l’Europa non vuole restare umana

“Europa,

hai perso la civiltà dell’umanesimo”

 

di Pierangelo Sequeri

in “Avvenire” del 22 novembre 2016

L’Europa custodisce nel proprio inconscio, per dir così, le tracce di una vocazione mediatrice dell’umano che è comune, mediante la capacità di integrazione delle diversità dei popoli. Una vocazione che l’Occidente ha progressivamente rimosso lungo il secondo millennio. E che gli eventi inaugurali del terzo millennio impongono all’Europa di ritrovare (se non vuole chiudere da se stessa la propria storia). Di questa vocazione mediatrice, del resto, il cristianesimo è stato – nonostante tutte le inevitabili contraddizioni della storia – il germe ispiratore

Il cristianesimo ha attraversato la crisi dell’Impero che cercava di distruggerlo e ha fatto fiorire in Europa il seme di un universalismo della prossimità – di Dio e degli uomini – che ha conferito un significato completamente nuovo all’umanesimo virtuale del logos greco e della cittadinanza romana. Il disarmo morale dell’Europa, dopo la caduta dell’Impero romano, ha trovato la via della nuova ricomposizione europea dei popoli (dalla liquefazione dell’antica unità e dalla frammentazione delle nuove migrazioni) attraverso l’unificazione intorno al cristianesimo. La sofferenza delle popolazioni è progressivamente diventata, tramite il cristianesimo, una ragione fondante per il superamento politico dei conflitti, e una dimensione costitutiva per la legittimazione della cultura civile. Lungo questo asse è cresciuta, e si è caratterizzata, la civiltà europea. La catastrofe dei messianismi atei e totalitari del XX secolo – anti-religiosi e anti-cristiani – ha aperto una crepa apparentemente irrimarginabile nell’idealità umanistica della nostra cultura. La nuova idealizzazione dell’Europa dei popoli continua ad attingere forza normativa dal passato (umanistico, e persino religioso) per quanto concerne la giustificazione della sua bontà e della possibilità. Ma questa idealità si concepisce, fin dall’inizio della contemporaneità post-bellica, come possibilità/necessità progettuale in riferimento diretto alle istanze di sviluppo economico e scientifico (agevolazione commerciale, scambio mercantile, efficienza burocratica). Ora, a parte una certa enfasi retorica sui valori democratici e sui diritti individuali, che sino a oggi cerca di compensare la perdurante impotenza ad ancorarli a un corrispondente assetto culturale del legame sociale, non sembra che ci siamo mossi tanto più avanti. Nel frattempo, questa radicale semplificazione (diciamo così) dell’ideale democratico europeo ha mostrato le potenzialità della sua deriva verso l’esplosione dell’individualismo autoreferenziale (tendenzialmente irreligioso) e la pervasività della dissoluzione del legame sociale (culturalmente nichilistico). Il disagio mentale dei popoli europei, sotto la pressione di questo strisciante processo di decostruzione, viene ora a incontrarsi anche con effetti di impoverimento esistenziale e di abbandono etico delle popolazioni, che la cultura e la politica non appaiono in grado di elaborare propositivamente. L’impatto con l’effetto devastante di condizioni di povertà e di abbandono delle genti che, sino ad ora, erano tenute a distanza (culturalmente e fisicamente) dal limes della cittadinanza europea, si contamina con questa sofferenza interna all’humus della nostra liquidità politica. E genera una insofferenza che mette in imbarazzo la pretesa emancipazione illuministica-secolare dell’umanesimo europeo, e riapre l’orizzonte cristiano di integrazione dell’umano che è comune ai popoli: a qualsiasi etnia, civiltà, religione appartengano. Se è vero che l’originaria vocazione di Europa è la cultura dell’integrazione delle differenze, non c’è da illudersi: la sfida attuale è realmente una questione di vita o di morte per l’Europa stessa. Non saranno i “barbari” che la faranno morire, è la sua “liquefazione” che la rende sterile. La paralisi europea della civiltà dell’umanesimo, indotta dalla radicale secolarizzazione del legame so- ciale e dal delirio di onnipotenza individuale, rischia di essere ridotta all’angoscia della crisi
economica e alla minaccia del fondamentalismo religioso. Questi, però, per quanto temibili, sono – entrambi – effetti del carattere distruttivo della pulsione anti-cristiana dell’ego, che combatte l’amore del prossimo e si esalta nel sacrificio dell’altro, in nome di “mammona”, o in nome di “dio”; a Oriente, come a Occidente.

