per una fede che fa i conti con il paradigma culturale evolutivo odierno

educarsi ad una fede adulta

colloquio con Carlo Molari

a cura di Mariano Borgognoni
in “Rocca” n. 19 del 1 ottobre 2021

Don Carlo, è nota la sua collocazione nella prospettiva evolutiva del tempo tracciata dal pensiero
scientifico. Non vede però in essa anche il rischio di rimuovere il problema del male, vero punctum crucis, di gran parte della riflessione teologica, almeno da Agostino, e di ogni teodicea? Qual è la sua risposta al problema del male anche dentro i meccanismi stessi della natura al di là del male imputabile alla scelta degli uomini? E che senso ha l’incarnazione in una prospettiva evoluzionista?

Nella prospettiva evolutiva la perfezione non sta all’inizio della creazione, ma si colloca al termine di un processo nel tempo, che è necessario perché la creazione sviluppi le strutture che possano progressivamente accogliere i frammenti di quella Perfezione che continuamente l’azione di Dio offre. È dunque un processo nel quale l’imperfezione, il limite, in altre parole il male, è destinato ad accompagnare l’uomo e tutto il creato nel cammino verso il compimento.
Questa prospettiva, cui le scoperte scientifiche hanno dato un impulso decisivo soprattutto a partire dalla metà del XIX secolo, ha trovato sempre maggiore accoglienza nel pensiero teologico perché ha messo in rilievo un dato strutturale ineliminabile: il limite della creatura che, di per sé, non consente all’uomo e al creato di accogliere tutta la pienezza del dono di Dio, alla quale è pur sempre chiamato, se non attraverso un percorso di sviluppo delle strutture necessarie.
Bisogna precisare bene che non si tratta di un limite dell’azione di Dio (del tipo «se Dio solo volesse potrebbe…»), ma della natura stessa dell’oggetto della creazione. Così come diciamo che Dio non può fare che un cerchio sia un quadrato, allo stesso modo Dio, creando, non può che creare creature (un po’ come dire che Dio, creando, non può creare un altro Dio).
Le conseguenze di tutto questo sono ormai chiare: come detto, il limite, il male, è intrinsecamente connesso al nostro stato di creature, da sempre è così e sempre così sarà, pur con livelli e dinamiche destinate a evolvere, esse pure, con il progredire dell’umanità.
Il male, dunque, non è un’insorgenza indebita sopravvenuta per colpa di qualcuno, e la morte non è un destino cui non fossimo in origine soggetti: tutto questo non trova posto nelle evidenze scientifiche oggi disponibili, e, ormai, neanche nei modelli culturali che si sono affermati. È questo che ha portato Teilhard de Chardin ad affermare che il problema del male, teoricamente per la ragione, è risolto (ndr P.T. de Chardin, Comment je vois, 12 août 1948, in «Oeuvres de Pier Teilhard de Chardin», tome 11, Les directions de l’avenir, Edition du Seuil, Paris 1973, pp. 211 ss.). E ancora: i nostri mali sono il prezzo e la condizione stessa d’un compimento universale (P. T. de Chardin, Credo in questo modo, in «La mia fede», cit., p. 126).
Resta da capire come affrontare nella vita di tutti i giorni il problema del male, della sofferenza, dell’ingiustizia. Affrontato il nodo teorico esso permane sul piano esistenziale e pratico.
Se quel che ho detto è vero dal punto di vista teorico, dal punto di vista esistenziale il problema di come far fronte al male e al carico di sofferenza e di ingiustizia che l’accompagna – e che comunque deve essere «portato» in quanto, abbiamo visto, è un dato ineliminabile della nostra condizione di creature – resta e deve essere affrontato. È un aspetto che dobbiamo considerare in tutte le sue articolazioni di male causato e male subìto, di peccato, cioè di male consapevole, ma anche di male inconsapevole, dunque anche oltre la dimensione sacramentale della riconciliazione.
Lo sviluppo della vita spirituale, infatti, richiede una presa d’atto radicale del male e un lavoro per
eliminare in radice, o almeno portare sotto un certo controllo, anche quelle reazioni inconsapevoli, quegli atteggiamenti diventati consuetudini e quei comportamenti che sono abitudini di cui non ci sentiamo responsabili, ma che comunque inducono e diffondono attorno a noi negatività.
È al lavoro interiore che ci affidiamo per arrivare a portare il male, l’ingiustizia, la sofferenza in modo da continuare a essere manifestazioni dell’azione di Dio in noi e a non tradire il messaggio di cui vogliamo essere testimoni continuando ad amare e a offrire doni di vita nella difficoltà delle relazioni, nella morsa della sofferenza, nell’angustia dell’ingiustizia, nella tristezza del progressivo invecchiamento che ci debilita.
Perché sappiamo che il dono di Dio ci è sempre dato, che ogni giorno possiamo diventare capaci di novità di vita che ieri non conoscevamo, se a questo ci apriamo con fiducia per farne a nostra volta dono a chi ci sta vicino. Ogni giorno, così, consolidiamo i frutti colti nel nostro passato, alimentiamo la nostra speranza e ci prepariamo ad accogliere i doni che arriveranno, fiduciosi che né morte né vita, né alcuna altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio (Rm 8,38- 39). È così che, giorno dopo giorno, cresce la vita in noi, fino al traguardo ultimo in cui diventeremo viventi perché la Vita, in modi che non riusciamo nemmeno a immaginare, diventerà finalmente nostra.

Ho sempre trovato molto originale e interessante la prospettiva da cui ha affrontato il problema della salvezza e della vita dopo la nostra morte fisica. Ma ci salveremo tutti perché grande è la misericordia di Dio oppure alcuni o anche molti si perderanno? Magari non nell’impensabile eternità dell’inferno immaginata da un dio malvagio.

Noi non sappiamo in cosa consista la vita nuova, quella che ci aspetta come compimento al termine di questa esistenza. Le espressioni che normalmente utilizziamo – resurrezione, salita al cielo, paradiso e inferno – sono servite alle prime comunità cristiane per esprimere la grande e profonda esperienza di fede che la vita e l’insegnamento di Gesù avevano suscitato in loro e nelle loro comunità. Per esprimere la permanenza in loro della speranza di una vita al di là del presente, non potevano avere altro linguaggio che quello della resurrezione del corpo, della salita al cielo e dell’imminente ritorno di Gesù. In tutto questo noi dobbiamo vedere il tentativo di raccontarci e trasmetterci un’esperienza di fede profonda, non il succedersi di eventi storici che, fra l’altro, non corrispondono esattamente fra i diversi autori.
Noi oggi abbiamo conoscenze, riferimenti culturali e linguaggi molto diversi; ad esempio, sappiamo che dopo la morte il corpo è destinato a dissolversi nell’ambiente. È allora necessario che noi sviluppiamo, attraverso il lavoro interiore, un livello di vita spirituale, cioè di consapevolezza, di capacità di donazione, distacco dalle cose, che consenta al nostro spirito di entrare nella nuova dimensione della vita e, così, pervenire al compimento, il nome scritto nei cieli di cui parla Gesù, cioè la nostra definitiva identità di figli di Dio.
La domanda che così si pone è che cosa avverrà nel caso non si pervenga a sviluppare la nostra dimensione spirituale. La risposta non può che essere il venir meno dell’esistenza, un tentativo di vita che non ha attecchito e non è andato a buon fine. Certo è una posizione opinabile, ma io credo che valorizzi la storia e le dia un senso.

E la stessa immagine che noi ci facciamo di Dio o presente dentro la Scrittura medesima non va posta in discussione? Non c’è tanto, troppo, di antropomorfico e non dovrebbe forse la teologia soprattutto distruggere le false immagini di Dio? Cosa ne pensa della riflessione di molti teologi cristiani che stanno sviluppando un pensiero post-teista?

È inevitabile che in noi si formi, in qualche modo, un’immagine di Dio. È, anzi, necessario perché altrimenti non potremmo nemmeno pensare a Dio, né, di conseguenza, parlarne. I meccanismi stessi della nostra mente ne hanno bisogno.
Detto questo, è inevitabile, oltre che necessario, che il nostro processo di crescita culturale e lo sviluppo della nostra esperienza di fede nel tempo ci facciano cambiare l’idea che abbiamo di Dio: nessuno di noi ha più l’immagine che ne aveva da bambino. E non c’è dubbio che questo cambiamento che avviene a livello individuale debba essere riflesso nell’immagine che a livello di comunità ecclesiale viene proposta. L’immagine antropomorfa di un Dio intento a osservare le vicende umane e a intervenire è certamente inadeguata, sia per il livello raggiunto dalla riflessione teologica oggi, sia per le intuizioni che hanno posto radici a visioni ben più consone di Dio già secoli fa, nel cuore della tradizione cristiana stessa. Infatti, il farsi delle cose e il loro evolvere non richiedono interventi mirati di Dio, in quanto il potenziale di sviluppo delle cose è già inscritto nella loro stessa natura. Dio non fa le cose, ma fa sì che le cose si facciano.
Si tratta di un modello scaturito da una profonda intuizione, di Tommaso e in parte già prefigurata n Agostino, da secoli presente nella tradizione cristiana, per quanto non abbia avuto la forza di affermarsi rispetto al tradizionale e consolidato modello biblico. È però un modello che trae adesso dalla prospettiva evolutiva un fondamentale elemento di supporto e pone l’immagine di Dio ancora più lontano da qualunque rappresentazione antropocentrica se ne possa dare.

