seri che accaddero nei primi tempi del suo ministero episcopale gli diedero la possibilità di scrivere bellissime lettere. Dirà Donato Valli, già Presidente della “Fondazione don Tonino Bello”, che don Tonino «attraverso lo stile epistolare entra in contatto con gli uomini veri che gli sono di fronte, ma anche con gli uomini di tutti i tempi, del passato prossimo e remoto». Ma chi sono questi uomini? Semplice. Massimo il ladro, ucciso a Molfetta la notte dell’8 gennaio 1985, e sulla cui fossa don Tonino accese una lampada; Giuseppe l’avanzo di galera, alla cui libertà don Tonino ha brindato; Mario la guardia campestre, ucciso a Ruvo il 14 novembre 1986, a cui don Tonino ha auspicato la nascita di un fiore sulla viottola di campagna irrigata dal suo sangue; ogni fratello marocchino, invitato da don Tonino a fermarsi a casa sua. E poi altri ancora: Antonio il pescatore, Peppino l’ubriaco, Marta la scheda perforata, Mohamed il diverso… Tutte storie di uomini a cui don Tonino ha prestato un po’ della sua, mescolandosi con loro; anche ai lontani, a chi per diverse ragioni ha dovuto lasciare la propria terra per cercare fortuna altrove. Così si spiegano i suoi numerosi viaggi oltreoceano, alla ricerca di volti molfettesi che la storia ha voluto allontanare. E dalla sua prima esperienza in Australia, don Tonino compila un rapporto pastorale sulla emigrazione molfettese, “Sotto la croce del sud”. Un messaggio forte viene trasmesso ai molfettesi in Australia, parole che contano più di una lezione di catechesi: «Il Vangelo vale più del dollaro. L’amore vale più della macchina», dirà don Tonino, e ancora, «Non lasciatevi sedurre dal piatto di lenticchie per cui svendere i valori della vostra cultura d’origine: l’amore per la giustizia, il gusto del dialogo, la gioia di condividere».
Ben presto diventò popolare anche all’estero, mentre a Molfetta era già entrato nel cuore della gente. Tutti lo cercavano, chiedendo a lui aiuto o conforto. Era diventato pure il personaggio più corteggiato da stampa e televisione, che a turno si accontentavano di articoli o di interviste. Era ormai fuori discussione la straordinarietà del vescovo che, senza trascurare gli impegni diocesani, partecipava a conferenze, dibattiti, tavole rotonde… Roma, Torino, Bologna ed altre tante città d’Italia, e non solo, divennero le mete di frequenti trasferte a cui il vescovo molfettese non rinunciava. In poco più di due o tre anni era conosciuto da tutti, non si faceva altro che parlare di lui. Ma questa notorietà mise in guardia gli “ambienti romani”, che iniziarono a seguire con più interesse le sue iniziative. Del resto, non mancheranno occasioni per cui don Tonino fu chiamato a dare spiegazioni sul suo operato.

 

 

5. Il nome della Pace

 

Per il vescovo di Molfetta gli impegni cominciarono a moltiplicarsi sul finire del 1985, quando la nomina a presidente di Pax Christi lo vedrà protagonista di tante battaglie a difesa della pace. Fu il cardinale Ballestrero, all’epoca Presidente del consiglio permanente della CEI (Conferenza Episcopale Italiana), a promuovere don Tonino Bello alla guida di quel movimento cattolico internazionale. La scelta su quella nomina non era stata del tutto facile. Basti pensare che dal 1978 al 1985 nessun vescovo aveva occupato quel ruolo lasciato libero da monsignore luigi Bettazzi. Sei anni di attesa, dunque, lasciano supporre come don Tonino Bello sia stato scelto perché ritenuto l’uomo giusto al posto giusto. Ed i fatti lo dimostreranno subito.
