p. Maggi commenta il vangelo

p. Maggi

VOI SIETE LA LUCE DEL MONDO 

 commento al Vangelo della quinta domenica del tempo ordinario (9 febbraio 2014)

di p. Alberto Maggi

Mt 5,13-16

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli».

Dopo aver proclamato le beatitudini Gesù si rivolge ai suoi discepoli che l’hanno accolto e dice loro:  «Voi siete il sale della terra»”.

Qual è il significato di questo sale? Da sempre nell’antichità il sale aveva il significato di quello che conserva gli alimenti. Gli alimenti, non esistendo i frigoriferi, si mettevano sotto sale e questo permetteva loro di essere conservati.

Da questo fatto di conservare gli alimenti poi il sale passò, in maniera figurata, a rappresentare ciò che rende valida e vera un’alleanza. Ad esempio per dare valore e validità continua a un documento, si spargeva sopra del sale.

Allora questo sale, nell’Antico Testamento, è diventato addirittura il segno dell’alleanza di Dio con il suo popolo. Nel libro del Levitico, per esempio, si legge: 

“Non lascerai mancare il sale”, cioè la fedeltà, “dell’alleanza del tuo Dio”.

Quindi il sale rende valida e continua l’alleanza tra Dio e il suo popolo. Gesù nelle beatitudini ha proclamato la nuova alleanza tra Dio e il suo popolo; ebbene, quelli che l’accolgono, i discepoli, devono essere, col loro atteggiamento e con la loro vita, i garanti di tutto questo. Quindi la fedeltà dei discepoli alle beatitudini rende valida la nuova alleanza e permette l’inaugurazione del regno. Allora Gesù dice «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore …»”, l’evangelista in

realtà adopera un verbo che non sia applica per le cose, ma per gli uomini, perché l’evangelista letteralmente scrive “se il sale impazzisce”. Cosa significa questo ‘impazzire’?

Si rifà al termine ‘pazzo’ che poi ritroviamo nel capitolo 7 di questo vangelo, al versetto 26, dove Gesù parla di un pazzo che è andato a costruire la sua casa sulla sabbia; quando è arrivata la fiumana la casa stata travolta. E questo pazzo che costruisce sulla sabbia è colui che ascolta le parole del Signore, ma poi non le mette in pratica. Allora questo sale che impazzisce indica l’atteggiamento di quei discepoli che accolgono con entusiasmo il messaggio di Gesù, ma poi non lo mettono in pratica. Quindi Gesù dice: «Se il sale impazzisce »”,  cioè se non mettete in pratica queste mie parole, null’altro riesce a renderlo salato. “«A null’altro serve che ad essere gettato via»”,

letteralmente l’evangelista scrive ‘fuori’, che nel vangelo di Matteo ha sempre un significato di lontananza da Dio, quindi è sempre un significato negativo, «e calpestato »”,  Matteo adopera un verbo che dà proprio l’idea di qualcosa che viene triturato, calpestato “ «dalla gente»”. Cioè, se voi non siete fedeli, sta dicendo Gesù ai discepoli, a questa nuova alleanza, alle beatitudini, voi che mi seguite, meritate soltanto il disprezzo della gente; la gente che attende da voi un’alternativa a questa società, che attende da voi una modalità diversa nella vita, se vede che voi avete accolto questo messaggio a parole, ma poi non lo praticate, rimane delusa e si perde. Quindi meritate il disprezzo. Poi Gesù passa a un altro esempio, «Voi siete la luce del mondo »”. Luce del mondo a quel tempo si considerava Gerusalemme, si considerava Israele. Il profeta Isaia nel capitolo 60 scriveva, “Cammineranno le genti alla tua luce”. Ebbene ora la luce del mondo non è più qualcosa di statico,  ma qualcosa di dinamico, il gruppo di discepoli che poi, alla fine del vangelo, Gesù li manderà ad annunziare questa buona notizia. E qui Gesù fa degli esempi riguardo questa luce. Dice che «La lampada non si accende per metterla sotto il moggio»”.  Perché l’evangelista adopera questo termine ‘moggio’. Il moggio era il recipiente che si adoperava per misurare o conservare i cereali, in particolare il grano. Ebbene il moggio è immagine di quello che si dona, di quello che si dà. Il moggio allora non deve nascondere la luce, ma ne deve essere l’espressione. Questa luce si manifesta nel dono, nel donare se stessi . Infatti dice «Ma sul candelabro, così fa luce a tutti quelli che sono nella casa »”.  Dice poi «Risplenda la vostra luce davanti agli uomini perché vedano le vostre opere buone »”.  Ecco, la luce sono le opere buone. Sono le opere che manifestano questa luce. Quindi Gesù non invita ad insegnare una dottrina, ma una pratica; la pratica delle beatitudini manifesterà visibilmente chi è Dio, chi è l’uomo e sarà questa luce che inonda la società. Ma queste opere che sono la luce del mondo, aggiunge Gesù, «E rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli »”. Quindi non la propria gloria, la propria ammirazione. Gesù poi nel capitolo 6 rimprovererà gli ipocriti, cioè teatranti, commedianti, e dirà: «Guardatevi dal compiere le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati »”,  questo è il peccato di idolatria. L’ammirazione e la gloria di queste opere vanno dirottate, e per la prima volta nel vangelo di Matteo, Dio viene presentato come Padre. Padre, nella cultura dell’epoca, è colui che genera e che comunica la vita, «al Padre vostro che è nei cieli »”. Quindi l’invito di Gesù è che la pratica delle beatitudini sia questa luce che piano piano inonda la società che sta nelle tenebre e che è assetata della buona notizia.