In una parte della sua opera parla delle sfide del pensiero ateo. Ci può spiegare come, secondo lei, è possibile rispondere ad esse e rendere ragione credibilmente della speranza che è in noi? Avere
insomma una fede adulta che non schiva le domande?

Il pensiero ateo merita da parte del teologo grande attenzione. Anche quando si finisce con il dissentire, resta il fatto che l’emergere di nuovi dati scientifici non può che apportare sviluppi nuovi che gettano ulteriore luce sul creato e sulla storia.
La difficoltà dell’interazione con il pensiero ateo risiede tutta nei riguardi della trascendenza, delfine ultimo delle cose e delle ragioni della nostra speranza, e dipende dal fatto che, se crediamo in una Forza che ci trascende e che in noi suscita conoscenza di verità e amore, è perché di questa forza noi veniamo facendo esperienza nella nostra vita. Si tratta di un’esperienza di novità che, pur veicolata da ciò che è intorno a noi, va al di là e ci indica un oltre. Ed è l’esperienza che facciamo ogni giorno che ci fa credere che non sia tutta un’illusione, ma la risposta a un ordine più grande del mondo che ci chiama e al quale sentiamo con tutto noi stessi di voler corrispondere.

Dentro l’orizzonte planetario, di cui lei parla, come Gesù può essere per noi oggi la radice di fondo della nostra fede, la ragione della nostra speranza, l’ancoraggio saldo che ci fa dire «se non avessi la carità…»?

Gesù, che cresceva in sapienza, età e grazia (Lc 2,52) e fu costituito Figlio di Dio in virtù della risurrezione dei morti (Rm 1,4), indica anche a noi, con la sua vicenda umana, la sua fede, il suo pregare, il cammino che siamo chiamati a percorrere oggi.
Come allora, è con il silenzio e la preghiera che possiamo arrivare a una comprensione profonda delle necessità dell’umanità e del mondo oggi; necessità che sono diverse da quelle del tempo di Gesù e richiedono risposte nuove a problemi che, di per sé, sono di un’ampiezza finora sconosciuta nella storia.
Questa è la via che Gesù ha tracciato: arrivare ad aprirci al Verbo eterno al punto da poter dire, con lui, io e il Padre siamo una cosa sola (Gv 10,30); che non è da intendersi in senso ontologico, ma nel significato operativo di: le opere che io compio, i pensieri che sviluppo, l’amore, il perdono, i doni che io offro non sono miei, ma del Padre. Perché è in questo abbandono fiducioso e totale a Dio che Gesù è arrivato a comprendere la strada, per quanto tragica e dolorosa, che doveva percorrere per rimanere fedele e dare testimonianza dell’amore di Dio che salva.
Noi viviamo in circostanze molto diverse, dobbiamo dunque trovare strade nuove per arrivare a testimoniare il medesimo amore di Dio. Non sono le opere di Gesù che siamo chiamati a imitare oggi; noi dobbiamo fare nostro il suo sentire nei confronti del mondo, il suo atteggiamento e la sua disponibilità all’ascolto, il suo modo di rapportarsi ai fratelli con compassione e misericordia, il suo convincimento della necessità di una conversione e di una preghiera continua, la sua fiducia nel Regno che viene, il suo abbandono totale nelle mani del Padre cresciuto in lui nella preghiera e nella fedeltà in tutte le circostanze: imparò l’obbedienza da ciò che patì (Eb 5,8).
Ed è questo stesso abbandono fiducioso in Dio, anche nelle circostanze più negative come la croce, che, oggi come allora, alimenta la nostra capacità di accogliere la sua azione in noi.
Possiamo così pervenire all’offerta di quei doni di amore e di riconciliazione oggi richiesti: è questa la nostra speranza di contribuire così al cammino dell’umanità verso il Regno cui è chiamata. Che questo sia possibile ce lo dice Gesù stesso: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste (Gv 14,12), parole che restano in noi come il fondamento della nostra speranza e del nostro impegno a individuare le nuove forme di fratellanza oggi necessarie per il futuro stesso della specie umana.
Solo così noi, sull’esempio di Gesù, consentiamo al Verbo di continuare a incarnarsi, cioè di farsi progressivamente carne in noi, quella carne che offriamo come «atto sacro», sacrificio vivente, santo e gradito a Dio, come dice Paolo in Rm 12,1.




il bellissimo libro di C. Molari – ripensare il cristianesimo nell’attuale paradigma evolutivo

Il cammino spirituale secondo Molari. Rileggere il cristianesimo «nel nuovo orizzonte planetario»

il cammino spirituale secondo Molari

rileggere il cristianesimo «nel nuovo orizzonte planetario»

Chi avverte la necessità di una nuova immagine di Dio, de-antropomorfizzata, de-patriarcalizzata e maggiormente in linea con le acquisizioni scientifiche, pur senza voler rinunciare al suo carattere trascendente, provvidente e personale – senza cioè varcare la soglia del post-teismo al centro dei quattro volumi della serie “Oltre le religioni” – potrà trovare spunti di grande rilevanza nel libro del teologo Carlo Molari, pubblicato anche questo dalla Gabrielli editori, dal titolo Il cammino spirituale del cristiano. La sequela di Cristo nel nuovo orizzonte planetario(pp. 560, 28 euro, info@gabriellieditori.it).

Un libro, come spiega nell’introduzione il curatore del volume Francesco Nicastro, prevalentemente tratto dalle centinaia di pagine trascritte, e riviste dall’autore, dalle registrazioni dei corsi da lui tenuti a Camaldoli nel periodo 2012-2019, ogni anno su un tema specifico, e dedicato ai temi centrali del pensiero del teologo: le dinamiche della vita spirituale e di fede con le relative motivazioni di carattere concettuale e teorico. Ma anche un testo essenzialmente pratico sul come vivere la vita spirituale e giungere a quella pienezza a cui l’essere umano non può fare a meno di aspirare, con tanto di indicazioni sul lavoro interiore da svolgere a livello personale per aprirsi ai doni di amore, di giustizia, di condivisione, di solidarietà che l’azione di Dio fa fiorire nella storia. È un pensiero, quello di Molari, che si pone all’interno della prospettiva evolutiva abbracciata già dal gesuita antropologo Pierre Teilhard de Chardin, attingendo abbondantemente ai dati offerti dalle nuove scienze: dagli studi sul cervello a quelli sul tempo, dalla fisica del cosmo alla fisiologia, dall’antropologia agli studi storico-linguistici. Come spiega Nicastro, per Molari la vita e l’intero creato sono sospinti dall’evoluzione verso livelli sempre maggiori di complessità e di perfezione, la quale si colloca così non agli inizi della creazione ma alla fine di un percorso che, per l’essere umano, «chiama in causa preminentemente la dimensione spirituale». 

In questo processo, in cui il male è ineliminabile perché ricondotto alla natura di per sé limitata e incompiuta del creato – «quattordici miliardi di anni sono stati appena sufficienti per far emergere la libertà e la consapevolezza nell’essere umano» – l’azione di Dio si manifesta «secondo il concetto della creazione continua», già presente in Tommaso: non «un’attività che aggiunge qualcosa alla realtà che è in processo», precisa Molari, ma un’azione che «alimenta, sostiene, offre possibilità»: «non sostituisce mai le creature, non aggiunge qualcosa alle creature, ma fa fiorire dal di dentro».

E se non ci è dato conoscerla, in quanto posta fuori dal tempo e dallo spazio, e dunque inaccessibile alle nostre categorie mentali, possiamo però farne esperienza attraverso l’apertura al «dono di vita che continuamente ci viene offerto, ci alimenta e ci apre, nonostante limiti, difficoltà, sofferenze e fallimenti, a sempre nuove qualità di amore e di conoscenza», come ci ha insegnato Gesù nella sua esistenza storica, accogliendo e manifestando l’azione creatrice e misericordiosa di Dio nel tempo e diventando così paradigma di umanità piena e pienamente compiuta.

Qui, per gentile concessione della casa editrice, alcuni stralci tratti dalla seconda parte del libro, dedicata ai «nuovi orizzonti interpretativi»

 

Una forza creatrice che offre possibilità

una forza creatrice che offre possibilità

 da: Adista Documenti n° 31 del 11/09/2021

L’AZIONE DI DIO

(…). L’assunzione della prospettiva evolutiva comporta una conseguenza ben chiara nel modo di concepire l’azione creatrice di Dio. Io cito spesso Teilhard di Chardin, gesuita antropologo, perché già dagli anni ‘20 del secolo scorso, riferendosi al problema del male, precisava con insistenza la necessità di modificare e semplificare il modo di concepire l’azione creatrice, cioè l’attività di Dio in noi, nel senso che l’azione di Dio è una forza creatrice che continua a operare e alimenta il processo evolutivo, ma non si sostituisce mai alle creature.

