La prima volta, lei aveva 14 anni. Lui, il prete dell’oratorio, 30 di più.

“Mi ha fatto sdraiare sul suo grande letto. Io mi ci perdevo, ero magrissima ed esile. Lui aveva modi gentili e paterni. Mi ha invitato a slacciarmi i pantaloni e poi mi ha aiutato a sfilarli, ha fatto lo stesso con le mutandine. Io mi vergognavo, ero tesa e non sapevo come comportarmi. Mi ha aperto le gambe lentamente e mi ha detto: ‘Sei fatta bene'”

Inizia così, un racconto choc di una donna oggi diventata suora, dopo esser stata da bambina abusata per anni dal prete della sua chiesa, un sacerdote ormai morto che operava fino a poco tempo fa nella Diocesi ambrosiana.

La cruda testimonianza delle violenze subite per sette anni dalla ragazzina è in un libro, “Giulia e il Lupo”, curato da Luisa Bove e pubblicato da l’Ancora, casa editrice legata all’ordine dei pavoniani, con la spinta della Curia di Milano e la prefazione di padre Hans Zollner, membro della Pontificia commissione per la tutela dei minori, istituita da Papa Francesco per far luce sugli scandali sessuali e la pedofilia dentro alla chiesa. Il “Lupo” del titolo viene appunto dal nome usato da Bergoglio nei suoi discorsi contro i preti pedofili.

La donna, oggi 40enne, vive in convento e non aveva mai rivelato le violenze subite a casa del sacerdote prima di questo libro che mette alla prova anche il lettore scafato. “Ogni volta le carezze aumentavano e le sue grandi mani raggiungevano i miei piccoli seni – si legge nei primi capitoli – Un pomeriggio, dopo le prime carezze, mi ha detto che voleva vedermi tutta perché ero bella. Ha iniziato a spogliarmi, un minuto dopo ero completamente nuda, mentre il Lupo mi divorava con gli occhi e non smetteva di accarezzarmi e di baciarmi ovunque. Aveva ottenuto quello che voleva, mentre io ero inerme”.

Un racconto feroce che la vittima ha trovato la forza di tirar fuori l’anno scorso, a 15 anni di distanza dai fatti, dopo aver ascoltato in Duomo a Milano, l’invito a denunciare gli abusi fatto dal vescovo di Boston O’Malley, chiamato a Milano dall’arcivescovo Angelo Scola perché raccontasse la sua battaglia contro i preti pedofili.

Come tutte le ragazze abusate da adulti, si sentiva “sporca”, incapace di opporsi al “don” dell’oratorio, il suo confessore: “Era la mia guida spirituale. Dovevo fidarmi. Mi aveva chiesto di più, avevo concesso di più. Di fronte a ogni sua richiesta non sapevo dire di no. Subito dopo, mi pentivo. Il Lupo no. Mi trovavo bloccata da quella confusione mortale. Percepivo che qualcosa di me era come morto, perché riusciva a fare di me e con me tutto quello che voleva”. Dopo anni, finalmente, il prete maniaco si allontana. Ma rimane un dolore sordo nella testa della ragazza, la fatica di vivere, la paura di ogni uomo, l’orrore per il proprio corpo. La decisione di prendere i voti, spiegata in mezzo a pagine che documentano il tormento psicologico, la difficoltà di trovare qualcuno disposto ad ascoltarla e a crederle.

“Ora si trattava di pronunciare, una volta per tutte, il nome del mio carnefice, rivelare la sua identità. Non lo avevo mai detto, illudendomi così di proteggere me stessa, invece proteggevo lui. Non lo pronunciavo perché mi vergognavo di me stessa”, spiega la suora che, da adulta, ha avuto modo di incontrare ancora altre volte il suo persecutore. “Mi ha detto: ‘Io non ho mai dimenticato. Spero che tu mi abbia perdonato’. Ho risposto d’impulso:

 

“Certo, tanti anni fa”. E lui: ‘Questo per me è un grande sollievo'”.

I ragionamenti nel libro si accavallano, ma le conclusioni sono chiare: “Ho scoperto che il perdono non c’era mai stato, perché c’era la consapevolezza che non eravamo stati due amanti, bensì vittima e carnefice. E la nostra relazione era un abuso e una violenza. Com’era possibile allora perdonare? Non l’ho fatto allora, e neppure oggi”.