Nemmeno il tempo di insediarsi alla guida di Pax Christi, che don Tonino veniva coinvolto, seppure alla larga, da polemiche le cui origini si trascinavano ormai da tempo: obiezione di coscienza al servizio militare, obiezione fiscale, guerra alla guerra, erano i temi scottanti di un accesissimo confronto dialettico tra Stato ed Associazioni pacifiste. E le difese di don tonino nei confronti di monsignor Bettazzi, l’unico vero bersaglio della stampa particolarmente laica, lo indussero a scontrarsi con Indro Montanelli, famoso giornalista che allora dirigeva “Il Giornale”, il quale attraverso l’articolo di fondo apparso il 4 febbraio 1986 ridicolizzava Bettazzi. Don Tonino non accettò minimamente quella provocazione, e manifestò al noto giornalista «il più amaro disgusto per ciò che lei ha scritto del vescovo monsignor Bettazzi e che dell’articolo di fondo ha solo il fondo. Un fondo nero, limaccioso, torbido. Sarà stato un incidente sul lavoro: cosa che non le capita di rado. Ma stavolta il secchio della sua abilità letteraria, invece che attingere l’acqua pulita dell’argomentazione intelligente, è sceso a pescare nel fango. Del suo pozzo, naturalmente. Il fango di antiche sedimentazioni laiciste e di pregiudizi culturali fuori moda, che disilludono amaramente quanti pensavano che l’anticlericalismo fosse solo una malattia infantile della nostra democrazia». La lettera prosegue con parole audaci e dure, innescando così la fredda e sterile replica di Montanelli: «Nostro est giornale non quaresimale».
Furono, perciò, molte le delusioni che il vescovo molfettese collezionò a causa del suo immenso impegno pacifista. D’altronde faceva il suo dovere di vescovo, difendeva e promuoveva il nome della Pace contrapponendolo a quello della guerra, delle armi, della violenza. E può, addirittura, sembrare strano come le sue dichiarazioni scomode abbiano più volte infastidito persino le grandi personalità della Chiesa cattolica! Ciò ci viene dimostrato da una lettera che David Maria Turoldo, un altro grande profeta del novecento, scrisse a don Tonino, per manifestargli la sua solidarietà: «Caro don Tonino, appena due righe. Anche se il desiderio di un colloquio è immenso. Supplirò alla brevità col volerti ancora più bene. Mi dicono che sei stato richiamato, per le tue scelte, per i tuoi interventi, che non è bene parlare troppo contro le armi. Ebbene, non solo ti sono vicino, ma oso perfino darti un consiglio: a maggior ragione intervieni, intervieni sempre di più; e insieme dì che sei stato richiamato, dillo pubblicamente; perché di questo hanno paura. Sono anche vili, come sappiamo. Se non intervieni, se non dici pubblicamente come stanno le cose, ti andrà sempre peggio. E loro diventeranno sempre più arroganti. Appunto perché sono vili: cioè, forti con i deboli e deboli coi forti. Per amore dei poveri e della verità; e cioè per amore della Chiesa e della pace, non scoraggiarti, caro fratello vescovo! Tanto più che di vescovi in cui confidare ce ne sono così pochi!».
L’impegno di don Tonino a difesa della pace si evidenziò anche nell’ambito locale. Infatti, una delibera del Consiglio Regionale di Puglia del 1983 concedeva l’autorizzazione per la costruzione di alcuni poligoni militari su una vasta zona della Murgia. Non è difficile immaginare la protesta e la contestazione dei contadini, proprietari delle terre che dovevano ospitare le esercitazioni militari. Don Tonino iniziò subito a prendere provvedimenti. Partecipò alla marcia organizzata per protestare contro quella decisione, animò incontri e dibattiti e, infine, prese carta e penna e scrisse un appello, nell’aprile del 1986, a tutti i componenti del Consiglio Regionale. «Cari amici», esordiva don Tonino, «dichiariamo subito il profondo rispetto per le istituzioni che rappresentate, la fiducia nel vostro impegno umano, la stima sincera per la vostra persona. Ma sentiamo pure il bisogno di dirvi che da tempo la nostra coscienza di cittadini di Puglia è turbata da inquietudini profonde e da oscuri presentimenti. […] Il destino della nostra assenza dalla storia del progresso sembra oggi capovolgersi. Ma con un protagonismo distorto. Incombe su di noi la dissolvenza in negativo del testo di Isaia che dice: “Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci, e non si eserciteranno più nell’arte della guerra”. […] A voi, politici, di cui pure comprendiamo la sofferenza e intuiamo le perplessità, chiediamo di mostrare che la rete delle istituzioni non si è scollata dal sentire della gente. Che a voi preme ancora il bene comune. Coraggio. La revoca della delibera regionale dell’83, che assegnava gran parte della Murgia ai poligoni di tiro, significa che il sogno di Isaia è ancora possibile. Ed è certamente ancora possibile che sulla nostra terra, pur riarsa dal sole e bruciata dalla sete, il grano della pace diventi pane».
