una vita da prete tra i rom e i sinti – in morte di don Mario Riboldi

 

 

è morto don Mario Riboldi

ha dedicato la sua vita ai rom e sinti

“scelse di vivere il sacerdozio da nomade”

di Zita Dazzi

Ha vissuto a lungo in roulotte in un campo rom di Brugherio e ha condiviso la sua vita con i rom e i sinti italiani di cui è sempre stato amico e referente. Ieri è morto a 96 anni, don Mario Riboldi, il prete di frontiera che più di chiunque altro negli ultimi 50 anni è riuscito a interpretare i bisogni di un popolo che ha vissuto come una minoranza ai margini delle grandi città, Milano in primis.
Lo avevamo intervistato una decina di anni fa proprio a Brugherio, nella sua casa mobile, in mezzo alle altre roulotte e vicino alla “cappella” dove celebrava ogni mattina la messa per i cattolici del suo campo. Era il loro consigliere spirituale e con loro tante iniziative aveva organizzato a favore del dialogo e dell’integrazione sociale. Da quando la sua salute si era deteriorata, viveva in una casa di riposo di Varese, lì dove è mancato ieri.

“È morto don Mario Riboldi, un uomo buono di Dio e uno dei più cari amici dei Rom e Sinti in Italia, Europa e in mezzo mondo – racconta in un post su Facebook Stefano Pasta, uno dei dirigenti di Sant’Egidio di Milano – Ho avuto la fortuna di essergli amico e aver tante occasioni con lui per condividere preghiere, parole, pranzi, sogni, preoccupazioni, pensieri per tanti rom e sinti. Tanti sono i ricordi dei momenti vissuti insieme: ricordo quando – avevo appena finito le superiori – mi raccontò come aveva iniziato la traduzione del Vangelo di Marco in una delle tante lingue romanes che parlava. Ogni incontro era l’occasione per un nuovo aneddoto, vicino e lontano nel tempo”.

            così ne da notizia  don Marco Frediani:

“È con dolore che vi informiamo della morte di Don Mario Riboldi, avvenuta il 9 giugno 2021, all’età di 92 anni. Ordinato sacerdote nel 1953 cominciò ad incontrare i nomadi della periferia Milanese. Iniziò così il suo viaggio con i popoli rom e sinti, vivendoci assieme. Accolto e apprezzato dall’allora Cardinale Montini e quindi futuro papa Paolo VI fu tra i promotori del primo e storico incontro della Chiesa Cattolica con Rom e Sinti a Pomezia il 26 settembre 1965. Ha svolto diversi ruoli in ordine alla evangelizzazione dei rom, sinti e camminanti sia come responsabile diocesano  che nazionale, portando agli onori degli altari il 4 maggio 1997, per la prima volta nella storia il gitano Ceferino Jimenez Malla.

Ha lottato, come lui diceva, con se stesso per cercare di entrare nella cultura del popolo “zingaro” imparandone i diversi idiomi e traducendo Bibbia, testi liturgici e canti nelle varie lingue per annunciare le meraviglie di Dio. “

così lo ricorda l’Avvenire:

Nomade per il Vangelo

addio a don Mario Riboldi, prete degli zingari


di Lorenzo Rosoli
Sacerdote del clero di Milano, è morto a 92 anni dopo una vita tutta dedicata a rom e sinti

Un’immagine sorridente di don Mario Riboldi

  • La canonica? Una roulotte. La cappella? Un container. Il tabernacolo? Una tenda cucita a mano dalle donne della comunità sinti. È morto martedì sera a Varese don Mario Riboldi, sacerdote del clero di Milano. Una vita condivisa in tutto e fino in fondo con gli zingari. «Mica per fare l’operatore sociale – aveva raccontato anni fa ad Avvenire  – ma solo perché sono un prete che si è sentito chiamato a portare il Vangelo fra chi, troppo a lungo, troppo spesso, è stato ignorato dai cattolici, a volte ancora così chiusi nelle loro parrocchie». Lui, la sua parrocchia, l’aveva portata – o, meglio, l’aveva incontrata – sulle strade, nei campi, nella vita dei nomadi. Fin dall’episcopato di Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, aveva iniziato a vivere con loro, a viaggiare con loro. Aveva imparato la loro cultura e le loro lingue. «Non per fare il maestro: ma per essere scolaro, con loro, alla scuola della Parola che salva», insisteva don Riboldi, che aveva tradotto il Vangelo di Marco in cinque lingue zingare. Lo stesso aveva fatto con testi liturgici, preghiere, canti. «E più della predicazione – non si stancava di ripetere – è importante la preghiera. Perché la conversione non è un frutto dei nostri sforzi ma un dono di Dio».

Mario Riboldi era nato il 21 gennaio 1929 a Biassono (Monza e Brianza) ed era stato ordinato sacerdote nel Duomo di Milano il 28 giugno 1953. Dal 1971 al 2018 è stato incaricato per la Pastorale dei nomadi della diocesi di Milano. Ma a farsi prossimo dei sinti e dei rom aveva già iniziato fin dalla fine degli anni ’50. «”Chi porta loro il Vangelo?”: ecco la domanda che don Mario, appena ordinato, al primo incarico a Vittuone, si fece dopo aver incontrato un gruppo di sinti. A quella domanda ha risposto col dono della sua vita. Le opere sociali sono importanti e utili, ma nulla va in profondità come la Parola di Dio. E don Mario non ha costruito cattedrali nel deserto, si è occupato solo di portare la Parola di Dio», testimonia don Marco Frediani, attuale incaricato per la Pastorale dei nomadi a Milano, che ha condiviso con don Riboldi alcuni anni di vita “itinerante”. Gli ultimi: dal 2018, infatti, le peggiorate condizioni di salute avevano costretto l’anziano prete a lasciare la roulotte per la casa di riposo «San Giacomo» di Varese, dove si è spento martedì. Don Riboldi, ricorda inoltre don Frediani, ha avuto un ruolo decisivo nel cammino verso gli altari di Zefirino Giménez Malla, il primo beato gitano, e – con don Bruno Nicolini – nell’organizzazione dello storico incontro di Paolo VI con gli zingari, il 26 settembre 1965 a Pomezia.

