il commento al vangelo della domenica

non temere, hai un nido nelle mani del Signore

Non temere, hai un nido nelle mani del Signore
il commento di E. Ronchi al vangelo della dodicesima domenica del tempo ordinario

In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Non abbiate paura degli uomini, poiché nulla vi è di nascosto che nonsarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. (…) E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo. (…)

«Non temete, non abbiate paura, non abbiate timore». Sono le tre leggi del buon educatore: non avere paura, non fare paura, liberare dalla paura. È la pedagogia umanissima di Gesù: quello che conta è una relazione nuova, in cui non ci sia nulla che possa avere a che fare con la paura (C. Sommariva). Eppure io ho paura, perché i passeri continuano a cadere a terra, bambini a migliaia sono rapiti, violati, sommersi in mare, sepolti nella sabbia, venduti per un denaro, gettati via in un cassonetto appena spiccato il loro breve volo.«Ma neppure un passero cade senza il volere di Dio». Allora è Lui che spezza il volo ai passeri? No. Il Vangelo non dice questo, letteralmente dice: senza (àneu, nel greco biblico) il Padre: neppure un passero cadrà a terra senza Dio, che sarà lì, che ci va di mezzo, in ogni volo, in ogni croce, in ogni caduta. E allora il dramma non è solo nostro, «il dramma è anche di Dio» . Che non spezza ali, le guarisce, le rafforza, le allunga, le accarezza: «tu sei nel cuore delle cerve e sotto le ali delle rondini» (Turoldo) e ne sostieni il volo. Noi vorremmo non cadere mai, e planare in voli lunghissimi e sicuri. Ma ci soccorre una buona notizia, un grido da rilanciare dai tetti: «Non abbiate paura: voi valete più di molti passeri Voi avete il nido nelle mani di Dio». Voi valete: che bello questo verbo! Per Dio, io valgo. Valgo di più di molti passeri, di più di tutti i fiori del campo, di questa e di tutte le primavere che verranno; valgo per lui di più di quanto osavo sperare. Finita la paura di non contare, di dover sempre dimostrare qualcosa. «Non temere» tu vali di più. Per come sei. Così come sei. Al punto che «ti conta tutti i capelli in capo». Il niente dei capelli: Qualcuno mi vuole bene frammento su frammento, fibra su fibra, cellula per cellula. Per chi ama, niente dell’amato è insignificante, nessun dettaglio è senza emozione. Bello questo Dio che fa per me l’impensabile, ciò che nessuno ha mai fatto, ciò che nessuno farà mai.Verranno notti e reti di cacciatori, verrà anche la morte, ma: nulla mai ci potrà separare dall’amore di Dio (Rm 8,39). Sì, è vero: i passeri e i capelli non sono esentati dalla morte. Ma Gesù mi insegna il diritto a rivendicare fino all’ultima fibra di questo mio corpo che ha testimoniato la bellezza e la fatica del vivere.«Temete piuttosto chi ha potere di far morire l’anima». L’anima può morire? Si. Il lento morire di chi passa i giorni a lamentarsi, diventa schiavo dell’abitudine, non rischia e non cambia… «Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta musica, lentamente muore chi non trova grazia in se stesso» (Martha Medeiros).

(Letture: Geremia 20,10-13; Salmo 68; Romani 5,12-15; Matteo 10,26-33)




migranti – quante bugie su di loro per le nostre paure rispettabili ma indotte

invasione di migranti?

aumento della criminalità?

bugie dovute al nostro analfabetismo funzionale

gli immigrati sono il 7 per cento della popolazione, ma per gli italiani sono oltre il 25. Inoltre pensiamo che i clandestini siano più dei regolari, mentre sono meno del 10 per cento. E non c’è nessuna invasione

Davanti a uno specchio deformato, anche la più bella delle principesse si vede imbruttita. I bambini si spaventano se si specchiano alle giostre, nel baraccone degli specchi che ingigantiscono, rimpiccioliscono, deformano.

L’Italia, nel riflesso che ne hanno gli italiani, è una principessa imbruttita, arrabbiata, timorosa del futuro, sterilmente orfana o nostalgica di passato, anche perchè gli specchi non hanno memoria. Colpa degli italiani o degli specchi? Colpa dell’ignoranza diffusa o di un’informazione distorta? Colpa dei social che deformano ancora di più una realtà già approssimativa e deformata dai media? O colpa di entrambi, con il condimento di una classe politica che gli specchi sovente li deforma a proprio effimero vantaggio, anche perchè due o tre specchi deformati non fanno uno specchio vero?

In attesa di cambiare specchi o trovare responsabili, basta dare un’occhiata ad alcuni dati di realtà percepita e di realtà reale o realistica (si perdoni la reiterazione), per scoprire come gli specchi deformati siano diventati un riferimento quotidiano delle nostre emozioni/percezioni e quindi influenzino i nostri comportamenti e sempre più le nostre scelte, comprese quelle politiche. In fondo, anche il successo di Matteo Salvini si può spiegare così : lo specchio deformato diventa il riflesso delle parole in libertà, dei barriti xenofobi e sovranisti, della macchina del consenso.
Prendiamo ad esempio i temi più cari al Capitano spiaggiato: sicurezza e migrazioni. Per la stragrande maggioranza degli italiani (64 per cento) gli omicidi sono aumentati negli ultimi vent’anni, mentre invece sono calati in modo vertiginoso  

Prendiamo ad esempio i temi più cari al Capitano spiaggiato: sicurezza e migrazioni.

Per la stragrande maggioranza degli italiani (64 per cento) gli omicidi sono aumentati negli ultimi vent’anni, mentre invece sono calati in modo vertiginoso. Dati ufficiali dimostrano inoltre che omicidi di natura mafiosa, rapine e atti di criminalità sono sostanzialmente diminuiti. In Italia nel 2016 si sono registrati la metà degli omicidi che nella sola città di Chicago. La percezione dell’insicurezza è un fenomeno diffuso in tutte le società occidentali e in particolare in Europa con punte di «deformazione» maggiore proprio in Italia, ma tutti i dati dimostrano una fortissima inversione di tendenza negli ultimi decenni, per non parlare rispetto all’ultimo secolo.
Analoghe considerazioni valgono per i migranti. Gli immigrati sono il 7 per cento della popolazione, ma per gli italiani sono oltre il 25 per cento. Inoltre gli italiani pensano che i clandestini siano più dei regolari, mentre sono meno del 10 per cento. Lo stesso, tra parentesi, si può considerare per il tema dell’invasione che non c’è: gli sbarchi, anche prima della parentesi salviniana al governo, sono complessivamente diminuiti.
Un attento studioso della realtà italiana, Nando Pagnoncelli, presidente dell’Ipsos, racconta che per gli italiani la disoccupazione raggiunge punte del 50 per cento, mentre il tasso reale è del 12 per cento.