sequeri L’Europa cristiana ha insegnato a convivere a tutti quelli che ora si combattono (e la combattono). L’irreligione e il narcisismo dell’uomo europeo non hanno più strumenti adeguati per venire a capo della conciliazione richiesta. La sfida della nuova mediazione religiosa e della nuova integrazione civile, duramente imposta dagli eventi, deve – e può – essere raccolta con nervi più saldi e maggiore umiltà ideologica. Il cristianesimo vi dovrà applicare, senza presunzione e senza soggezione, la sua straordinaria capacità di aggirare, con spregiudicata ironia per le potenze mondane, e indomabile compassione per le loro vittime, la tenera follia della sua grazia. Non c’è dubbio che la rassegnazione collettiva alla prevedibile «morte dell’Europa», sia come entità di un qualche rilievo determinante per il nuovo ordine mondiale (quando sarà), sia come grembo storico di un umanesimo cristiano-civile capace di rinnovarsi, abbia oggi una rilevanza emotiva e simbolica anche superiore all’annuncio filosofico della «morte di Dio». Sotto questo aspetto, considerando la cosa dal punto di vista del nuovo flusso migratorio verso l’Europa, è come se la disperazione di uomini e donne, bambini e giovani, che rischiano sulla fiducia di un piccolo continente di consolidato benessere e di pacifica convivenza, si trovi destinata alla collisione con la crescente rassegnazione all’impotenza del proprio umanesimo da parte dei popoli che l’hanno condiviso. Sembra evidente che da questo impatto non può venire nulla di buono. E mi sembra anche che, sino ad ora, molta retorica e molta demagogia siano spese per immaginare come possiamo resistere fisicamente alla loro disperazione di fronte alla perdita di futuro, mentre pochissimi sforzi sono dedicati a contrastare culturalmente la rassegnazione che abbiamo rispetto allo svuotamento del nostro presente. La nuova Europa dei popoli – e non quella di una super- nazione, federata o burocratizzata, degli individui – se veramente la vogliamo, deve puntare risolutamente all’alleanza dell’habitat infraurbano e al meticciato delle culture famigliari. Paolo di Tarso ha abitato i mondi (latino e greco, ebraico e orientale) e ha insegnato ai suoi ad abitarli nella logica di agape. Una Chiesa “in uscita”, secondo l’incalzante consegna di Papa Francesco, credo, vuol dire anche questo.




il monoteismo cristiano è ‘violento’ o possibile generatore di violenza?

 

riflessioni politico-religiose indotte dalla morte di Andreotti

   

 

un corposo documento dei cosiddetti ‘teologi del papa’ (fra cui anche l’italiano P. Sequeri – di cui si riproduce qui sotto una  apprezzabile riflessione -) ha visto la luce in questi giorni con lo scopo di rigettare la critica che troppo spesso viene fatta, soprattutto negli ultimi tempi, alla concezione cristiana di Dio e al monoteismo come possibile fonte di violenza essendo radicalmente violento, in quanto tale, il concetto stesso di monoteismo

di seguito l’articolo illustrativo di M. Burini e la riflessione di P. Sequeri che, al contrario, scorge nella concezione cristiana di Dio l’antidoto stesso alla violenza:

Il monoteismo dei cristiani non è violento. Lo dicono i teologi del Papa

 

di Marco Burini

in “Il Foglio” del 17 gennaio 2014

 

Che monoteismo sia sinonimo di violenza è una di quelle ipotesi di scuola diventate col tempo luogo comune, luogo comune assorbito senza troppi patemi dagli stessi credenti. Per confutare l’equazione, perciò, ci vuole gente attrezzata e piuttosto temeraria. I teologi, stando all’identikit  ne ha fatto Francesco, il 6 dicembre scorso: “Pionieri del dialogo della chiesa con le culture” che non restano nelle retrovie, “in caserma”, ma “in frontiera”.

Bergoglio aveva davanti per la prima volta la Commissione teologica internazionale (Cti), una sorta di selezione mondiale di teologi e teologhe voluta dal Papa (l’idea è di Paolo VI, 1969) per sostenerlo scientificamente nel suo magistero, che in questi giorni pubblica “Dio Trinità, unità  uomini. Il monoteismo cristiano contro la violenza”, dopo cinque anni di studi e confronto. Un documento corposo ma tutt’altro che illeggibile – il che non è poco, visto il genere letterario – firmato da un gruppo ristretto in cui spicca Pierangelo Sequeri, non tanto perché l’unico italiano ma perché la redazione finale del testo è, per chi lo conosce, di sua mano.

La sostanza del ragionamento è chiara: la chiesa non ci sta più a subire una comunicazione pubblica che identifica come intollerante e tendenzialmente violento chi crede nell’unico Dio: ebrei, musulmani e cristiani. Accusa che colpisce specialmente questi ultimi, però, dato che gli ebrei non conoscono il proselitismo (parola detestata da Bergoglio stesso perché fuorviante), mentre dell’islam si ragiona quasi sempre (tranne a Ratisbona) in termini geopolitici e non teologici.