A quell’incontro – e al ruolo che vi ebbe don Riboldi – fa riferimento anche l’arcivescovo di Ferrara-Comacchio Gian Carlo Perego, neo presidente della Fondazione Migrantes, per ricordare nel sacerdote ambrosiano «una figura centrale, nel cammino post conciliare, della pastorale dei rom e dei sinti». «Voi nella Chiesa non siete ai margini, siete nel suo cuore», disse papa Montini a Pomezia. Parole che sono diventate, per don Riboldi, «il programma di una vita pastorale che lo ha visto camminare lungo tutte le strade d’Italia e d’Europa per incontrare le famiglie e le comunità rom e sinti». «Ringraziamo il Signore per il dono del suo lungo e fedele ministero sacerdotale speso con lo zelo del buon pastore», si legge nel messaggio di cordoglio dell’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, e del Consiglio episcopale milanese «in comunione con il presbiterio diocesano». Il funerale verrà celebrato domani alle 11 nella natìa Biassono.




la paura del coronavirus e la vita che ricomincia

dalla paura alla riflessione, dalla lacerazione alla riconciliazione e all’abbraccio
i sinti a Lucca e il terrore del coronavirus visto da vicino

Erano giorni durissimi, quei giorni di marzo quando arrivavano su tutti i telegiornali e programmi televisivi notizie e immagini preoccupanti di una epidemia che acquisiva le dimensioni di una pandemia, che poteva coinvolgere tutti, ma proprio tutti, ‘democraticamente’.
Ognuno di noi stava spesso con orecchi e occhi spalancati al televisore per cercare indicazioni onde evitare di esserne coinvolti.
Anche al Campo Nomadi di Lucca cominciavano ad arrivare le prime notizie di tanti ‘positivi’ e anche morti nella stessa Lucca, i casi si moltiplicavano e possibili focolai venivano indicati in zone vicine e poco frequentate.
E’ in questo contesto di ansia, perplessità, speranza, ma più spesso paura (e anche incubi e rincorsa alle spiegazioni più fantasiose o comunicazioni whatsApp tendenti a scaricare l’ansia con video denigratori verso lontani ‘colpevoli’ … ) che scoppiò come un grande fulmine … a cielo molto cupo la notizia che ‘una del campo’ era risultata positiva da un casuale tampone fattole una decina di giorni prima all’ospedale per un ricorso al pronto soccorso per tutt’altri motivi.
“Una di noi è positiva”, “i nostri bambini sono in pericolo”. Anzi: “una di noi è l’ ‘untore’, anzi il traditore che non ci aveva detto nulla del tampone …!”.
Quando qualche giorno dopo arrivò la notizia della positività al coronavirus anche del marito la tensione raggiunse il culmine, ognuno si chiuse nella propria campina con animo non proprio sereno.


Al telefono e su whatsapp venivo continuamente informato della loro ansia e c’era chi più preoccupato di altri cercava di coinvolgere anche me (“non credere di cavartela facilmente”, o come a dire: “mal comune mezzo gaudio” nel senso che in compagnia si porta meglio anche la croce) nel proprio destino, ricordandomi che nei giorni precedenti ero io stesso in mezzo a un grande gioco di comunità che aveva visto pressoché tutti protagonisti, l’uno vicinissimo all’altro, ad agitarsi e a gridare per il desiderio di vincere ciò che era in palio, e … non era proprio lontano da noi, anzi dava manforte anche colei che ora era indicata come la colpevole ‘untrice’ che volutamente (ma non è vero!) aveva nascosto il suo stato di positività agli altri, peraltro tutti parenti.
Tutti noi con evidente e comprensibile ansia contavamo i giorni che lentissimamente trascorrevano (consolati solo dal verificarci tutti asintomatici) … i giorni comunque trascorrevano tra il primo tampone positivo e una quarantena ‘a quella maniera’ e il secondo tampone finalmente negativo … il profondo respiro di sollievo e il grande senso di nuova possibile speranza bilanciò quel fulmine a cielo cupo che aveva tutti fulminato, e da lì in poi è stato più facile per tutti scorciare distanze, dialogare in modo pur sostenuto ma più positivo, esercitare maggiore comprensione e accettare ragioni che in situazione surriscaldata era pressoché impossibile.

Appena ci è stato possibile (magari interpretando in modo un po’ estensivo le norme di convivenza in tempi di coronavirus) un altro gioco di comunità ha visto ancora tutti coinvolti e rappacificati e rassicurati, capaci di superare tranquillamente anche un’altra paura, quella conseguente alla fuga di notizie che su un organo locale di informazione di estrema destra aveva segnalato un focolaio attivo e pericoloso al Campo Nomadi. I primi commenti in internet a tale notizia non lasciavano infatti ben sperare e i sinti esprimevano apertamente la paura che una qualche ‘spedizione’ di gage potesse venire al Campo con intenzioni non proprio costruttive. Alcuni gage infatti su facebook avevano commentato che forse sarebbe stata la volta buona per fare sparire i sinti da Lucca. Nei giorni seguenti una vecchia conoscenza cui non sono proprio simpatico per l’amicizia dei sinti mi incrocia per strada e mugolando tra sé e sé, ma non troppo sottovoce, lascia intendere la sua delusione: “accidenti, è ancora vivo … !”.
Se al Campo Nomadi più vicino a me il tempo del coronavirus è stato vissuto in questa atmosfera comprensibilmente drammatica, alimentata anche dalle immagini che venivano dalla televisione (i famosi camion militari pieni di cadaveri … ), tutto sommato però è stato vissuto in modo riflessivo e ragionevole, occasione di vero, ancorché sofferto, dialogo che coniugava paura e speranza, riflessione e fede, domande profonde sul perché di ciò al di là di ricostruzioni mitologiche e un’esigenza di cambiamento di stile di vita rispetto a quello delle manipolazioni e della violenza sulla natura, perché alla fin fine quest’ultima, violentata e repressa, “ci presenta il conto”.
In altre presenze di Sinti a Lucca, più orientate in senso ‘spiritualistico’, ‘intimistico’ e miracolistico perché alimentate ad una spiritualità ‘pentecostale’, ‘evangelista’, o addirittura ‘apocalittica’ alla ‘Radio Maria’ non pochi ripetevano continuamente che si trattava chiaramente di una punizione di Dio per i troppi peccati, aperti però anche all’addolcimento della terminologia, nel senso che – coi tempi moderni – apparendo forse troppo forte quella della ‘punizione’, sicuramente debba trattarsi almeno di una ‘ammonizione’ o ‘avvertimento’ o ‘avviso’ dall’Alto.
Non ho mai esercitato la confessione per telefono, ma nei mesi scorsi a motivo di un’atmosfera così apocalittica non pochi sinti , anche lontane conoscenze o comunque lontani da Lucca mi hanno chiesto di poter ricevere l’assoluzione al telefono perché “non si sa mai … !”.
Questo mi ha fatto più volte riflettere sui contenuti di una ‘evangelizzazione’ che troppo spesso si ammanta di novità perché capace di utilizzare nuovi strumenti ma il più delle volte veicola concezioni punitive e negative di Dio allontanandosi molto dalla rivelazione evangelica.
La esperienza più positiva in questo nero periodo di coronavirus credo di averla comunque vissuta col gruppo di sinti che più da vicino mi ha coinvolto, anche nel rischio di contrarre e condividere col loro l’infezione.
C’è stata schiettezza umana fatta di paura, ansia, tensione, parolacce, pure, ma anche volontà di capire, di riflettere, di dialogare (quanto hanno viaggiato i vari strumenti di messaggistica compreso whatsapp!) per emergere da tale paura e gestirla ragionevolmente…e devo confessare che segretamente pensavo dentro di me che se proprio avessi dovuto correre qualche rischio a motivo di questo, averlo corso in solidarietà a coloro che sono ormai da tempo diventati compagni di viaggio, condividere cioè il comune destino, non mi avrebbe disturbato poi troppo.
Ultimamente, nel benedire le tombe di tre loro defunti che in tutto questo periodo non c’era stato modo di farlo, tra una parola scherzosa e l’altra con cui tutti cercavano di esorcizzare il pericolo scampato e il passato di trepidazione, nell’affermare che loro sono sinti e hanno comunque gli anticorpi per combattere anche i virus peggiori perché abituati a vivere – a diversità dei gage – una vita intera a contatto con la natura lungo un fiume, diversi mi hanno puntualizzato che se io stesso ne sono uscito bene si deve al fatto che … “stai coi sinti”.
Chissà che questo non abbia un’anima di verità?