Gli italiani si vedono vecchi e impoveriti, quando il Paese resta comunque fra le prime dieci potenze industriali, oltre ad essere fra i più amati e ammirati al mondo per le sue bellezze, la sua arte, il suo stile di vita, la sua gastronomia, la sua umanità, nonostante i crescenti episodi di intolleranza e razzismo

Secondo Pagnoncelli una delle cause della distorsione della realtà è il cosiddetto «analfabetismo funzionale». La metà della popolazione adulta ha un livello d’istruzione molto basso, i laureati sono solo il 14 per cento

E’ possibile, secondo Pagnoncelli, che una delle cause della distorsione della realtà sia il cosiddetto « analfabetismo funzionale ». La metà della popolazione adulta ha un livello d’istruzione molto basso, i laureati sono solo il 14 per cento (media di gran lunga inferiore al resto d’Europa), e secondo diversi indicatori un terzo della popolazione non è completamente in grado di valutare testi scritti e raggiungere un livello di conoscenza e informazione tale da potersi formare proprie opinioni.

In questo quadro deformato e deformante, i media e la politica sembrano sguazzare, anzichè contribuire a invertire la tendenza. Non si tratta di fare pedagogia, ma almeno di informare in modo corretto, di mettere a confronto fatti e dati, di relazionare i nostri problemi a quelli degli altri. Finiremmo così per scoprire che in Italia in fin dei conti si vive meglio che altrove, nonostante innegabili problemi strutturali, economici, sociali. I media italiani, molto più che i media stranieri, tendono invece ad essere ansiogeni, a dare risalto a fatti di cronaca nera molto più che all’estero, a raccontare la politica quasi sempre con una terminologia che richiama scontri, vendette, sfide all’ultimo sangue e che si rispecchia nella realtà deformata e urlata dei talk show.

Nessuno spera che uno specchio magico ci dica chi è la più bella del reame, ma una più consapevole percezione di noi stessi aiterebbe a vederci come siamo, ogni mattina, come quando passiamo al trucco o alla rasatura.




la paura è una brutta consigliera … costruire ‘comunità accoglienti’

comunità accoglienti 

uscire dalla paura

lettera alle comunità cristiane

a 25 anni dal documento “Ero forestiero e mi avete ospitato” (1993-2018)

  1. Introduzione

Venticinque anni fa, la Commissione ecclesiale per le migrazioni pubblicava il documento Ero forestiero e mi avete ospitato, interpretando e accompagnando il fenomeno dell’immigrazione nei suoi inizi e sviluppi in Italia “con gli occhi della fede”. A venticinque anni di distanza avvertiamo la necessità, come pastori, di condividere una riflessione sul tema dell’immigrazione: parola di aiuto al discernimento comunitario, di stimolo a rendere la nostra fede capace, ancora una volta, di incarnarsi nella storia, di gratitudine e di incoraggiamento a quelle comunità che già hanno accolto.

Ciò che ci spinge a prendere nuovamente la parola è il profondo cambiamento che in questi anni continua a segnare il fenomeno migratorio nel nostro Paese, per rispondere nuovamente alla domanda del Signore a Caino, richiamata da papa Francesco nel suo viaggio a Lampedusa: “Dov’è tuo fratello?” (Gn 4,9).

  1. L’immigrazione nel 1993

L’immigrazione nel 1993 era un fenomeno “nuovo” ed emergente, di cui non si riusciva ancora a cogliere le dimensioni e le prospettive. Secondo i dati del Ministero dell’Interno gli immigrati regolari in Italia erano infatti 987.405, in maggioranza europei dell’Unione Europea e dell’Europa orientale (36,85%); seguivano gli africani (29,13%), gli asiatici (17,47%) e gli americani (15,95%); 559.294 erano stati i permessi di soggiorno per lavoro e 144.410 per ricongiungimento familiare; 7.476 le richieste d’asilo, 65.385 erano gli studenti nelle scuole1; 10.000 i matrimoni misti e tra stranieri (3% del totale); 17.000 i nati nelle famiglie con almeno un genitore straniero2.

  1. L’immigrazione nel 2018

Dal 1993 ad oggi l’immigrazione è diventata nel nostro Paese un fenomeno sorprendente nel suo incremento, anche se negli ultimi anni esso si è fermato ed è aumentato invece il numero degli emigranti italiani.

3. Alla fine del 2017 erano in accoglienza nel nostro Paese 183.681 richiedenti asilo e rifugiati: appena il 3 per mille dei residenti4.

nei cinque continenti alla ricerca di un lavoro e di una vita dignitosa.

  1. Immigrazione, sfida pastorale

Nel Messaggio per la Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato 2018 papa Francesco, in continuità con il Magistero di Papa Benedetto e del Santo Papa Giovanni Paolo II, ha ribadito che «tutti i credenti e gli uomini e le donne di buona volontà sono chiamati a rispondere alle numerose sfide poste dalle migrazioni contemporanee con generosità, alacrità, saggezza e lungimiranza, ciascuno secondo le proprie responsabilità»6. I Vescovi italiani – negli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020 – hanno ricordato che il fenomeno delle migrazioni è «senza dubbio una delle più grandi sfide educative»7. Siamo consapevoli che nemmeno noi cristiani, di fronte al fenomeno globale delle migrazioni, con le sue opportunità e i suoi problemi, possiamo limitarci a risposte prefabbricate, ma dobbiamo affrontarlo con realismo e intelligenza, con creatività e audacia, e al tempo stesso, con prudenza, evitando soluzioni semplicistiche. Riconosciamo che esistono dei limiti nell’accoglienza. Al di là di quelli dettati dall’egoismo, dall’individualismo di chi si rinchiude nel proprio benessere, da una economia e da una politica che non riconosce la persona nella sua integralità, esistono limiti imposti da una reale possibilità di offrire condizioni abitative, di lavoro e di vita dignitose. Siamo, inoltre, consapevoli che il periodo di crisi che sta ancora attraversando il nostro Paese rende più difficile l’accoglienza, perché l’altro è visto come un concorrente e non come un’opportunità per un rinnovamento sociale e spirituale e una risorsa per la stessa crescita del Paese. «L’opera educativa – hanno ricordato sempre i Vescovi italiani – deve tener conto di questa situazione e aiutare a superare paure, pregiudizi e diffidenze, promuovendo la mutua conoscenza, il dialogo e la collaborazione. Particolare attenzione va riservata al numero crescente di minori, nati in Italia, figli di stranieri»8. Per quanto riguarda nello specifico l’educazione dei giovani all’integrazione, sembra importante richiamare qui il ruolo che potrebbero avere alcune delle realtà che ruotano attorno alle parrocchie, in particolare quella degli oratori e dell’associazionismo.

Vogliamo ricordare inoltre che il primo diritto è quello di non dover essere costretti a lasciare la propria terra. Per questo appare ancora più urgente impegnarsi anche nei Paesi di origine dei migranti, per porre rimedio ad alcuni dei fattori che ne motivano la partenza e per ridurre la forte disuguaglianza economica e sociale oggi esistente.