p. Maggi commenta il vangelo della domenica

 

p. Maggi

commento, molto bello, al vangelo di domani 27 ottobre, 30a del tempo ordinario: Lc18, 9-14

IL PUBBLICANO TORNO’ A CASA GIUSTIFICATO, A DIFFERENZA DEL FARISEO 

 p. Alberto Maggi

 

Lc 18,9-14

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:

«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.

Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.

Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

 

 

 

“Siate santi perché io sono santo”, questo è l’imperativo, la richiesta del Dio dell’Antico Testamento, e la santità viene intesa come la scalata verso Dio attraverso l’osservanza di regole, di precetti, di comandamenti, di pratiche religiose.

Ebbene stranamente questo invito non appare mai nella bocca di Gesù. Mai Gesù in nessuno dei vangeli chiede: “Siate santi come io sono santo”. Ma Gesù insistentemente e continuamente rivolge l’invito “Siate compassionevoli come il Padre vostro è compassionevole”. Perché tutto questo? Ce lo spiega Luca nella parabola che adesso esaminiamo, il capitolo 18, versetti 9-14, e l’evangelista ci fa vedere il differente orientamento.

Nella santità l’uomo che scala verso la santità, verso Dio – il traguardo è Dio – ha l’ambizione di portare gli uomini verso Dio. Ma chi desidera portare gli uomini verso Dio inevitabilmente fa sì che qualcuno rimanga indietro, altri rimangano esclusi. Ecco la novità di Gesù è stata che lui non ha voluto portare gli uomini verso Dio, la scalata della santità, ma lui ha fatto qualcosa di diverso: ha portato Dio verso gli uomini e se nella scalata verso la santità l’uomo va verso Dio grazie ai suoi meriti (ma non tutti possono o vogliono avere questi meriti), nel fatto che Gesù porti Dio agli uomini, quel che conta non è il merito delle persone, ma il dono d’amore di Dio per tutta l’umanità.

Un Dio che non ama le persone nonostante i loro peccati, ma proprio per questo li ama. Questa è la novità sconvolgente che Gesù ha portato. E Gesù la mette in scena con questa parabola conosciuta come del “Fariseo e pubblicano”, che ha una precisa indicazione iniziale. L’evangelista scrive che Gesù disse questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti – dove giusti significa “a posto con Dio” – e disprezzavano gli altri.

E presenta gli antipodi della società di Israele, il Santo per eccellenza, il Fariseo, la persona che, come dice il nome (Fariseo significa separato), si separa dagli altri attraverso la pratica religiosa, le osservanze, addirittura maniacali, e la persona ritenuta la più impura, la più distante da Dio, il pubblicano, un individuo che, anche se volesse, non può più cambiare quel mestiere che lo rende impuro.

Ebbene il Fariseo in questa preghiera ringrazia il Signore più per sé che per gli altri e cosa presenta al Signore? Presenta al Signore quelli che sono i suoi tentativi di arrivare a lui attraverso le pratiche religiose più degli altri. Dice il Fariseo: “Digiuno due volte alla settimana”, ma il digiuno obbligatorio era richiesto una sola volta all’anno. No, lui fa di più, lui digiuna tutte le settimane e addirittura due volte.