l’ ‘inammissibile “amnesia storica” a proposito dello sterminio di rom e sinti

l’olocausto di rom e sinti

Porrajoms

lo sterminio di cui non si parla

  Sull’olocausto di rom e sinti da parte del regime nazifascista è calata un’inammissibile “amnesia storica”. Ma 500 mila morti non si possono dimenticare

l’appello di Moni Ovadia e del rabbino Ariel Toaff affinché il Giorno della memoria venga dedicato anche alle vittime rom e sinti

500 mila morti praticamente dimenticati. Chi non conoscesse la parola porrajmos, non se ne faccia però una colpa: dell’olocausto dei popoli rom e sinti in Italia si parla ben poco. Ma è una mancanza grave, un’inammissibile “amnesia storica” a cui si deve porre riparo. In lingua romanes porrajmos significa infatti “devastazione” e indica lo sterminio delle minoranze rom e sinte da parte del regime nazifascista. La Shoah dei rom e dei sinti, per dirla in breve.

Una tragedia quasi rimossa, tant’è che quando nel 2000 venne istituito il Giorno della memoria per ricordare gli ebrei vittime della persecuzione, lo sterminio dei rom non venne nemmeno preso in considerazione. Per questo lo scorso ottobre l’artista Moni Ovadia e il rabbino Ariel Toaff hanno rivolto un appello al presidente della Repubblica Sergio Mattarella: obiettivo, chiedere che la memoria del 27 gennaio venga dedicata anche al porrajmos.

Se tanti sanno infatti che Elvis Presley, Zatlan Ibrahimovic e le famiglie Togni e Orfei appartengono al popolo rom, pochissimi ricordano che dalla metà del dicembre 1942 rom e sinti di tutta Europa furono deportati nei campi di concentramento e sterminati alla pari di ebrei, omosessuali, persone con disabilità e dissidenti politici. «Mio padre, nato a Postumia, a cinque anni fu deportato nel campo di concentramento di Tossicia, in provincia di Teramo», dice Giorgio Bezzecchi, docente di Lingua e cultura romanì all’Università di Pavia e figlio di Goffredo Bezzecchi, sopravvissuto all’internamento.

Parlando a nome del padre Goffredo, 80 anni e provato prima dalle conseguenze dell’internamento sulla psiche e poi dalla malattia, nei giorni scorsi Bezzecchi è intervenuto davanti agli studenti dell’istituto Severi-Correnti di Milano. Con sé aveva la Targa d’Argento del Senato, assegnata al padre lo scorso aprile. «Per la prima volta abbiamo ricevuto un riconoscimento istituzionale per la persecuzione», ha fatto notare Bezzecchi. «In Slovenia avevo una grande famiglia ma oggi non ce l’ho più». I nonni e una zia di Goffredo furono infatti deportati e uccisi ad Auschwitz, il padre fu condotto a Birkenau e altri parenti internati nel campo di Agnone (Isernia). Uno degli zii nacque invece a Tossicia nel 1943 e «lo chiamarono Benito», ricorda amaro Bezzecchi.

In Italia i campi d’internamento disposti per gli “zingari” furono 50, da Vinchiaturo (Campobasso) a Perdasdefogu, in Sardegna, passando per Ferramonti (Cosenza). «Mio padre racconta che non avevano le scarpe. Faceva freddo, avevano ognuno un vestito e c’erano solo due coperte per tutti, anche quando nevicava. Avevano fame e soffriva per la clandestinità: nessuno li voleva e temevano di morire», riprende Bezzecchi. «Mio padre oggi è scosso dal disinteresse per chi muore nel Mediterraneo.  Io stesso sono molto preoccupato: mi spaventa il silenzio della società civile».

Oggi in Italia fra rom, sinti  e camminanti (un gruppo che vive nella Sicilia orientale, ndr) si parla 110-170 mila persone, pari alla popolazione della città di Mantova. «A Milano, dove vivo con la mia famiglia, spesso siamo stati additati come “un problema da sgomberare”… ma siamo 4 mila, di cui 2 mila minorenni, su un milione di residenti: non certo cifre da potersi considerare “un problema”», fa notare Bezzecchi.

Rom e sinti sono la più grande minoranza europea: tra i 10 e i 12 milioni distribuiti fra Italia, Spagna e Germania soprattutto. «Sono tutti cittadini europei. Si tratta di persone per lo più sedentarie, in Italia solo il 3 % dei rom, i circensi, pratica il nomadismo », spiega Carlo Scovino di Amnesty International. «Eppure è da più di 500 anni che queste persone subiscono forme più o meno esplicite di discriminazione, dal pregiudizio allo sterminio, passando per le classi speciali nella scuola pubblica e la richiesta di schedatura come negli anni Quaranta e nel 2008».

L’antiziganismo ha origini antichissime, che in Italia risalgono al 15° secolo. «La parola zingari viene dal greco atziganoi, che significa “persone senza Dio”. Arrivarono in Europa dall’India e dal Bangladesh nel 1300, subito indicati come un gruppo diverso, pericoloso e quindi da allontanare», spiega Ulderico Daniele, antropologo e docente all’Università degli Studi di Roma Tre. Fra gli stereotipi duri a morire, gli zingari ruberebbero i bambini e sarebbero, di default, ladri. «A dir la verità fino al 1973 è stata la civilissima Svizzera a strappare i “figli del vento” alle famiglie per rieducarli in istituto. E per quanto riguarda la delinquenza, i disonesti ci sono in tutte le popolazioni», chiude Scovino: «Non si tratta di beatificare i rom, ma oggi sembra che davanti alla legge cada il principio dell’uguaglianza».




rom e sinti e lo sterminio nazista

il Porajmos

lo sterminio nazista di rom e sinti, ci sia di lezione per l’oggi

di Annamaria Rivera

Soltanto nel corso degli ultimi decenni la persecuzione e lo sterminio nazi-fascisti della popolazione romaní (rom, sinti e caminanti) sono divenuti oggetto di studi e di commemorazioni in occasione del Giorno della Memoria (27 gennaio). D’altronde, basta dire che nel corso dello stesso Processo di Norimberga ai superstiti del Porajmos (traducibile dalla lingua romaní come “grande divoramento” o “devastazione”) fu rifiutata la costituzione quale parte civile.