È così che dobbiamo abituarci a pensare alla presenza di Dio e alla sua azione nella nostra vita; non perché questa sia una formulazione assoluta e definitiva, ma per superare quel dualismo che abbiamo visto essere conseguenza della prospettiva statica con la quale si guardava alla creazione e a tutta la realtà nella quale siamo immersi. Nel considerare l’azione di Dio dobbiamo dunque evitare di concepirla come un’attività che aggiunge qualcosa alla realtà che è in processo: l’azione di Dio non aggiunge ma alimenta, sostiene, offre possibilità, non sostituisce mai le creature, non aggiunge qualcosa alle creature, ma fa fiorire dal di dentro; proprio per questo è azione creatrice.

Creazione continua: «dal grembo stesso delle cose»

Questa prospettiva è presentata in modo veramente esemplare da papa Francesco in un preciso passaggio dell’enciclica Laudato si’ del 24 maggio 2015 in cui dice: «[Dio] ha voluto limitare se stesso – questa è una formula un po’ discutibile – creando un mondo bisognoso di sviluppo, dove molte cose che noi consideriamo mali, pericoli o fonti di sofferenza fanno parte in realtà dei dolori del parto, che ci stimolano a collaborare con il Creatore. Egli è presente nel più intimo di ogni cosa senza condizionare l’autonomia della sua creatura, e anche questo dà luogo alla legittima autonomia delle realtà terrene. Questa presenza divina, che assicura la permanenza e lo sviluppo di ogni essere, “è la continuazione dell’azione creatrice”. Lo Spirito di Dio ha riempito l’universo con le potenzialità che permettono che dal grembo stesso delle cose possa sempre germogliare qualcosa di nuovo».

Voglio sottolineare due passaggi di questo testo di papa Francesco. «Egli è presente nel più intimo di ogni cosa senza condizionare l’autonomia della sua creatura». «Questa presenza divina, che assicura la permanenza e lo sviluppo di ogni essere, “è la continuazione dell’azione creatrice”». Quest’ultima citazione del papa è tratta da S. Tommaso d’Aquino e indica proprio l’operare di Dio che chiamiamo azione creatrice e che, nell’orizzonte evolutivo, ha acquistato un significato molto più chiaro rispetto al passato, perché è così che l’umanità è evoluta nella specie di vita più complessa che noi conosciamo sulla Terra. Davvero un cambiamento di prospettiva profondo avvenuto in pochi secoli, questo dell’orizzonte evolutivo, uno sviluppo che incide profondamente sulla nostra modalità di vivere il rapporto con Dio. (…). Dal grembo stesso delle cose germoglia una novità. Questo è il modello della creazione continua che S. Tommaso d’Aquino aveva affermato, e a cui già S. Agostino aveva fatto cenno, perché è un modo molto coerente di pensare alla forza creatrice che offre possibilità facendo fiorire la perfezione. (…). Il modello della creazione continua è, dunque, un modello di per sé antico che in questa prospettiva acquista un’importanza notevole. Si tratta, infatti, di concetti che oggi riusciamo a capire meglio di quando S. Agostino e S. Tommaso scrivevano, dato che ora comprendiamo bene il senso delle strutture accoglienti che richiedono tempo per essere in grado di accogliere la perfezione e di farla fiorire.

Di qui la necessità della evoluzione, perché la creatura deve diventare il principio, essa stessa, della perfezione, per cui deve sviluppare le strutture accoglienti corrispondenti alla perfezione nuova. In questo senso possiamo dire che la creazione non è ancora finita, perché quasi quattordici miliardi di anni, l’età del nostro universo, non sono stati sufficienti a far sì che tutta la ricchezza contenuta nella perfezione divina e offerta all’umanità giungesse a pienezza nelle creature. Quattordici miliardi di anni sono stati appena sufficienti per far emergere la libertà e la consapevolezza nell’uomo. O in chi, nell’universo, esiste in forma libera e consapevole, almeno secondo le modalità che conosciamo qui sulla Terra. Come ho già accennato, io credo che sia molto plausibile che in altre parti dell’universo ci siano persone intelligenti e libere; anzi, credo che questo sia probabilissimo, se non sicuro, perché è impensabile che la forza creatrice si esprima in questo modo solo nel piccolo frammento dell’universo che è la nostra Terra, ai margini di una galassia che non è neppure particolarmente grande fra quelle esistenti. Certamente la forza creatrice, che è in azione, ha suscitato anche altrove forme di vita intelligente. Indipendentemente da queste considerazioni, è importante che ci rendiamo conto che la creazione non è ancora finita e sta continuando il suo processo, per cui possiamo attendere delle qualità umane nuove e anche forme nuove di fraternità, di giustizia, di organizzazione sociale, perché a queste corrispondono delle qualità spirituali che ancora non sono sorte ma che stanno sviluppandosi.

(…) Dio non fa il progetto, Dio offre alle cose di farsi il progetto, offre potenzialità, per cui le cose stesse si muovono verso un determinato fine. Certo il fine è indotto (vedremo il significato della “causa finale” che orienta verso un determinato fine) ma sono le cose stesse che si muovono verso questo fine. Il concetto di creazione è chiarito molto bene da questa definizione: non è come il fare le cose, ma come l’offrire alle cose di farsi. Ovvero, per riprendere il testo del papa, non è che Dio fa germogliare, ma è dal grembo delle cose che germoglia qualcosa di nuovo proprio in virtù di questa forza che alimenta, di questa energia che sostiene, di questo amore che avvolge, diciamo in termini cristiani. Così si è affinato il concetto di creazione, come l’offrire alle cose di farsi: questa è la potenza creatrice, non il fare le cose, ma l’offrire loro di diventare. (…).

Alcuni anni fa ci furono risonanze sulla stampa di un intervento di Stephen Hawking, lo scienziato che ha studiato i buchi neri, il quale diceva, appunto, che non è necessario alcun intervento divino, perché gli scienziati, come tali, possono individuare sempre tutti i meccanismi attraverso i quali gli eventi accadono, anche gli eventi iniziali. Perché c’è un meccanismo e un principio interno agli eventi per cui è sempre possibile individuare una causa. Anzi è necessario, e gli scienziati devono farlo. Questo è importante per noi credenti perché se anche la scienza arrivasse a dimostrare che l’energia è sempre esistita (teoria dei multiversi opposta all’universo), questo non sarebbe incompatibile con il concetto del Dio creatore, dato che resterebbe la dipendenza totale del creato da una forza superiore. La scienza può sviscerare tutti i segreti della creazione senza mai incontrare Dio, perché si muove solamente nell’ambito delle creature e del tempo; e così può arrivare a individuare le leggi del big bang perché sono sempre leggi interne al creato e, dunque, al tempo. (…).

La creazione come dipendenza, non come inizio nel tempo

Da quanto detto risulta come, a differenza del pensiero tradizionale che poneva la creazione all’inizio del tempo per un’azione di Dio e faceva di questo atto di Dio l’elemento costitutivo stesso della creazione, già nella riflessione teologica del medioevo S. Tommaso d’Aquino sosteneva che, di per sé, l’inizio non faceva parte della creazione, nel senso che sarebbe stata possibile anche una creazione che non avesse avuto un inizio. Si può dunque pensare, sosteneva S. Tommaso, che non sia l’inizio che determina la condizione creata, bensì la dipendenza delle cose create dal creatore. (…).

Nella prospettiva secondo cui non è l’inizio che è significativo ma la dipendenza, viene meno la rilevanza della considerazione temporale ai fini della creazione: infatti se è il nostro dipendere, la nostra dipendenza totale – e noi dipendiamo totalmente da Dio, dice S. Tommaso – che ci fa creature, allora questa condizione può darsi da sempre, anche in tutto il tempo e per tutto il tempo. Dal punto di vista logico, dunque, se non è l’origine la condizione che ci fa creature, ma la dipendenza, non è contraddittorio pensare una creatura che è sì da sempre, ma da sempre è creatura nel senso che da sempre dipende.

(…) Per tradurre questa condizione di dipendenza, questo esistere come dipendere totalmente, possiamo dire che l’azione creatrice avvolge le creature totalmente da sempre. Questo è un punto importante su cui riflettere: il nostro affidarci all’azione creatrice di Dio è legato all’esperienza della dipendenza, non all’origine; quando diciamo che dipendiamo, vuol dire che c’è un Principio, il principio che ci costituisce, la fonte della nostra vita. (…). Possiamo così concludere che l’esperienza che sta al fondo del nostro sentirci creature non è l’esperienza di aver vissuto un inizio, di questo non ricordiamo e non sappiamo neppure nulla, ma il cogliere la nostra totale dipendenza da forze più grandi di noi. Questo a tutti i livelli, fisico, biologico, psichico e spirituale, per chi ha esperienze spirituali: noi dipendiamo totalmente. E più la vita cresce e si sviluppa, e più la perfezione cresce, più la nostra dipendenza diventa profonda e coinvolgente. (…).