E poi si vanta: “Pago le decime”, le decime sono l’offerta di una decima parte del raccolto e del bestiame al tempio, al Signore, “di tutto quello che possiedo”. Non paga solo per ciò che è prescritto, ma per tutto quello che possiede.

Quindi è una persona che tenta di arrivare a Dio attraverso una pratica incessante e continua, e come vedremo straripante, di osservanze che Dio non ha mai chiesto. Perché Dio non ha mai chiesto queste cose, Dio già attraverso i profeti aveva detto: “Imparate cosa significa Misericordia voglio e non sacrifici”.

Ebbene quest’uomo che vuole andare verso Dio e ha l’ambizione di portare gli uomini verso Dio se ne trova escluso. Perché? Dice Gesù che da lontano c’era un pubblicano, la persona immersa nel peccato fino al collo, che pure osa rivolgere questa preghiera: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”, usando la formula imperativa. Cioè gli dice: “Sii benevolo, mostrami la tua misericordia”.

Allora abbiamo da una parte la persona spirituale, ricca della sua santità, che offre i suoi meriti al Signore, dall’altra la persona che non ha nulla da presentare, se non la sua condizione di peccatore, dalla quale, ripeto, non può più venir via e mostra la sua miseria.

Da una parte il merito, dall’altra il bisogno. Ebbene la sentenza sconvolgente, sconcertante di Gesù: “Io vi dico: ‘Questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato’ ”. Ricordate che all’inizio Gesù aveva detto che la parabola era per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri. E aveva presentato il giusto, il Fariseo, e il disprezzato. Adesso le sorti si rovesciano.

Il pubblicano disprezzato qui diventa giusto. “Tornò a casa sua giustificato”, che significa a posto con Dio, mentre l’altro no. Quella che Gesù ha presentato è una novità che forse ancora non riusciamo a comprendere ma che ci deve spingere a questo imperativo: Il Signore non ci chiede di essere santi, perché la santità separa dagli altri, forse avvicinerà a Dio, ma inevitabilmente allontana dal resto della gente (la santità intesa come osservanza di regole, di pratiche religiose). Gesù ci chiede di essere la carezza compassionevole del Padre per ogni creatura; non amare l’altro per i suoi meriti, ma per i suoi bisogni.

Questo è l’insegnamento della buona notizia di Gesù.

 

 

 

Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

p. Maggi commenta il vangelo della domenica

 

 

p. Maggi
13 ottobre 2013

 (28° domenica del tempo ordinario)
NON SI E’ TROVATO NESSUNO CHE TORNASSE INDIETRO A RENDERE GLORIA A DIO, ALL’INFUORI DI QUESTO STRANIERO 

Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi
Lc 17,11-19

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti».
E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