Nemmeno quella presa di posizione da parte del vescovo di Molfetta riuscì ad ostacolare le esercitazioni militari che, nel frattempo, si svolgevano sul territorio della Murgia. Don Tonino tornò alla carica. Preparò un nuovo documento, “Terra di Bari, terra di pace”, al quale aderirono i vescovi della Metropolita di Bari: Magrassi (Metropolita e arcivescovo di Bari-Bitonto), Carata (arcivescovo di Trani-Barletta-Bisceglie), Lanave (vescovo di Andria), Pisani (vescovo di Gravina-Altamura), Padovano (vescovo di Conversano-Monopoli), Cacucci (vescovo ausiliare di Bari). Quel documento rappresentò la svolta di quella delicata vicenda, tanto è vero che di lì in seguito dei poligoni di tiro sulla Murgia non si ebbe più notizia. Ma le polemiche non finirono. La notizia dell’installazione di settantadue “F16” a gioia del Colle rianimerà l’intervento di don Tonino. Ulteriori incontri, nuovi appelli, nuove marce saranno da lui organizzati per respingere quel progetto. Ma la protesta contro l’installazione degli “F16” raggiunge il suo vertice allorquando don Tonino redige un nuovo documento, anche in quella circostanza firmato dagli altri vescovi della terra di Bari. Viene spedito in tutte le segreterie dei partiti e in tutti gli ambienti “importanti” della politica nazionale. Si scatena un vero putiferio. Vale però il caso di riproporre alcuni passi del testo “Puglia, arca di pace e non arco di guerra”: «… Abbiamo appena finito di rallegrarci per i confortanti gesti di distensione internazionale, e già una nuova grave foschia sembra oscurare il nostro cielo: l’ipotesi di stazionamento di 72 cacciabombardieri americani “F16” nell’aeroporto di Gioia del Colle. Triste destino della nostra terra! Finora è stata la storia a ricacciarla indietro, in ruoli subalterni. Adesso è la geografia che la respinge ancora più indietro, affidandole compiti di un perverso protagonismo: e non su ribalte di civiltà, ma su scenari di morte. Contro questa logica eleviamo, ancora una volta, la nostra fiera e sofferta protesta! È già pesante il pedaggio che la Puglia sta pagando, in fatto di servitù, ai programmi di riassetto militare. […] L’arrivo degli “F16” a Gioia del Colle comporterà un’ondata di nuovi espropri, sia per favorire l’indispensabile ampliamento dell’aeroporto, sia per permettere l’ospitalità ad almeno cinquemila americani che vi stanzieranno in pianta stabile».
Continua ancora don Tonino: «A questo punto, sentiamo l’obbligo di precisare che il nostro fermo rifiuto della logica legata all’operazione “F16” non nasce solo da ragioni interne ai confini territoriali ento i quali noi vescovi svolgiamo la nostra particolare missione pastorale. Ma deriva anche dalla condivisione del severo giudizio che Giovanni paolo II, al n. 20 della “Sollecitudo rei socialis” ha espresso sulla politica dei blocchi: “L’esistenza e la contrapposizione dei blocchi non cessano di essere tuttora un fatto reale e preoccupante, che continua a condizionare il quadro mondiale”. Sia ben chiaro, quindi: qualsiasi altra collocazione geografica dei “falchi combattenti” non alleggerirà più che tanto le nostre preoccupazioni». Il documento conclude così: «Non ci resta che invocare il signore, “perché diriga i nostri passi sulla via della pace” e induca i governanti, più che a sfruttare strumentalmente le debolezze antiche della nostra storia o le lusinghe recenti della nostra geografia, a restituirci al ruolo che ci è congeniale: essere operatori di sintesi con le diverse civiltà. Oggi più che mai, infatti, la Puglia è chiamata, dalla storia e dalla geografia, a protendersi nel suo mare come “arca” di pace, e non a curvarsi minacciosamente come “arco” di guerra». Non riesce a non intervenire in quella circostanza il capo del Governo, allora Bettino Craxi, il quale considerando illegittima la protesta e l’interferenza di don Tonino e degli altri vescovi pugliesi nelle questioni dello Stato, ricorreva alle norme del Concordato. Don Tonino non fu turbato dall’intervento del presidente del Consiglio dei Ministri, anzi a lui ribadì che «non gli risultava che il Concordato imponesse di stracciare delle pagine del Vangelo che i vescovi non dovessero predicare». Anche quella battaglia fu vinta da don Tonino. Gli “F16” non trovarono più ospitalità sul territorio di Gioia del Colle.