  1. Siate premurosi nell’ospitalità” (Rm 12,13)

La realtà del fenomeno, la sua complessità, le domande che suscita, chiedono alle nostre comunità di avviare “processi educativi” che vadano al di là dell’emergenza, verso l’edificazione di comunità accoglienti capaci di essere “segno” e “lievito” di una società plurale costruita sulla fraternità e sul rispetto dei diritti inalienabili di ogni persona, come ci ricorda papa Francesco nella Evangelii gaudium: «Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci»9.

a. Le migrazioni “segno dei tempi”

Un processo che inizia con un atto di umiltà e di ascolto di ciò che l’immigrazione, con i suoi volti, le sue storie, le sue domande dice a noi, comunità cristiane. Si tratta di cogliere le migrazioni come “un segno dei tempi”10, come hanno ricordato gli ultimi Pontefici: un luogo frequentato da Dio, che chiede al credente di “osare” la solidarietà, la giustizia e la pace.

Leggere le migrazioni come “segno dei tempi” richiede innanzitutto uno sguardo profondo, uno sguardo capace di andare oltre letture superficiali o di comodo, uno sguardo che vada “più lontano” e cerchi di individuare il perché del fenomeno. Prima ancora di “aprire” o “chiudere” gli occhi davanti allo straniero è necessario interrogarsi sulle cause che lo muovono, anche se – e forse proprio perché – oggi appare più difficile che mai riuscire a distinguere quanti fuggono da guerre e persecuzioni da quanti sono mossi dalla fame o dai cambiamenti climatici. Papa Francesco ci ricorda la necessità di «avere “una sempre vigile capacità di studiare i segni dei tempi”. Si tratta di una responsabilità grave, giacché alcune realtà del presente, se non trovano buone soluzioni, possono innescare processi di disumanizzazione da cui poi è difficile tornare indietro»11. Si tratta di prendere coscienza dei meccanismi generati da un’economia che uccide e della inequità che genera violenza: «Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità»12. Significa riscoprire la capacità di pensare in grande per agire “politicamente” in senso forte e responsabile, così da colpire efficacemente, ovunque si trovino, poteri e persone che prosperano sulla morte degli altri, cominciando dai trafficanti di armi fino a quelli di esseri umani.

b. Uno sguardo purificato

Occorre avere uno sguardo diverso di fronte a coloro che bussano alle nostre porte, che inizia da un linguaggio che non giudica e discrimina prima ancora di incontrare. I termini stessi che spesso ancora utilizziamo per parlare di immigrati (clandestini, extracomunitari…) portano in sé una matrice denigratoria Se noi siamo parte di una comunità, essi ne sono esclusi.

c. Per una “convivialità delle differenze”

Incontrare un immigrato significa fare i conti con la diversità. La prima diversità è quella fisica, la più visibile: «La sua singolarità colpisce: quegli occhi, quelle labbra, quegli zigomi, quella pelle diversa dalle altre lo distinguono e ricordano che si ha a che fare con qualcuno. […] quel volto così altro porta il segno di una soglia»13. Egli è l’altro, non è colui che scegliamo di invitare a casa nostra, bensì colui che si erge, non scelto, davanti a noi: è colui che giunge a noi portato semplicemente dall’accadere degli eventi.

In questo incontro emerge la paura. Anzi, due paure si ritrovano a confronto: la mia paura e quella che prova lo straniero. La sua paura è quella di chi è venuto in un mondo a lui radicalmente estraneo, dove non è di casa e non ha casa, un mondo di cui non conosce nulla. La mia è quella di ritrovarmi di fronte ad uno sconosciuto che è entrato nella “mia” terra, che è presente nel “mio” spazio e che, nonostante sia solo, mi lascia intravvedere che forse molti altri lo seguiranno. «Queste paure sono legittime, fondate su dubbi pienamente comprensibili da un punto di vista umano. Avere dubbi e timori non è un peccato. Il peccato è lasciare che queste paure determinino le nostre risposte, condizionino le nostre scelte, compromettano il rispetto e la generosità, alimentino l’odio e il rifiuto. Il peccato è rinunciare all’incontro con l’altro, all’incontro con il diverso, all’incontro con il prossimo, che di fatto è un’occasione privilegiata di incontro con il Signore»14.

d. Dalla paura… all’incontro

Tutto questo lo sanno bene quelle comunità e parrocchie che in questi anni hanno deciso in vario modo di accogliere, anche a seguito dell’appello di papa Francesco del settembre 2015, appello che sta ancora producendo i suoi frutti. Per questo è nostra intenzione promuovere nei primi mesi del prossimo anno un meeting di queste realtà di accoglienza.

e. Dall’incontro… alla relazione

Da un incontro vero nasce la relazione e il dialogo: non più una semplice conoscenza dell’altro, non più solo un confronto di identità, ma una conoscenza “simpatica” dei valori dell’altro. Un dialogo che non ha come fine l’uniformità, ma il camminare insieme, il ricercare un “con-senso”, un senso condiviso a partire da presupposti differenti. è nel dialogo, allora, che si modificano i pregiudizi, le immagini, gli stereotipi, e siamo indotti a riflettere sui nostri condizionamenti culturali, storici, psicologici, sociologici: siamo interrogati sulle nostre certezze e sulla nostra identità. Nel dialogo, aperto alle persone di altre Chiese e di altre religioni, si allarga anche la comunione e la fraternità. Questo è l’inizio di un cammino che può trasformare la possibilità della convivenza in una scelta consapevole. L’immigrazione, con le reazioni di rigetto che talvolta suscita, mette in luce un atteggiamento presente nelle società occidentali e che non le è direttamente connesso: il crescente individualismo, che sempre più spesso si manifesta anche fra connazionali e addirittura all’interno delle famiglie.

f. Dalla relazione… all’interazione

la partecipazione attiva di tutti alla vita economica, produttiva, sociale, culturale e politica, avviando processi di cittadinanza e non soltanto di mera ospitalità. «In conformità con la sua tradizione pastorale, la Chiesa – scrive papa Francesco – è disponibile ad impegnarsi in prima persona per realizzare tutte le iniziative (…), ma per ottenere i risultati sperati è indispensabile il contributo della comunità politica e della società civile, ciascuno, secondo le responsabilità proprie»16. L’opera della Chiesa nel campo della mobilità umana non può che essere sussidiaria all’azione dello Stato e delle istituzioni internazionali.

  1. Conclusione

«La civiltà ha fatto un passo decisivo – scriveva il cardinale e teologo Jean Daniélou – forse il passo decisivo, il giorno in cui lo straniero, da nemico (hostis) è divenuto ospite (hospes) […]. Il giorno in cui nello straniero si riconoscerà un ospite, allora qualcosa sarà mutato nel mondo»17. È il passo che le nostre comunità devono saper compiere, non dimenticando l’importanza dell’ospitalità che porta all’incontro: «Alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo» (Eb 13,2).

Roma, 20 maggio 2018

Solennità di Pentecoste

CEMi – Commissione Episcopale per le Migrazioni della CEI

1 I dati riportati sono presenti in: Caritas di Roma, Dossier Statistico Immigrazione 1994, Anterem Edizioni Ricerca, Roma, 1994.

2Istat, Rapporto annuale. La situazione del Paese 1994.

