è bella l’Italia vista con gli occhi R. La Valle al tempo di coronavirus

L’ITALIA È BELLA

È bella l’Italia perché mentre molti dicono che dopo saremo “migliori di prima”, è adesso che ci scopriamo migliori di quanto pensassimo

una bella riflessione di R. La Valle:

L’Italia è bella. Ce ne siamo resi conto al ricevere una lettera da un prete libanese, padre Abdo Raad, che non potendo far ritorno al suo Paese è rimasto bloccato in Italia , ma si dice “fiero” di esserci, e ne tesse le lodi perfino in modo eccessivo, mostrando in che modo si è realizzato il “prima gli Italiani”, nel fatto che contro tutto il pensiero dominante, e perciò evidentemente non “unico”, essi hanno scelto tra tutte le cose la vita, e la vita degli altri, e non per ideologia, come nelle campagne antiabortiste, ma per amore.

Questo infatti è ciò che l’Italia sta insegnando al mondo, non perché sale in cattedra, ma semplicemente con l’esserci.

E allora si vede come l’Italia è bella.

Le sue città non sono mai state così belle. Non solo perché i pesci, come dicono, sono tornati a nuotare nei canali di Venezia. Ma perché quelle piazze vuote, quelle strade deserte, quei monumenti che sembrano bastare a se stessi, anche se non più fruiti dai turisti, non mostrano un vuoto, ma un’attesa struggente di essere di nuovo vissuti, una maestà sconosciuta, un’eloquenza che in tutti i modi e con molti segni dichiara il dolore di tanto silenzio.

È bella l’Italia perché, pur nel cosiddetto “distanziamento sociale” (almeno un metro, un metro e mezzo!), mostra come siano forti i suoi legami sociali, autismo e individualismo non sono vincitori. Uno straordinario darsi degli uni agli altri si sperimenta nelle corsie, nelle sale di rianimazione, nelle “prime linee”, così come nei lavori necessari, nella comunicazione incessante, nel volontariato, nelle mille diaconie e negli incensibili e inopinati ministeri. Ha ricordato il vescovo di Bergamo che ogni cristiano, grazie al battesimo, può essere portatore di benedizione: un padre può benedire i figli, i nonni possono benedire i nipoti; ma allora anche medici e infermieri, fossero pure non credenti, “quando vedono morire gente da sola, ha detto il vescovo, se percepissero un desiderio, potrebbero con le loro mani offrire anche la benedizione di Dio”; e così avviene.

È bella l’Italia perché nel massimo del dominio della legge, del divieto, dei limiti imposti e accettati, manifesta un massimo di democrazia. Non è vero che la democrazia rappresentativa non può essere “governante”, che ha bisogno di correzioni autoritarie e presidenzialiste, di strette gerarchiche, di poteri usurpati (“i pieni poteri!”). La democrazia funziona, il consenso non è mai stato così alto. Certo l’esperienza di questo “stato d’eccezione” è nuova, nemmeno le Costituzioni l’avevano prevista e normata. Ma proprio in questo si rivela la superiorità di uno Stato costituzionale sui regimi senza Costituzione. Perfino in ciò che ancora non dice, la Costituzione ci tutela, ci fa figli della libertà, ci fa responsabili, solidali. Certo il sistema costituzionale andrà aggiornato, nuove norme dovranno garantirci per il futuro, e ancora di più dovremo batterci per una Costituzione mondiale; ma intanto la democrazia c’è e respira, le opposizioni danno di gomito per farsi vedere, dopo aver sbagliato su tutto, ma in realtà non hanno altro da dire, finché anch’esse non cambieranno.

L’Italia è bella perché al momento della prova si è fatta sorprendere con gli uomini giusti al posto giusto. Ed è come se i ruoli si fossero arricchiti, e addirittura rovesciati. Prendete il vescovo di Roma, il papa. Certo, non è solo per l’Italia; ma intanto è qui che soffre per il mondo. Ed è uno spettacolo straordinario vederlo profeta e guida dei “non messalizzanti”, come i sociologi erano abituati a chiamare i non credenti e non praticanti. Oggi i non messalizzanti sono tutti, o quasi tutti, e allora quella Messa quotidiana del papa dall’inedito eremo di Santa Marta è diventata la Messa sul mondo, e perfino la Televisione italiana la trasmette, compreso il lungo silenzio finale, e ne fornisce il segnale ad altre emittenti. Ma il papa non approfitta di una udienza così allargata per imporre la sua parola; mercoledì, infatti, nel giorno dell’annuncio a Maria, la sua omelia non è stata altro che rileggere una seconda volta quel passo del vangelo di Luca. Vi basti il Vangelo, “sine glossa”, diceva l’altro Francesco. Ma qui una “glossa”, folgorante, da parte del papa, c’è stata: ha detto che Luca di quell’ “annunciazione” non aveva potuto saperlo che dalla Vergine stessa; perciò quel Vangelo non è la cronaca di un evento che non ha avuto testimoni, ma è il racconto di Maria, la sua autobiografia più segreta, è la parola di una donna che rivela un mistero, ciò da cui ha avuto inizio la fede nell’incarnazione e ha preso avvio il cambiamento del mondo. Dunque tutto l’evento decisivo della storia è accaduto tra due testimonianze di donne: Maria, col concepimento, la Maddalena con la resurrezione. “Sulla tua parola…”. E le donne erano inaffidabili!

E prendete il presidente della Repubblica: il suo ruolo è di presiedere ai “cittadini”, ma si preoccupa di tutti. Chi sono più i cittadini dinanzi all’universalismo del virus, e alla comune risposta che bisogna dargli oltre ogni frontiera? Davvero la cittadinanza è l’ultima discriminazione che deve cadere. E Mattarella scrive al presidente tedesco augurandosi che l’esperienza italiana serva alla Germania e agli altri Paesi, perché ne sia alleviata la prova. E noi stessi riceviamo l’aiuto, non dall’Olanda, o dai più ricchi Paesi europei che sono troppo affezionati al denaro e al rigore, ma dalla Cina, da Cuba, dalla Russia, i nostri da noi dichiarati nemici di un tempo.

E guardate Conte: non lo volevano prendere sul serio, lo dileggiavano come un travicello in altre mani. Ma quando le altre mani sono venute meno, sono rimaste e si sono levate le sue, e governa con fermezza nella tempesta, ma anche con tenerezza ed equità; non ha una sua parte a cui badare, ma tutte le attraversa, come il samaritano, senza iattanza, formato com’è alla scuola del cardinale Silvestrini. Per questo i grandi poteri lo vogliono cambiare con Draghi, come se non si fosse già fatta l’esperienza di Monti.

E dei ministri prendete quello della forza più piccola, quel ministro della sanità che sembra essere nato per pensare alla salute di tutti.

È bella l’Italia perché mentre molti dicono che dopo saremo “migliori di prima”, è adesso che ci scopriamo migliori di quanto pensassimo. Sul futuro non ci potremmo giurare, altre volte dopo le tragedie ci sono state regressioni, cecità e odiose restaurazioni. Già adesso del resto si fa forte un mondo che è duro a morire. Basti pensare alla pretesa che mentre tutto chiude, resti attiva la filiera dell’aerospazio e della difesa: una bella caduta di credibilità e sensatezza di un governo altrimenti apprezzabile. È come se non si potesse decidere di smettere la produzione di armi per guerre non metaforiche, come quella del virus, ma guerre reali, presenti e future, al servizio delle quali si spendono oggi nel mondo 5 miliardi di dollari al giorno La verità è che il tempo di cambiare è questo, non quello futuro, e il futuro dipende dalle scelte che oggi facciamo. Non bisogna chiedersi che cosa faremo e come saremo “dopo Coronavirus”, ma che cosa facciamo e siamo “durante Coronavirus”. Il tempo è venuto ed è questo.