Il vangelo di questa domenica, il vangelo di Luca, capitolo 17, versetti 11-19, sembra apparentemente semplice, una lettura molto facile. In realtà è forse uno dei brani del vangelo di Luca tra i più complessi e i più complicati.
Vediamo un po’ di comprendere le contraddizioni e i significati che l’evangelista ci vuol dare in questo brano. Scrive Luca: Lungo il cammino verso Gerusalemme. L’evangelista adopera il termine greco Ierusalem che indica la città santa. Gesù va per lo scontro finale con quella che era la Santa Sede dell’epoca, l’istituzione più sacra che esistesse al mondo, dove c’era il tempio del Signore.
E Gesù va per scontrarsi con questa istituzione. L’itinerario che l’evangelista presenta però è alquanto strano. Luca scrive che Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. Avrebbe dovuto scrivere che attraversava la Galilea e poi la Samaria. Infatti se abbiamo più o meno un’idea di com’era la Palestina al tempo di Gesù, al nord c’è la Galilea, al centro c’è la Samaria, la regione
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abitata dagli eretici, dalle persone considerate le più ripugnanti e più lontane da Dio, e infine al sud c’era la Giudea con Gerusalemme.
Quindi l’evangelista avrebbe dovuto scrivere che Gesù attraversava la Galilea e la Samaria. Perché invece l’evangelista dice che attraversava la Samaria e la Galilea? Perché vuole incentrare l’attenzione del lettore su quello che avviene in terra di Israele, in Galilea.
Entrando in un villaggio… Ecco l’evangelista ci da delle indicazioni preziose che aiutano l’interprete, il commentatore. Quando nei vangeli appare il termine “villaggio”, si intende sempre ostilità, incomprensione o rifiuto del messaggio di Gesù. Come mai questo? Perché il villaggio è il luogo ancorato alla tradizione, il luogo sottomesso alla città.
Ma mentre nella città le mode vanno, vengono, cambiano, nel villaggio attecchisce la tradizione. Quindi il villaggio è là dove vige l’imperativo “perché cambiare si è sempre fatto così”. Quindi tutte le volte che nel vangelo troviamo l’indicazione “villaggio”, indica il luogo della tradizione ad oltranza e l’incomprensione o il rifiuto del messaggio di Gesù.
E qui c’è una sorpresa, Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi. Non è possibile. I lebbrosi non potevano stare in un villaggio. I lebbrosi, in quanto infetti, causa di infezione, dovevano stare fuori dal villaggio. Come mai qui l’evangelista ci dice che questi lebbrosi stanno dentro al villaggio? L’evangelista, al di là del racconto storico, ci vuole dare indicazioni preziose: quanti vivono all’interno della tradizione, quanti vivono sottomessi alla religione tradizionale, sono come i lebbrosi, cioè sono impuri.
Non hanno nessuna possibilità di contatto con Dio. Questi sono lebbrosi proprio perché stanno dentro al villaggio. E qui l’atteggiamento di questi lebbrosi è abbastanza strano. Si fermarono a distanza. Da una parte l’evangelista ha detto che gli vennero incontro, e dall’altra si fermano a distanza.
Da una parte trasgrediscono alla legge che impediva ad un lebbroso di avvicinarsi alle persone, ma dall’altra la osservano. Attraverso l’immagine di questi lebbrosi l’evangelista vuol far vedere il difficile cammino dei discepoli, che sono affascinati dalla parola di Gesù, dalla libertà che il suo messaggio comporta, ma sono ancora schiavi della tradizione religiosa che hanno nel sangue.
E dissero ad alta voce: “Gesù” … e la traduzione dice “maestro”, ma in realtà è “capo”, ebbene così in questo vangelo si sono rivolti a Gesù soltanto i discepoli e in particolare Pietro. E’ un artifizio letterario con il quale l’evangelista vuole indicare che nella figura di questi lebbrosi lui vuole rappresentare i discepoli. E proseguono: “Abbi pietà di noi!” Quindi da una parte sono sottomessi a una religione che impedisce loro la piena comunione con Dio, e dall’altra vorrebbero esserne liberati, ma non ne hanno le forze, chiedono aiuto a Gesù.
Appena li vide, Gesù disse loro… Gesù non li guarisce, Gesù non li cura, ma dà loro un comando: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. Gesù li invita ad uscire dal villaggio, i sacerdoti stavano a Gerusalemme, quindi Gesù li invita ad abbandonare il luogo della tradizione, della tradizione religiosa, dove vige l’imperativo, questa sì che è l’autentica lebbra che impedisce agli uomini il rapporto con Dio. Si è sempre fatto così, perché cambiare? 2
Infatti, mentre essi andavano, furono purificati. Gesù non compie nessuna azione sui lebbrosi, Gesù li invita ad uscire dal villaggio. Quando escono dal villaggio, prima ancora di arrivare dai sacerdoti per accertare l’avvenuta guarigione, ecco che si trovano purificati. Ma c’è una sorpresa. Uno di loro, vedendosi guarito, quindi Gesù guarisce, purifica tutti e dieci, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi – mettersi ai piedi di qualcuno era segno di discepolato – per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ecco la sorpresa dell’evangelista. Sono guariti tutti e dieci, sono purificati, ma uno soltanto torna per ringraziare. E chi lo fa? La persona più lontana da Dio, la persona esclusa da Dio, la persona per la quale non c’era salvezza. La persona il cui solo nome, Samaritano, era qualcosa di ripugnante. Dare del Samaritano a una persona era il peggiore degli insulti possibili, quando vogliono offendere Gesù gli danno del Samaritano.
Quindi la persona più lontana da Dio, la persona che si ritiene esclusa da Dio, è colui che invece percepisce l’azione di Dio nella sua vita. Ed infatti Gesù osservò: “Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio” … Rendere gloria a Dio era un privilegio esclusivo del popolo di Israele, dal quale i Samaritani erano esclusi … “all’infuori di questo straniero?” cioè della persona più lontana da Dio.
E gli disse: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!” L’evangelista con questo brano ci indica e ci insegna che cos’è la fede. Che cos’è la fede? Molti ritengono la fede un dono di Dio. Non è così. Se la fede fosse un dono di Dio avrebbero ragione molti che si sentono esentati dall’averla, dicendo: “A me Dio non l’ha data. Beato te che hai tanta fede”.
Oppure altri hanno fede, ma poi quando capita un rovescio nella vita, che può sempre succedere, dicono “Avevo tanta fede, ma poi l’ho persa”. No! La fede non viene da Dio, e la fede o c’è o non c’è. Non è che si ha per un po’ di tempo e poi si perde. La fede non è un dono di Dio agli uomini, ma è la risposta degli uomini al dono d’amore che Dio fa a tutta l’umanità.
Ma, stranamente, in questo vangelo, quelli che vengono elogiati per la loro fede sono le persone ritenute più lontane da Dio. Sembra quasi che le persone che vivono all’interno di un sistema religioso abbiano come un filtro che impedisca loro di vedere l’azione di Dio e di avere fede. Infatti Gesù in questo vangelo elogia la fede di un centurione pagano, elogia la fede di una prostituta, il ricettacolo di ogni impurità, la persona più lontana da Dio.
Lo stesso Gesù elogia la fede di una emorroissa, una persona che era considerata impura come un lebbroso; Gesù elogia la fede del cieco, che era considerato un maledetto da Dio. Mentre, al contrario, Gesù rimprovera i suoi discepoli, gente di poca fede. La religione, tutto quell’insieme di pratiche, di credenze che sono state insegnate agli uomini, è il filtro che impedisce all’umanità di scorgere l’amore che Dio desidera comunicare ad ogni persona, nessuno escluso.
Non c’è nessuno al mondo che possa ritenersi escluso dall’azione di Dio. E’ la religione – ecco la vera lebbra – che divide tra puri e impuri, tra degni e no, tra meritevoli e no, ma non Dio. L’amore di Dio si rivolge a ogni creatura. Accoglierlo e rispondere, questo si chiama fede