Questo ha un riflesso molto profondo nella nostra esperienza spirituale, quindi nel vivere il rapporto col Principio. Per Dio non ci sono interventi-eventi, Egli agisce su di noi come una forza che continua sempre, non può mai venire meno, c’è tutto da sempre, assieme al tempo che ha un inizio per l’uomo, ma non per Dio. (…). Il senso di dipendenza dal divino è (…) universale, di ogni tempo, religione e cultura. Per noi si tratta di purificare questa consapevolezza della dipendenza dalla forza creatrice non mettendola in relazione solamente all’atto creativo dell’inizio, ma vedendola come una dipendenza strutturale, continua. Questo perché noi non siamo ancora viventi, siamo un tentativo di vita che la Vita fa. La Vita vuole renderci viventi, ma per ora siamo come feti che dipendono dalla madre. Questa consapevolezza è essenziale per la vita spirituale, altrimenti non viviamo in modo autentico, che è quello di essere consapevoli della nostra condizione di creature, di dipendenza totale nel nostro operare e nel nostro esistere.

Due modelli: intervento divino o azione di creature

(…). Questo è il passaggio importante da chiarire bene: noi non chiediamo a Dio che faccia qualcosa al nostro posto. Certo, la fonte originale di tutto è sempre l’azione di Dio, ma Dio non fa nulla in più di quello che facciamo noi, e noi lo facciamo perché ci apriamo alla sua azione, accogliamo quella forza di vita che viene da lui; ma siamo noi che dobbiamo operare. È un concetto molto semplice, di per sé, ma si tratta di un modo di concepire l’azione di Dio che ha conseguenze notevoli, per cui richiede che purifichiamo l’idea che abbiamo dell’azione di Dio sulle creature. (…).

Creazione non vuol dire che Dio ha fatto le cose, ma che ha offerto alle cose di farsi per cui la realtà è diventata; il che è molto diverso: la realtà non è stata fatta, la realtà è stata alimentata al punto di farsi. È la realtà che realmente diventa, procede nel divenire e si sviluppa nel tempo. Dobbiamo capire bene la differenza: questa è l’azione con cui Dio crea e, in questa prospettiva, non c’è nessun momento in cui si coglie, di per sé, l’azione creatrice di Dio distinta dal divenire delle creature, perché l’azione creatrice è il divenire delle creature. (…).

Possiamo sintetizzare come segue le modalità con cui è stata concepita l’azione creatrice da parte di Dio.

I. Il modello della creazione iniziale attribuisce a Dio ab initio l’atto creatore con cui affida un’energia alla creazione e si riserva di controllare, intervenire e guidarne lo sviluppo nel corso della storia e del suo compimento. (…). Questa è stata la visione iniziale che alcuni presentano in modo ancora più radicale. Fra gli ebrei del 1500 è sorta la teoria dello tzimtzum che si diffuse nell’ambito della Cabala ebraica nel 1600-1700 e che alcuni hanno ripreso anche ai nostri tempi (…) per spiegare il male esistente nella creazione. Questo modello partiva da una concezione di Dio che prima occupava tutto lo spazio del cosmo e che all’inizio, all’origine della creazione, per dare lo spazio alle creature si è ritirato da un ambito e ha lasciato un vuoto in cui immetterle. “Si ritirava”, questo vuol dire tzimtzum, ritrarsi e lasciare lo spazio perché le creature possano esistere. (…).

Nella prospettiva cristiana che è stata ancora conservata nel Catechismo della Chiesa Cattolica c’è, in più, l’intervento diretto di Dio nella storia della creazione. Io credo che questo sia ancora un residuo delle visioni precedenti, per cui il modello evolutivo non è stato assunto completamente; lo si è assunto, cioè, con delle riserve per cui si continuano ad attribuire a Dio interventi in determinati passaggi del processo evolutivo.

II. Nella visione evolutiva non c’è nessun intervento di Dio; l’azione creatrice continuamente alimenta, offre possibilità alle creature – questo è il senso dell’azione creatrice – ma non si sostituisce mai alle creature. Anche i miracoli, in questa prospettiva, sono le creature che li compiono; sono sempre le creature, in virtù del loro rapporto con Dio, dell’apertura, della preghiera, della connessione profonda fra di noi, che operano anche i miracoli: sono eventi straordinari che richiedono una particolare intensità nell’accoglienza dell’azione di Dio, e quindi anche nella preghiera.

Si vede quindi bene la differenza tra i modelli. Il modello dell’azione creatrice tutta posta all’inizio, per cui Dio dà l’impulso riservandosi particolari interventi in determinate occasioni, con l’impulso affidato alle creature e il riserbo dello tzimtzum, il ripiegamento di Dio, per spiegare la libertà d’azione delle crea ture e il male nella creazione. Il modello evolutivo nel quale tutto questo non trova posto, né l’azione creatrice di Dio che interviene, né lo tzimtzum, il suo ritirarsi: la forza creatrice è continuamente all’opera e offre possibilità, ma non determina mai le creature. È necessario riflettere bene su come interpretare l’azione di Dio, perché c’è il rischio di cadere in una interpretazione di tipo magico o interventista, come se Dio fosse là a guardare e a dire “qui devo fare qualcosa in più, lì devo operare”. È un modo molto infantile di pensare all’azione di Dio, a questo Dabàr, a questa forza di vita che sta al fondo e che possiamo verificare proprio perché, abbandonandoci con fiducia, scopriamo di poter pervenire a forme nuove, a capacità nuove di amore, di misericordia, di perdono e così via. (…).

Occorre allora avere un modello ben chiaro dell’azione di Dio: Dio è sempre e solo creatore. In questo senso Dio non fa le cose ma offre alle cose di divenire; oppure, secondo la formula di Teilhard de Chardin, Dio non fa le cose ma fa sì che le cose si facciano. Ne consegue ciò che, per noi, implica il lavoro spirituale: aprirci all’azione di Dio ma decidere noi, operare noi, perché è a questo che il Signore ci chiama. (…).

Sovrabbondanza dell’offerta, libertà, casualità e chiamata dal nulla delle cose

Per questo c’è anche il caso: anche la casualità fa parte dell’azione di Dio la quale, in realtà, ci offre contemporaneamente molte possibilità. Per cui non dobbiamo pensare che Dio ci imponga qualcosa o ci faccia diventare quello che vuole Lui: Dio ci offre molte possibilità per diventare quello che possiamo essere. In questo senso parlare di un “disegno di Dio” su ciascuno di noi in un senso rigido, determinato, non è esatto e si presta ad ambiguità, a equivoci forti, come se noi dovessimo seguire solo una strada che ci è imposta. No. Dio ci offre molte possibilità, possiamo diventare tante cose: sempre immagini di Dio, sempre figli suoi, ma con modalità molto diverse. (…).

La possibilità, dunque, è sempre data, per quanto sempre attraverso il limite e le imperfezioni delle creature; limiti e imperfezioni che fanno sì che nel creato ci siano processi casuali e processi che falliscono nel diventare. Il cammino verso il compimento della creazione non è un processo deterministico: contiene delle componenti casuali, eventi che accadono e che ostacolano il processo stesso. Il caso non è sempre favorevole, ci sono sviluppi che bloccano il divenire e c’è involuzione proprio perché le creature sono imperfette e non compiute. (…)

Questo è il modo di interpretare l’azione di Dio nella storia: Dio offre possibilità, non le impone; è creatore, non ci sostituisce mai. (…). Dio non può sostituire mai le creature, ma offre loro le possibilità per giungere al traguardo definitivo. Anche il miracolo: sono sempre creature che lo fanno; certo perché si aprono all’azione di Dio in modo più profondo, ma sono sempre le creature che operano il miracolo. (…).

Creazione e creazionismo, l’intelligent design

A completamento di questa riflessione voglio evidenziare l’infondatezza delle polemiche tra scienza e fede che sono sorte, negli ultimi decenni del secolo scorso, sul modello dell’azione di Dio. Infatti, se polemiche di questo tipo in altri ambiti sono giustificate, non hanno senso in ordine alla creazione e all’evoluzione. Coerentemente a questo modo di pensare che si colloca nella prospettiva evolutiva (…), tutto ciò che accade nella natura e nella storia umana, tutto, ha una causa intrinseca: tutti gli eventi, anche quelli di cui gli scienziati non sanno ancora spiegare le dinamiche e le ragioni, hanno sempre un principio interno. Non bisogna mai ricorrere a Dio per spiegare un’emergenza di qualità nuove di vita, di forme nuove, di perfezione nuova. Cose che, invece, molti teologi del passato, e alcuni anche oggi, spiegano attraverso interventi divini, come se Dio aggiungesse qualcosa al processo della creazione: così il sorgere della vita e così l’origine dell’uomo. Ma se accettiamo realmente questo concetto di creazione nel senso più radicale, noi non dobbiamo supporre nessun intervento perché la forza creatrice è sempre presente e non deve aggiungere nulla; è la creatura che evolvendo rende possibile l’emergere di una perfezione nuova, di una qualità nuova che era già contenuta nella forza creatrice, ma che per emergere richiedeva del tempo (…).