Al tirocinio seguì la teoria. Fu questo il principio che caratterizzò sempre il vescovo molfettese, che darà vita anche ad una “letteratura della pace”. È vero che il suo esempio precedeva sempre la parola, ma è altrettanto vero che quella sua parola, impetuosa e travolgente, era sorgente di bellissime frasi oltre che di credibilità; per molti soltanto utopia. La pace, diceva il vescovo monsignor Bello, «non è un semplice vocabolo, ma un vocabolario». E perciò i suoi discorsi, le sue omelie, le sue preghiere erano orientate a mettere in luce i diversi significati della pace. «Sul terreno della pace», ribadiva don Tonino, «non ci sarà mai un fischio finale che chiuda la partita: bisognerà sempre giocare ulteriori tempi supplementari». La pace era per lui un cammino, «e per giunta in salita»; era il perdono, «solo chi perdona può parlare di pace e teorizzare sulla non violenza»; la pace per don Tonino era solidarietà, «non è solo il silenzio delle armi, o l’isolamento di chi non manca di nulla. La pace è comunione»; la pace era soprattutto verità, «chi ama la pace non ha paura di dire come stanno le cose, anche quando le sue parole rovinano la digestione dei potenti».
Ma don Tonino sapeva altresì bene quale pace additare agli uomini. Era consapevole che «la pace la vogliono tutti, anche i criminali, perché nessuno è così spudoratamente perverso, da dichiararsi amante della guerra». Per questa ragione invitava tutti a «non scommettere sulla pace non connotata da scelte storiche concrete, perché è un bluff»; a non fidarsi della pace «che prenda le distanze dalla giustizia, perché è peggio della guerra»; a non promuovere una pace «che si proclami estranea al problema della salvaguardia del creato, perché è amputata»; a non scommettere, inoltre, sulla pace «che sorrida sulla radicalità della non violenza, perché è infida»; a non osare una pace «che non provochi sofferenza, perché è sterile»; e, infine, don Tonino affermava di non scommettere «sulla pace come “prodotto finito”, perché scoraggia».
Si può certamente ben dire che don Tonino sia stato l’annuncio totale della pace, e come ha sottolineato Gianni Novelli (dirigente nazionale di Pax Christi), «don Tonino ha riportato i temi, l’ansia, i modi concreti, le iniziative, i movimenti per la pace all’interno della Chiesa». A confermare questa asserzione è Raniero la Valle il quale, nel periodo più atroce della guerra nella ex Jugoslavia, ebbe il coraggio di annunciare che «non c’è oggi, un Tonino Bello che faccia appello alle coscienze, che cerchi di risvegliare la Chiesa, che dia coraggio agli altri vescovi perché prendano la parola; che sappia infondere la fiducia nella efficacia anche storica della pace». La sua credibilità aveva conquistato il popolo della pace. Da ogni parte d’Italia lo invitavano a tenere conferenze. Andò a Rocca di Papa, A Verona, a Prato e ad altre città ancora.

6. Sul passo degli ultimi

L’impegno per la pace, seppure sia stato il lato forte del ministero episcopale, non ha però messo in ombra altri aspetti determinanti di don Tonino. Il suo lavoro di vescovo nella Chiesa locale, per esempio, merita di essere analizzato per quanto ha saputo condensare nei suoi progetti pastorali e non solo. Il documento più importante che racchiude l’esigenza del vescovo molfettese di “riordinare” la diocesi, è: “Insieme alla sequela di Cristo sul passo degli ultimi”. Sono tre le ragioni di questo progetto pastorale, e che don Tonino definisce “luci di posizione”: evangelizzazione, spiritualità, scelta degli ultimi. Occorreva innanzitutto privilegiare l’evangelizzazione, e questo per migliorare la qualità della vita cristiana. «Per le nostre Chiese locali», affermava, «si tratterrà di un trapasso difficile, perché accompagnato dal rimpianto per qualche cosa che dovremo pure avere il coraggio di lasciare». Ristabilire il primato della spiritualità era il secondo obiettivo, perché «non è difficile percepire che essa è la grande assente nelle nostre comunità». E, infine, era necessario che ogni azione partisse dagli ultimi. Scriverà don Tonino che «i poveri sono il punto di partenza di ogni servizio da rendere all’uomo», e per questo bisogna «mettersi in corpo l’occhio del povero […] per condividere con gli ultimi la nostra ricchezza e la loro povertà»; e per lottare con loro «non basta il buon cuore, occorre il buon cervello»; ed è anche necessario «stimolare una formazione politica seria per il nostro popolo, senza la quale i poveri si trasformeranno in massa manovrabile da parte di coloro che hanno in mano le leve del potere economico, politico e culturale».