È bella l’Italia, perché proprio qui si è potuto vedere attraverso le dolenti statistiche di ogni giorno, che le donne resistono al virus molto più degli uomini, ne sono colpite due donne contro otto uomini. È una scienziata che ne ha fatto una notizia, la virologa Ilaria Capua. Non sanno spiegarsi il perché, e invece forse è chiaro: perché toccherà a loro ridare ricchezza alla vita, ripartire dal profondo, dire di sì al far dono alla terra dei “nati da donna”.




in quale Dio merita credere

IL DIO CON CUI STO

discorso tenuto ad Assisi da Raniero La Valle  il 21 agosto 2015 al 73° Corso di studi cristiani sul tema “Responsabili dell’immagine di Dio”

La Valle

Mi era stato chiesto di raccontare “Il Dio in cui credo, il Dio in cui non credo”. Ma questo voleva dire aprire l’armadio di tutte le definizioni di Dio, di tutte le fantasie su Dio, e scegliere fior da fiore, per ricostruire il Dio che mi piace, ed escludere i connotati del Dio che non mi piace. Ma chi sono io per fare questa cernita?
Invece vi parlerò del Dio con cui sto. E’ chiaro che c’è un rapporto tra il Dio in cui si crede e il Dio con cui si sta. Ma non sempre coincidono. Se si crede in un Dio che sulla croce apre le braccia a tutti e poi in nome di Dio si mettono sul rogo gli eretici, è chiaro che non si tratta dello stesso Dio. Il boia sta con un altro Dio.
La storia è piena delle macerie provocate dal contrasto tra la fede creduta e le opere compiute in suo nome. Tutta la storia del popolo di Israele nell’Antico Testamento è attraversata da questa tragedia. Il Dio dei profeti non è il Dio nel cui nome le città cananee erano votate allo sterminio.
E oggi il dramma storico è tale e così tragico l’abuso per cui Dio viene innalzato sulle picche degli assassini, con la testa dei decapitati in suo nome, che la salvezza non viene se ci mettiamo a discutere sulle nostre diverse professioni di fede, ma se il Dio con cui decidiamo di stare non è il Dio della morte ma il Dio della vita, non è il Dio che fa uccidere gli infedeli ma è il Dio nel quale non c’è il nemico.
Il male più grande viene da chi sta con un Dio sbagliato, che corrisponda o no al Dio in cui dice di credere.
Ma c’è anche il problema di chi segue come se fosse un Dio qualcuno o qualcosa che sa benissimo non essere un Dio.
Quelli ad esempio che stanno col Dio denaro sanno benissimo che quello non è un Dio, ma un idolo; però ci stanno lo stesso, perché se non fosse un idolo non potrebbero offrirgli sacrifici umani, come fanno gli Stati che chiudono le porte dell’Europa provocando l’eccidio di migliaia di profughi o come hanno fatto i potentati europei, a cominciare dal nostro governo. dandogli la Grecia in sacrificio
Sono questi i motivi per cui preferisco parlare del Dio con cui sto.

Credere e amare

Del resto il credere non è la prima fase del rapporto con Dio. La prima fase è l’incontro. Nei Vangeli la gente seguiva Gesù senza sapere che fosse il Figlio di Dio. E a me sembra che la questione prioritaria oggi sia quella del Dio che decidiamo di amare. Questo mi pare il vero problema interreligioso ed ecumenico. E questa mi pare che sia la scelta che papa Francesco sta proponendo al mondo: prima credere o prima amare?
La sua risposta è che prima bisogna amare. Perché questo è quello che fa Dio, ci ama prima ancora di preoccuparsi se noi abbiamo fede in lui. Papa Francesco sempre dice che Dio ci precede nell’amore. Per questo Dio è misericordia. Francesco dice che Dio ci precede nell’amore, e lo dice prendendo in prestito dallo spagnolo, e dallo slang di Buenos Aires, una parola che significa arrivare per primo, amare per primo, magari anche picchiare per primo: la parola è primerear . “Il Signore ci primerea, sempre è primo, ci sta aspettando. Come la fioritura del mandorlo di cui parla Geremia, perché è il primo a fiorire, così è il Signore”.
Questo però non lo dice solo papa Francesco, lo dice tutta la tradizione. Ancora non ero formato nel ventre di mia madre, dice Geremia, e tu già mi conoscevi (Ger.1,5); il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome, dice Isaia (Is.49,1). Con l’avvento del Verbo incarnato, cioè con il cristianesimo, questa realtà di Dio che ama per primo diventa una rivelazione pubblica e universale, che non riguarda solo un individuo, un profeta, un salmista, o un popolo, ma vale per tutta l’umanità e tutti i popoli. Dio ci ha amati per primo, dice la prima lettera di Giovanni; e Paolo ai Romani dice che Dio ci ha amato, fino a morire con Cristo sulla croce, quando noi eravamo ancora peccatori, e quando ancora non credevamo in lui. Dio ci primerea nell’amore, prima ancora della nostra fede; è anzi dall’amore che nasce la fede, e non viceversa; prima ancora che crediamo in lui, lui sta con noi. Dopodiché la fede con cui crediamo in lui può essere più o meno adeguata, più o meno atta a rappresentarlo e a conoscerlo, più o meno ortodossa, ma intanto lui sta con noi e noi stiamo con lui, e l’amore sta prima. Dunque la sequela sta prima della fede, lo stare con Dio viene prima del credere in Dio.
Dunque veniamo al tema: il Dio con cui sto.

Un Dio sacrificale

Il Dio con cui stavo da bambino era un Dio sacrificale. Non so da dove era venuto. Avevo avuto una sommaria formazione religiosa da buona famiglia borghese, quando a otto anni ebbi il dolore della morte di mio padre. Non so perché sulla pagina bianca del mio diario di quel giorno, il 3 giugno 1939, io disegnai una croce molto scura e scrissi una sola parola: sacrificio. Perché a otto anni interpretassi la morte di mio padre come un sacrificio non lo so. Subito dopo arrivò la guerra e per la piccola famiglia superstite, una vedova e tre bambini, fu dura la lotta per sopravvivere. Io vissi quella fine di infanzia come una vita di responsabilità precoce e di sacrificio; i primi rudimenti della fede che mi furono offerti in quel tempo andavano in quella direzione. Essi mi giunsero anzitutto dal cardinale Massimo Massimi che, come facevano a Roma molti cardinali che al lavoro di curia univano un servizio pastorale, aveva riunito molti giovani per bene in una Congregazione eucaristica e, come diceva lui, “arcimariana”. Era il prefetto della Segnatura apostolica, un grande giurista, ma umilissimo; era un cardinale molto conservatore ma antifascista, ci faceva il catechismo e ci faceva confessare dal famoso gesuita padre Riccardo Lombardi, che divenne poi “il microfono di Dio”. Secondo la spiritualità del tempo Dio era tutto, e noi non eravamo niente, la vita cristiana era un’espiazione, nell’insegnamento che quel santo cardinale ci impartiva “La nostra legge” era anche più importante de “La nostra fede” – i due libri che aveva scritto per noi – e andava da sé che il mondo non potesse essere amato, perché il mondo si manifestava in quegli anni di guerra a Roma con il suo volto peggiore: c’erano i bombardamenti alleati e c’erano le retate tedesche, che ci minacciavano perfino in piazza San Silvestro, dove andavamo per la messa la domenica nella chiesa di San Claudio; c’erano la povertà e la fame, i lavori precari che mia madre ed io riuscivamo a fare per vivere, la minestra che si andava a prendere a turno e la borsa nera in cui un po’ si comprava e un po’si vendeva. Dio stava lì fermo e osservava la nostra buona condotta. E quando mi fecero fare il disegno di un rifugio durante i bombardamenti, io che non sapevo disegnare, feci le pareti del rifugio squadrate col righello, e vi ricalcai sopra uno sproporzionato santino di un Sacro Cuore di Gesù trafitto.
Finita la guerra padre Lombardi andò a predicare sulle piazze e i rapporti con il cardinale Massimi si diradarono un po’, sia perché non potevamo più incontrarci nella villa moresca che aveva in viale Parioli, da cui lo avevano sfrattato perché cominciava la speculazione edilizia, sia perché io andai alla FUCI, che a lui non piaceva perché era troppo progressista e moderna e c’era promiscuità tra ragazzi e ragazze.
Anche alla FUCI la percezione sacrificale e repressiva della fede continuò, anzi si fece più circostanziata e consapevole, perché veniva veicolata dalla liturgia, a cui fummo introdotti, e di cui comprendevamo le parole perché sapevamo il latino; ogni giorno sia nella liturgia eucaristica sia nella liturgia delle ore, ci veniva incontro un Dio che giustamente ci puniva; a Compieta ogni sera, prima di coricarci, lo invocavamo perché ci difendesse dal diavolo che come un leone ruggente ci assediava per divorarci e in ogni caso per rovinare le nostre notti, e c’era un Dio a cui nelle collette della Messa di san Pio V offrivamo le nostre sofferenze mentre proclamavamo che “giustamente” eravamo “afflitti a causa del nostro operare, a causa dei nostri eccessi”, e che ci meritavamo tutti quei dolori, perché grande era la nostra colpa, e solo Dio poteva salvarci; il giogo del peccato ci teneva sotto il peso della vecchia servitù, perfino la morte era per colpa nostra, altrimenti saremmo stati immortali, il mondo era una valle di lagrime, noi dovevamo disprezzare le cose terrene e le prosperità del mondo, e cercare solo quelle celesti.
Il richiamo a un atteggiamento ascetico e di severità morale era poi accentuato, nel passaggio dalla congregazione del cardinale Massimi alla FUCI, da quella che non a caso il cardinale considerava con sospetto, cioè la promiscuità tra ragazzi e ragazze, che era una meraviglia ma anche una tentazione. Nessuno ci aveva detto, come ha detto papa Francesco ai ragazzi in piazza Vittorio il 21 giugno scorso a Torino, che la castità consiste nel non usare l’altra o l’altro per il proprio piacere. E nessuno ci aveva proposto la castità in punta di piedi, chiedendo perdono, sapendo di dire una cosa impopolare, di chiedere una cosa non facile, perché “tutti nella vita siamo passati per momenti in cui questa virtù è molto difficile”. Se queste parole di papa Francesco avessero potuto essere ascoltate allora, il fantasma di un Dio severo, moralista, che ci metteva addosso la paura del sesso, non avrebbe turbato i nostri rapporti giovanili e forse non ci avrebbe infelicitato la vita prima e dopo il matrimonio, e forse la vita intera sarebbe stata più feconda anche di figli.
Insomma prendendo tutti insieme – il cardinale Massimi, la congregazione eucaristica di San Claudio, la FUCI, ma si potrebbe dire anche la GIAC di Arturo Paoli o il cattolicesimo militante e insieme ascetico di Dossetti, ossia il migliore cattolicesimo che si viveva in Italia prima del Concilio – si potrebbe dire che esso stava con un Dio che toglieva l’aria. E questo vuol dire che senza un vento nuovo non poteva che deperire.
Quello che personalmente mi salvò fu lo spirito critico che contestualmente la FUCI mi insegnò, ma anche il fatto che essa mi gettò nel mondo. Essere gettati nel mondo per noi allora voleva dire il confronto aspro con il cattolicesimo sanfedista di Gedda e dei Comitati civici, voleva dire il confronto politico nel mondo universitario in cui si facevano le prime prove di democrazia, voleva dire l’elaborazione di alternative culturali più aperte che sviluppavamo sul giornale della FUCI, “Ricerca”, di cui ero il redattore.
Per reggere il confronto con il mondo bisognava stare con un Dio diverso, un Dio non dolorifico, un Dio non pentito delle sue creature, non geloso della bellezza, dell’amore, un Dio non invidioso della libertà dei suoi figli, un Dio amante della vita.