p. Maggi commenta il vangelo di domani : Lc 11, 1-13

bellissima

Commento al vangelo della diciassettesima domenica del tempo ordinario (28.7.2013) da parte di p. Maggi: “CHIEDETE E VI SARA’ DATO ” Lc 11,1-13

Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite:
“Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”».
Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”; e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.
Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».

Il Padre Nostro ci è giunto in tre versioni, quella di Matteo, quella di Luca, e una nel primo catechismo della chiesa, chiamato Didaché, cioè insegnamento.
Probabilmente – e adesso la vedremo – quella del Vangelo di Luca è la più antica, perché era caratteristica degli scrittori quella di aggiungere alle parole, all’insegnamento di Gesù, ma mai d

 togliere. E quella di Luca, come vedremo, è la più breve. Quindi forse qui abbiamo la preghiera originale insegnata da Gesù.
Il contesto qual è? Gesù sta in un luogo a pregare. L’evangelista Luca è quello che, più degli altri, presenta Gesù in preghiera, ma mai in sinagoga o nel tempio. Quando Gesù va nel tempio o nella sinagoga, va per insegnare e il suo insegnamento significa liberare le persone dalla dottrina religiosa che veniva loro imposta per aprirli all’amore del Padre.
Per farli passare dall’obbedienza alla legge, all’accoglienza del suo amore.
Ebbene i discepoli non chiedono a Gesù che insegni a pregare come lui prega e neanche pregano con lui, ma vogliono una preghiera come quella che Giovanni Battista ha insegnato ai suoi discepoli, che li distingua dagli altri.
Ebbene Gesù non da regole, non da formule, né orari, ma da uno stile di vita. Vediamolo.
Anzitutto, per rivolgersi a Dio, non ci si rivolge in maniera religiosa, con tutti quei titoli, quei termini altisonanti “Altissimo, Eccelso, ecc.”, ma nella comunità dei seguaci di Gesù ci rivolge a Dio chiamandolo “Padre”.
Dio non vuole dei sacerdoti incensanti, non vuole dei devoti, ma vuole dei figli. Padre, nella cultura dell’epoca, è colui che trasmette al figlio tutta la propria vita, tutta la propria esistenza. Quindi si riconosce in Dio la fonte della vita, allora ci si rivolge a lui chiamandolo “Padre”.
E la prima richiesta è “Sia santificato il tuo nome”. Il verbo “santificare” significa consacrare, cioè riconoscere il valore di qualcosa. Allora la comunità, nella preghiera che Gesù insegna, dice “sia riconosciuto questo tuo nome”, cioè Dio deve essere riconosciuto come Padre e il Padre che Gesù ha presentato è il Padre il cui amore non distingue tra buoni e cattivi, ma su tutti si riversa, il Padre che non guarda i meriti delle persone, ma guarda i bisogni.
Allora Gesù invita la comunità a chiedere “questo sia il nome con cui devi essere riconosciuto, cioè un Padre”, non il Dio che premia, che castiga, il Dio da temere, ma un Padre, il cui amore è incondizionato.
Poi la richiesta è non tanto “Venga il tuo Regno”, ma il verbo significa “si estenda questo tuo regno”. Dal momento che c’è una comunità di discepoli che ha accolto le beatitudini di Gesù, il Regno di Dio c’è già. Per “Regno di Dio”, si intende non naturalmente uno spazio geografico, ma quell’ambito dove Dio governa i suoi e Dio non governa imponendo leggi che devono osservare, ma Dio governa comunicando il suo Spirito, la sua stessa capacità d’amore.
Poi abbiamo detto che il Padre Nostro ci è stato consegnato in tre versioni, ebbene tutte e tre le versioni contengono una parola greca che, nella lingua greca, non esiste, e a tuttora non si sa cosa significhi. “Dacci oggi il nostro pane …” , e poi c’è un termine che Girolamo, il primo grande traduttore del Vangelo, tradusse nel Vangelo di Matteo con il termine “supersostanziale”, cioè un pane che va al di là della sostanza, nel Vangelo di Luca tradusse con “quotidiano”, il pane di ogni giorno, poi nella versione liturgica è stato scelto il Vangelo di Matteo, ma è stato
 