3 I dati riportati sono presenti in: Caritas e Migrantes, Rapporto Immigrazione 2016, Tau Editrice, Todi (PG), 2017.

4 Fondazione Migrantes, Il Diritto d’Asilo 2018 “Accogliere, proteggere, promuovere, integrare”, Tau Editrice, Todi (PG), 2018.

5 Fondazione Migrantes, Rapporto Italiani nel Mondo 2017, Tau Editrice, Todi (PG), 2017.

6 Papa Francesco, Messaggio per la 104a Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato 2018.

7 Cei, Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020, Roma, 2010, n. 14.

8 Ibidem.

9 Papa Francesco, Evangelii gaudium, n. 222.

10Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2006.

11 Papa Francesco, Evangelii gaudium, n. 51.

12 Ivi, n. 59.

13 J. Kristeva, Stranieri a noi stessi. L’Europa, l’altro, l’identità, Donzelli, Milano 2014, p. 7.

14 Papa Francesco, Omelia 14 gennaio 2018.

15 «Intesa come processo bidirezionale che riconosce e valorizza la ricchezza della cultura dell’altro» (Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, Rispondere ai rifugiati e ai migranti. Venti punti di azione pastorale, 2018).

16 Papa Francesco, Messaggio per la 104a Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato 2018.

17 J. Danielou (1905-1974), Pour une théologie de l’hospitalité, in La vie spirituelle 367 (1951), p. 340.




domina la cultura del nemico

Vittorino Andreoli 

“siamo la società dell’homo stupidus stupidus stupidus. Oggi solo gli imbecilli possono essere felici”

 

lo psichiatra ad Huffpost:

“Distruttività, frustrazione e l’insicurezza sono le caratteristiche del nostro tempo. Siamo la società della paura e domina la cultura del nemico”

“Viviamo in una società dominata dalle frustrazioni. La sensazione prevalente è quella di trovarsi in un ambiente in cui ci si sente esclusi, ci si sente insicuri, si ha paura. Si accumula così la frustrazione, che poi diventa rabbia. E la rabbia sa a cosa porta? Porta alla voglia di spaccare tutto. Il nostro tempo non è violento, è distruttivo”.

Vittorino Andreoli, noto psichiatra e prolifico scrittore, riflette così sulla contemporaneità e sull’uomo. Lo fa nel suo ultimo romanzo, presentato al Salone del Libro di Torino,

Il silenzio delle pietre

(Rizzoli, pp.328).

“Non credo alla divisione categorica fra romanzi e saggi” specifica lui. Non a caso, il volume è una lunga narrazione ambientata nel 2028: i tempi non sono più gli stessi, l’uomo non è più libero di scegliere, ma ha solo l’opzione benedetta dell’esilio. Che diventa mitico, e narrativo, quando si rivela volontario e scozzese. “Il mio protagonista – continua Andreoli – scappa da tutto. Scappa dai rumori, da internet, dal mondo virtuale che spaventa e occupa il tempo, impedendo di pensare. Scappa in un luogo in cui l’uomo ancora non c’è. Sceglie una baia meravigliosa, nella natura, per scampare a questa nostra società di frustrati”.

intervista di Flavia Piccinni

Ha parlato di violenza e di distruttività. Che differenza c’è?

La violenza è finalizzata a produrre danno agli altri. Uno è geloso perché c’è qualcuno che gli ha portato via l’oggetto d’amore, e si vendica violentemente: lo ammazza. Ma, realizzato questo scopo, la violenza decade.

 

E la distruttività?

La distruttività invece è la tendenza a fare del danno agli altri, ma anche a se stessi. Si uccidono moglie, figli e ci si uccide. È una piccola apocalisse. Ed è molto frequente nelle famiglie oggi.

 

Stiamo vivendo un tempo distruttivo anche per la politica?

C’è il desiderio di fare la guerra, per mascherare situazioni personali, per fare le armi, per alimentare gli arsenali nucleari. C’è aria di guerra, e la guerra è distruttività. Lo ribadisco: la distruttività è la caratteristica fondamentale del nostro tempo.

Quali sono le altre?

La frustrazione e l’insicurezza. Siamo la società della paura. Domina la cultura del nemico.

Questo cosa comporta?

Questo uccide la speranza e la fiducia, e promuove lo stare da soli.

E poi?

Sa, c’è stato il periodo della ragione, dei lumi, delle grandi ideologie e adesso…

Adesso?

Adesso abbiamo il periodo della stupidità.

Perché dice così?

Perché governa l’irrazionalità! Domina l’assurdo. Non c’è il senso dell’etica. Peggio di così… E come conseguenza della stupidità abbiamo la regressione all’homo pulsionale.

Ricordavo che appartenessimo all’homo sapiens sapiens.

No! In questo momento storico in cui domina l’assurdo, noi siamo l’homo stupidus stupidus stupidus.

Per quale motivo?

Tutti pensano a se stessi. Nessuno pensa che siamo un Paese. E questa è la stupidità. Se oggi uno non è stupidus in questa società non può vivere.

Come ci si salva?

Facendo come il protagonista del mio romanzo, che va in un mondo bellissimo dove non esistono commendatori. Dove non esiste l’uomo. La genesi si è fermata al quinto giorno, perché il Padre eterno è molto intelligente e in una parte del mondo non ha fatto l’uomo.

Dove si concentra la stupidità oggi?

Nel potere. Il potere oggi è per definizione stupido. Io uso il potere come verbo: posso, quindi faccio. E faccio perché posso. Il potere è l’aspetto più chiaro della stupidità.

Lei si considera un uomo di potere?

No. Ho scritto dei Nessuno, quelli con la N maiuscola, perché in questa società c’è qualcuno che non è stupido, e sono i Nessuno. Io sono un Nessuno, perché non conto niente.

Ma lei conta…

Essendo Nessuno non devo accettare compromessi. Il Nessuno è colui che c’è, ma è come se non si fosse. Amo questa società, quella fatta dalle persone bellissime che non contano niente.

Non conta niente, però c’è un qualcuno, Gene Gnocchi, che le fa l’imitazione in televisione.

L’ho vista poco tempo fa. Considero l’umorismo e l’ironia come difensive. Aiutano la gente a sopravvivere. Io amo i matti, considero la follia stupenda, umana, e quello che ho sempre cercato è l’uomo rotto. E l’ho sempre cercato con un’arma, l’ironia. Anche se non l’ho mai incontrato, considero Gene Gnocchi molto bravo.

Anni fa con Andrea Purgatori su Huffington Post fece una diagnosi al nostro Paese ormai storica. Possiamo aggiornarla, questa diagnosi?

L’Italia è solo peggiorata perché non è mai stata curata.

E gli italiani?

Siamo dei masochisti felici: viviamo in un costante e grave pericolo economico e sociale, però siamo capaci di divertirci.

E poi?

Siamo frustrati. Pieni di rabbia. Darwin parlava di istinto, ma noi stiamo regredendo all’epoca della pulsionalità. Si guardi intorno.

Lo faccio ogni giorno.

Ecco: ormai non c’è l’etica, ma ci sono i comitati etici. Domina l’io e non il noi. Io voglio questo. Lo voglio, lo voglio, lo voglio.

In questo contesto, crede che sia significativo l’aumento della violenza sulle donne?