Restano i cristiani, meglio ancora i cattolici – i più numerosi e pittoreschi – soggetti poco affidabili in una democrazia che veste meglio un politeismo sinonimo di tolleranza.

Tramontata l’epoca dell’unico re in nome dell’unico Dio, siamo nell’èra del pluralismo dei  sotto un cielo piuttosto affollato. Eppure la storia ci ricorda che i politeisti non sono affatto teneri.

Proprio Francesco, l’altroieri nell’udienza in piazza San Pietro, ha evocato la persecuzione dei cristiani in Giappone nel XVII secolo; anche una religione porosa e per niente dogmatica come lo shintoismo ha benedetto massacri.

Mentre il dogma fondante del cristianesimo – la morte e resurrezione di Gesù – espelle la violenza che, René Girard insegna, sempre si mescola al sacro. “Il principio di questa verità cristologica di Dio non si è mai perso – ricorda il documento della Cti – a costo di mettere il cristianesimo in contraddizione fra la sua prassi storica e la sua autentica ispirazione”. Insomma, i cristiani sono stati spesso violenti non perché cristiani ma perché tali solo di nome, traditori del dogma originale, ama Dio e ama il prossimo, incarnato in Gesù di Nazaret.

Certo, è dura scalfire la crosta di ignoranza, più o meno in malafede, che riveste una parola come dogma: un pesante macigno che incombe sulla testa di gente inadatta a pensare. Come se oggi la verità non potesse darsi che in maniera dispotica, “una minaccia radicale per l’autonomia del soggetto e per l’apertura della libertà”, notano Sequeri&Co. Proprio mentre si assiste a un “indebolimento, nel costume occidentale, del rispetto per la vita, dell’intimità della coscienza, della tutela dell’uguaglianza, della razionale passione per un impegno etico condiviso e per il rispetto dell’autentica coscienza religiosa”. Insomma, liquidato – anzi pervertito per dirla con Illich – il cristianesimo, la nostra cultura non ha trovato qualcosa di meglio, anzi è ancora lì curva a picconare il simulacro. Certo, c’è voluto “un lungo cammino storico di ascolto della Parola e dello Spirito per purificare la fede cristiana da ogni ambigua contaminazione con le potenze del conflitto dell’assoggettamento”, ma questo potrebbe essere il punto di svolta.

I teologi, che Bergoglio sprona ad assecondare il fiuto del popolo di Dio (sensus fidelium, in gergo), segnalano il grado di maturazione ecclesiale. Si riparte dunque dai fondamentali, recuperando la più genuina tradizione biblica e respingendo la “rozza semplificazione” fra “un Dio cattivo dell’Antico testamento e un Dio buono del Nuovo testamento”, che “ancor oggi continua a essere utilizzata all’interno di certa apologetica popolare (e persino cultura alta)”, buon ultimo Scalfari. Il tesoro della rivelazione sta lì dentro e non ha smesso di sprigionare la sua energia, quel dinamismo divino che prende il nome di Trinità. Ed è nel suo nome che il monoteismo viene riscattato dalla violenza in favore dell’amore (che “non va confuso con la mancanza di coraggio né indicato come irresponsabile ingenuità”) e della giustizia (quella divina, però, che “mette definitivamente al riparo la vittima delle potenze mondane dalla violenza che ha subìto”). E’ un dramma, la storia, e cristiani non ignorano la dialettica tra lo Spirito e la forza. Proprio per questo non ci stanno a essere ridotti a quel monoteismo intollerante che è un dogma dell’opinione pubblica. Ma anche per i dogmi, è meglio diffidare delle imitazioni.

croce

 

Nel monoteismo cristiano c’è l’antidoto alla violenza

di Pierangelo Sequeri

in “Avvenire” del 17 gennaio 2014

Fino all’altro ieri, ‘monoteismo’ era una categoria d’uso corrente, soprattutto fra i dotti studiosi di storia delle religioni, per indicare un grado di alta perfezione dell’idea di ‘Dio’: di fatto, la concezione del divino più coerente con la filosofia occidentale della ragione, e anche la più degna del pensiero umano del trascendente. In una manciata di anni, ‘monoteismo’ sembra essere diventato il nome in codice dell’oscurantismo religioso, il peggiore che sia immaginabile. Di fatto, esso è individuato come la minaccia essenziale al progresso di una civiltà della ragione e della tolleranza.

Le tre religioni monoteistiche dell’area mediterranea (giudaismo, cristianesimo, islam) appaiono così, essenzialmente in virtù di questo presupposto, come il seme radicale della violenza fra gli uomini.