I sostenitori del “progetto intelligente”, intelligent design (…), ammettono, almeno in parte, il processo evolutivo, ma sostengono che questo avviene seguendo un progetto ben determinato. Fra questi ci sono diversi credenti, anche cattolici, fra cui il cardinale di Vienna Schönborn, che nel 2007 scrisse un articolo sul New York Times per difendere questa posizione, suscitando la reazione di molti scienziati, anche di parte cattolica, che invece negano questa necessità. (…).

Il miracolo: «la tua fede ti ha guarito»

In questa prospettiva, nemmeno il miracolo è un’aggiunta che Dio fa all’azione delle creature: sono sempre le creature che operano il miracolo quando vivono la fede al punto da realizzare qualcosa di straordinario, quegli eventi fuori dall’ordinario che possono accadere. (…). In questo senso si capisce anche perché Gesù stesso, quando guariva, diceva sempre: la tua fede ti ha salvato e non “Dio ti ha guarito”. (…).

La preghiera è proprio l’espressione di questa accoglienza della forza della vita per poterla esprimere a beneficio degli altri e nostro: noi diventiamo realmente per il dinamismo della creazione che investe le creature che si aprono alla forza creatrice con atteggiamento di fede, con atteggiamento di accoglienza più profonda. (…).

La vita così come si è espressa sulla Terra – in altri luoghi, nel futuro, altre cose potranno essere scoperte a questo proposito – ha conosciuto uno sviluppo lentissimo delle qualità vitali: prima che sorgesse il pensiero, la consapevolezza, ci sono voluti, appunto, miliardi di anni, e la ricchezza della vita è tale che non possiamo escludere possibilità nuove che oggi ci sembrano impossibili. (…).

Se crediamo in Dio questo è pacifico: la vita è molto più grande delle forme limitate che ha assunto sulla Terra, per cui anche le manifestazioni che oggi possono sembrare straordinarie, possono diventare ordinarie. La vita è più grande di noi e può esprimersi in noi solo se accogliamo, se restiamo collegati con la Fonte. (…).

NOI SIAMO TEMPO: COSÌ ACCOGLIAMO L’AZIONE CREATRICE

(…) La prospettiva evolutiva implica un cambiamento profondo nel considerare la nostra identità, cioè quella pienezza di vita alla quale siamo chiamati e per la quale, in questa prospettiva, il traguardo è alla fine: noi andiamo verso la nostra identità, siamo chiamati a diventare, per raggiungere la pienezza di figli di Dio. Non partiamo già realizzati, partiamo con molte possibilità aperte davanti a noi che, però, un po’ alla volta noi veniamo determinando con le nostre scelte.

Il succedersi di frammenti di novità costituisce la realtà del tempo

È per questo che la prospettiva evolutiva mette in luce un dato che risulta in modo evidente dalla riflessione sulla nostra condizione di creature: cioè il fatto che noi siamo tempo, e quindi dobbiamo necessariamente imparare a vivere questa nostra condizione secondo le tre dimensioni del tempo: il passato, il presente, il futuro. La ragione del nostro essere tempo può essere espressa così: noi non possiamo accogliere quel flusso di vita che ci costituisce, quella forza che alimenta la nostra esistenza, in modo compiuto in un istante, ma solo attraverso una molteplicità di situazioni e di esperienze. Noi non abbiamo inizialmente gli spazi necessari per interiorizzare tutto il dono, tutta la ricchezza che ci è necessaria. Non possiamo, per fare un esempio, respirare o mangiare all’inizio dell’anno per tutto l’anno, abbiamo bisogno di una continuità di accoglienza perché non abbiamo gli spazi necessari. Anche le informazioni che ci sono necessarie per vivere le possiamo accogliere e interiorizzare a frammenti, l’una dopo l’altra, nelle diverse situazioni. Questa dipendenza, questa sintonia e questa accoglienza si sviluppano nel tempo perché abbiamo bisogno di allargare gli spazi di interiorità. Dalle creature sempre può germogliare qualcosa di nuovo, per cui ogni giorno noi siamo chiamati a interrogarci: “Che cosa di nuovo oggi l’azione creatrice mi offre? Che cosa di nuovo la vita oggi mi offre, che finora non ho accolto, anche nei miei rapporti con gli altri?”. Non semplicemente per la mia pigrizia, c’è anche questo a volte, ma proprio perché il tempo è il grembo fecondo dell’azione creatrice. (…).

Dio non è tempo. È, invece, il nostro sviluppo come creature che richiede tempo, perché non possiamo essere immediatamente il tutto, non possiamo accogliere tutta la perfezione in un istante: noi abbiamo bisogno di frammenti che si succedono a frammenti del diventare. Noi diventiamo, siamo in questo processo del diventare; ed è importante che ci rendiamo conto delle condizioni per diventare: Dio non aggiunge qualcosa a quello che noi siamo, ma ci offre la possibilità di diventare e questo diventare si realizza attraverso i gesti che compiamo, i pensieri che sviluppiamo, i rapporti che viviamo, tutto ciò che fa parte della nostra vita. È per questo che qualcosa di nuovo può sempre fiorire dal nostro cuore, dall’interiorità, ed è proprio in questa prospettiva che ci esercitiamo per sviluppare la nostra vita spirituale: per diventare. (…).




il possibile dialogo

IL DIALOGO FRA CULTURE E RELIGIONI

di Carlo Molari

Nel giugno 2016 si è svolto a Parigi un Congresso di teologia organizzato dalla rivista internazionale di teologia «Concilium», insieme con l’Istituto di scienze e di teologia delle religioni (Istr), con la Facoltà di teologia e scienze religiose dell’Istituto cattolico di Parigi (Theologicum) e con la partecipazione dei Domenicani, nel quadro delle celebrazioni dell’ottavo centenario della loro fondazione. Il problema affrontato nel Congresso, Come praticare il dialogo fra culture e religioni, viene messo a fuoco da alcuni interventi, successivamente pubblicati nel n. 1/2017 della rivista «Concilium» (a cura di T.-M. Courau e C. Mendoza Alvarez). Gli Atti del Congresso parigino saranno pubblicati dall’editrice Cerf (Parigi).

 

Ipotesi interessante

Il Congresso e il quaderno di «Concilium» partono dall’ipotesi «che il riconoscimento della singolarità culturale e religiosa di un mondo, con i suoi aspetti irriducibili ad altri mondi, non è un problema o un ostacolo ad un dialogo autentico. Al contrario, prendere coscienza della singolarità altrui è uno degli atteggiamenti decisivi per avanzare in una conoscenza più adeguata di sé e per la costruzione di un progetto comune di società» (ib., Editoriale, pp. 12).
Nella pratica di dialogo e nella riflessione che l’ha accompagnata in questi decenni si proponeva come punto di partenza gli elementi comuni ai dialoganti. Per questo l’ipotesi proposta e sviluppata viene considerata «come un vero cambiamento di paradigma» (ib., Editoriale, p. 13).
Il motivo per cui nella storia il proprio punto di vista culturale è stato considerato assoluto e il dialogo risultava difficile risiede nella considerazione che il linguaggio è stato istintivamente pensato come riproduzione della realtà o addirittura riflesso delle idee divine, in quanto insegnato da Dio. Ma da quando il linguaggio è stato scoperto e interpretato come una invenzione umana se ne sono individuati limiti e condizionamenti. Ma soprattutto non è stato più possibile partire dal linguaggio per descrivere la realtà.
È stato necessario ricercare un dato precedente, l’esperienza vitale, e rassegnarsi al dialogo per una ricerca comune. In questa prospettiva la verità è un traguardo da raggiungere insieme partendo dalle caratteristiche proprie delle diverse culture.
La nuova acquisizione ha consentito una convergenza di riflessioni; in particolare vi è stato un accordo nell’uso del termine razionalità, come è stata proposta nell’elenco degli argomenti del Congresso di Parigi. Essa indica «una visione, un approccio, una percezione razionale singolare della realtà» ed è «compresa come un insieme di grammatiche intessute fra di loro, di strutture mentali acquisite per apprendere e rendere conto di ciò che si sperimenta e si viene a conoscere» (ib., p. 12).
Sono quattro le tappe del cammino compiuto durante il Congresso e riflesso negli interventi del numero di «Concilium»:pensare le diverse razionalità culturali e religiose (per precisare i concetti di riferimento); a contatto delle realtà sul campo (la messa in questione dell’ipotesi nell’esame dei fatti concreti); sulla verità e l’universale (le opportunità concettuali offerte dal nuovo paradigma); e infine la proposta di alcune prospettive teologiche (piste indicate per un concreto lavoro teologico fecondo). (cfr. ib., p. 13).