Da qui si può dedurre con facilità come il progetto sui poveri sia già un progetto di pace. Risale, inoltre, al novembre del 1986 la pubblicazione “linee programmatiche d’impegno pastorale per l’anno 1986-87”, dal titolo: “Insieme per camminare”. Lo scopo principale di questo scritto pastorale fu quello di sollecitare l’intera Chiesa locale a sbloccare «la situazione preoccupante di stallo pastorale». Don Tonino non si risparmia dal fornire “qualche spina nel fianco” e offre alla riflessione di tutti i fedeli alcune tracce essenziali contenute nelle sue domande: «Quali sono le “scomuniche” più scandalose che oggi vive la nostra Chiesa locale? Dov’è che sanguina la ferita? Che fare per cicatrizzarla? Quali sono i venti che ci hanno dispersi? E quali sono i venti che ci possono radunare?». E poi ancora: «Le nostre assemblee sono luoghi di educazione alla pace? Dove si visibilizzano i frutti della violenza? Dove spuntano i segni di morte? E su queste aree, qual è il nostro annuncio? Siamo, come credenti, capaci di perdono?».
Per l’anno pastorale 1988-89, don Tonino proporrà nuovamente altre linee programmatiche di natura tecnica e spirituale, offrendo “segni nuovi e stimoli di comunione”. Il programma pastorale del 1989-90 si sofferma, invece, all’attenzione del ruolo dei laici all’interno della Chiesa diocesana, ispirandosi alla Esortazione Apostolica “Christifideles laici” di Giovanni Paolo II. L’ultimo scritto pastorale del vescovo molfettese risale al settembre del 1992. Anche in questo caso don tonino si sofferma su alcuni valori fondamentali della pastorale. Parla della “Comunione” come «un dono che occorre chiedere dall’alto», ma anche come «bene che dobbiamo costruire dal basso»; sottolinea l’importanza della “Comunità” che «fiorisce attorno a Cristo», e «che si sente permeata di carità missionaria»; conclude soffermandosi sul valore della “Comunicazione” che «non è solo trasmissione di notizie», ma è soprattutto «ministero della misericordia».
Durante l’intero episcopato don Tonino si recò due volte a Roma dal papa, per la visita “ad limina”. Tale appuntamento ha luogo, per tutti i vescovi, ogni cinque anni, un incontro che vuol essere una vera e propria verifica della situazione generale della diocesi. La prima volta che don Tonino incontrò Giovanni Paolo II fu nel dicembre del 1986: «Mi ha chiesto se in diocesi ci sono molti poveri», dirà don Tonino, «se le mie città sono violente. Se la speranza vi è di casa. Se i sacerdoti sono generosi fino alla follia. Se i laici vivono con autenticità i valori del Vangelo…». La seconda visita “ad limina” avvenne il 14 gennaio 1992, quando don Tonino era già malato. «Sono stato con lui, nel suo studio privato, per un quarto d’ora che lì per lì mi è parso un minuto», racconterà don Tonino. E ancora: «Mi ha domandato di voi, della vostra coerenza cristiana, delle difficoltà più grosse che incontrate in questa comune fatica del vivere. Si è interessato dei giovani, e mi ha chiesto che quota di speranza si portano nel cuore. Mi ha incaricato di far giungere ai poveri e ai sofferenti la sua solidarietà, e, mentre diceva queste cose, mi accorgevo che non c’era nulla di rituale nelle sue parole, che mi rigavano l’anima come la penna di un sismografo. Durante il colloquio privato mi sono permesso di dirgli che tutti i credenti della nostra diocesi gli vogliono bene, pregano incessantemente per lui, e gli promettono di seguire di più i suoi insegnamenti. Ho fatto bene? ».
