solo supplicando il perdono dei disperati potremo salvarci l’anima …

perdonaci fratello migrante

di padre Enzo Fortunato Direttore sala stampa Sacro Convento di Assisi

Fratello migrante, brucia l’acqua salata sulla tua ferita. La ferita che è stata lasciata aperta dalla carneficina del Mediterraneo, inghiottiti per sempre dall’acqua, la stessa che la fa bruciare. Anche io mi sento responsabile. Un cortocircuito d’umanità aggravato – come ha dichiarato papa Francesco nel suo primo viaggio a Lampedusa – dalla “globalizzazione dell’indifferenza che ci ha tolto la capacità di piangere”. Vorrei piangere con te, ma non basterebbe a rimarginare la ferita.
Siamo assuefatti, siamo diventati cinici e creduloni a presunte minacce di invasione, dimenticando che l’intera storia dell’uomo è stata (e lo sarà sempre) segnata da flussi migratori. Quello attuale verso l’Italia non è tra i più numerosi, ma sembra sufficiente a provocare il panico che serve da pilastro a una ininterrotta campagna elettorale. Perdonaci fratello migrante se troviamo mille scuse che ci portano a dire “prima gli italiani e poi gli altri”. Se penso che i nostri nonni ci hanno reso grandi migrando sulle coste statunitensi.
Una nave carica di persone è stata tenuta in ostaggio in mezzo al mare, impedendone l’approdo a un porto sicuro. Scatenando un tifo da stadio, esultando perché abbiamo avuto la capacità di “alzare la voce e farci sentire dall’Europa”. Non è così. Un gesto del genere è stato dimostrazione di crudeltà: abbandonare uomini, donne e bambini in balia dei flutti, in un braccio di ferro che ha stremato queste persone, non è “alzare la voce”. Perdonaci se non riusciamo più a leggere la realtà con obiettività: il rapporto fra italiani e profughi è di 2,4 stranieri ogni 100 abitanti, il più basso in tutta Europa.
Ecco perché perdiamo la nostra umanità quando non siamo più in grado di capire che i migranti, prima di essere tali, sono persone fatte “a Sua immagine”, proprio come ognuno di noi. Noi che rimbalziamo il nostro pensiero nell’etere regolato dalla comunicazione social, leggiamo quello degli altri, affidandoci a poche parole, senza andare in profondità. Perdiamo la nostra umanità quando siamo complici di questo scempio dei diritti umani che imprigiona persone in una sorta di limbo, che contribuisce a far considerare l’altro come scarto dell’umanità.
Sulle navi, in mezzo al mare, ci sono individui che si portano dietro una sequenza ininterrotta di perdite, fino a vivere il dramma di essere naufraghi. Hanno perso la patria, l’ambiente e il tessuto sociale in cui sono nati e dove si erano guadagnati il loro posto nel mondo; non riescono a ritrovarne una nuova. Sono apolidi. Vivono in una dimensione di vuoto in cui è impossibile essere classificati. Non hanno più un posto nel mondo e tra gli uomini. Descrizione che Hannah Arendt ha delineato in “Noi profughi”, testo in cui racconta la sua condizione: senza una casa, senza un lavoro, una lingua, senza parenti, ma decisa a rifarsi una vita altrove.
Quando scegliamo di chiudere i porti stiamo negando a chi già ha perso molto, quasi tutto. Quando esultiamo perché qualcuno decide di chiudere i porti stiamo negando un futuro.
La sbandierata “svolta del cambiamento” si pone ora come una soglia, un margine sottile che ci divide da una tragica perdita di umanità, in cui si potrebbe perdere di vista il valore della vita, a prescindere dal colore della pelle. Non siamo poi così diversi da quelle donne e quegli uomini che lasciamo in mezzo al mare.
Non sono numeri da gestire e condividere con gli Stati membri dell’Unione Europea, ma uomini, donne e bambini da accogliere come fratelli e sorelle insieme agli altri governi. “E chiunque verrà da loro, – san Francesco diceva ai suoi frati – amico o avversario, ladro o brigante, sia ricevuto con bontà” (Fonti Francescane). Oggi Francesco direbbe fratello migrante.
Restiamo umani, restiamo “aperti”. 
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