Un esempio emblematico

Fra i molti articoli mi limito a presentare la relazione di Felix Wilfred, l’attuale direttore di «Concilium»,che propone uno sguardo asiatico sul problema, ma con occhi allenati allo sguardo universale già dagli studi teologici iniziati a Roma (Università Urbaniana) e proseguiti con molteplici esperienze di insegnamento universitario in varie parti del mondo. La sua relazione ha una parte generale che riprende il tema di fondo del Congresso parigino con una breve applicazione al mondo indiano: Fede cristiana e razionalità socio-culturali. Riflessioni dall’Asia (pp. 119-130).
L’esempio da cui parte è già indicativo della problematica: nel monastero adiacente la Cattedrale di Bressanone esiste la pittura di «un grande e potente cavallo con due zanne da elefante, una proboscide e due larghe orecchie». L’artista che non aveva mai visto un elefante ma ne aveva sentito parlare, l’aveva immaginato secondo le sue categorie per le quali il cavallo rappresentava l’animale più grande mai visto. È un modo molto concreto per introdurre il discorso.
La prima costatazione riguarda i limiti di una teologia che presume utilizzare categorie universali, senza la consapevolezza del pluralismo delle razionalità umane. Per questo «la teologia ha bisogno di accostarsi alla ragione in modi nuovi, profondamente consapevole dei suoi gravi limiti, ma allo stesso tempo pure delle forme plurali di razionalità che scaturiscono da storia, cultura, tradizione, filosofia, visioni del mondo ecc.» (ib., p. 120). Quando non è consapevole del pluralismo delle razionalità umane «la teologia diventa inautentica e perde il suo ancoraggio alla realtà» (ib., p. 121). Egli cita l’esempio di Benedetto XVI nella discussa lezione a Regensburg nel 2006 quando identificò la ragione umana con la razionalità greco romana e affermò: «Le decisioni di fondo che appunto riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa, e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura» (Osservatore Romano, 14 settembre 2006, ib ., a p. 121).
La seconda constatazione riguarda la radice del pluralismo di razionalità cioè il condizionamento derivato dal linguaggio. «Proprio perché la lingua cinese, quella araba e quella francese operano con modi linguistici diversi, noi realizziamo ragionamenti diversi e quindi approcci diversi alla realtà, molti modi di ordinare e interpretare il mondo e strutturare la società. In breve i processi cognitivi e le costruzioni del pensiero seguono modelli linguistici» (ib., pp. 122s.).
Giustamente Wilfred avanza il sospetto che la teologia non abbia tratto completo profitto dalle conclusioni della linguistica strutturale sia medioevale per l’India (cita Anandavardhana 820-890) sia moderna per l’Occidente (cita il Corso postumo di Ferdinand de Saussure, 1857-1913).
In particolare insiste sulla dimensione classista della razionalità umana: «Le operazioni teoretiche, come analisi, sintesi, classificazione, inferenza, dialettica ecc. non son concezioni immacolate; riflettono anche il fattore classista, le inclinazioni culturali, le condizioni e disposizioni sociali. Il modo con cui i poveri percepiscono, giudicano, analizzano e valutano le situazioni è diverso dal modo in cui lo fanno le classi dominanti, le caste e i gruppi elitari della società» (ib., pp. 128s.).
Infine cita come «deplorevole» la messa in guardia contro l’uso di «metodi orientali» da parte della Congregazione per la dottrina della fede (Lettera su Alcuni aspetti della meditazione cristiana del 15 ottobre 1989) «perché associa la fede con un particolare tipo di ragione e dimostra un’ignoranza pressoché totale della natura di questa prassi della ragione pratica nel contesto asiatico» (ib., p. 128).
A questo proposito Wilfred è convinto che la Congregazione dovrebbe lasciare il compito di controllare le razionalità socioculturali alle chiese locali «che sono in grado di giudicare materie di ortodossia ed eterodossia nel contesto» (ib., p. 130). E termina velocemente: «Questo significa che la chiesa può non aver bisogno di un’istituzione come la Congregazione per la dottrina della fede. Essa deve passare rapidamente alla storia. Non sarebbe dovuta scomparire già da molto tempo?» (ib., p. 130). Ma se crediamo nel processo evolutivo e nell’azione creatrice di Dio man mano che le creature si sviluppano e diventano complesse, perché non ritenere che come le scoperte del passato hanno mostrato i limiti di molte interpretazioni teologiche, e consentito un reale cambiamento di strutture mentali, così avverrà certamente nel futuro. E il cammino verso la verità riprende da capo.

 

 




cos’è propriamente ‘spiritualità cristiana’

“la vita spirituale : incontro con Gesù”

Carlo Molari

Molari

A che cosa ci riferiamo quando parliamo di spiritualità?  Nell’uso comune a volte la riduciamo ad una pratica religiosa o all’osservanza di un insieme di leggi e quindi a comportamenti morali. Spiritualità è qualcosa di più profondo.

Quando parliamo di spiritualità ci riferiamo ad una qualità di vita, ad una modalità di vedere la realtà e di vivere le esperienze, di impostare quindi il proprio cammino. La qualità della vita che chiamiamo spiritualità non è caratteristica di per sé delle religioni. Esistono anche spiritualità atee. Cerchiamo quindi di precisare.

 1. Il nuovo orizzonte culturale

Affrontiamo il problema in una prospettiva dinamica ed evolutiva a differenza di quanto avveniva nei secoli scorsi nei quali dominava la prospettiva statica. Il Vaticano II ha riconosciuto che “l’umanità sta passando da una concezione piuttosto statica della realtà ad una più dinamica ed evolutiva” ed ha previsto che tale cambiamento avrebbe suscitato “una congerie di problemi che avrebbero richiesto nuove analisi e nuove sintesi” (GS. 5).

Si tratta di un grande cambiamento. Nella visione statica della realtà si pensava che la natura delle cose fosse già determinata e fissata fin dall’inizio in modo perfetto. Quanto all’uomo poi si pensava che l’anima fosse creata immediatamente da Dio per ogni persona e fosse spirituale e per natura immortale. In alcuni ambienti sotto l’influsso di Platone si pensava addirittura che fosse già preesistente.

Il problema era capire come si stabiliva il rapporto tra anima e corpo. La spiritualità era quindi la vita dell’anima, già “infusa” o “creata” fin dall’inizio. Tutte le formulazioni dottrinali della nostra fede sono sorte in questo orizzonte. Il lavoro che la Chiesa sta facendo in questi decenni nasce proprio dall’esigenza di riformulare le dottrine di fede in modo corrispondente ai nuovi modelli culturali dato che la prospettiva evolutiva è un dato essenziale della nostra cultura.

Non mi riferisco direttamente alle teorie evoluzioniste di Darwin, ma alla visione complessiva della realtà. Nei mesi scorsi è uscito un libro dal titolo “Nati per credere”, di tre professori universitari secondo i quali anche la fede in Dio è risultato dell’evoluzione della specie. Nati per credere (Torino, Codice 2008) ed è scritto a sei mani da uno psicologo esperto dei processi cognitivi (Vittorio Girotto Università IUAV di Venezia), da un filosofo della scienza esperto di evoluzionismo (Telmo Pievani, Universi¬tà Milano Bicocca) e da un etologo esperto di cognizione animale e neuroscienze comparate (Giorgio Vallortigara, Università di Trento). Essi sono convinti che “la teoria darwiniana dell’evoluzione rappresenta uno dei maggiori successi scientifici di ogni tempo” (p. VII), ma debbono costatare che “il nostro cervello sembra «specificamente progettato per fraintendere il darwinismo»” (ib., La citazione tra virgolette è del noto biologo inglese neodarwinista Richard Dawkins, che essi citeranno più volte).

Secondo la prospettiva darwiniana c’è un progetto nella natura, ma non c’è un progettista, perché il progetto si costruisce casualmente, attraverso tentativi spesso infruttuosi. Dobbiamo accettare questo orizzonte culturale. L’azione di Dio non può essere accolta compiutamente in un istante dalla creatura in processo, ma solo a frammenti nella successione del tempo. Per questo il male e l’imperfezione accompagna il cammino umano finché “Dio non sarà tutto in tutti” (1 Cor. 15,28). Nei processi della creazione e della storia ci sono anche situazioni insensate. La sfida che oggi come credenti dobbiamo accogliere è quella di saper affrontare la sfida della casualità e del nonsenso.

La spiritualità in questi casi, come vedremo, significa introdurre il senso che non c’è.