Eppure a esserne vittime furono centinaia di migliaia di loro. Alcuni/e studiosi/e − in particolare il rom Ian Hancock, ottimo linguista ma anche strenuo attivista, nonché direttore del Romani Archives and Documentation Center, presso l’Università del Texas − sostengono si tratti di un numero che si aggirerebbe tra le 500mila e il milione e mezzo di martiri, se si comprendono coloro che perirono nel corso delle fucilazioni di massa in tutte le aree occupate dai nazisti, in particolare nei paesi baltici e balcanici, a opera non solo dei nazisti, ma anche dei collaborazionisti locali.

Quanto all’Italia fascista, già nel 1926 il ministero dell’Interno emanò una circolare volta a “epurare” il territorio nazionale dalla presenza di una minoranza considerata pericolosa “per la sicurezza e l’igiene pubblica” nonché per lo stile di vita: degli eterni randagi privi di senso morale”, come li avrebbe definiti Guido Landra, tra i più noti firmatari del Manifesto della Razza.

Con le leggi per “la difesa della razza” e l’entrata in guerra dell’Italia, si passò rapidamente dalle pratiche di schedatura, detenzione ed espulsione a quelle di persecuzione e deportazione, preceduta dall’internamento in lager riservati agli “zingari”: ve ne furono nei comuni di Agnone, Berra, Bojano, Chieti, Fontecchio negli Abruzzi, Gonars, Prignano sulla Secchia, Torino di Sangro, Tossicia, ma anche nelle isole Tremiti…

Il regime hitleriano, com’è ben noto, portò alle estreme conseguenze l’antiziganismo, che era assai diffuso, anche in forma istituzionale, perfino nella democratica Repubblica di Weimar: per fare un solo esempio, nel 1929 un centro di studi e controllo su questa minoranza, fu rinominato e convertito in Ufficio centrale per la lotta contro la piaga zingara. Subito dopo l’avvento del Terzo Reich, nel 1933, fu promulgata la legge Per la prevenzione di progenie affetta da malattie ereditarie, che introdusse la pratica della sterilizzazione forzata anche per rom e sinti, perfino per donne incinte e ragazzi, con esiti in non pochi casi letali.

Nel 1935 si aggiunsero le leggi razziste di Norimberga, che privarono la minoranza romanì della nazionalità e di qualsiasi pur elementare diritto. Tre anni dopo, una circolare emanata da Heinrich Himmler faceva riferimento alla “soluzione finale della questione zingara” e ordinava la schedatura di tutti gli “zingari”, che fossero nomadi o stanziali.

Già a partire da dicembre del 1941 cinquemila “zingari”, provenienti dal ghetto di Łódź, furono gasati nel campo di sterminio di Chelmno, al pari degli ebrei. Infine, il 16 dicembre 1942, Himmler firmò l’ordine d’internamento dei rom e sinti tedeschi nello Zigeunerlager del campo di Auschwitz-Birkenau, un lager nel lager. Qui anche dei bambini “zingari”, oltre a quelli ebrei, sarebbero stati selezionati per essere sottoposti agli orrendi esperimenti pseudo-scientifici di Josef Mengele.

Nondimeno gli “zingari” vendettero assai cara la pelle. Furono loro gli attori dell’unico episodio di resistenza compiuto in un lager. Il 16 maggio del 1944, avuta notizia dello sterminio imminente, un folto gruppo d’internati nello Zigeunerlager, armato di pietre e bastoni, riuscì a tenere testa alle SS, tanto da ucciderne undici e ferirne un buon numero. La loro rivolta durerà ben tre mesi, fino alla “soluzione finale”. Lì furono in 19.300 a perdere la vita: 5.600 finirono gasati; 13.700 morirono per fame, per malattie, per gli esiti delle sperimentazioni compiute dall’Angelo della Morte.

Tuttora, specialmente in Italia, rom, sinti e caminanti, sbrigativamente chiamati “zingari”, costituiscono la minoranza più disprezzata e stigmatizzata, discriminata ed emarginata, addirittura segregata: sono, si potrebbe dire, le vittime strutturali del razzismo. Si tenga conto che l’ordinamento italiano non contempla alcuna norma che riconosca questa popolazione quale minoranza etnico-linguistica, in quanto tale titolare di diritti poiché tutelata, tra l’altro, dall’art. 6 della Costituzione repubblicana.

Si aggiunga che l’Italia è il solo Paese in Europa ad aver elevato a vero e proprio sistema i cosiddetti campi-nomadi: materializzazione perfetta della discriminazione nonché del pregiudizio che vuole che essi siano nomadi per natura e vocazione. Si tratta di un sistema di ghetti, per lo più degradati e collocati in periferie urbane estreme, esse stesse degradate, che viene organizzato e sostenuto pubblicamente allo scopo di segregare gli “zingari”, privandoli della possibilità di lavorare, partecipare alla vita italiana, avere contatti e rapporti con la società maggioritaria.

Il repertorio di pregiudizi, atti discriminatori, violazioni di diritti umani fondamentali, minacce e aggressioni ai danni di rom e sinti, fino all’incitamento al linciaggio da parte di alcuni soggetti istituzionali e rappresentanti di partiti politici, è talmente vasto che non basterebbero alcuni tomi a contenerlo. Fra le altre cose, eventi abituali nella vita dei rom e dei sinti sono le irruzioni nei “campi-nomadi” delle forze di polizia, condotte con metodi tanto brutali da somigliare a rastrellamenti, nonché gli sgomberi forzati, la sistematica distruzione dei loro insediamenti e delle loro cose, spesso seguita dalla deportazione.

In Italia da alcuni anni la politica istituzionale antizigana, basata su sgomberi e deportazioni, si compie attraverso la periodica decretazione dello stato di emergenza, una misura che dovrebbe essere riservata solo ai casi di gravi calamità naturali quali i terremoti. L’”emergenza-nomadi” è in sostanza una misura che assimila a una catastrofe la presenza di poche migliaia di “indesiderabili”: basta pensare che i rom presenti a Roma, città che s’illustra per questo genere di politica, sono poco più di 4.500 persone su 4.355.725 abitanti (dati del 2018), vale a dire circa lo 0,1 per cento della popolazione.

Pochi dati fanno risaltare, per contrasto, di quante dicerie e leggende si nutrano la discriminazione e segregazione dei rom, sinti e caminanti, a cominciare dal mito del nomadismo: l’80% dei cosiddetti zingari dopo il XVI secolo non si sono mai allontanati dal proprio paese europeo di residenza; in alcune regioni italiane essi sono stanziali almeno dal XV secolo.