I varchi per un Dio diverso

C’erano dei varchi attraverso cui irrompeva questo Dio. Uno di questi varchi fu per me l’incontro con il monachesimo camaldolese, e in particolare col più grande monaco del XX secolo, padre Benedetto Calati, dal quale ero andato casualmente a san Gregorio al Celio per farmi benedire, manco a dirlo, una croce di maiolica che avevo comprato con la mia fidanzata Cettina.
Il Dio di padre Benedetto era un Dio di una dolcezza infinita, che alla confessione prima ancora che io potessi formulare un peccato, già mi perdonava, sicché ben presto in quelle confessioni, dei peccati non ci si ricordò più, e si parlava solo di san Gregorio Magno che apriva ai nuovi popoli, e ai poveri di Roma faceva distribuire “cibi già cotti, frumento e vino” e anche “salse e balsami” ( “pigmenta et alia delicatoria commercia”), si parlava dei Padri della Chiesa che interpretavano tutta la storia come storia della salvezza, si parlava della Scrittura che cresce con chi la legge, e di Dio che, per dire la cosa più bella di lui, padre Benedetto diceva che “(Dio) è un bacio”.
Poi un giorno a Bologna, dove mi trovavo per un congresso della FUCI, che noi del Centro nazionale avevamo preparato con l’idea che fosse molto rivoluzionario, sentii in cattedrale un’omelia dell’arcivescovo cardinale Lercaro, e mi sembrò di non avere mai sentito parlare di Dio così. Forse non era vero, forse era il mio modo di ascoltare che era cambiato. Ma certamente lì c’erano parole in cui era evocato un Dio molto simile al Dio con cui volevo stare e perciò alla rivelazione nuova di Dio che veniva dal basso, dall’esperienza cioè della mia vita, si aggiunse una rivelazione nuova di Dio, un modo nuovo di parlare di Dio che veniva dall’alto, dalla stessa gerarchia della Chiesa, da un cardinale. E così quel giorno adottai il cardinale Lercaro come mio vescovo, anche perché allora non c’era la minima idea che il papa a Roma fosse anche il suo vescovo, e quindi io come fedele romano avevo in qualche modo la casella libera. Decisi che il Dio del cardinale Lercaro, il Dio della riforma liturgica, il Dio delle nuove chiese di periferia, il Dio dei ragazzi poveri che vivevano e studiavano in casa con l’arcivescovo, era il Dio con cui volevo stare. Il destino volle che poi il cardinale Lercaro diventasse il mio vescovo davvero, perché fui chiamato a dirigere “L’Avvenire d’Italia”, il giornale che usciva a Bologna, e perciò a Bologna ci andai a vivere, e fu lì che irruppe il Concilio.

Un nuovo annuncio di Dio per l’umanità del XX secolo

Il Concilio fu il vero nuovo annuncio di Dio per l’umanità del XX secolo. Sulle prime non ce ne accorgemmo perché si pensò che il Concilio non avesse valenza teologica, che avesse il suo unico scopo nella riforma della Chiesa e nell’aggiornamento della pastorale intesa come veicolo e non come sostanza della fede. E invece era proprio una nuova comprensione e un nuovo annuncio di Dio “nelle forme che i nostri tempi esigono”, che papa Giovanni aveva chiesto al Concilio e che del Concilio doveva diventare il tesoro più prezioso, l’aggiornamento più profondo e duraturo. Occorre rovesciare il luogo comune che ha fuorviato la comprensione del Concilio: esso è stato un grande Concilio teologico, e proprio perciò “pastorale”.
Il Dio del Concilio è radicalmente un Dio non sacrificale. Non è un Dio mortalmente offeso dal peccato originale per cui debba essere soddisfatto e risarcito dal sacrificio del Figlio e dal sacrificio anche nostro, non è un Dio a cui sia dovuta l’espiazione delle lacrime e sangue degli uomini, non è un Dio che si è vendicato della disobbedienza di Eva e del suo compagno comminando loro la morte, il lavoro come sudore e come pena, la sessualità come concupiscenza e impurità, i parti con dolore, la terra che invece di frutti produce cardi e spine. Espiazione, come ha spiegato Carlo Molari su Rocca, non significa pagare un prezzo, ma essere perdonati, ricevere la purificazione da Dio, e del resto la parola placatio, di un Dio che dovesse essere placato nella sua ira, che era una parola chiave della teologia preconciliare, non compare mai nei testi del Concilio. Il Figlio di Dio non si è incarnato per pagare un debito al Padre, come sosteneva la dottrina di s. Anselmo (“Cur Deus homo?”) sempre ripetuta dalla Chiesa, ma per spiegare agli uomini i segreti di Dio (D.V. n. 4), per togliere le maschere antropomorfe e terribili che sfiguravano il volto di Dio, per non lasciare gli uomini soli ma al contrario “senza interruzione alcuna” fornire loro gli aiuti per la salvezza (D.V. n. 3), per unirsi in qualche modo ad ogni uomo (G. S. n. 22), per entrare in modo definitivo nella storia umana (Ad Gentes, n. 3), e rendere tutte le cose sacre, comuni. Paolo VI avrà un bel dire che il Concilio non aveva abbandonato la dottrina del peccato originale; in realtà la teoria anselmiana del Dio che risarcisce se stesso nel Figlio e nei figli è del tutto rovesciata.
Il Dio del Concilio è un Dio che fa a pezzi l’idolo che le religioni e le Chiese avevano costruito per onorarlo, che libera dai fraintendimenti di cui era vittima il Dio che, come canterà padre Turoldo, subiva “il carico di errate preghiere”, onde si credeva di rendergli onore.
Non è più il Dio che salva solo i suoi, per cui fuori della Chiesa, della Chiesa visibile e gerarchica, non vi sarebbe salvezza. Non è il Dio che diserta le altre Chiese cristiane. Non è il Dio cui non potranno mai avere accesso, nella beatitudine eterna, i bambini morti senza battesimo: questa dottrina, che si voleva fosse sancita dai Padri, non fu nemmeno presa in considerazione dal Concilio, tanto che poi il Limbo fu abolito; il Dio del Concilio non è un Dio che non ha lasciato tracce di sé e semi della sua Parola nelle altre religioni, ma tutti gli uomini e le donne, “nel modo che lui conosce”, ha associato al mistero pasquale, e fa sì che nel loro cuore lavori invisibilmente la grazia (G.S. n.22).
Il Dio del Concilio non è un Dio invidioso dell’uomo, che lo tiene per le briglie col ricatto di bollarlo come prometeico ed eretico se prova ad essere adulto; e nemmeno è il Dio che ha abbandonato l’uomo a se stesso mettendolo “in mano al suo proprio volere”, come si è fatto dire, con cattive traduzioni bibliche, anche della CEI, a un versetto del Siracide, ma ha messo l’uomo “in mano al suo consiglio”, come traduce la Gaudium et Spes, cioè lo ha fatto responsabile di se stesso e del mondo, sicché basterebbero uomini più saggi, dice il Concilio, per far fronte a una situazione in cui è in pericolo il futuro del mondo. (G.S. n.15, n.17).
Il Dio del Concilio è un Dio perciò fonte e garanzia della libertà umana, un Dio che parla attraverso la coscienza (G. S. n. 16), un Dio che non agisce con la costrizione e con la violenza ma che sceglie la via della povertà e della abnegazione, un Dio che dopo avere creato l’amore non lo mette in ceppi per farlo servire solo alla procreazione, ma lo fa traboccare in uomini e donne perché serva alla loro comunione, alla loro tenerezza, alla loro fecondità e alla loro gioia.