2. Vita spirituale

Sviluppare la vita spirituale significa sviluppare quelle qualità nuove di vita che fioriscono quando si scopre che in gioco nella vita c’è una  forza più grande di noi e che nessuna creatura risponde alla tensione profonda che l’uomo porta con sé.

Quando si giunge a questa scoperta, che è già un traguardo di maturità, cambia completamente la prospettiva con cui si affronta la vita e si attraversano le diverse situazioni. Comincia a svilupparsi un atteggiamento di fiducia nella “forza arcana”, come l’ha chiamata il Concilio (cfr. Vat. II Nostra Aetate, n. 2) che tutte le religioni in vario modo riconoscono.

Nel cammino della nostra esistenza scopriamo che abbandonandoci con fiducia a questa forza arcana, cominciamo a vivere le esperienze in modo nuovo. A quel punto si sviluppa la dimensione spirituale della persona. Parlando quindi di vita spirituale non ci riferiamo tanto a pratiche religiose, ad alcune modalità di preghiera, o all’osservanza di leggi morali, quanto ad una qualità nuova dell’esistenza, ad un modo particolare di vedere la realtà, di vivere le relazioni. E’ possibile pertanto praticare la religione anche con una certa continuità, ma non sviluppare una vera e propria attitudine spirituale.

Agli scribi e ai farisei Gesù rimprovera proprio di osservare leggi morali con fedeltà, ma di non vivere un autentico rapporto con Dio. Emblematica a questo proposito è la parabola del capitolo 18 del terzo Vangelo. Cfr. Lc. 18: “la differenza tra i due che salgono al tempio a pregare è molto netta. Il fariseo in piedi prega Dio dicendo: ti rendo grazie, Padre, perché non sono come gli altri. Elenca le opere che egli compie. Gesù dice: tornò a casa non giustificato, non in corretto rapporto con Dio. Il pubblicano invece, piegato a terra invoca misericordia: “abbi pietà di me peccatore”. Ha un atteggiamento di accoglienza, di ascolto, di interiorizzazione, consapevole che c’è una forza più grande in gioco nella storia degli uomini e nella vita personale. Gesù dice che “tornò a casa giustificato”.

Il passaggio dalla vita psichica all’uomo spirituale (cfr. Paolo 1Cor. 2, 14-16) avviene proprio quando non si è più centrati su di sé, ma ci si affida ad una forza più grande e si assume un particolare atteggiamento di accoglienza fiduciosa.

Quando avviene questo passaggio non scompare la vita psichica, ma comincia a fiorire una dimensione nuova, si è “condotti dallo Spirito” come dice Paolo (Rom. 8,14): “Coloro che sono condotti dallo Spirito, costoro sono figli di Dio”.

Questo passaggio avviene attraverso una conversione, attraverso un  cambiamento profondo di vita. Non avviene all’inizio, richiede un lungo cammino, a meno che non ci siano condizioni particolari (Si pensi ad es. alle particolari condizioni famigliari in cui è cresciuta S. Teresa di Gesù Bambino). Questo atteggiamento può essere anche ateo, anche laico, perché non sempre questa forza arcana viene concepita in modo personale ed è chiamata Dio.

 3. Come si qualifica la spiritualità cristiana.

La spiritualità cristiana è teologale: riconosce che la forza arcana della vita si esprime come amore e ha quindi carattere personale. Inoltre è cristologica, si sviluppa cioè in riferimento alla modalità con cui Gesù ha vissuto il rapporto con il Padre: “tenendo fisso lo sguardo su di lui”.

La lettera agli ebrei utilizza due volte questa espressione: “Fissate bene lo sguardo in Gesù, l’apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo” (Eb. 3,2); “tenete fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede” (Eb 12, 2). Vivere il rapporto con Dio tenendo fisso lo sguardo su Gesù caratterizza in modo particolare l’esistenza cristiana immergendola nel tempo. Ne consegue che la spiritualità cristiana ha una triplice modulazione corrispondente alle tre dimensioni del tempo: passato, presente e futuro. Non siamo in grado di accogliere tutta la grandezza della parola in un solo istante. Noi siamo frammento che si succede. Possiamo accogliere il dono di Dio solo nel tempo. È la legge dell’incarnazione. Siamo chiamati a vivere l’atteggiamento di affidamento fiducioso in rapporto al tempo, non cercando di uscire dalla storia.

Questo spiega perché il rapporto con Dio vissuto in riferimento a Gesù si è tradotto in tre modulazioni: fede, speranza, carità. Già S. Paolo nel primo documento scritto pervenutoci dell’esperienza cristiana nelle prime righe ricorda questa triade: Scrive ai tessalonicesi nel 50 e.v.: “memori del vostro impegno nella fede, della vostra operosità nella carità, e della vostra costante speranza nel Signore nostro Gesù Cristo” (1 Tess. 1,3). Poco tempo dopo scrivendo ai Corinzi Paolo afferma che queste sono “le tre cose che rimangono” (1Cor. 13,13).  Secondo le tre dimensioni del tempo la dimensione teologale si esprime come fede, speranza, carità.

La fede è l’accoglienza della parola di Dio come ci viene testimoniata dalle generazioni precedenti e volge perciò lo sguardo al passato. Con la speranza ci rivolgiamo al futuro per attendere il compimento e rendere possibile il divenire della  salvezza. Tutto questo a vissuto nel piccolo istante del presente nel quale l’eterno si affaccia al nostro camino offrendoci il dono di vita da offrire ai fratelli, che è appunto la carità.

Questo processo si realizza non in un luogo sacro, bensì in ogni momento. Si tratta di imparare attraverso la preghiera a rimanere in sintonia con l’azione di Dio, altrimenti rischiamo di cadere nell’idolatria, cioè di considerare quale fonte o ragione della nostra esistenza le ricchezze, la tecnica, il cibo, il potere ecc. Nella preghiera invece diciamo che la ragione della nostra vita è l’incontro con Dio, per non perdere  l’atteggiamento di questa forza che ci fa crescere come figli di Dio.

Il cammino teologale, infatti, ha come traguardo la nostra identità di figli di Dio. Siamo già figli, ma in modo ancora incompiuto e provvisorio: “ciò che saremo non è stato ancora rivelato” (1 Gv 3, 3). Possiamo anche fallire nel cammino del compimento e non pervenire all’identità filiale. La possibilità del fallimento è uno degli insegnamenti innegabili del NT, che si è sviluppato come la dottrina dell’inferno, secondo la visione del mondo che allora avevano. Ma il nucleo essenziale afferma la possibilità di fallire nel nostro processo di crescita spirituale, di vivere solo in superficie e di non sviluppare le strutture dell’eternità.

Noi non siamo ancora viventi in modo definitivo: siamo un tentativo provvisorio che Dio fa di renderci sue immagini permanenti. In questa fase dobbiamo sviluppare la dimensione spirituale, le strutture della vita eterna, altrimenti non siamo in grado di attraversare la morte e di pervenire alla forma ultima di esistenza umana.

4. Spiritualità adulta.

In questa prospettiva comprendiamo qual è il criterio fondamentale per giudicare una spiritualità adulta, che ha superato i limiti delle fasi precedenti della vita. La persona raggiunge la sua maturità quando è in grado di confrontarsi con la morte, quando cioè ha maturato quelle capacità che gli consentono di vivere tutte le situazioni in modo da saper morire.

Ci chiediamo quindi quali sono i criteri con cui valutare se possiamo vivere la morte in modo umano, da figli di Dio. Quali sono i criteri che consentono di attraversare le molte situazioni dell’esistenza che sono anticipazioni della morte. Ci sono situazioni disordinate, caotiche nella storia, ingiuste. C’è il peccato. Dobbiamo imparare a vivere tutte  le situazioni in modo positivo e salvifico. Non perché siano sempre positive o corrispondano ad un progetto divino. Perché ci sono molte situazioni insensate. Ma l’amore di Dio ci offre la possibilità di attraversare quelle situazioni sviluppando la nostra dimensione spirituale, in modo da rendere sensate anche le situazioni insensate, e salvifiche anche le situazioni ingiuste.

Se uno è odiato è una situazione ingiusta. Ma se l’odio è un fatto dobbiamo chiederci come viverlo in modo da crescere. Come vivere la croce, che come tale è contraria al volere di Dio, ma che pure esiste. Gesù afferma esplicitamente di essere venuto (Mc. 1, o di essere stato mandato Lc. 4, 42) “per predicare il regno di Dio”. Ma gli uomini hanno rifiutato l’annuncio del regno e Gesù si è trovato ad annunciare il Regno di Dio in una situazione ingiusta, contraria, violenta, insensata.

Anche a noi è chiesto di essere capaci di dare senso alle situazioni insensate, di attraversare la violenza e l’odio annunciando l’amore.

4.1 I criteri della maturità desunti dalla morte.

Se morte è il traguardo della nostra avventura terrena, essa ci offre anche i criteri per l’orientamento del cammino. Ne possiamo esaminare cinque.