Antropologicamente, la donna è stata da sempre preda dell’uomo. Salomone, che era la saggezza del popolo, diceva: “Più terribile della morte è la donna, solo l’uomo timorato di Dio ne può scampare, mentre il peccatore ne è avvinto, abbindolato”.

Dopo cosa è accaduto?

Poi è arrivato Cristo, che le donne le ha rispettate. C’è stata la cultura che faticosamente ha dato valore alla donna, alla femminilità, alla sua resistenza. Ma se precipitiamo nell’uomo pulsionale, la donna ritorna ad essere la preda.

L’altro giorno a Cannes 83 attrici hanno sfilato silenziosamente in segno di protesta contro l’industria cinematografica, e le discriminazioni di genere. Cosa pensa di quel movimento globale che è #metoo e delle conseguenze inevitabili che avrà sul presente?

La donna ha ancora bisogno di un movimento forte. Ricordo ancora che presi parte alla storica marcia delle donne da Central Park fino a Broadway. Oggi però la donna non deve fare l’errore del femminismo degli anni Settanta.

Quale?

Escludere gli uomini. Averlo fatto, in passato, non le ha permesso di crescere. Il movimento, come diceva quella grande donna che era Ida Magli, bisogna farlo insieme. Altrimenti l’uomo resterà culturalmente distaccato. Resterà un omuncolo.

Lei come si sente?

Io sono un infelice gioioso.

Mi spiega meglio?

Oggi si parla solo di felicità, ma la felicità è qualcosa di individuale. È una sensazione positiva, piacevole, che appartiene all’io. La gioia appartiene invece a una condizione che riguarda il noi: l’io insieme all’altro. Si trasmette e la si riceve, ma riguarda sempre un gruppo. Oggi solo gli imbecilli possono essere felici.

Per quale motivo?

Apparteniamo a una società troppo complessa perché non venga considerata la condizione degli altri. Come fa uno a essere felice se ogni giorno vede persone che soffrono?

Non lo so.

Io non stimo molte persone, ma quell’uomo di Nazareth, quell’uomo con la U maiuscola, quello insegnava la gioia. Oggi però tutto è diverso.

In che senso?

Oggi non ci sono più i padroni della terra, degli immobili, ma quelli dell’umanità. Li racconta bene Avram Noam Chomsky.

Chi sono questi padroni?

L’economia dipende da circa 20-25 persone. La maggior parte dei Nessuno fa fatica a vivere, mentre alcuni non sanno vivere perché hanno troppo.

Per esempio?

Mark Zuckerberg! La prossima volta lo guardi bene: ha perso 100 miliardi in un giorno. E sa cosa ha detto? “Non è niente per me”. Ecco, così divento infelice e un po’ arrabbiato. Ed è un bene.

Per quale motivo?

Perché fino a quando continuerò a indignarmi, continuerò a scrivere.




papa Francesco contro la paura dello straniero

migranti

l’appello del papa

“no alla paura dello straniero”

il papa contro “chi alza nuovi muri”

“i cristiani sono fratelli di ogni uomo, serve una globalizzazione della solidarietà”

 papa Francesco torna a parlare di immigrazione e a chiedere accoglienza:
Le paure si concentrano spesso su chi è straniero, diverso da noi, povero, come se fosse un nemico“,
dice Bergoglio parlando nella basilica romana di Santa Maria in Trastevere, in occasione dei 50 anni della Comunità di Sant’Egidio

“Il mondo oggi è spesso abitato dalla paura”, aggiunge il Pontefice, “E anche dalla rabbia che è una sorella della paura. È una malattia antica. Il nostro tempo conosce grandi paure di fronte alle vaste dimensioni della globalizzazione. E allora ci si difende da queste persone, credendo di preservare quello che abbiamo o quello che siamo. L’atmosfera di paura può contagiare anche i cristiani che, come quel servo della parabola, nascondono il dono ricevuto. Se siamo soli, siamo presi facilmente dalla paura“.

Per questo Papa Francesco chiede di ripensare la globalizzazione: “Il mondo è diventato globale, l’economia e le comunicazioni si sono unificate. Ma per tanta gente, specialmente per i poveri, si sono alzati nuovi muri”, sottolinea il Capo della Chiesa,

Le diversità sono occasione di ostilità e di conflitto. È ancora da costruire una globalizzazione della solidarietà e dello spirito. Il futuro del mondo globale è vivere insieme: questo ideale richiede l’impegno di costruire ponti, di tenere aperto il dialogo, di continuare a incontrarsi. Il cristiano, per sua vocazione, è fratello di ogni uomo, specie se povero e anche se è nemico. La Chiesa è segno di unità del genere umano, tra i popoli, le famiglie, le culture. Dobbiamo creare una società in cui nessuno sia più straniero: è la missione di valicare i confini e i muri, per riunire“.




l’ira di papa Francesco – gli imprenditori della paura sono violenti e razzisti

migranti

l’ira di Papa Francesco

il messaggio per la 51.ma Giornata Mondiale della Pace

“Combattere quanti favoriscono il timore nei confronti dei migranti a fini politici”

di PAOLO RODARI

“Spingere le politiche di accoglienza fino al massimo dei limiti consentiti dal bene comune rettamente inteso” e combattere “quanti fomentano la paura nei confronti dei migranti a fini politici”.

Il tutto arrivando entro il 2018 “alla definizione e all’approvazione da parte delle Nazioni Unite di due patti globali, uno per migrazioni sicure, ordinate e regolari, l’altro riguardo ai rifugiati”.

È quanto chiede Papa Francesco nel suo Messaggio per la 51.ma Giornata Mondiale della Pace, che si celebra il 1° gennaio 2018 sul tema: Migranti e rifugiati: uomini e donne in cerca di pace.

Francesco, che fin dal suo primo viaggio a Lampedusa, nel luglio del 2013, ha mostrato di avere particolarmente a cuore “gli oltre 250 milioni di migranti nel mondo, dei quali 22 milioni e mezzo sono rifugiati”, ha denunciato il fatto che “in molti Paesi di destinazione si è largamente diffusa una retorica che enfatizza i rischi per la sicurezza nazionale o l’onere dell’accoglienza dei nuovi arrivati, disprezzando così la dignità umana che si deve riconoscere a tutti, in quanto figli e figlie di Dio”.

Questa retorica, largamente diffusa anche in Italia, non piace a papa Bergoglio che anzi ha ricordato che quanti fomentano la paura a fini politici “anziché costruire la pace, seminano violenza, discriminazione razziale e xenofobia, che sono fonte di grande preoccupazione per tutti coloro che hanno a cuore la tutela di ogni essere umano”.

E ancora: “Tutti gli elementi di cui dispone la comunità internazionale indicano che le migrazioni globali continueranno a segnare il nostro futuro. Alcuni le considerano una minaccia. Io, invece, vi invito a guardarle con uno sguardo carico di fiducia, come opportunità per costruire un futuro di pace”. 

