le teologhe italiane di fronte ai femminicidi

coordinamento teologhe italiane

“uomini che uccidono le donne”

Perché ancora si raccontano i femminicidi normalizzando i gesti degli assassini? Perché l’idea che l’esistenza delle donne valga meno di quella dei maschi non è affatto tramontata, e si infila dappertutto. Allora ci sono dei passi seri da fare, ci sono delle responsabilità a cui nessuno può sottrarsi. Chiese e “uomini perbene” inclusi.
 

Se a qualche persona fosse sfuggito il fatto che non solo “altrove”, ma qui – qui da noi, nelle nostre città, nelle nostre case – c’è una tragedia che si consuma quotidianamente, le cronache delle ultime settimane avrebbero dovuto togliere ogni velo dagli occhi: 8 donne uccise in dieci giorni. Se contiamo dall’inizio dell’anno sono 86, di cui 72 uccise in ambito familiare-affettivo; e in 51 casi l’assassino è il partner o l’ex.

Morte non perché si trovavano a passare in mezzo a una sparatoria o a un attentato. Ma perché ciò che i loro assassini hanno voluto sopprimere era il loro essere donne: la parola “femminicidio” – diceva già anni fa Michela Murgia – non indica il sesso della morta; indica il motivo per cui è stata uccisa.

Il punto è questo, ormai dovremmo saperlo, e non è più tollerabile che lo si dimentichi e non lo si assuma in tutta la sua portata.

E invece siamo ancora qui – per fortuna insieme a tante altre – a denunciare il modo in cui questi crimini vengono raccontati sui mass media. I quali sì, lo vedono bene che si tratta di una faccenda tra uomini e donne; ma la normalizzano. Perché lei era “bella e impossibile” o aveva un top nero, lei voleva lasciarlo (poi magari in una riga in mezzo all’articolo si scopre che erano anni che lui la picchiava) e lui soffriva tantissimo, ed è un brav’uomo che salutava sempre (quindi lei l’ha sicuramente esasperato, altrimenti non sarebbe successo) e ha avuto un raptus, e lei non aveva cucinato e usciva troppo, e lui non sopportava che lei avesse un altro… Quindi, per forza che poi succede che la uccide, no?

“Per forza” in che senso?

Eh, no. “Per forza” si dice quando ti sfugge un oggetto dalle mani e la gravità lo fa cadere a terra. Non per un femminicidio, non per lo stupro, non per le forme molteplici di violenza domestica e nelle relazioni intime, non per le infamie perpetrate da gruppi di maschi su Telegram, non per il catcalling (che sarebbe ad esempio quando cammini per strada pensando ai fatti tuoi e dei maschi ti urlano «abbèlla, non sai che ti farei…» e sostengono che è un complimento mentre tu ti disfi di paura, di umiliazione, di rabbia; e loro lo sanno, lo sanno fin troppo bene, altro che complimento).

A meno che… a meno che anche quando un uomo uccide o violenta o molesta sessualmente una donna non si presupponga che c’è una legge forte e insindacabile quanto quella gravitazionale, a cui coloro che raccontano e commentano sia adeguano. La legge per cui il mondo è del maschio, e quello che una donna vive, sente, desidera non conta. La sua vita, la sua dignità, il suo corpo, la sua libertà, il suo consenso non contano, o comunque contano meno. E tutto sommato quello che un uomo fa per riportare una donna “al suo posto” (il posto deciso da lui) va bene. Magari uccidere no – quello si condanna – ma solo perché è un eccesso, non perché sia sbagliato il sistema in sé. È questo che ancora ci arriva – condito spesso da disgustoso voyerismo – dalle tastiere di tante redazioni.

Allora questo “per forza” va continuamente svelato per quello che è: la prova certa che una cultura patriarcale, sessista e violenta abita i nostri mondi privati e pubblici e fa da humus alle manifestazioni estreme che ben conosciamo. Le rende “ovvie” – al pari degli stupri di guerra, che di ovvio non hanno proprio niente. È per questo che l’indignazione dell’opinione pubblica, quando c’è, fatica a tradursi in coscienza collettiva, in azioni condivise, in cambiamenti strutturali.

Da teologhe cristiane diciamo

In sintonia con altre realtà di donne impegnate nell’analisi e decostruzione dell’universo simbolico e pratico che sorregge tale sistema, le teologhe femministe da molto tempo lavorano perché le Chiese prendano coscienza delle proprie complicità – passate e presenti – rispetto a un ordine gerarchico fra i sessi che non è compatibile né con i diritti umani né con il vangelo[1].