Secondo dati del 2018, sarebbero tra le 110mila e le 170mila le persone che s’identificano come rom, sinti o caminanti. Di loro circa 70mila sono di nazionalità italiana, per lo più discendenti da famiglie giunte in Italia nel tardo Medioevo. Gli altri provengono in gran parte da paesi dell’Est-Europa, soprattutto dalla Romania, quindi in quanto tali “regolari” e inespellibili. Checché ne pensi Beppe Grillo, che già nel 2007 definiva “una bomba a tempo” i rom di nazionalità romena e proponeva d’interdire loro la libera circolazione nell’Ue, onde salvaguardare “i sacri confini della Patria”.

A vivere nei campi sono in 26mila, dei quali 10mila in campi non autorizzati. Più della metà di loro è costituita da bambini e ragazzi al di sotto dei 16 anni. La fame, il freddo, l’emarginazione, le malattie, i roghi, la discriminazione negano loro il diritto di invecchiare: solo il 2% raggiunge i 60 anni di età.

Eppure la gran parte di questa minoranza, come ho detto, è parte integrante della popolazione e della storia italiane. Per limitarci a un dato relativo alla storia contemporanea, basta dire che numerosi rom e sinti parteciparono alla Resistenza contro il nazifascismo. Fra i pochi dei quali conosciamo le biografie, si può citare il sinto piemontese Amilcare Debar, detto Taro, scomparso il 12 dicembre 2010. A soli diciassette anni Taro fu staffetta partigiana; poi, sfuggito fortunosamente alla fucilazione, divenne partigiano combattente nelle Langhe e militò, con il nome di “Corsaro”, nel battaglione “Dante di Nanni” della 48ma Brigata Garibaldi, al comando di Pompeo Colajanni. Rastrellato dai nazisti nel 1944, fu deportato a Mathausen e ad Auschwitz e liberato nel 1945.

Nel dopoguerra egli fu rappresentante del suo popolo alle Nazioni Unite a Ginevra.

Benché onorato e pluridecorato, Taro, al pari di altri rom e sinti sopravvissuti ai campi di sterminio, visse fino alla fine dei suoi giorni in un “campo-nomadi”. Nel 2008 (ministro dell’Interno Maroni) nel corso di una vasta campagna istituzionale mirante alla schedatura “etnica” di massa, con rilevamento delle impronte digitali, dei rom, sinti e caminanti presenti sul territorio italiano, compresi i bambini, furono schedati anche ex-deportati ed ex-internati nei lager fascisti e nazisti.

Oggi, niente di buono per loro c’è da aspettarsi dal governo fascio-stellato. Appena insediatosi, Matteo Salvini, annunciando un censimento “etnico” alla maniera di Maroni, ne sparò una delle sue: “Se gli stranieri irregolari vanno espulsi, i rom italiani purtroppo te li devi tenere a casa”. Quanto alla famigerata legge sulla sicurezza, da lui fermamente voluta, rafforzando ed estendendo il “Daspo urbano” e altri dispositivi repressivi, essa ancor più espone la minoranza romaní a soprusi, discriminazioni, deportazioni.




l’evangelizzazione dei rom e sinti in Italia – il volume di L. Piasere

la chiesa nomade

per un’antropologia storica dell’evangelizzazione cattolica dei rom e sinti in Italia

“Cari zingari, cari nomadi, cari gitani, venuti da ogni parte d’Europa, a voi il nostro saluto.”

Con queste parole il 26 settembre 1965 papa Paolo VI inizia il suo discorso in un grande raduno che viene considerato oggi il punto di partenza per nuove strategie pastorali verso rom e sinti. Il libro analizza il modo in cui la Chiesa cattolica contribuisce alla metamorfosi dei “nomadi” nell’Italia (e in parte nell’Europa) della seconda metà del Novecento attraverso quelle nuove strategie pastorali. Si tratta di strategie che portarono decine di preti, suore e laici a vivere con i “nomadi” in nome della condivisione in Cristo, che svilupparono un’editoria cattolica rivolta ai “nomadi” o riguardante i “nomadi”, che favorirono la traduzione in romanes di testi ezvangelici e liturgici e che portarono agli onori degli altari, per la prima volta nella storia, un “nomade”. Ma le strategie pastorali non appaiono sempre omogenee e concordi all’interno della Chiesa, né nei rapporti con i “nomadi”, né nei rapporti con le autorità diocesane e parrocchiali. Partendo dalle esperienze etnografiche dell’autore, il volume analizza tali rapporti, tenendo in considerazione le storie di vita di singoli missionari e attivisti religiosi che hanno vissuto per decenni nei campi nomadi o nei quartieri rom della Penisola.

Leonardo Piasere è professore ordinario di Antropologia culturale all’Università di Verona. Specialista di studi rom, è stato direttore di diversi progetti di ricerca nazionali e internazionali. È autore di centinaia di pubblicazioni, molte delle quali tradotte all’estero.




truffa contro i rom – sette miliardi di fondi europei svaniti nel nulla

nomadi

“svaniti nel nulla”

a Castel Romano 70 casi scabbia, leptospirosi, epatiti e lecumeni da luglio ad oggi

Nomadi, la mega truffa dei fondi europei per l'inclusione. “Svaniti nel nulla”

sette miliardi di euro di fondi europei in sei anni destinati all’inclusione al sostegno dei rom che sono in Italia: ma ad oggi nessun programma è stato realizzato e nei campi nomadi è emergenza sanitaria. Al Campo di Castel Romano da giugno ad oggi si contano 70 casi tra scabbia, leptospirosi, epatiti e leucemie

“L’Italia ha varato una Strategia Nazionale di Inclusione per RSC rispondendo a precisi impegni presi in sede di Commissione Europei. La “governance” che doveva nascere dall’applicazione di questa Strategia è attualmente gravemente violata. A Roma Capitale è nato un tavolo di inclusione RSC dal quale sono esclusi i diretti interessati. E’ il “capolavoro” di Virginia Raggi con la complicità del Sottosegretario di Stato Maria Elena Boschi, responsabile dell’applicazione e monitoraggio della Strategia e degli Accordi Eu”.
Secondo l’Associazione dalla Commissione Europea sono arrivati stanziamenti di denaro pubblico per garantire l’inclusione di RSC. In particolare i terreni di applicazione sono quattro: casa, lavoro, scuola e salute. “Il Ministero del Lavoro, attraverso un programma denominato PON INCLUSIONE 2014 – 2010, ha dato al Sottosegretario di Stato Boschi ed al suo Dipartimento, la cifra economica di 14 milioni e 400.000 euro per garantire la prevenzione sanitaria nei campi Rom di tutta Italia. 
Da giugno, solo a Castel Romano, è emergenza sanitaria: conclamati 70 casi di scabbia, leptospirosi, epatiti e leucemie. Negli ultimi 5 anni sono morte 63 persone. Un’intera comunità privata dell’acqua e dell’energia elettrica. Gli impianti fognari costruiti da Roma Capitale erano abusivi e sono stati messi sotto sequestro dalla stessa Procura. Ad oggi nessun programma di prevenzione sanitario è stato messo in atto nonostante gli ingenti mezzi finanziari messi nelle mani del Governo e degli amministratori.
Grazie ad un’interrogazione parlamentare, presentata dagli Onorevoli Stefano Fassina e Giulio Marcon, è iniziata ad emergere la verità. Il Ministro della Salute Beatrice Lorenzin ha recentemente firmato (10 novembre 2017) gli atti predisposti dall’Ufficio Legislativo del Ministero della Salute diretto dall’Avvocato Maurizio Borgo. Gli atti sono stati spediti al legale rappresentante ANR. Oggi la consegna degli stessi alla Guardia di Finanza.