La maggior parte dei migranti non cerca altro che un luogo in cui poter vivere in pace. Per trovarlo, molti di loro, ha detto il Papa, “sono disposti a rischiare la vita in un viaggio che in gran parte dei casi è lungo e pericoloso, a subire fatiche e sofferenze, ad affrontare reticolati e muri innalzati per tenerli lontani dalla meta”. Il motivo per il quale lasciano la loro terra è principalmente uno: “Fuggono dalla guerra e dalla fame o sono costretti a lasciare le loro terre a causa di discriminazioni, persecuzioni, povertà e degrado ambientale”. 

Francesco chiede azioni di accoglienza concrete, chiamando in causa anzitutto i governanti che “praticando la virtù della prudenza sapranno accogliere, promuovere, proteggere e integrare, stabilendo misure pratiche, nei limiti consentiti dal bene comune rettamente inteso, per permettere l’inserimento”. 

Sono loro ad avere una “precisa responsabilità”. Dopo “l’interminabile e orrenda sequela di guerre, di conflitti, di genocidi, di pulizie etniche che hanno segnato il XX secolo” ci sono oggi altri motivi che spingono le persone a migrare: “I conflitti armati e le altre forme di violenza organizzata continuano a provocare spostamenti di popolazione all’interno dei confini nazionali e oltre”. E poi, come detto, il desiderio di una vita migliore. 

I migranti “non arrivano a mani vuote: portano un carico di coraggio, capacità, energie e aspirazioni, oltre ai tesori delle loro culture native, e in questo modo arricchiscono la vita delle nazioni che li accolgono”. Ma offrire a richiedenti asilo, rifugiati, migranti e vittime di tratta una possibilità di trovare quella pace che stanno cercando, “richiede una strategia che combini quattro azioni: accogliere, proteggere, promuovere e integrare”.

 

Francesco, quindi, auspica “che lungo il 2018” si possa arrivare “alla definizione e all’approvazione da parte delle Nazioni Unite di due patti globali, uno per migrazioni sicure, ordinate e regolari, l’altro riguardo ai rifugiati. In quanto accordi condivisi a livello globale, questi patti rappresenteranno un quadro di riferimento per proposte politiche e misure pratiche”.




come si spiega l’odio per i poveri?

perché odiamo così tanto i poveri

la diagnosi della filosofa Adela Cortina sul nuovo male della nostra epoca: l’odio verso i poveri

Aporofobia, l'odio verso i poveri

aporofobia

l’odio verso i poveri

Veronica Matta

Il tema della povertà rappresenta un problema difficile da affrontare, spesso è pure complessa la definizione di povertà. La povertà intesa non solo come povertà materiale ma anche come assenza di un progetto di vita autonomo scaturente dall’impossibilità o incapacità di utilizzare un reddito o un bene che si possiede per migliorare e assicurarsi una qualità di vita.

Il discorso sul concetto di povertà si sposta verso il significato umano dell’essere poveri riflettendo sulle trasformazioni delle forme di povertà e sulle differenze di percezione dello “stato di povertà” nel passato e nel presente. Un’analisi che conduce al riconoscimento delle vecchie e delle nuove povertà che non godono di ampia visibilità ma che dovrebbero essere continuamente menzionate con maggior attenzione, analisi e approfondimento. Le condizioni di povertà non si misurano a mio parere solo sul reddito perché come diceva il Nobel per la pace Amartya Sen: “è inutile avere un reddito se non hai la capacità, la possibilità di utilizzare un bene o denaro, per migliorare e assicurare una migliore qualità di vita”.

Essere poveri, se dobbiamo sintetizzare, significa trovarci di fronte a persone che non hanno un reddito da lavoro e una casa, dei beni materiali; ma non solo, sono povere anche quelle persone che non sono in grado, pur avendo un reddito e una casa, di servirsene o coloro che non hanno accesso ad un’istruzione sufficiente tale da permettere loro di agire con libertà e autonomia, per esempio nel mercato del lavoro. E, in più, non avere accesso a quelle condizioni di benessere psicofisico per esprimere al meglio tutte le proprie potenzialità in quanto persone.

Nel suo ultimo libro, “Aporofobia, il rifiuto del povero”, Adela Cortina (Valenzia, 1948), cita Ortega per dire quanto segue: ciò che sta capitando è che non sappiamo quello che ci capita. Cosa passa nella testa di un uomo davanti al corpo di un mendicante o di un barbone avvolto nel suo vomito nei pressi di un aeroporto? Che ci capita nella metro quando li rendiamo invisibili affinchè non ci disturbino? Cosa succede a questa donna, mettiamo il caso, cattedratica di Etica, filosofia, intellettuale, laureata e oltre, quando le si avvicina un familiare indigente che non ha un euro, e che le chiede aiuto economico?
Alcune risposte le troviamo dentro il saggio scritto da Adela Cortina sull’avversione viscerale verso coloro che vivono nell’indigenza. “Dopo la crisi – scrive l’autrice –  la gente teme che “gli altri” gli portino via le cose: l’impiego, la casa… “.
Quello che disturba è il povero. Incluso il povero della propria famiglia. Un parente povero è qualcosa da nascondere, perchè a tutti piace presumere che i parenti siano tutti ben sistemati.
Se c’è un rifiuto del povero, l’opposto è che tutti adoriamo il ricco, in qualche modo? E’ una delle frasi del libro. Curiosamente – scrive l’autrice – è di Adam Smith, che si suppone sia l’economista che ha creato il liberismo economico. Nel suo libro “La teoria dei sentimenti morali dice che la corruzione del carattere consiste nell’ammirare i ricchi e disprezzare i poveri, invece di ammirare i saggi e le buone persone e disprezzare gli stupidi. Questa è la corruzione di una società: quando una società disprezza quelli che hanno fallito nella vita, quelli che hanno avuto cattiva sorte, è patologico.

Il muro del Messico, le frontiere dell’Europa – sottolinea la filosofa – hanno a che vedere più con l’aporofobia rispetto ad altre cose. Totalmente, scrive la docente. Quali stranieri disturbano Trump? I messicani. Ma non solo a lui o a certi americani. Ma anche ad altri messicani che sono lì da tempo installati e hanno paura verso chi viene da fuori. Perchè gli altri sono poveri e vengono per complicare la vita. La salita di Le Pen è un altro esempio chiarissimo, quello che succede in Ungheria con Orban, la Brexit… Tutto quello che si fa – rimarca Cortina –  lo si fa per escludere i poveri. Il povero viene a rompere la comodità. Se sta bene e arriva un altro, bisogna muoversi. Perchè hanno bisogno di lavoro, sicurezza sociale. E gli altri arrivano con necessità ed esigenze.

I bambini e i giovani crescono vedendo come si comportano i personaggi politici, come agiscono. Cresciamo molto per imitazione, è la chiave degli essere umani: i famosi neuroni a specchio, che ci portano a imitare gli altri. Per questo è importante che la gente che sta nella vita pubblica cerchi di essere meno egoista e aporofoba possibile.
L’odio ha molto a che vedere con la paura. Credo – scrive la cattedratica – che si agisca più per paura che per altre cose. La paura è molto pericolosa, molto maneggiabile, molto corta, strumento dei totalitarismi.
La parola aporofobia proviene dai termini greci (dal greco: άπορος (á-poros), indigente, povero; e φόβος, (-fobos), paura).