La fede nicena

Questo Dio il Concilio non se lo è inventato, ma lo ha recuperato da tutta la grande tradizione della Chiesa. Il Vaticano II ha riproposto la cristologia dei primi quattro Concilii, e in particolare ha riproposto la fede nicena, che in Cristo Gesù ha riconosciuto non “un Dio in seconda”, fatto dal Padre, ma un vero Dio, coeterno col Padre, della stessa essenza del Padre. Questo cardine della fede fu espresso dal Concilio di Nicea nel 321 sotto la forma non di una definizione dogmatica, ma di una professione di fede, ed è infatti giunto fino a noi in forma di preghiera, nella forma di un Credo. C’è un bellissimo libro di Giuseppe Ruggieri, “Della fede”, in cui si spiega che questo è stato il processo di formazione della fede nelle comunità primitive, come racconto e come preghiera, e non come dogmatica e come dottrina; ciò ha permesso il convivere di diversi racconti, come sono diversi i Vangeli, tant’è che fino a Nicea non c’è traccia di una formula di fede unica per tutte le comunità cristiane, che invece irrompe a Nicea, ma in forma di preghiera, nella forma di un Credo. È solo con il Concilio di Calcedonia, nel V secolo,che avviene uno slittamento strutturale, e si passa dalla fede alla dottrina sulla fede, tant’è che mentre le prime parole del niceno-costantinopolitano erano: “noi crediamo che”, le prime parole della definizione di Calcedonia suonano: “noi insegniamo che”, e comincia una storia di ortodossia dottrinale che è anche una storia di esclusione.
Ma indipendentemente dall’irrigidimento dogmatico la professione di fede di Nicea, ripresa dal Concilio Vaticano II (“Colui dunque, per opera del quale aveva creato anche l’universo, Dio lo costituì erede di tutte quante le cose, per restaurare tutto in lui”, dice ad esempio il decreto Ad Gentes, n. 3), è decisiva per noi perché rende universale la storia della salvezza e mostra come nel Cristo coeterno al Padre tutti gli uomini abbiano avuto accesso alla salvezza anche prima che Gesù fosse concepito e anche fuori del succedersi delle generazioni del popolo di Israele (“Indubbiamente lo Spirito Santo operava nel mondo prima ancora che Cristo fosse glorificato”, dice il decreto Ad Gentes n. 4) e che anche dopo il Gesù storico, la salvezza di Dio in Cristo può traboccare in tutti gli uomini e in tutte le culture anche fuori del filone giudeo-cristiano. Per questo si potrebbe dire che il cristianesimo sia una religione post-biblica, che reca non solo l’unità dei due Testamenti, ma l’unità di tutti i Testamenti. Noi spesso ci dimentichiamo di essere niceni e ci rappresentiamo una storia della salvezza secondo una linea di successione che dalla creazione giunge ad Abramo, a Mosè, ai profeti e attraverso Gesù Cristo passa nel nuovo Israele che è la Chiesa. Ma la fede di Nicea ci dice che, fin dall’inizio, Dio è stato il Dio di tutta l’umanità e di tutta la Chiesa, non per successione o sostituzione del Dio di Israele. Ed è per questo che cambia tutta la prospettiva del Concilio sia riguardo all’ecumenismo sia riguardo alle religioni non cristiane, sia riguardo al primato della coscienza e alla libertà religiosa, ma anche riguardo al rapporto col mondo e con la storia, che fin dall’inizio giacciono in Cristo e non giacciono nel Maligno.
Ed è questo, dice il Vaticano II, il Dio con cui stare, il Dio che sta con noi fin dalla fondazione del mondo, non solo dal momento dell’incarnazione di Cristo come secondo Adamo, ma fin dall’inizio, perché fin dalla creazione del mondo Cristo è lì, il primo Adamo è lui.

Dopo il Concilio

Lo splendore di questo Dio del Concilio si è però ben presto appannato, non è stato questo il Dio che è stato predicato dopo il Concilio, ed è proprio per questo che i cinquant’anni che sono seguiti sono stati anni di deserto. E molti, anche tra i cattolici più aperti, hanno finito per disamorarsi del Concilio, per esserne delusi, e infine abbandonarlo.
Io sono rimasto col Concilio, e mano a mano che più lo scoprivo, più mi rallegravo del fatto che proprio quel Dio che il Concilio aveva ritrovato e messo a fermentare nei suoi documenti era il Dio con cui volevo stare.
E’ stato così che tutte le cose che io ho fatto dopo il Concilio mi sono riuscite facili, perfettamente serene e pacificanti dalla parte di Dio, tanto quanto erano dure, controverse, conflittive dalla parte degli uomini.
Così è stato per la lotta per il NO nel referendum sul divorzio, e non con l’argomento profano della separazione tra Chiesa e Stato, ma con l’argomento cristiano della misericordia (che fu la motivazione del No, dopo una notte di preghiera, di Fratel Carlo Carretto), perché non può lo Stato per far contenta la Chiesa infliggere una vita di inferno ai suoi cittadini.
Così è stato per la scelta di rompere l’unità politica dei cattolici e dare legittimità politica ai comunisti, perché non c’era nessun Dio degli eserciti a disporre e a dividere le truppe nella battaglia, e andava recuperata la compatibilità ma anche la reciproca libertà tra fede e politica.
Così è stato per la prima legge che mi sono trovato a dover fare in Parlamento, la legge sull’aborto, che siamo riusciti a fare non come una legge che cambia un reato in diritto, come voleva la cultura radicale di Adele Faccio e della Bonino, ma come una legge che cura le ferite e allevia il dolore sociale, e come tale è riuscita a sopravvivere fino ad oggi.
E così è stato, naturalmente nelle battaglie contro i missili a Comiso, per i palestinesi, contro i regimi militari cattolici dell’America Latina, contro la guerra del Golfo, contro la guerra della Jugoslavia, per la difesa della Costituzione, fino alla battaglia in corso per impedire che governanti e parlamentari corrotti dal potere distruggano Costituzione, rappresentanza, scuola e diritti del lavoro e portino l’Italia fuori dalla democrazia e la Grecia fuori dall’Europa.
In tutte queste circostanze, il Dio con cui sto mantiene una sua presenza discreta e fedele. Non è il Dio dei tormenti di coscienza e delle ascensioni mistiche ma piuttosto il compagno di stanza con cui ci si confida e ti incoraggia.
Il Dio con cui sto può anche essere il Dio che non dice niente, che non si fa sentire; esperienza questa che non è solo dei cristiani comuni, ma anche dei mistici: racconta Leonardo Boff che un giorno trovò Arturo Paoli in chiesa, e gli domandò: “Fratello Arturo, tu senti Dio quando, dopo il lavoro, vieni a pregare qui in chiesa? Lui ti dice qualcosa?” E Arturo gli rispose: “Non sento niente. Molto tempo fa ho sentito la sua voce. È stato affascinante. Riempiva i miei giorni di musica e luce. Oggi non sento più niente. Soffro di tenebre. Forse Dio non vuole più parlarmi”.
Perciò io non sono d’accordo con certi linguaggi che per rendere più razionale il discorso su Dio non lo chiamano per nome ma lo descrivono con un’astrazione, come “forza vitale”, come “forza creativa”, come “offerta di vita”, come “fonte di energia” e simili. A me un Dio indistinto, liquido, pura astrazione del pensiero, non interessa, preferisco l’ateismo; il Dio con cui sto è un Dio che sia un Tu e un Dio tale per cui io sia un tu per lui, e noi siamo le sue immagini, i suoi figli, i suoi “califfi”. Un Dio capace di amore. In questo senso un Dio persona. Perché se è vero, come ha detto papa Francesco ai Movimenti Popolari in Bolivia il 9 luglio scorso, che ”non si amano né i concetti né le idee, si amano le persone”, è anche vero che solo se si è persona si ama; perciò Dio è persona.