Il lavoro di vescovo nella diocesi di Molfetta fu caratterizzato anche dalle visite pastorali. Don Tonino frequentò tutte le parrocchie delle quattro città sostando una settimana in ciascuna di esse. La visita pastorale offre l’occasione al vescovo di verificare il lavoro e le attività che si svolgono nell’ambito di una parrocchia. Dà, inoltre, la possibilità di conoscere il quartiere con i relativi problemi sociali. Ebbene, don Tonino entrò in un rapporto diretto con i diversi gruppi associativi delle parrocchie diocesane, verificandone così lo stato di salute; frequentò le diverse categorie di lavoro dei parrocchiani; i professionisti, gli artigiani, i contadini; si recò nelle scuole, negli asili e nei circoli culturali; visitò gli ammalati e gli ospedali, e per tutti elargiva parole di conforto e di speranza. Le visite pastorali gli avevano dato pure la possibilità di intraprendere un dialogo epistolare con le diverse comunità incontrate, e attraverso il settimanale diocesano “Luce e Vita” don Tonino scriveva bellissime lettere che rappresentavano un po’ il bilancio delle sue verifiche. Così anche preferì lo stile epistolare per comunicare ai catechisti della diocesi i suoi messaggi. Nel periodo quaresimale, ogni mercoledì sera, prese la consuetudine di incontrarsi con i giovani in Cattedrale. E furono quegli incontri a far sì che gli stessi giovani s’innamorassero della sua travolgente parola, del suo fresco ed originale linguaggio, nonché della sua credibile testimonianza. Uno sguardo panoramico agli “atti del vescovo” pubblicati puntualmente nella rivista “Luce e Vita documentazione”, ci permette di constatare la copiosa mole di lavoro di don Tonino nella Chiesa locale. Ricordiamo alcuni decreti: il 2 febbraio 1984 viene decretata l’entrata in vigore dello Statuto-Regolamento del Consiglio Presbiterale Interdiocesano; il 20 febbraio 1985 viene ufficializzato l’Ordinamento delle processioni nella diocesi di Molfetta; nel corso del 1985, don Tonino decreta l’istituzione dell’Archivio Diocesano di Giovinazzo e l’Archivio Diocesano di Terlizzi e, il 23 ottobre dello stesso anno, l’Istituto Interdiocesano per il sostentamento del Clero; il 2 febbraio 1986 don Tonino firma il decreto per l’Erezione Canonica della Pia Unione Oblate di S. Benedetto Giuseppe Labre; l’8 dicembre 1988 il vescovo istituisce il Centro Diocesano Volontari della Sofferenza e, qualche anno dopo, il Movimento Apostolico Sordi. Durante il suo episcopato, inoltre, si insedia il Tribunale Diocesano per la Casa di Canonizzazione del servo di Dio Ambrogio Grittani.
Ma chi ha conosciuto don Tonino Bello, può certamente ricordare come la sua vita non l’abbia trascorsa soltanto a firmare decreti, preparare discorsi seri, omelie ben oculate, a partecipare a conferenze, dibattiti, tavole rotonde… Ci sono stati anche tantissimi momenti in cui il vescovo molfettese ha dato prova di estrema naturalezza, quella naturalezza che è riscontrabile in qualsiasi uomo. E perciò si divertiva a suonare la fisarmonica nei momenti di fraternità con amici, con i giovani, e con quanti gli rendevano visita nel suo appartamento vescovile. A calcio, con i ragazzi del seminario, avrebbe voluto giocare, ma lo frenava la paura di farsi male e poter così arrestare il suo impegno pastorale. Improvvisava divertenti giochi di gruppo con i bambini quando andava a trovarli negli asili. Si recava nelle palestre o sui campi da gioco per incoraggiare gli atleti, insegnando loro a comportarsi da veri sportivi. E per questa sua spontaneità, normalità e naturalezza, don Tonino riuscì a conquistare tantissima gente, fuorché una categoria di uomini, quelli a cui si attribuisce il termine “politico”.