Alcune prospettive in particolare ci sembrano oggi irrinunciabili:

  • La violenza contro le donne riguarda le Chiese

Sembra scontato, ma non lo è: nelle Chiese cristiane – seppure con differenze fra le diverse confessioni – la violenza maschile contro le donne non è considerata una priorità, e anzi persistono ampie sacche di negazionismo e minimizzazione (sia in generale che rispetto ai numerosissimi casi che avvengono dentro le Chiese).

Spesso anche nei contesti e nei documenti più sensibili alla qualità delle relazioni – dal livello privato a quello politico – essa è dimenticata o evocata solo con brevi accenni che ne oscurano il carattere pervasivo, strutturale e paradigmatico.

C’è quindi bisogno di un lavoro sistematico e condiviso, che grazie al lavoro di tante studiose anche italiane può avvalersi di numerosi e qualificati strumenti utili per rileggere la tradizione, le teologie, le pratiche pastorali, l’ecclesiologia, l’uso dei testi biblici ecc. Perché il paradigma del dominio e della “voce unica” si infila anche nelle catechesi più moderne, nelle omelie più ispirate, nei convegni più illuminati, nei tiktok e nei blog più frizzanti.

  • Come e a cosa educhiamo?

Sappiamo che in molti modi la cultura occidentale trasmette ai maschi una mentalità di violenza contro le donne addestrandoli al dominio, al controllo, all’“onore”, alla superiorità; e questa stessa cultura tende a insegnare alle donne la sottomissione a questa violenza, ad accettare legami ingiusti, a esporsi a ciò che non le fa vivere e a credere che la sottomissione al desiderio maschile sia una via di realizzazione personale e un mezzo per rendere migliore il mondo.

Siamo quindi di fronte a un’emergenza anzitutto educativa, che richiede un livello di intervento profondo e costante, paziente e inesorabile per lavorare sui modelli culturali, per decostruire stereotipi di genere che annientano la vita, per imparare a essere uomini e donne in modo nuovo, insieme.

Riteniamo fondamentale l’impegno di coloro che – nell’ottica del comma 16 della L. 107/2015, dell’Obiettivo 5 dell’Agenda 2030 e della Convenzione di Istanbul – si spendono per una pedagogia e una didattica capaci di decostruire quei messaggi e sostenere relazioni educative e paradigmi culturali fondati sulla parità, la dignità, la libertà e l’inclusione.

Crediamo però che anche nei contesti ecclesiali sia necessaria la stessa cura e attenzione nei percorsi educativi e formativi che coinvolgono l’infanzia, le fasce giovanili e le generazioni adulte, famiglie comprese: una generica “attenzione alla persona” non basta a decodificare e mutare la realtà.

  • La questione è maschile

La violenza contro le donne e il sistema che la sostiene non sono una “questione femminile”. Le donne ne fanno le spese, certo; possono adeguarsi; possono anche esserne complici, andando contro sé stesse.

Ma la questione è maschile, e sono gli uomini innanzitutto che devono assumerla, perché riguarda la costruzione della loro maschilità, l’eredità ricevuta, le scelte che si possono e si vogliono fare per uscire dalle gabbie di un’identità che è stata strutturalmente legata al dominio e al controllo sulle donne, all’autorità, all’illusione della non parzialità e dell’invulnerabilità. In questo senso nessun uomo, per quanto “perbene”, può sentirsi a posto e pensare che la cosa non lo riguardi.

Lentamente gli uomini cristiani stanno cominciando a seguire l’esempio dei gruppi maschili che da qualche tempo lavorano in questa direzione.

Auspichiamo che i passi di alcuni diventino di molti e di tutti, per avviarsi verso una maschilità che non tradisca, come invece è successo finora, quella paradigmatica di Gesù[2].

Molto del futuro delle Chiese – su cui grava anche la millenaria e distorcente associazione fra maschile e sacro – dipende dall’ampiezza e dalla profondità di questa conversione.

* * * *

[1] Si veda ad es. Elizabeth E. Green, Cristianesimo e violenza contro le donne, Claudiana, Torino 2015; Paola Cavallari (a cura di), Non solo reato, anche peccato. Religioni e violenza contro le donne, Effatà, Cantalupa 2018.