sostituito il “supersostanziale” con il più facile “quotidiano”, che però crea l’equivoco come se a Dio bisognasse chiedere il pane.
E Gesù l’ha detto chiaramente “non preoccupatevi di quello che mangerete”. Allora questo pane che va al di là della sostanza, chi è? E’ la figura di Gesù. Gesù è a la fonte di vita della comunità; fonte di vita come Parola e come pane nell’Eucaristia. E poi la richiesta di cancellare quelle che sono le colpe e i peccati degli uomini, motivandoli dal fatto che vengono cancellate non le colpe degli altri nei nostri confronti, ma cancellati i debiti dei debitori.
Qui si tratta proprio di debiti materiali. Una comunità che ha ricevuto e raccolto il messaggio delle Beatitudini non può essere composta da debitori e creditori, ma tutti fratelli che condividono quello che hanno gli uni con gli altri. Allora la prova, la sicurezza, che si è a posto con Dio, che c’è la presenza di Dio, è che al nostro interno non esistono debitori e creditori, ma tutti fratelli.
E infine, l’ultima richiesta, “non abbandonarci nella tentazione”, letteralmente “la prova”. Qual è questa prova nella quale la comunità chiede di non essere abbandonata? E’ la prova nella quale è caduta. Gesù aveva chiesto ai discepoli, portandoli al monte degli ulivi, di stare con lui, di pregare con lui per essergli vicini per affrontare il momento della cattura e della morte, e hanno fallito tutti quanti.
Allora la comunità, cosciente di tutto questo, chiede di non essere abbandonata nel momento della prova e della persecuzione. E poi tutto l’insegnamento di Gesù continua invitando ad avere una piena fiducia nell’amore del Padre e, moltiplicando i verbi per tre volte – il “tre” significa quello che è pieno, definitivo – dirà “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”.
Quindi piena fiducia nel Signore, ma Gesù dice anche che cos’è che bisogna chiedere, che cos’è che lui garantisce verrà esaudito. “«Se dunque voi che siete cattivi»”, cattivi in rapporto all’amore del Padre, “«sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà Spirito Santo a quelli che glielo chiedono»”.
Ecco, qui Gesù si impegna, garantisce, che venga dato nella preghiera. Che cos’è lo Spirito Santo? E’ la forza che serve per realizzare il progetto del Padre. Come abbiamo detto Dio non governa gli uomini emanando leggi, ma comunicando il suo Spirito.
Allora Gesù garantisce che questa richiesta dello Spirito, questa verrà senz’altro esaudita. Tutte le altre sono già esaudite perché il Padre, un Padre che è buono nei confronti dei figli, si preoccupa già di loro prima che questi glielo vadano a richiedere.

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