I programmi non realizzati

“I Fondi Sociali Europei ricevuti dall’Italia per il periodo 2014 – 2020 sono sette miliardi di euro. Servono per l’inclusione di RSC e dei senza fissa dimora, dei poveri. Con questi fondi, il Governo e le Città Metropolitane sono riusciti a mettere in piedi, progetti di inclusione scolastica per ben “settantotto” studenti RSC. Dovrebbero essere studenti che abitano nei Campi di Roma Capitale, del Camping River, di Salone, di Castel Romano. Nessun bambino di questi campi ha visto realizzarsi un solo progetto. Provate a chiedere agli operatori della Cooperativa Isola Verde al Camping River. Nessuna ha mai visto un solo euro o un solo progetto finanziato con i fondi europei.
RSC sono inoltre esclusi dai comitati di sorveglianza dei fondi europei. Ad oggi, dei 62 Comitati di Sorveglianza istituiti, ai sensi del regolamento Eu 1303/2013, relativi ai Fondi Strutturali, PON Inclusione 2014 – 2020, PON Metro 2014 – 2020, ed ai Regionali FES, FESR, FEASR, soltanto il programma FEASR 2014 – 2020 della Regione Valle d’Aosta è rispettoso delle leggi europee, avendo compreso la legittima rappresentanza di RSC al suo interno.
Abbiamo denunciato l’ennesimo tentativo, messo in atto dal Sottosegretario di Stato Boschi, di aggirare la corretta applicazione della Strategia, istituendo una Platform per RSC: uno pseudo tavolo di inclusione che in realtà non decide niente. Per sostenerlo la stessa ha messo a bando uno stanziamento di 475.000 euro + IVA. ANR si è rivolta ad ANAC Autorità Nazionale Anticorruzione di Raffaele Cantone ed alla Procura di Roma chiedendone il blocco.
Il Pon Inclusione è stato usato per finanziare il programma SIA (Servizio di Inclusione Attiva) destinato a RSC, senza fissa dimora, poveri.
Nel mentre, al Camping River, le famiglie destinatarie dei famosi 10.000 euro, stanziati dal Sindaco di Roma, attraverso i Fondi Europei, per affittare una casa, non hanno visto nessun sostegno concreto. L’Ufficio Speciale RSC di Roma Capitale sta ora offrendo alle stesse famiglie percorsi di sostegno all’affitto per un periodo di massimo tre mesi.
Ad oggi, in Italia, RSC non hanno visto attivato un solo contratto di lavoro o di affitto di una casa. E’ in atto una autentica truffa nazionale ed europea. Il Governo, le Regioni, i Comuni potrebbero veder azzerati i finanziamenti concessi, in base a quanto prevedono i regolamenti europei”.




straparlare di integrazione e mettere continuamente bastoni fra le ruote

Donne Rom

Milano

caro Tar, così i Rom non si integreranno mai

respinto il ricorso di una cittadina rom che aveva chiesto l’equiparazione del provvedimento di sgombero, con cui aveva dovuto abbandonare il campo regolare in cui risiedeva, a uno sfratto. Avrebbe così aumentato le chance di ottenere una casa popolare. La protesta delle associazioni: «La sentenza è uno stop all’effettivo superamento dei campi»

Una battaglia giudiziaria da continuare, per sostenere il diritto dei rom alla casa. Così Fondazione Casa della carità e Sicet si sono espresse in merito alla recente sentenza con cui il Tar della Lombardia ha rigettato il ricorso presentato da N.H., ex residente del campo di via Idro, la quale chiedeva che il provvedimento di sgombero dell’insediamento, dove abitava regolarmente dal 1996, fosse equiparato allo sfratto in termini di punteggio per l’assegnazione della casa popolare.

Secondo Casa della carità e Sicet, che insieme a European Roma Rights Centre hanno supportato il ricorso, la sentenza rappresenta infatti uno stop all’effettivo superamento dei campi e a una reale inclusione sociale e abitativa dei rom, sancita anche dalle Linee guida Rom, Sinti e Caminanti approvate nel 2012 dall’allora Giunta Pisapia. “Rispettiamo la sentenza del Tar, ma non ne condividiamo le valutazioni nel merito. Riconoscere per le famiglie sgomberate solo il punteggio di “sistemazione abitativa impropria” è l’interpretazione, restrittiva ed ideologica, che il Comune ha adottato fino ad ora. Invece, equiparare lo sgombero di un campo a un provvedimento amministrativo diretto al rilascio dell’alloggio non è illegittimo, visto che le famiglie di via Idro sono state forzosamente allontanate dalle loro abitazioni in base a una ordinanza sindacale”, è la posizione del Sicet.

La chiusura di via Idro, un campo comunale autorizzato, dove dal 1989 erano regolarmente residenti decine di famiglie, era stata decisa alla fine del 2015 proprio in attuazione di quelle linee guida che, tra le altre cose, prevedevano “l’accesso ordinario all’edilizia residenziale pubblica, secondo le regole in vigore” per raggiungere l’obiettivo di superare “i campi come soluzione abitativa a tempo indeterminato, attraverso percorsi di inclusione e convivenza”. Proprio in virtù di questi principi e dal momento che le famiglie sgomberate dal campo di via Idro non erano lì abusivamente, ma erano regolarmente residenti, Casa della carità e Sicet hanno ritenuto legittimo il ricorso di N.H., scegliendo di sostenerla insieme a European Roma Rights Centre.