Il Dio di papa Francesco

Ed ecco che questo Dio si è aperto l’ultimo varco, e anche questo dall’alto, nella predicazione di papa Francesco.
Riprendendo quello che era stato il munus più proprio e meno compreso del Concilio, papa Francesco ha offerto alla Chiesa e al mondo, un nuovo annuncio di Dio,”in quella forma che la nostra età esige”. E la nostra età – ma io credo ogni età – ha bisogno di un Dio come Gesù lo ha rivelato, come il Vangelo lo ha custodito, come la Chiesa degli apostoli e dei discepoli l’ha tramandato fin qui, e come papa Francesco lo racconta: un Dio di misericordia, che ama per primo, che non si stanca mai di perdonare, Padre universale, che non ammette né esclusione, né scarti, un Dio non violento, libero e umano, guardiano non della legge ma della vita, un Dio iconoclasta.
Si è fatta un’obiezione a questo Dio della misericordia: la misericordia va bene, ma dov’è il giudizio? Un Dio che non giudica, dice il senso comune, sarebbe un Dio dimezzato, non sarebbe un vero Dio.
C’è una cosa molto giusta che dice un libro recente del biblista Gerhard Lohfink, “Gesù di Nazaret. Cosa volle – Chi fu”. È un libro che non mi persuade perché fa di Gesù talmente un personaggio ebreo, e del Vangelo talmente una glossa della Legge e dei Profeti, che non si capisce che bisogno c’era che Dio rimettesse tutto in gioco con l’Incarnazione. Però ha ragione Lohfink quando dice che nel nostro annuncio del Dio del Vangelo, spesso censuriamo il Dio del giudizio, mentre il tema del giudizio era parte essenziale del discorso sul Regno fatto da Gesù.
Questa critica però non si può fare nei confronti del Dio della misericordia di cui parla Francesco; il giudizio sul mondo di papa Francesco è durissimo, e si può dire che senza questo giudizio non ci sarebbe nemmeno l’annuncio della misericordia. Basta pensare alla sua denuncia sull’economia che uccide, alla condanna di un sistema che non ha volto e scopi veramente umani, alla critica del denaro che governa, della cultura dello scarto, della globalizzazione dell’indifferenza.
Però nell’annuncio cristiano di papa Francesco non c’è la minaccia del giudizio di Dio, ma c’è la constatazione evangelica che il mondo è già giudicato, come dice Gesù nel vangelo di Giovanni, che è il mondo stesso che è giudice contro se stesso, e che se dal giudizio non passerà alla conversione sarà perduto.
La distruzione della natura che stiamo operando è il paradigma esemplare di questo. La crisi ecologica è il giudizio sul nostro operato nel mondo, la fine siamo noi a procurarla, l’enciclica Laudato sì lo ha reso manifesto.
Quello che l’Europa ha fatto alla Grecia è il giudizio di condanna che l’Europa ha pronunciato su se stessa.
Il fecondo Mezzogiorno d’Italia che non fa più figli, col tasso di natalità più basso degli ultimi 150 anni, è il giudizio che condanna l’ “inequità” delle politiche economiche.
Una generazione di giovani perduta e senza lavoro è il giudizio pronunziato sull’abbandono di qualsiasi idea di bene comune come ragione e fine della politica.
Il governo vanesio e fascistizzante di Renzi è il giudizio che punisce il lungo tradimento della Costituzione con cui, a partire dal 1989, la classe politica italiana ha risposto alla caduta del muro di Berlino.
Lo Stato d’Israele con le sue violenze è il giudizio che grida contro la deformazione idolatrica della fede biblica.
Lo Stato islamico, la tragedia del Medio Oriente, i 232 milioni di migranti internazionali sono il giudizio su un mondo che non vuole conoscere ciò che giova alla sua pace.
Il mondo è già giudicato, ma la misericordia lo può salvare, il chirografo che ci era avverso è stato inchiodato sulla croce.
Questo è il messaggio di papa Francesco. E dice Scalfari: questo è un papa profetico. Ed io aggiungo: non solo profetico ma messianico, perché il suo annunzio, in quanto annunzio messianico, è che il regno di Dio, cioè il regno di misericordia, è vicino.
Ma neanche ora col Concilio Vaticano II, con papa Francesco, il processo di comprensione del Dio con cui stare è concluso. Ci sono delle cose che Pietro non capì di Gesù che lavava i piedi nell’ultima cena e Gesù gli disse: tu ora non capisci, ma dopo capirai. Il monaco camaldolese Innocenzo Gargano in vista del Sinodo dei vescovi ha proposto una nuova interpretazione del detto di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio, nel senso che Gesù non parlava da giurista e, pur proponendo un ideale più alto, “scritto nelle stelle”, non avrebbe abrogato la legge di Mosè che facendosi carico della durezza di cuore dei coniugi aveva concesso il divorzio. Un cattolico zelante ha sbeffeggiato padre Innocenzo, perché dopo duemila anni proponeva una lettura nuova del Vangelo, come se fino ad ora si fosse sbagliato a capirlo. Eppure proprio questa è la dinamica dello Spirito nella storia della fede: quello che finora non avete capito ecco ora lo comprendete.
Ed è in questo spazio tra il già e il non ancora di ciò che abbiamo capito di Dio che c’è tutta l’eccedenza del Dio con cui stiamo rispetto al Dio in cui crediamo, perché il Dio che sta con noi è sempre al di là di qualsiasi cosa noi possiamo pensare e credere di lui.

Raniero La Valle

Assisi, 21 agosto 2015




la ‘conversione’ della teologia

 

 

Quale Dio oggi?

“quell’11 settembre 1962  papa Giovanni, tracciando il programma del Concilio, annunciò un nuovo Natale della Chiesa. Secondo questa nuova nascita essa sarebbe stata Chiesa di tutti e soprattutto Chiesa dei poveri. Non cambiava il soggetto Chiesa … ma essa sarebbe rinata dall’alto, cioè dallo Spirito …  per «ripristinare e aggiornare la Chiesa secondo la sua fisionomia originaria»”
“papa Francesco si ricollega al Concilio …  oggi, nell’assoluta continuità della tradizione …  siamo di fronte a una novità nella proposta e nell’annuncio della fede, cioè nel discorso su Dio”
 