© Luce e Vita – Molfetta

6. Sul passo degli ultimi</p><br /><br /><br /><br />
<p>L’impegno per la pace, seppure sia stato il lato forte del ministero episcopale, non ha però messo in ombra altri aspetti determinanti di don Tonino. Il suo lavoro di vescovo nella Chiesa locale, per esempio, merita di essere analizzato per quanto ha saputo condensare nei suoi progetti pastorali e non solo. Il documento più importante che racchiude l’esigenza del vescovo molfettese di “riordinare” la diocesi, è: “Insieme alla sequela di Cristo sul passo degli ultimi”. Sono tre le ragioni di questo progetto pastorale, e che don Tonino definisce “luci di posizione”: evangelizzazione, spiritualità, scelta degli ultimi. Occorreva innanzitutto privilegiare l’evangelizzazione, e questo per migliorare la qualità della vita cristiana. «Per le nostre Chiese locali», affermava, «si tratterrà di un trapasso difficile, perché accompagnato dal rimpianto per qualche cosa che dovremo pure avere il coraggio di lasciare». Ristabilire il primato della spiritualità era il secondo obiettivo, perché «non è difficile percepire che essa è la grande assente nelle nostre comunità». E, infine, era necessario che ogni azione partisse dagli ultimi. Scriverà don Tonino che «i poveri sono il punto di partenza di ogni servizio da rendere all’uomo», e per questo bisogna «mettersi in corpo l’occhio del povero […] per condividere con gli ultimi la nostra ricchezza e la loro povertà»; e per lottare con loro «non basta il buon cuore, occorre il buon cervello»; ed è anche necessario «stimolare una formazione politica seria per il nostro popolo, senza la quale i poveri si trasformeranno in massa manovrabile da parte di coloro che hanno in mano le leve del potere economico, politico e culturale».<br /><br /><br /><br /><br />
Da qui si può dedurre con facilità come il progetto sui poveri sia già un progetto di pace. Risale, inoltre, al novembre del 1986 la pubblicazione “linee programmatiche d’impegno pastorale per l’anno 1986-87”, dal titolo: “Insieme per camminare”. Lo scopo principale di questo scritto pastorale fu quello di sollecitare l’intera Chiesa locale a sbloccare «la situazione preoccupante di stallo pastorale». Don Tonino non si risparmia dal fornire “qualche spina nel fianco” e offre alla riflessione di tutti i fedeli alcune tracce essenziali contenute nelle sue domande: «Quali sono le “scomuniche” più scandalose che oggi vive la nostra Chiesa locale? Dov’è che sanguina la ferita? Che fare per cicatrizzarla? Quali sono i venti che ci hanno dispersi? E quali sono i venti che ci possono radunare?». E poi ancora: «Le nostre assemblee sono luoghi di educazione alla pace? Dove si visibilizzano i frutti della violenza? Dove spuntano i segni di morte? E su queste aree, qual è il nostro annuncio? Siamo, come credenti, capaci di perdono?».<br /><br /><br /><br /><br />
Per l’anno pastorale 1988-89, don Tonino proporrà nuovamente altre linee programmatiche di natura tecnica e spirituale, offrendo “segni nuovi e stimoli di comunione”. Il programma pastorale del 1989-90 si sofferma, invece, all’attenzione del ruolo dei laici all’interno della Chiesa diocesana, ispirandosi alla Esortazione Apostolica “Christifideles laici” di Giovanni Paolo II. L’ultimo scritto pastorale del vescovo molfettese risale al settembre del 1992. Anche in questo caso don tonino si sofferma su alcuni valori fondamentali della pastorale. Parla della “Comunione” come «un dono che occorre chiedere dall’alto», ma anche come «bene che dobbiamo costruire dal basso»; sottolinea l’importanza della “Comunità” che «fiorisce attorno a Cristo», e «che si sente permeata di carità missionaria»; conclude soffermandosi sul valore della “Comunicazione” che «non è solo trasmissione di notizie», ma è soprattutto «ministero della misericordia».<br /><br /><br /><br /><br />
Durante l’intero episcopato don Tonino si recò due volte a Roma dal papa, per la visita “ad limina”. Tale appuntamento ha luogo, per tutti i vescovi, ogni cinque anni, un incontro che vuol essere una vera e propria verifica della situazione generale della diocesi. La prima volta che don Tonino incontrò Giovanni Paolo II fu nel dicembre del 1986: «Mi ha chiesto se in diocesi ci sono molti poveri», dirà don Tonino, «se le mie città sono violente. Se la speranza vi è di casa. Se i sacerdoti sono generosi fino alla follia. Se i laici vivono con autenticità i valori del Vangelo…». La seconda visita “ad limina” avvenne il 14 gennaio 1992, quando don Tonino era già malato. «Sono stato con lui, nel suo studio privato, per