“Il superamento dei campi, sostenuto sia a livello comunale che nazionale, non è in discussione. Esso però richiede un accompagnamento delle famiglie verso soluzioni abitative stabili, altrimenti la chiusura dei campi significa far diventare nomadi persone che non lo erano o rendere permanenti soluzioni che invece dovrebbero essere temporanee”, dice in proposito don Virginio Colmegna, presidente della Casa della carità. Secondo la Fondazione, in un momento in cui tanti sono tornati a parlare della chiusura dei campi, dare una reale alternativa significherebbe, per esempio, l’inserimento nel regime delle case popolari di quei nuclei a cui, come nel caso di via Idro, un Comune aveva assegnato a tempo indeterminato un’area ad uso abitativo. In casi come questo, l’equiparazione dello sgombero di un campo regolare allo sfratto rappresenterebbe uno strumento importante per promuovere l’inclusione abitativa delle famiglie che lì avevano una vera e propria casa.




i rom scrivono al nuovo sindaco di Roma

 

LETTERA APERTA A VIRGINIA RAGGI SINDACO DI ROMA CAPITAL

‘nazione rom’

Sindaco Virgina Raggi, chiediamo il rispetto della legalità: unitamente a questa lettera le inviamo “la bozza di delibera”. Chiediamo alla sua autorità di varare il Tavolo RSC, un organismo di governo democratico e con regole chiare e trasparenti per tutti. Il denaro pubblico stanziato dall’UE all’Italia (32 miliardi di euro per il periodo 2014 – 2020 di cui il 20% destinato al sociale) deve essere speso nel modo giusto, corretto e secondo quanto scritto nei programmi finanziati . Il resto è ancora Mafia Capitale

Virginia Raggi Sindaco di Roma Capitale
https://www.youtube.com/watch?v=B2wvN1ZXk2M

Gentile Virginia Raggi,

 

vogliamo farle i nostri complimenti per la vittoria elettorale a Sindaco di Roma Capitale, più che una vittoria un vero e proprio plebiscito. Appena eletta dai cittadini lei ha dichiarato “si apre una nuova era, sarò il sindaco di tutti”.
 
Da oggi lei assume la responsabilità di amministrare la città nel rispetto di leggi e regole. Vogliamo condividere con lei e con l’intero nuovo Consiglio Comunale un cammino da fare insieme, passo dopo passo. E’ ora di lavorare per ricostruire Roma.
 
Negli ultimi anni la città è caduta nelle mani della mafia che ha fatto affari sopra la pelle di tutti i cittadini, soprattutto sopra la pelle e la vita dei più poveri, degli esclusi, degli emarginati. Da anni chiediamo a Roma Capitale di rispettare le regole e gli accordi quadro strutturali di inclusione dei Rom, Sinti e Caminanti (RSC).
 
 
Roma Capitale – Campidoglio
 
 
Da quegli accordi è stata varata una Strategia Nazionale con l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali UNAR (Presidenza del Consiglio dei Ministri) punto di contatto nazionale. Questa strategia prevede precisi schemi di governance. In pratica a Roma Capitale e nelle città di Napoli, Milano, Torino, Venezia dovevano nascere dei Tavoli di Inclusione composti dai rappresentanti delle amministrazioni e dai rappresentanti RSC. Questi organismi istituzionali avrebbero dovuto decidere le politiche di inclusione su casa, lavoro, scuola e sanità permettendo il superamento dei campi e la piena inclusione sociale. Avrebbero dovuto, perchè, a distanza di quattro anni, questi tavoli non sono mai nati.
 
 
schema di governance della strategia nazionale di inclusione
dei Rom, Sinti e Caminanti – Unar
 
 
Ci ha provato la precedente giunta del Sindaco Ignazio Marino: per mesi, dopo lo scandalo di Mafia Capitale, l’Assessorato al Sociale di Francesca Danese ha lavorato con i nostri delegati per approntare la delibera che avrebbe istituito il tavolo. Il Partito Democratico non ha permesso a quella giunta di votare la sua istituzione, hanno però votato la decadenza del Sindaco eletto dai cittadini.
 
Subito dopo è stato chiesto al Commissario Prefettizio Francesco Paolo Tronca di approvare questo documento urgente. Nessuna risposta è giunta alla nostra richiesta. Nei mesi successivi Roma Capitale ha messo al bando la somma di 8,5 milioni di euro per riperpretare il sistema dei campi. Abbiamo formalmente diffidato il Commissario a proseguire preannunciando azioni legali presso l’Autorità Nazionale Anticorruzione e presso la Commissione Europea.
 
 
legittima rappresentanza dei Rom, Sinti e Caminanti
 
 
Sindaco Virgina Raggi, chiediamo il rispetto della legalità: unitamente a questa lettera le inviamo “la bozza di delibera”. Chiediamo alla sua autorità di varare il Tavolo RSC, un organismo di governo democratico e con regole chiare e trasparenti per tutti. Il denaro pubblico stanziato dall’UE all’Italia (32 miliardi di euro per il periodo 2014 – 2020 di cui il 20% destinato al sociale) deve essere speso nel modo giusto, corretto e secondo quanto scritto nei programmi finanziati . Il resto è ancora Mafia Capitale.



i rom e i sinti questi sconosciuti e discriminati

Rom e Sinti

da sempre perseguitati

e non sono nomadi per scelta

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    un buon articolo, che fa senz’altro bene leggere, ancorché non senza qualche generalizzazione e asserzione apodittica tipiche di un taglio un pochino idealizzante

     

    “La nostra patria è solo in cielo, solo Dio ci capisce” sussurra S. nei momenti di scoramento, quando vede il suo futuro incerto e nero. I rom sono il popolo più disperso, martoriato e odiato nella storia, ma da parte loro non hanno mai mosso guerra, depredato, saccheggiato, sterminato nessun altro popolo. De André diceva che a questo popolo andrebbe il Nobel per la pace. Due mesi fa, nella mia città alcuni bambini, in un tranquillo parco pubblico, si misero a gridare “Aiuto!! gli zingari! Ci rubano, ci rapiscono!” e corsero terrorizzati dalle mamme. Non era successo niente,  un bimbo rom si era solo avvicinato loro, sperando di poter giocare. Se ne tornò indietro mogio mogio, nonostante io e mio figlio provassimo a richiamarlo.

    Nei lager nazisti morirono mezzo milione di rom e sinti: fu il porrajmos, la grande distruzione. I libri di scuola iniziarono a parlarne solo dal 1994. Gli “zingari” furono perseguitati, sterilizzati in massa, usati come cavie per esperimenti, ed infine destinati alle camere a gas. Oltre 20.000 vennero uccisi nel solo Zigeunerlager, il campo loro riservato ad Auschwitz-Birkenau, tra il febbraio 1943 e l’agosto 1944. Nessun superstite venne chiamato a testimoniare nei processi ai gerarchi nazisti, neppure a Norimberga. Quando in Germania alcuni sopravvissuti si decisero a chiedere un risarcimento, questo fu loro negato con il pretesto che le persecuzioni subite non erano motivate da ragioni razziali ma dalla loro “asocialità”.