La compulsiva diffusione della formula, che interpreta il monoteismo religioso come l’ideologia radicale della volontà di potenza, è certamente frutto dell’ignoranza. Ma anche una semplificazione grave. La formula è culturalmente nobilitata dagli effetti della nuova recezione progressista di Nietzsche, la cui ossessione antireligiosa ha indotto la tradizionale critica occidentale (greca e cristiana) nei confronti della violenza a rivolgersi contro la verità e il bene: che sarebbero le sue più insidiose coperture. Una parte dell’intellighenzia occidentale si è così applicata con metodo alla denuncia totale della religione, della metafisica, della spiritualità e della morale: indicando il cristianesimo come regista e garante dell’alleanza dispotica che le abita. La critica smantella così, con metodico puntiglio, anche tutti i presìdi del logos che ha storicamente cercato il contenimento della violenza, distraendo la nostra attenzione dalla violenza vera e propria. Questa irresponsabile deriva della cultura chiede nervi saldi e senso critico. È certo che esiste, storicamente, un oscuro rapporto fra le umane tradizioni del sacro e l’oscura pulsione della violenza, che ritorna di generazione in generazione (e la Bibbia spiega anche la ragione dell’umana corruzione del sacro, che sta all’origine di ogni peccato). La violenza è un tema cruciale dell’intera storia umana proprio perché essa è in grado di contaminare anche ogni presidio religioso e razionale del suo contenimento culturale. In questo senso, contrastarla è problema comune e dovere sacro di tutte le culture umane. Le guerre di religione, come la guerra alla religione, sono due forme dell’identica perversione.

La testimonianza riflessiva della fede cristiana nell’unico Dio deve dunque tenere seriamente conto del disorientamento prodotto dalla semplificazione ideologica associata al concetto di monoteismo (insieme con la generale intimidazione nei confronti della religione, che vi si accomoda).

Il nuovo documento della Commissione teologica internazionale, intitolato Dio Trinità, unità degli uomini. Il monoteismo cristiano contro la violenza, indica esplicitamente questa consapevolezza (come appare chiaramente dal primo capitolo, che ne istruisce i termini). Nondimeno, lo svolgimento del testo è guidato da una convinzione propositiva: la riflessione teologica può e deve trarre dalla migliore conoscenza e intelligenza della Parola di Dio i princìpi della decostruzione di questo pregiudizio. L’inedito assoluto della fede cristiana, infatti, è proprio nella smentita del valore di rivelazione della violenza omicida in nome di Dio, come fosse il sigillo della vittoria della verità e dell’eroismo della fede. Il successivo sviluppo della riflessione, che illustra le premesse e le implicazioni del nucleo cristiano della rivelazione non-violenta di Dio, è dunque ispirato da una duplice attenzione, la quale marca anche l’attualità della sua istruzione e della sua offerta di sintesi. Da un lato è mantenuta una puntuale attenzione all’articolazione della rivelazione di Dio con l’umanesimo non violento della sua attestazione. Dall’altro lato, speciale cura è dedicata al fatto che la rivelazione dell’intimità e della comunicazione trinitaria dell’unico Dio, lungi dal violarla, custodisce intatta l’unità e semplicità dell’essere divino, sigillandola come perfezione della vita e dell’amore. Il documento Dio Trinità, unità degli uomini non è reticente sul fatto che le molte luci dell’ininterrotta tradizione cristiana di questo principio sono state intercettate dalle molte ombre di una storia che le ha gravemente oscurate. Esprime nondimeno la convinzione che proprio questo sia un tempo particolarmente favorevole al disinnesco definitivo di antiche ambivalenze. Il cristianesimo ora ha maturato anche storicamente – ai livelli più alti e autorevoli della coscienza di sé, e della forma del suo annuncio – la serietà irrevocabile dell’interdetto evangelico nei confronti di ogni contaminazione fra religione e violenza. Inoltre, chiunque parli in questi termini, oggi – nelle sedi degli incontri interreligiosi, come nelle aule del consesso mondiale dei popoli – parla un linguaggio obiettivamente cristiano. Il compito di essere all’altezza di questo kairòs, anche mediante una teologia più trasparente della sua intrinseca verità cristiana, è un impegno dal quale il cristianesimo, per primo, non potrà più regredire.

Il testo dei 30 teologi, che vengono da ogni parte del mondo, non si limita a incoraggiare gli adoratori di Dio a far seriamente lievitare la testimonianza della religione verso la compiuta separazione dall’anti-umanesimo della violenza. Il loro discorso, non senza un tratto di garbata audacia, si spinge anche a suggerire alla filosofia critica e alla cultura politica dell’epoca di riprendere coraggio, per riscattarsi dalla decostruzione alla quale, mestamente o imperativamente, ci esorta. In altri termini, sembra venuta l’ora di chiudere i conti con il lavoro distruttivo del caos, per riprendere fiducia nel lavoro costruttivo del logos. In ogni modo, ognuno esamini se stesso e risponda onestamente all’appello dei popoli. La teologia cattolica ha fatto la sua mossa