[2] La illustra ampiamente Simona Segoloni RutaGesù, maschile singolare, EDB, Bologna 2020.




le teologhe italiane riflettono sulla risposta di papa Francesco alle domande delle suore

le suore domandano

papa Francesco risponde

top-NL

di Cristina Simonelli

presidente del CTI (Coordinamento Teologhe Italiane)

Cristina Simonelli

 

mentre le voci si fanno coro e si moltiplicano i commenti, dai più documentati fino alle esternazioni estemporanee, è cosa buona ricostruire la trama su cui il dibattito attorno al diaconato femminile si sta svolgendo, con alcune osservazioni

Le domande delle superiore generali erano molto più ampie e, come sottolinea Carmen Sammut, presidente UISG (= Unione Superiore Generali), riguardavano il ruolo delle donne, ma anche ad esempio la questione del denaro, cui il papa ha risposto nonostante fosse stata scritta ma espunta dalla lettura. Così come Francesco ha ancora invitato a distinguere il servizio dalla servitù imposta sotto pretesto di umiltà e femminile attitudine di cura. Tutto il dialogo immediatamente, nella attenzione pubblica, è stato sequestrato dalla apertura a aprire il dibattito su donne e diaconato: non è un caso ma fa capire che i tanti, troppi rifiuti a discutere la questione in questi 50 anni non sono per niente condivisi nella comunità ecclesiale – e non solo dalle donne, consacrate o meno, ma anche da molti uomini. Si può finalmente dire che è ora di aprire questo discorso, e si deve tuttavia anche ripetere che da molto tempo vi sono studi importanti sul tema: nonostante sia tarda, l’ora è comunque certo benvenuta.

Le domande delle suore utilizzavano di fatto espressioni di Francesco, chiedendogli in fondo quali conseguenze pratiche se ne potessero trarre. Dunque, domande e risposte condividono lo stesso quadro interpretativo, che come spesso già accaduto contiene sia novità e desiderio di riforma, che fantasmi sul femminismo e il genio femminile, ma non manca di allargarsi a chiedere «la costituzione di una commissione ufficiale per studiare la questione» del diaconato permanente per le donne, «come nella chiesa primitiva». Sugli argomenti che distinguono processi decisionali e ministeri ordinati, nonché sulla singolare lettura fisicista dell’in persona christi, siamo già intervenute quando è uscita Evangelii gaudium (http://www.teologhe.org/editoriale-luce-in-ogni-cosa-dicembre-2013/). Notiamo solo qui che come si è tentato di riconsiderare la prassi, la disciplina e la teologia delle famiglie, non si potrà ancora rimandare una dibattito altrettanto articolato sul ministero, tutto, che non può rimanere immobile mentre ogni cosa intorno si muove.

Due altre questioni sono particolarmente significative e degne di riflessione: il richiamo all’antichità cristiana e l’affermazione di Francesco che «per il codice [di diritto canonico] non c’è problema, è uno strumento». Per chi si colloca in un’ottica storica, entrambe le affermazioni sono evidenti, ma sembra che non per tutti sia così. Come molte colleghe (Noceti, Perroni, Prinzivalli, fra le altre) hanno sottolineato esistono già molti studi di rilievo – a livello storico insuperato anche a mio parere Moira Scimmi, Le antiche diaconesse nella storiografia del XX secolo. Problemi di metodo, Glossa, Milano 2004. Il problema negli studi “generali” è tuttavia duplice: da una parte molte letture apparentemente documentate hanno fin qui semplicemente espunto o comunque sottovalutato la documentazione sui riti di ordinazione delle diaconesse, sottoponendo le fonti a un tipo di analisi di fronte al quale sarebbe invalidata anche ogni forma ministeriale maschile dei primi secoli. In secondo luogo a livello ufficiale si fa spesso giocare la tradizione su due tavoli a seconda delle “necessità”, torcendo le fonti ora a supporto dell’intangibilità della traditio, ora a difesa della legittimità del suo sviluppo.

Solo alcune note, dunque, per segnalare tuttavia che come avviene da anni il Coordinamento delle teologhe italiane è un contesto in cui confluiscono e si sviluppano gli studi e le riflessioni di molte teologhe e alcuni teologi, anche sul ministero e anche specificamente sul diaconato. Alcune sono delle vere esperte sul tema in discussione (Noceti, Scimmi, Taddei Ferretti), altre hanno dato e danno importanti contributi sul versante esegetico (Perroni). Ogni elenco degli studi sarebbe comunque parziale, nonostante l’aggiornamento della bibliografia sul tema (http://www.teologhe.org/teologia-delle-donne/), così come la newsletter non potrà dare congruo spazio a tutto quello che sta uscendo sui media. Soprattutto però la scopo precipuo del CTI va molto al di là di redigere elenchi. Vuole piuttosto proporre un lavoro in rete in cui ogni personale contributo diventa parte di una fatica collettiva. Anche questo è un modo di uscire dal “clericalismo” e dal “personalismo”, che sono deriva e non destino di ogni forma ministeriale.