    Dopo la guerra, la discriminazione continuò. In Svizzera, fino al 1980, un’organizzazione caritatevole finanziata con fondi statali attuò un vero e proprio programma di pulizia etnica: centinaia di bimbi Jenisches furono strappati a forza dalle loro mamme, messi in orfanotrofi o ospedali psichiatrici, molti di loro subirono violenze e sevizie. Verrebbe da chiedersi… chi è che rapisce i bambini? Solo nel 1987 la Confederazione Elvetica ammise le proprie colpe. In Italia gli “zingari” (termine carico di pregiudizi razziali) sono obbligati a vivere in campi nomadi in condizioni igienico sanitarie pessime, spesso vittime di razzismo: attacchi incendiari, picchetti razzisti, insulti. L’Italia è stata duramente criticata dalla Commissione Europea contro il razzismo per le condizioni critiche dei campi nomadi, per le schedature etniche, per gli sgomberi forzati, illegali, senza preavviso. Spostati di continuo, senza nessun progetto di integrazione, senza alcuna attenzione alla frequenza scolastica del bambini. Anche il rapporto di Amnesty è molto duro a riguardo.

    Rom e sinti non sono nomadi per scelta, ma per disperazione. Alcuni hanno la cittadinanza italiana, e vivono in Italia da sempre, altri sono profughi scappati dall’Est Europa. In ogni caso sono esseri umani e hanno diritto ad essere accolti dignitosamente. Lo Stato deve rimuovere, non aumentare, gli ostacoli di ordine sociale ed economico che impediscono l’uguaglianza. “Sono scappato dal campo nomadi di T… perché le condizioni erano invivibili, topi ovunque, litigi, violenze. Sono scappato con mia madre malata, mia figlia neonata, mia moglie. Nei treni, senza biglietto. Dormivamo davanti alle chiese, sperando nella carità” mi confida M., di etnia rom khorakhanè. Ho imparato a conoscerli, aiuto i loro bambini nei compiti, li ospito a casa mia, giocano coi miei figli. Ho imparato ad apprezzare la loro lingua, meravigliosa ed arcaica: la lingua romanì, che non ha ancora spazio nella legge che difende le minoranze linguistiche, benché sia parlata in Italia dal 1390.

    “Perché li aiuti?” mi dicono “gli zingari sporcano e rubano!”. Gli stessi pregiudizi rincorrevano gli italiani emigrati in America, considerati sporchi, ladri e stupratori. Ovviamente non lo erano tutti, ma i pregiudizi a volte sono profezie che si auto-avverano. L’emarginazione e la ghettizzazione sono un pericoloso terreno per la devianza, per qualsiasi etnia o popolo. L’ipocrisia della nostra società opulenta è disgustosa. Si emarginano i poveri e si adulano i veri ladri: i ricchi, gli speculatori, i politici corrotti, coloro che nascondono le loro fortune nei paradisi fiscali o che investono nelle banche armate. I comuni hanno buttato milioni di euro per rendere “sicuri” i campi nomadi, per sgomberarli quando davano fastidio. Con molti meno soldi, avrebbero garantito un percorso di integrazione abitativa e lavorativa a tutti i nuclei rom. Nella mia città, nonostante tante criticità, si sta iniziando su questo percorso. Ma c’è ancora tanta paura, da noi come altrove, di andare contro il razzismo radicato nelle menti degli elettori.




    i sinti e la festa del 25 aprile

     

    l’elenco dei sinti e dei rom,di cui si ha notizia, che hanno partecipato alla Liberazione nel Nord Italia

    ancora sinti

    “Nell’Aprile del 1945 c’erano i tedeschi in ritirata. Molti sinti facevano i partigiani. Per esempio mio cugino Lucchesi Fioravante stava con la divisione Armando, ma anche molti di noi che facevano gli spettacoli durante il giorno, di notte andavano a portare via le armi ai tedeschi. Mio padre e lo zio Rus tornarono a casa nel 1945 e anche loro di notte si univano ad altri sinti per fare le azioni contro i tedeschi nella zona del mantovano fra Breda Solini e Rivarolo del Re (oggi Rivarolo Mantovano), dove giravano con il postone che il nonno aveva attrezzato. Erano quasi una leggenda e la gente del luogo li aveva soprannominati i «Leoni di Breda Solini»…”

    Questo è il racconto di Giacomo “Gnugo” De Bar, sinto emiliano venuto a mancare pochi mesi fa, che bambino è stato rinchiuso con la sua famiglia nel campo di concentramento di Prignano sulla Secchia, in Provincia di Modena, nel settembre del 1940. Dopo l’8 settembre 1943, con l’armistizio, la sua famiglia riusci a fuggire dal campo di concentramento, insieme a tutte le altre famiglie sinte. E’ infatti dall’autunno del 1943 che in particolare sinti italiani, maggioritari nel Nord Italia, si danno alla macchia e si uniscono alle brigate partigiane.liberazione

    Molte famiglie sinte e rom scappate dai campi di concentramento, nel Nord Italia vengono rastrellate e inviate verso il campo di concentramento di Bolzano per poi essere deportati in Germania e in Polonia. Alcune riescono a sfuggire ai rastrellamenti dei Carabinieri e delle Forze tedesche nascondendosi nelle campagne grazie all’aiuto delle famiglie contadine, come per esempio la famiglia di Candida “Bianca” Ornato, sinta mantovana.

    rom e sinti

    di seguito l’elenco dei sinti e dei rom,di cui si ha notizia, che hanno partecipato alla Liberazione nel Nord Italia:

    Giuseppe “Tarzan” Catter, eroe partigiano sinto, ucciso dai fascisti nell’Imperiese, il suo distaccamento ne prese il nome, decorato al valore
    Walter “Vampa” Catter, eroe partigiano sinto, Martire di Vicenza, fucilato l’11 novembre 1944
    Lino “Ercole” Festini, eroe partigiano sinto, Martire di Vicenza, fucilato l’11 novembre 1944
    Silvio Paina, eroe partigiano sinto, Martire di Vicenza, fucilato l’11 novembre 1944
    Renato Mastini, eroe partigiano sinto, Martire di Vicenza, fucilato l’11 novembre 1944
    Giacomo Sacco, partigiano sinto, partecipa alla liberazione di Genova
    Giuseppe “Tzigari” Levakovich, partigiano sinto nella Brigata “Osoppo” in Friuli Venezia Giulia
    Rubino Bonora, partigiano sinto nella Divisione “Nannetti” in Friuli Venezia Giulia
    Amilcare “Corsaro” Debar, partigiano sinto, staffetta e poi partigiano combattente nella 48° Brigata Garibaldi “Dante Di Nanni”
    Vittorio “Spatzo” Mayer, partigiano sinto in Val di Non
    Mirko Levak, partigiano rom, scappato dal campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau si unisce ai partigiani
    Fioravante Lucchesi, partigiano sinto nella Divisione Modena Armando
    Formazione partigiana I Leoni di Breda Solini, formato unicamente da sinti italiani, fuggiti dal campo di concentramento di Prignano sulla Secchia (MO), operò nel mantovano
     
    foto di Istituto di Cultura Sinta - Sucar Drom.