una bella conferenza di Raniero La Valle (*):
Questa assemblea si inserisce in un percorso che ha preso come suo punto di partenza quell’11 settembre 1962 in cui papa Giovanni, tracciando il programma del Concilio, annunciò un nuovo Natale della Chiesa. Secondo questa nuova nascita essa sarebbe stata Chiesa di tutti e soprattutto Chiesa dei poveri. Non cambiava il soggetto Chiesa, come ci terrà a dire Benedetto XVI, ma essa sarebbe rinata dall’alto, cioè dallo Spirito. È stato infatti lo Spirito che ha voluto il Concilio, per «ripristinare e aggiornare la Chiesa secondo la sua fisionomia originaria»; questa è l’affermazione che ha fatto papa Francesco alla canonizzazione di Giovanni XXIII. Papa Giovanni, nel convocarlo, è stato docile allo Spirito, e proprio per questo Francesco lo ha proclamato santo. Ora, ripristinare e aggiornare vuol dire appunto far nascere una seconda volta.
Questa nuova nascita della Chiesa ha avuto una lunga gestazione, di cui la Lumen Gentium è stato il punto d’avvio. È venuto poi il processo postconciliare, ma tardava a nascere la Chiesa dei poveri, finché il 13 marzo 2013 nella cappella Sistina il papa appena eletto, rispondendo all’invito del suo amico brasiliano cardinale Hummes di “ricordarsi dei poveri”, prese il nome antidinastico di Francesco. E quando il papa si presentò con quel nome alla gente raccolta in piazza san Pietro e chiese la benedizione e l’investitura silenziosa del popolo, sembrò che una lunga attesa fosse giunta a compimento. Come il santo vecchio Simeone, quando Gesù venne presentato nel tempio, capì che cominciava una nuova stagione per la fede di Israele, così quando al balcone della basilica si presentò questo pastore che si inchinava alle pecore, il popolo romano avvertì che forse qualcosa cominciava di nuovo. E non si trattava solo della novità di “una Chiesa povera per i poveri”, come la voleva il papa, cioè di una novità per la Chiesa istituzione, ma di una novità per la fede, e quindi per il mondo, se per fede si intende il rapporto del mondo con Dio.
Così lì, in quel crepuscolo romano, si compiva quel “balzo innanzi” che cinquant’anni prima, aprendo il Vaticano II, papa Giovanni aveva detto che ci si aspettava dal Concilio. Per cinquant’anni si era creduto che quel balzo innanzi riguardasse la Chiesa e la sua riforma, non il contenuto stesso della fede. Si pensava che il Concilio nulla avesse innovato nella fede, come se la sua natura pastorale lo avesse reso incapace di penetrazione dottrinale e di riflessione teologica. Ma il balzo innanzi che secondo Giovanni il Concilio doveva far fare alla Chiesa era proprio nella “penetrazione dottrinale” e nella educazione delle coscienze alla fede, e proprio questo il Concilio aveva fatto. Inutilmente esso si sarebbe occupato della Chiesa, se lo scopo e il cimento non fossero stati di ripristinare e aggiornare la trasmissione della fede; l’aveva detto anche Ratzinger quando era ancora cardinale commentando la Lumen Gentium (27 febbraio 2000): «Una Chiesa che esiste solo per se stessa è superflua».
È proprio in questo che papa Francesco si ricollega al Concilio. Oggi, nell’assoluta continuità della tradizione – perché di sicuro questo è un papa della tradizione – siamo di fronte a una novità nella proposta e nell’annuncio della fede, cioè nel discorso su Dio. Quel Dio della misericordia e dell’infinita pazienza, che sempre perdona, annunciato fin dal primo Angelus in piazza san Pietro, certo non era un Dio ignoto, eppure sembrava che nessuno ancora lo conoscesse. E questo spiega l’eccitazione del mondo dinanzi a questo papa venuto da una periferia, e l’enorme consenso del popolo fedele, mentre spiega la freddezza e la resistenza dei prelati, che temono un Dio fuori controllo. Ma se c’è festa nella Chiesa non è perché cambia la Curia, ma perché cambia e diventa una festa la fede.
 
Il Concilio ha rinnovato la fede
Il modo in cui il Concilio aveva affrontato la questione del rinnovamento della fede era stato quello di distinguere tra la sostanza della fede e i modi della sua espressione. Occorreva, come aveva detto papa Giovanni nel discorso di apertura del Concilio, Gaudet Mater Ecclesia, che i contenuti della fede venissero esplorati e declinati nelle forme e secondo la cultura degli uomini del nostro tempo. Proprio a questo doveva servire il Concilio. Non a rinnovare condanne, o a ripetere formule di scontate dottrine, ma a un mondo che stava smarrendo o aveva perduto la fede, doveva tornare a proporla «nel modo che i nostri tempi richiedono» (1). Non si trattava solo di una distinzione tra la fede e il suo rivestimento, tra la dottrina e il linguaggio in cui è trasmessa, come se ci fosse una dottrina immutabile e una sua formulazione letteraria mutevole, come sembrava dire la minuta in italiano del discorso del papa; si trattava invece del fatto, come diceva il testo ufficiale latino del discorso giovanneo, che la dottrina stessa dovesse essere ulteriormente investigata – “pervestigetur” – e che le sue verità dovessero essere enunciate nel modo che i nostri tempi richiedono; il rapporto chiamato in causa non era dunque tra la verità e il suo rivestimento, che in qualche modo le rimanesse sovrapposto ed estraneo, ma tra la verità e la sua enunciazione, dove l’enunciazione è il modo stesso di esistere e di comunicarsi della verità; l’enunciazione quale richiesta dai tempi non è un rivestimento, un vestito aggiunto, è la verità in quanto si comunica in modo nuovo. Tutto ciò vuol dire che il fine pastorale del Concilio non significava affatto una sua presunta sterilizzazione teologica, ma voleva dire che il Concilio si giocava tutto sul rapporto tra la fede ricevuta e la sua rilettura e trasmissione nelle condizioni dell’oggi; il Concilio dunque come un evento della fede.
Ed è qui allora che prende legittimità la questione posta a tema di questa assemblea. La questione dell’oggi. Dio è sempre lo stesso, l’uomo è sempre lo stesso, la Chiesa è sempre la stessa. Ma che cosa è Dio oggi, che cosa è l’uomo oggi, che cosa la Chiesa? Quale Dio, quale donna e uomo, quale Chiesa sono scritti oggi nell’alfabeto della nostra fede? Porre questa domanda, a metà di quello che è un itinerario, un cammino, significa fermarsi e sostare, significa togliersi per un momento dal tempo scorrevole in cui siamo gettati, dal kronos, e afferrarlo prima che sfugga, ghermirlo come un kairós. Perché il tempo di ora, “ó nún kairós”, come lo chiama Paolo, è il tempo buono, il tempo favorevole, e se non vediamo bene l’oggi, non capiamo da dove veniamo, e ancor meno dove andremo.
 
Capire oggi le cose di Dio
“Oggi” è un forte termine biblico: «ascoltate oggi la sua voce», dice il Salmo, e ripete la lettera agli Ebrei: «oggi se udite la sua voce non indurite i vostri cuori». Ma se c’è un “oggi” di Dio, vuol dire che quel Dio nel quale, come dice Giacomo, «non c’è variazione né ombra di cambiamento» (Giac 1), tuttavia sta nel divenire, sta nel mutamento, è entrato nella storia, come afferma il Concilio. E se Dio sta nel divenire, vuol dire che c’è anche un’innocenza del divenire, e se Dio sta nella storia vuol dire che c’è anche una storia di Dio, e se Dio sta nel mutamento vuol dire che ci sono delle cose di Dio che ieri non capivamo e che oggi invece capiamo, cose ad esempio che prima del Concilio la Chiesa non capiva, e che adesso invece capisce, in modo che si compiano le parole dette da Gesù a Pietro nell’ultima cena: tu ora non capisci, ma dopo capirai. E speriamo che ora capisca.
Capire che cosa? Capire le cose degli uomini, e anche quelle ancora le capiamo così poco. Per far questo ci vuole la scienza, l’intelligenza, la comprensione storica. Ma dobbiamo anche capire le cose di Dio. Capire le cose di Dio non vuol dire venirle a sapere perché all’improvviso Dio ce le rivela, o perché sono tutte scritte nella Bibbia. Magari fosse così facile. Capire le cose di Dio vuol dire che dobbiamo metterci del nostro, vuol dire che c’è una progressione nella comprensione di Dio, c’è una storia della teologia e non solo una teologia della storia, c’è una storiografia dell’amore di Dio e non solo un amore di Dio nella storia. Se avessimo capito già tutto, il papa Francesco non ci avrebbe detto, giusto il 30 aprile scorso, che noi non abbiamo solo l’intelligenza per capire le cose del mondo, ma abbiamo un intelletto che è un dono dello Spirito Santo che ci permette di intus legere, cioè di leggere dentro, per capire meglio le cose di Dio e per capire le cose come Dio le capisce, con l’intelligenza di Dio. E dunque quale Dio il Concilio ci ha raccontato, papa Francesco ci annuncia e il popolo di Dio oggi è chiamato a riconoscere?
 