un quarto d’ora che lì per lì mi è parso un minuto», racconterà don Tonino. E ancora: «Mi ha domandato di voi, della vostra coerenza cristiana, delle difficoltà più grosse che incontrate in questa comune fatica del vivere. Si è interessato dei giovani, e mi ha chiesto che quota di speranza si portano nel cuore. Mi ha incaricato di far giungere ai poveri e ai sofferenti la sua solidarietà, e, mentre diceva queste cose, mi accorgevo che non c’era nulla di rituale nelle sue parole, che mi rigavano l’anima come la penna di un sismografo. Durante il colloquio privato mi sono permesso di dirgli che tutti i credenti della nostra diocesi gli vogliono bene, pregano incessantemente per lui, e gli promettono di seguire di più i suoi insegnamenti. Ho fatto bene? ».<br /><br /><br /><br /><br />
Il lavoro di vescovo nella diocesi di Molfetta fu caratterizzato anche dalle visite pastorali. Don Tonino frequentò tutte le parrocchie delle quattro città sostando una settimana in ciascuna di esse. La visita pastorale offre l’occasione al vescovo di verificare il lavoro e le attività che si svolgono nell’ambito di una parrocchia. Dà, inoltre, la possibilità di conoscere il quartiere con i relativi problemi sociali. Ebbene, don Tonino entrò in un rapporto diretto con i diversi gruppi associativi delle parrocchie diocesane, verificandone così lo stato di salute; frequentò le diverse categorie di lavoro dei parrocchiani; i professionisti, gli artigiani, i contadini; si recò nelle scuole, negli asili e nei circoli culturali; visitò gli ammalati e gli ospedali, e per tutti elargiva parole di conforto e di speranza. Le visite pastorali gli avevano dato pure la possibilità di intraprendere un dialogo epistolare con le diverse comunità incontrate, e attraverso il settimanale diocesano “Luce e Vita” don Tonino scriveva bellissime lettere che rappresentavano un po’ il bilancio delle sue verifiche. Così anche preferì lo stile epistolare per comunicare ai catechisti della diocesi i suoi messaggi. Nel periodo quaresimale, ogni mercoledì sera, prese la consuetudine di incontrarsi con i giovani in Cattedrale. E furono quegli incontri a far sì che gli stessi giovani s’innamorassero della sua travolgente parola, del suo fresco ed originale linguaggio, nonché della sua credibile testimonianza. Uno sguardo panoramico agli “atti del vescovo” pubblicati puntualmente nella rivista “Luce e Vita documentazione”, ci permette di constatare la copiosa mole di lavoro di don Tonino nella Chiesa locale. Ricordiamo alcuni decreti: il 2 febbraio 1984 viene decretata l’entrata in vigore dello Statuto-Regolamento del Consiglio Presbiterale Interdiocesano; il 20 febbraio 1985 viene ufficializzato l’Ordinamento delle processioni nella diocesi di Molfetta; nel corso del 1985, don Tonino decreta l’istituzione dell’Archivio Diocesano di Giovinazzo e l’Archivio Diocesano di Terlizzi e, il 23 ottobre dello stesso anno, l’Istituto Interdiocesano per il sostentamento del Clero; il 2 febbraio 1986 don Tonino firma il decreto per l’Erezione Canonica della Pia Unione Oblate di S. Benedetto Giuseppe Labre; l’8 dicembre 1988 il vescovo istituisce il Centro Diocesano Volontari della Sofferenza e, qualche anno dopo, il Movimento Apostolico Sordi. Durante il suo episcopato, inoltre, si insedia il Tribunale Diocesano per la Casa di Canonizzazione del servo di Dio Ambrogio Grittani.<br /><br /><br /><br /><br />
Ma chi ha conosciuto don Tonino Bello, può certamente ricordare come la sua vita non l’abbia trascorsa soltanto a firmare decreti, preparare discorsi seri, omelie ben oculate, a partecipare a conferenze, dibattiti, tavole rotonde… Ci sono stati anche tantissimi momenti in cui il vescovo molfettese ha dato prova di estrema naturalezza, quella naturalezza che è riscontrabile in qualsiasi uomo. E perciò si divertiva a suonare la fisarmonica nei momenti di fraternità con amici, con i giovani, e con quanti gli rendevano visita nel suo appartamento vescovile. A calcio, con i ragazzi del seminario, avrebbe voluto giocare, ma lo frenava la paura di farsi male e poter così arrestare il suo impegno pastorale. Improvvisava divertenti giochi di gruppo con i bambini quando andava a trovarli negli asili. Si recava nelle palestre o sui campi da gioco per incoraggiare gli atleti, insegnando loro a comportarsi da veri sportivi. E per questa sua spontaneità, normalità e naturalezza, don Tonino riuscì a conquistare tantissima gente, fuorché una categoria di uomini, quelli a cui si attribuisce il termine “politico”.</p><br /><br /><br /><br />
<p>© Luce e Vita - Molfetta