Trent’anni fa, la frattura sociale tra chi non aveva i mezzi di sussistenza e chi li aveva non era così profonda; penso a chi non aveva la terra, penso alle famiglie contadine numerose, per le quali c’era almeno il riconoscimento del valore della forza lavoro, che consentiva anche a chi non aveva altri strumenti, se non le proprie braccia e testa e salute, di poter sopravvivere dignitosamente, mettendosi a servizio di chi invece aveva beni e ricchezza.
Penso anche ai nostri emigrati che nel passato riuscivano a trovare, seppur con grandi sacrifici, una collocazione, un inserimento.

I ricchi non incontrano i poveri, i ricchi non vedono e non vogliono vedere o ascoltare le storie di vita disperate, il povero è da evitare, è disdicevole, in qualche modo perfino colpevole della propria condizione. In mezzo c’è la televisione che mostra un mondo diverso da quello che è, che ti fa desiderare di ambire a consumi impossibili per i livelli di reddito medi reali, “false necessità” che determinano, per molte famiglie, una maggiore spesa a cui poi non si riesce a far fronte, cadendo improvvisamente nel tunnel del debito e della povertà. Andiamo verso una società e una larga fetta di popolazione addormentata, quasi addomesticata, dove tutto passa e vive nella speranza.




il vangelo fa paura

settimana santa

la paura del vangelo

di José María Castillo

in “Religiòn digital” – www.religiondigital.com – del 9 aprile 2017

Una delle cose che sono più chiare, nei racconti della passione del Signore che la Chiesa ci ricorda in questi giorni della Settimana Santa, è la paura che fa il Vangelo. Sì, la vita di Gesù ci fa paura. Perché, in fin dei conti, non vi è alcun dubbio che quel modo di vivere – se i vangeli sono il ricordo vero di quello che allora successe – ha portato Gesù a terminare i suoi giorni dovendo accettare il destino più ripugnante che una società possa attribuire: il destino di un delinquente giustiziato (G. Theissen).

 articolo pubblicato il 9.4.2017 nel Blog dell’Autore in Religión Digital (www.religiondigital.com ) Traduzione a cura di Lorenzo TOMMASELLI




l’Italia è davvero il Paese degli omicidi? come nasce la xenofobia

paura e luoghi comuni alleati della xenofobia

di Vittorio Emiliani
in “Trentino” del 9 aprile 2017

Tutti i nostri telegiornali grondano sangue, ogni giorno. Ma l’Italia è davvero il Paese degli omicidi? No, no, e poi no. Siamo di fronte a un sensazionalismo irresponsabile che addensa su quanti, anziani soprattutto, si informano soprattutto dalle tv, un clima continuo e pesante di insicurezza. Totalmente sproporzionato rispetto alle cifre reali della criminalità in Italia, e poiché questo rivolo continuo di sangue che esce dal televisore viene per lo più collegato all’aumento dell’immigrazione, con inaccettabili speculazioni politiche, il danno si moltiplica.

Quali sono i dati certi, reali? Dal 2010-11 al 2015-16 gli omicidi volontari sono calati da 517 a 430, cioè del 15%. Pensate che soltanto nel 1991 erano ancora 1.910, cioè quasi cinque volte di più e la metà era attribuita a mafia-camorra-’ndrangheta, mentre oggi alla malavita organizzata vengono imputati appena 50 omicidi volontari, l’11,6%. Da una parte si tira un sospiro di sollievo, dall’altra ci si deve allarmare di più, nel senso che le varie mafie sparano molto di meno perché sono entrate nei gangli vitali dell’economia, degli affari, dell’import-export attraverso la connivenza di tanti “colletti bianchi”. Però l’Italia è un Paese nel quale si assassina meno che in Finlandia, Belgio, Grecia, Irlanda, Portogallo, Regno Unito, Austria e Danimarca. Per non parlare ovviamente degli Stati Uniti e anche dei Paesi Baltici. Siamo alla pari, se non leggermente sotto, rispetto a Francia, Spagna, Olanda, Germania. Ma lì i Tg nazionali non danno notizia di “un nuovo omicidio” in qualche sperduto paese. Da noi sì, e con evidenza sempre straordinaria. Dal 2010 agli inizi del 2013, secondo dati ufficiali della polizia di Stato, anche le vittime di femminicidio risultano diminuite dell’8,5%. Non so in seguito. In quel periodo hanno rappresentato il 31% di tutti gli omicidi. Una vera e propria impennata registrano invece le denunce di stalking: + 27,7% ammontando a 22.144. Quindi l’aumento dell’immigrazione, della popolazione straniera residente, pur salita da 3 a 5,4 milioni nell’ultimo decennio (+83,7%), non ha prodotto incrementi nel numero di omicidi che anzi sono decisamente calati. Perché accettare in silenzio gli spropositi dei vari Salvini?

Analogo discorso per le rapine: mentre i furti hanno registrato un incremento del 3,5 %, le rapine risultano diminuite dalle 35.831 del 2010-11 alle 33.314 (-7,0%). Se dovessimo stare alle cronache del profondo Nord dove pesca voti la Lega, si dovrebbe affermare che la pressione malavitosa percepita è molto ma molto più forte del fenomeno criminoso reale. Che viene ampliato interessatamente da alcune forze politiche xenofobe in modo irresponsabile e purtroppo anche da tanti mezzi di dis/informazione. Per mancanza di professionalità. Bisogna dire, a questo punto, che gli stanziamenti governativi per la sicurezza sono aumentati circa 1 miliardo nel periodo esaminato, come pure quelli per le spese di gestione e per gli investimenti tecnico-logistici della polizia. Va meno bene il rapporti pensionamenti-assunzioni, deficitario nel 2012-13, alla pari (2.190 pensionati e altrettanti assunti) nel biennio successivo. A proposito di realtà “percepita” e di realtà “vera” si parla e straparla di una «fiumana di richiedenti asilo».

Le cifre dell’Unione europea ridimensionano nettamente il fenomeno. Nel 2015 nella Ue i richiedenti asilo sono stati 441.800 in Germania (35,2%), 174.435 in Ungheria (13,9%), 156.11 in Svezia (12,4%) e 83.245 in Italia (6,6%). Se poi rapportiamo il loro numero con quello degli abitanti, prima diventa l’Ungheria, seguita da Austria, Finlandia, Germania e Italia. La quale, certo, ha tutti i problemi dei Paesi di primo approdo. Ma non è, ripeto, quello nel quale si fermano poi i migranti pur cresciuti nel 2016. Mi scuso per le molte cifre esibite e però bisognava pur documentare fenomeni come quello criminale nelle loro reali dimensioni smentendo i pericolosissimi luoghi comuni di un sensazionalismo giornalistico e politico davvero dissennato che ragiona (se ragiona) a spanne. Ma che Paese siamo diventati?




la paura dei vescovi americani di fronte alla Clinton ha favorito l’elezione di Trump