Un Dio di misericordia
Prima di tutto, e questo è il dato più evidente, un Dio di misericordia. Certo lo era anche prima. Però questo non era bastato a liberare l’umanità da un senso di colpa che la inchiodava al passato e che le faceva ritenere di essere continuamente esposta all’ira di Dio. Perciò il rapporto colpa-punizione-redenzione era diventato centrale nell’interpretazione del cristianesimo, e aveva fatto della religione giudeo-cristiana la religione del Dio offeso e “placato”, ma placato da sacrifici di uomini e di animali, da città votate allo sterminio, dall’obbedienza incondizionata alla legge e, alla fine, placato dal sacrificio del Figlio sulla croce. C’era un Dio da risarcire e la stessa incarnazione di Dio non riceveva altra spiegazione al di fuori dell’ideologia anselmiana dell’espiazione riparatrice; mentre l’idea che l’uomo potesse contare sulle risorse della natura per prendere in mano la sua vita e la storia era, a causa del peccato, accusata come “pelagiana” o “semipelagiana”.
Proprio sul nesso tra colpa e punizione era fondata la critica della cultura moderna, la critica che Nietzsche faceva alla religione biblica, fino a proclamare la “morte di Dio”; da lì veniva il suo scontro con Paolo, la sua accusa al cristianesimo di perpetuare il sacrificio sublimandolo, e di essere pertanto causa di debolezza e “décadence”, decadenza. Ma c’era pure la lettura di Freud che riteneva la colpa costitutiva dell’uomo e riconduceva il cristianesimo alla memoria rimossa del delitto fondatore, all’uccisione del padre, cioè di Dio, facendo del sentimento di colpa per il peccato non una condizione da redimere ma una malattia da curare. Questo Dio, «terribilis et fascinans» (2) così stressante per l’uomo, è rimasto a incombere nella Chiesa fino al Concilio Vaticano II, e nei suoi catechismi anche dopo di esso. Solo René Girard si affannava per decostruire l’ideologia sacrificale, rompere la continuità tra la violenza e il sacro e mostrare come nello stesso testo biblico il pensiero sacrificale della “vittima necessaria” fosse denunciato e sorpassato.
Ed ecco che il Concilio racconta un’altra storia di Dio con l’uomo. Non c’è un Dio da placare (il termine placatio, placato, scompare dalla liturgia), non c’è un Dio che dopo averlo creato si pente dell’uomo per il suo peccato originale e gli infligge la morte, lo abbandona alla concupiscenza, gli rivolta contro una terra di cardi e di spine e lo condanna al lavoro come pena. È stata una grande rivelazione del Vaticano II quella di un Dio che mai si è separato dagli uomini, che «dopo la loro caduta in Adamo non li abbandonò, ma sempre prestò loro gli aiuti per salvarsi, in considerazione di Cristo redentore», come dice la Lumen gentium al n. 2, un Dio che sine intermissione, senza smettere mai, si è preso cura di loro, come dice la Dei Verbum al n. 3, che non li ha cacciati da nessun giardino, non li ha condannati al sudore della fronte e non ha punito gravidanze e parti col dolore. Il Concilio ha mostrato un Dio che non ha bisogno di essere né soddisfatto né risarcito, tanto meno col sangue del Figlio; un Dio che vuole misericordia e non sacrifici e che, come suggerisce un’immagine di un trattato post.biblico del Talmud babilonese, quando vede il mondo messo male per le sue colpe si alza dal trono della giustizia e si siede sul trono della misericordia. Ricordo una bellissima omelia di padre Balducci alla Badia Fiesolana su “I due troni”. Sicché, come dice l’orientale Isacco di Ninive nel VII secolo, se dalle Scritture è attestata anche una giustizia di Dio come retribuzione punitiva, è pur vero che «a paragone della sua misericordia» essa è «come un granello di polvere» che «non controbilancia un gran peso d’oro». Sicché «dov’è l’inferno che possa rattristarci?» (3), si domanda. E dice che «la morte del nostro Signore non fu per salvarci dai peccati, niente affatto, né per altro motivo, se non quello solo che il mondo potesse rendersi conto dell’amore che Dio ha per la creazione» (4).
Questo è il Dio che oggi annuncia papa Francesco. Apre il Vangelo e lo commenta ogni mattina a Santa Marta, e da lì comincia la sua rivoluzione. E il volto di Dio che sempre vi ritrova è la misericordia. La misericordia non è quello che Dio fa, è quello che Dio è. Siamo noi che facciamo opere di misericordia. Il Papa ha coniato un neologismo per dirlo: misericordiando, che traduce il miserando atque eligendo del suo motto episcopale (5) e con cui vuol dire di essere stato scelto per fare misericordia, per misericordiare; questo è infatti ciò che dobbiamo fare noi. Ma Dio non fa, Dio è misericordia. È per questo che la misericordia non entra in concorrenza con la giustizia, non è messa sotto scacco da una giustizia di Dio intesa al modo umano come retribuzione. Però Dio non era stato predicato così. Il Dio antropomorfo, il Dio che giudica perché noi giudichiamo, il Dio che punisce perchè noi puniamo, il Dio che combatte perché noi combattiamo, il Dio che regna perché noi regnamo deve essere continuamente riscattato dal Dio di Gesù Cristo. Il Vangelo è l’antidoto contro il fraintendimento di Dio, un fraintendimento che può arrivare nei confronti di Dio a un vero e proprio errore di persona. È impressionante vedere nella Bibbia come dopo tutta la storia d’Israele, dopo Mosè e i profeti, dopo «l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi» (Rom 9, 4-5) a tal punto Dio era ancora incompreso da decidere di rendersi visibile nella carne del Figlio, di farsi conoscere attraverso l’”esegesi” di Gesù, di volere che egli «dimorasse tra gli uomini e spiegasse loro i segreti di Dio» (Dei Verbum, n. 4), come dice il Concilio.
Ma non solo gli ebrei: anche noi della Chiesa, dopo ventuno Concili e tanta teologia e tanta mistica e tanto magistero abbiamo continuato a fraintenderlo, e perciò è così importante che ora il papa ci racconti la misericordia di lui, ci dica che la misericordia di Dio è la pazienza, e che Dio non si stanca mai di perdonarci (Evangelii Gaudium n. 3), e dunque che la sua giustizia è il perdono: «per me, lo dico umilmente – ha confessato in una sua omelia quaresimale nella parrocchia di Sant’Anna in Vaticano (17 marzo 2013) – è il messaggio più forte del Signore: la misericordia». Sembra quasi che abbia ascoltato Dietrich Bonhoeffer che nelle sue lettere dal carcere aveva scritto che «Dio non approfitta dei nostri peccati, ma sta al centro della nostra vita», e aveva denunciato quell’«atteggiamento che chiamiamo clericale, quel fiutare la pista dei peccati umani per poter prendere in castagna l’umanità» (6).
 
Un Dio di tutti, che non scarta nessuno
E c’è un altro connotato essenziale che definisce l’oggi di Dio. È quello di un Dio uscito dagli steccati, non un Dio che seleziona, che elegge, che esclude dalla comunione, che scarta quelli che non sono predestinati alla salvezza, ma il Dio di tutti che secondo Francesco privilegia i poveri nel suo cuore. Neanche questa è una novità di Dio. Sulla croce era venuta meno ogni discriminazione fondata sulla legge, Dio vi aveva “inchiodato” il chirografo del Vecchio Testamento, come dice la lettera ai Colossesi (cfr. Col. II, 14); e la stessa enciclica Mystici Corporis di Pio XII, che è l’ultima dottrina ecclesiologica prima del Concilio, citando san Tommaso, aveva ricordato come sulla croce Gesù, che non era stato «inviato se non alle pecorelle della casa d’Israele che erano perite (cfr. Matt. XV, 24)», aveva meritato «la potestà e il dominio sopra le genti» (cfr. S. Tom. III, q. 42, a. 1). Per il Sangue sparso sulla Croce, aggiungeva Pio XII, Dio fece sì che «potessero scorrere dalle fonti del Salvatore per la salvezza degli uomini, e specialmente per i fedeli, tutti i doni celesti». I fedeli erano perciò un caso di specie rispetto all’estensione universale dei destinatari dei doni celesti sgorgati dalle fonti del Salvatore per la salvezza degli uomini. Il nuovo popolo di Dio non era dunque solo la Chiesa dei fedeli, ma tutti gli uomini. È per questo che ancora la Mystici corporis diceva che Cristo «a buon diritto vien proclamato dai Samaritani “Salvatore del mondo” (Giov. IV, 42); anzi senza alcun dubbio dev’essere chiamato “Salvatore di tutti”, sebbene con Paolo bisogna aggiungere che lo è “specialmente dei fedeli”». Aveva detto infatti Paolo nella prima lettera a Timoteo: «abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente che è il salvatore di tutti gli uomini, ma soprattutto di quelli che credono» (I Tim. 4, 10).
Sul piano della dottrina le cose dunque erano ben chiare fin dall’inizio del Vangelo. Ma poi questa universalità si era perduta, e dalla salvezza furono considerati esclusi tutti i non battezzati (anche i bambini morti senza battesimo); si sostenne che fuori della Chiesa visibile non c’era salvezza, tanto che Ambrogio l’aveva assimilata alla casa di Raab la prostituta; figura inquietante per rappresentare la Chiesa non perché prostituta, ma perché la sola a essere preservata dallo sterminio, grazie al tradimento perpetrato nei confronti del suo popolo palestinese. Come scriveva Karl Rahner ricordando come stessero le cose prima del Concilio, la Chiesa era tributaria di un cattivo agostinismo per il quale la storia del mondo era ed è «la storia di una massa dannata, nella quale solo a pochi è dato salvarsi per una grazia di elezione raramente concessa. […] I non cristiani erano considerati semplicemente come quelli che giacevano nelle tenebre del paganesimo, la cristianità non cattolica era considerata nella sua globalità come una massa di eretici, da indurre con le buone o con le cattive alla conversione all’unica vera chiesa…» (7).
Il Concilio cambia il punto di vista. E già sul letto di morte, il 24 maggio 1963 papa Giovanni poteva dire: «Ora più che mai, certo più che nei secoli passati, siamo intesi a servire l’uomo in quanto tale e non solo i cattolici; a difendere anzitutto e dovunque i diritti della persona umana e non solamente quelli della chiesa cattolica…Non è il Vangelo che cambia: siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio». E il Concilio mentre confermava la fede nell’unicità della salvezza in Cristo, proprio per questo apriva le porte perché tutti potessero raggiungerla. Come dice lo stesso Rahner, «sia nell’annunciatore che nell’annuncio è avvenuto qualcosa di nuovo, di irreversibile, di permanente». Sicché mentre oggi combattiamo contro le esclusioni sulla terra, sappiamo che non ci sono esclusioni nei cieli, sappiamo che nel grembo di Dio non ci sono solo i cristiani ma anche quanti vissero prima dell’incarnazione, dato che «indubbiamente lo Spirito Santo operava nel mondo prima ancora che Cristo fosse glorificato», come dice il decreto Ad gentes al n. 3; ci sono musulmani ed ebrei, indù e pagani, come dice il documento Nostra aetate; sappiamo che non si salvano solo i cattolici, ma «tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia», come dice la Gaudium et spes al n. 22. E nella Evangelii Gaudium papa Bergoglio dice che la Chiesa è «un popolo pellegrino ed evangelizzatore che trascende sempre ogni pur necessaria espressione istituzionale»; la salvezza «che Dio realizza e che la Chiesa gioiosamente annuncia è per tutti e Dio ha dato origine a una via per unirsi a ciascuno degli esseri umani di tutti i tempi» (E. G. 111-113). L’accento torna sempre su “tutti”; questo è l’orizzonte imprescindibile. “Tutti” è una parola che ricorre 135 volte nella Evangelii Gaudium, e la cosa colpisce quando siamo reduci da una discussione se nel canone si dovesse tradurre che Gesù aveva dato il suo sangue “per molti” o “per tutti”.
 
Un Dio non violento
E l’altro connotato che ci parla oggi dell’identità divina è la nonviolenza di Dio. Anche questa era nota. La nuova capacità spirituale e critica con cui oggi leggiamo la Scrittura, legittimata dal Concilio, ci ha liberato dall’angoscia che suscitava in noi la rappresentazione della violenza di Dio che ci raggiungeva attraverso tante pagine bibliche, anche se purtroppo essa è rimasta in alcune celebrazioni liturgiche, a cominciare dalla veglia pasquale. Però l’assoluzione di Dio da ogni attribuzione e accusa di violenza non doveva essere così acquisita nella fede e nella cultura comune, se all’inizio di quest’anno la Commissione Teologica Internazionale, organismo della Santa Sede, ha sentito il bisogno di pubblicare un documento per respingere l’assunto di un rapporto necessario tra il monoteismo e la violenza, per denunciare l’eccitazione alla violenza in nome di Dio come la massima corruzione della religione e per affermare la verità cristologica e trinitaria di Dio come amore e come radicale antitesi alla violenza (8). Questo congedo dal pensiero religioso della violenza è considerato dal documento pontificio come una svolta epocale, per giungere alla quale c’è voluto un lungo cammino storico di purificazione della fede nell’ascolto della Parola e dello Spirito. E il riconoscimento della contraddizione tra la prassi storica della Chiesa e la sua fede autentica «per tornare alla purezza del suo fondamento», secondo la Commissione Teologica Internazionale rappresenta nell’epoca attuale della Chiesa «un salto irreversibile» diventando inseparabile dal futuro del cristianesimo come anche dall’ideale di una religione autentica (n.18). Nell’irreversibile congedo del cristianesimo dalle ambiguità della violenza religiosa, dice infatti il documento, «la Chiesa può ben riconoscere la grazia di un discernimento che inaugura una nuova fase della storia della salvezza»(n. 64).
Nella risposta alla domanda: “quale Dio oggi”, la Chiesa ci dice dunque che la fede nel Dio nonviolento «introduce un fermento di svolta radicale» sia per la religione che per l’umanesimo, e che questa fede è oggi chiamata ad anticipare l’epoca del riscatto definitivo del “nome di Dio” dalla sua profanazione «attraverso la giustificazione religiosa della violenza» (n.66). Noi possiamo dire che è stato il Concilio a porre il fondamento di questo riscatto, in particolare nella Dichiarazione sulla libertà religiosa: il Cristo, dice la Dignitatis Humanae, «dolce e umile di cuore, ha invitato e attratto i suoi discepoli con pazienza […] Egli ha reso testimonianza alla verità, ma non l’ha imposta con la forza a coloro che la contraddicevano. Il suo Regno, in verità, non si costituisce con la spada, ma si afferma nell’ascolto della verità e mediante la testimonianza» (n.11). Resta la domanda: se Dio oggi è questo, se questa è una svolta radicale, se a un tale rinnovato annuncio di Dio può corrispondere una nuova fase della storia umana, non potremmo allora dire che qui trova una risposta la questione che aveva posto Heidegger nel cuore del Novecento? Dinnanzi alla disperazione dei tempi il filosofo tedesco, ripreso in Italia da Claudio Napoleoni, si chiedeva se «solo un Dio ci può salvare». E non potrebbe quel Dio salvatore essere questo Dio così riscoperto e presente nelle azioni degli uomini e delle donne di oggi, non potrebbe essere quel Dio che, come disse papa Giovanni all’inizio del Concilio «per opera degli uomini e per lo più al di là della loro stessa aspettativa», nel presente momento storico «ci sta conducendo ad un nuovo ordine di rapporti umani che si volgono verso il compimento di disegni superiori e inattesi»?
 
(*) relazione all’assemblea “Chiesa di tutti, Chiesa di poveri” del 19 maggio 2014
 
NOTE:
1. “Ea ratione quam tempora postulant nostra”.
2. E’ l’espressione di Rudolf Otto nella definizione de “Il sacro”.
3.Discorso 58, in ISAAC LE SYRIEN, Oeuvres Spirituelles, ed. J. Touraille, Desclée de Brouwer, Paris1981, 312-313.
4. Quarto Discorso dei Capitoli Gnostici, 78, in ISACCO DI NINIVE, Discorsi spirituali ed altri opuscoli, Ed. P. Bettiolo, Magnano (VC) 1985, 183.
5.Nell’intervista alla Civiltà Cattolica (19-9-2013) il papa l’ha collegato all’episodio evangelico della vocazione di san Matteo, come è raccontato da Beda il venerabile, quando Gesù, vedendo un pubblicano lo guardò con amore (miserando) e lo scelse. Bergoglio ha tradotto quel “miserando” in “misericordiando”.
6.D. BONHOEFFER, Resistenza e resa, Bompiani, 1969, p. 259.
7.K. RAHNER, «Il significato permanente del Vaticano II», conferenza tenuta a Monaco nell’ottobre 1979, pubblicata in Il Regno-Documenti n. 3, 1980.
8. Commissione Teologica Internazionale, Il monoteismo cristiano contro la violenza, pubblicato il 16 gennaio 2014.