Trump e la miopia dei vescovi USA

di Massimo Faggioli
in “Settimana-News” – www.settimananews.it

 

l’episcopato americano ha avuto molta più paura di una presidenza Clinton che paura di Trump, si è posto contro la parte economicamente e politicamente debole della propria Chiesa, e ha rinunciato ad elaborare una parola alta di fronte ai messaggi più violenti della campagna elettorale di Trump, lunga quasi un anno e mezzotrump

Trump è stato eletto quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti, contro ogni previsione. Si apre una fase inedita e pericolosa per la democrazia in America, e specialmente per le Chiese americane che pretendono di essere ancora l’anima di questa nazione. Un paese profondamente moralista come gli USA ha eletto una persona come Trump che si gloria della sua immoralità non solo sulle questioni sessuali, ma anche fiscali e dell’etica del business, che – almeno nelle apparenze – è ancora importante in America. È un’elezione presidenziale che smaschera alcune ipocrisie della cultura americana e rivela la crisi sia della cultura progressista e secolarizzata che di quella conservatrice e religiosa, entrambe ossessionate dalla questione identitaria. Tre sono i fattori principali. Trump è stato eletto dal disagio economico e sociale dei dimenticati dalla globalizzazione, per protesta contro un sistema economico e finanziario di cui i Clinton fanno parte non meno di Trump, ma di cui i Clinton sono stati incolpati in quanto politici di professione. C’è poi una protesta dell’America profonda contro l’America delle élites culturali e secolarizzate e del sistema dei mass media dell’establishment. C’è, infine, una parte di risentimento contro il primo presidente afroamericano, Obama, che è parte di quella élite economica e intellettuale, ma è anche il volto dell’America futura, in cui i bianchi saranno presto una minoranza tra minoranze. La campagna di Trump ha sfruttato anche il risentimento razziale di quell’America profonda che non ha mai accettato Obama come legittimo presidente. L’America religiosa non coincide con quell’America profonda e reazionaria, ma ne è parte. Si apre un problema L’elezione di Trump apre un problema particolare per la Chiesa cattolica americana: di fronte alla sua storia, come Chiesa “importata” dagli immigrati in tempi più recenti rispetto ai fondatori; di fronte alla sua dimensione globale, con un papa come Francesco che rappresenta l’alternativa al sistema globale che una buona parte dei vescovi americani non ha voluto scegliere, preferendogli Trump. L’episcopato americano ha avuto molta più paura di una presidenza Clinton che paura di Trump, si è posto contro la parte economicamente e politicamente debole della propria Chiesa, e ha rinunciato ad elaborare una parola alta di fronte ai messaggi più violenti della campagna elettorale di Trump, lunga quasi un anno e mezzo. Molti vescovi hanno a lungo sperato in una vittoria di Trump temendo, non senza qualche ragione, una radicalizzazione delle politiche abortiste di Clinton (una radicalizzazione che ha rivelato la miopia politica di Clinton ed è uno degli elementi della sconfitta), e non considerando che durante i governi dei repubblicani ideologicamente pro-life il numero degli aborti aumenta, a causa dei tagli allo stato sociale. C’è stata paura da parte di molti vescovi e clero e intellettuali cattolici di denunciare clinton

la retorica di Trump nello stesso modo in cui è stata denunciata la cultura abortista della “identity politics” del Partito democratico. Si è trattato di un errore di portata storica che la Chiesa americana pagherà politicamente ma anche spiritualmente. I primi a pagare ½ saranno i poveri in America, più che con una presidenza Clinton. Quale dialogo e su quali questioni? La settimana dopo l’elezione di Trump ha visto l’assemblea annuale della conferenza episcopale, che ha eletto i nuovi vertici per il prossimo triennio: ha eletto il nuovo presidente nel cardinale DiNardo (uno dei firmatari della lettera dei tredici cardinali contro Francesco durante il Sinodo dell’ottobre 2015), e ha eletto il vice-presidente (e quindi, secondo tradizione, probabilmente presidente nel triennio 2019-2022) nell’arcivescovo di Los Angeles, Gomez, il vescovo più visibile della popolazione cattolica dei latinos negli Stati Uniti, presentandola come una risposta all’elezione di Trump. Quella di Gomez è una scelta che non assolve i vescovi americani dalla loro acquiescenza rispetto a Trump. Che i cattolici latinos negli USA siano in buoni rapporti coi latinoamericani dell’America Latina è un mito. Sono mondi diversi, come sono mondi diversi, ormai, la Chiesa di Francesco e l’episcopato americano: le nomine episcopali di Francesco incidono sulle Chiese locali ma non (almeno per ora) sulla conferenza episcopale. I vescovi dovranno
dialogare con Trump, ma Trump cercherà di accontentare i vescovi su una serie molto limitata di questioni. Tutta la cultura sociale e politica della Chiesa istituzionale negli USA esce danneggiata da queste elezioni per la sua manifesta incapacità di cogliere cosa stava succedendo nel paese. Le prime nomine di Trump, annunciate nei primi dieci giorni dopo l’elezione, mantengono quanto minacciato: il nazionalismo “white supremacy” entra alla Casa Bianca, alla faccia di chi ancora si ostina a leggere il risultato delle urne in termini materialistici di disagio economico. La torsione che Trump imporrà La Chiesa cattolica americana è spaccata, come e più di altre Chiese, tra identità culturali, politiche ed etniche diverse, e quindi le reazioni sono diverse. La campagna Trump ha capitalizzato queste spaccature facendo leva sull’identità bianca e conservatrice, usando in modo strumentale la questione dell’aborto per attirare il voto cattolico. Come nel resto dell’America anche nella Chiesa cattolica democratici e repubblicani vivono mondi diversi, da punto di vista esistenziale e intellettuale. C’è un cattolicesimo sotto shock: l’America è un paese che si percepisce come entità spirituale e l’elezione di Trump è percepita come un segnale di grave crisi spirituale. C’è chi può permettersi di vedere questa transizione di potere come una delle tante nella storia americana, ma non lo è. Specialmente per chi non ha la pelle bianca, è un momento di sbigottimento e di paura. La paura è evidente specialmente tra i latinos, gli arabi e i musulmani, gli asiatici, le minoranze sessuali. La questione non è avere o non aver nulla da temere dalla legge: è il timore del razzismo di alcune frange della società americana, che hanno sempre fatto parte della società americana ma che da cinquant’anni circa erano tenute ai margini della vita politica, pur godendo spesso della protezione della polizia e del potere giudiziario. Ora con Trump si sentono rilegittimate a riproporre con un linguaggio violento il loro disegno di un’America etnicamente pura. La presidenza degli USA ha una funzione simbolica evidente anche dal punto di vista religioso: la presidenza ha una funzione di pontifex. Con la presidenza Trump l’eccezionalismo americano muore. L’ecclesiologia politica degli Stati Uniti è inclusiva: Obama la incarnava, Trump la rinnega. La ricerca di un ralliement tra i vescovi e Trump non considera la torsione a cui viene sottoposta l’ecclesiologia cattolica: Trump interpreta in senso etnico-razziale un certo settarismo tipico del neo- conservatorismo cattolico americano contemporaneo.