– il criterio dell’identità. Di fronte alla morte non sarà importante che cosa abbiamo realizzato nel mondo, quali opere abbiamo compiuto, bensì chi siamo diventati attraverso tutto quello che abbiamo vissuto. La morte ci chiederà: chi sei? chi sei diventato? Che nome stai abitando? Questo è il criterio fondamentale. Oggi perciò non serve chiedersi: cosa sto realizzando? Che risonanza ha quello che faccio? Dobbiamo piuttosto chiederci: chi sto diventando vivendo questa esperienza? questo fallimento, questa calunnia, o questo successo?

– il criterio del distacco. La morte ci chiederà di abbandonare tutto, di aver imparato a distaccarci dalle cose, dalle persone, dalle situazioni, perché dovremo abbandonare tutto. Più ci alleniamo al distacco e più acquistiamo l’identità filiale, cioè accogliamo il dono di Dio che ci rende figli.

– l’interiorizzazione nei rapporti. La morte ci chiederà di partire in solitudine, ma pieni di presenze. Ci chiede perciò di vivere i rapporti in modo tale da portarci gli altri dentro, senza condurli con noi per mano. Il bambino piccolo nei primi tempi non è capace di interiorizzare i suoi genitori, quando diventa capace è in grado di allontanarsi da loro, di andare a scuola perché porta dentro l’immagine dei suoi.  Nelle difficoltà può pensare: “poi lo dico a mia mamma, poi viene mio papà” e trova la forza di andare avanti. A mano a mano che cresce la persona ha bisogno sempre più di interiorizzare presenze. Esse costituiscono la nostra risorsa, perché noi diventiamo attraverso i rapporti. La morte ci chiederà di partire senza condurci nessuno per mano, ma portando in noi tutti coloro che abbiamo amato o ci hanno amato.

– l’oblatività, cioè la capacità di donare vita. Tutti cominciamo l’esistenza con atteggiamenti possessivi, succhiando vita dagli altri. Da adulti non possiamo più essere persone che succhiano la vita, ma persone che la consegnano. La morte ci chiederà di consegnare tutto, persino il nostro corpo che ci è servito per diventare noi stessi. Tutto dobbiamo restituire, tutto dobbiamo diffondere intorno a noi. Lo potremo fare solo se siamo diventati totalmente oblativi.

– l’abbandono fiducioso. La morte ci chiederà di essere così capaci di fidarci della vita da saperla perdere per ritrovarla. E’ l’atto supremo di fiducia. Tutte le situazioni che viviamo ci allenano a fidarci così dell’azione di Dio, da saper crescere anche nelle situazioni negative, perché come dice Paolo in Rom. 8,37 segg. “nessuno può separarci dall’amore di Dio”. Noi possiamo vivere tutte le situazioni in modo da crescere come figli. Nessuno ci può separare dall’amore. In tutto questo noi siamo più che vincitori… Nessuno potrà mai separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù. In tale modo possiamo vivere tutte le situazioni dell’esistenza, favorevoli e sfavorevoli, accogliendo il dono di Dio e testimoniando l’amore del Padre.

In questo senso non ci sono spazi sacri cioè riservati a Dio: tutta l’esistenza diventa una “offerta del proprio corpo” “un sacrificio gradito a Dio” “un culto spirituale” (Rom 12, 1). I momenti di preghiera sono palestra, allenamento per imparare a vivere tutte le situazioni come occasione di incontro con Dio, come ambito di vita teologale. Dobbiamo ricordare che il dono di Dio ci previene sempre attraverso creature. È molto facile, soprattutto all’inizio del cammino identificare la creatura come il dono da accogliere, mentre il dono è un altro. Ci perviene attraverso la creatura ma la trascende.

Analogamente spesso ci illudiamo di essere noi ad offrire vita ai fratelli. Noi invece siamo un vuoto sempre riempito, siamo un nulla che viene attraverso dall’energia creatrice. Non siamo noi ad offrire, a donare, ad amare, ma è il bene che in noi diventa amore. E’ la verità che in noi diventa parola, nei limiti dei nostri modelli.

Così comprendiamo perché Gesù rimprovera il notabile che lo chiama buono. Nessuno è buono. Dio solo è buono. E’ l’espressione chiara della profondità spirituale di Gesù: la consapevolezza del nulla, continuamente riempita dal tutto che è Dio.

Io non faccio nulla da me stesso. Se noi vivessimo in questo modo, noi potremmo vivere la spiritualità cristiana ed essere testimoni efficaci dell’amore di Dio che si è rivelato in Gesù.

Quaderno di “Strade Aperte” – 10/07/2009




si fa presto a dire Dio …

IL DIO IN CUI NON CREDO 

di Carlo Molari


“CHE DIO MI LIBERI DA DIO”

otto immagini di Dio “in cui non credere”

di Carlo Molari

prego Dio che mi liberi da Dio: sembra una contraddizione perché se preghi Dio credi in Lui e non puoi chiedere di fare senza di Lui. La formula viene da un mistico, un teologo domenicano vissuto a cavallo tra il secolo XIII e XIV, nato nel 1260 e morto nel 1327, Meister Eckhart. Eckhart come credente ha detto: Prego Dio che mi liberi da Dio per superare tutte le immagini di Dio, per giungere a quella esperienza profonda dove Dio si fa presente nel fondo dell’anima, come lui dice

 

È un discorso difficile, lui stesso ne era consapevole e infatti afferma: “vi prego per amor di Dio di comprendere se potete questa verità. Se poi non la comprendete non vi affliggete per questo, perché io parlo di una verità tale che solo poche persone buone la comprenderanno” (ib. p. 131). Dice ancora: “Chi non comprende questo discorso non affligga il suo cuore, perché l’uomo non può comprendere questo discorso finché non diventa uguale a questa verità”, cioè finché non la vive al punto da essere questa verità. “Infatti si tratta di una verità senza veli, che giunge immediatamente al cuore di Dio. Dio ci aiuti a vivere in modo da poterla conoscere in eterno. Amen” (ib. p. 139). Il luogo interiore dove Dio si incontra, per Eckhart, è il fondo dell’anima: là non c’è nessuna immagine perché è il luogo dove prendi contatto con la forza creatrice, con l’azione di Dio che ti rende figlio. Eckhart utilizza questa espressione: “Dio genera in te il figlio”. Vuol dire “la parola che un giorno in Gesù si è espressa, in te ora viene generata”, tu cresci come figlio. E in quel luogo non c’è nessuna immagine. Tudiventa l’immagine e non avrai bisogno di nessun’altra immagine, sarai luogo dove Dio si rivela. Non dove Dio fa qualcosa per te, dove Dio fa teimmagine sua.
Vorrei aggiungere un’altra breve riflessione preliminare sul significato del confronto con gli atei. Oggi molti cominciano a parlare di Dio, se si va nelle librerie laiche si trovano moltissimi libri che parlano di Dio scritti da atei o agnostici, che però sentono il dovere, la necessità di parlare di Dio. Si potrebbe dire che oggi i teologi si stanno avviando al silenzio, nel senso che scoprono che è meglio non parlare troppo di Dio, perché tutto quello che diciamo o è senza senso o, se ha un senso, conduce al silenzio, cioè all’adorazione, a liberarci da tutte le parole e da tutte le immagini; mentre gli atei si stanno avviando nella direzione di parlare di Dio. Per dire che non c’è. E siccome quel Dio che negano è spesso il Dio che anche noi neghiamo, succede che ci troviamo a camminare insieme. Il cammino che noi stiamo facendo anche nel confronto con gli atei è un cammino comune di credenti e non credenti, per un nuovo umanesimo, perché l’umanità risponda alle esigenze attuali. Infatti la situazione in cui oggi ci troviamo è quella di una svolta epocale, nel senso che la forza creatrice, la forza della vita, i processi evolutivi richiedono un salto qualitativo. Mentre nei passaggi precedenti – fisici, chimici e biologici – c’erano leggi ben determinate ora il salto sta avvenendo nell’ambito culturale e spirituale, dove qualcosa di nuovo sta sorgendo, ma non sappiamo che cos’è, non sappiamo che forma assumerà. Dobbiamo essere consapevoli che insieme lo possiamo far nascere, desiderandolo, attendendolo e accogliendolo, cioè diventando noi luogo di questa emergenza.
Il tema Dio è un ambito attraverso il quale la riflessione e l’attesa del nuovo acquista una efficacia straordinaria. Non semplicemente per l’apporto dei credenti, bensì anche dei non credenti, di coloro che soffrono, che lavorano per la giustizia, che giungono ad amare in modalità corrispondenti alle esigenze della nostra stagione storica. Dopo queste premesse esamino gli dei in cui non credo: otto immagini di Dio che non sono efficaci.
1. Il Dio della pura ragione: in questo Dio non credo, non merita fede, non merita fiducia, non è sufficiente. C’è un ateo convertito, morto nell’aprile scorso, un filosofo molto noto, Anthony Flew, che a quindici anni aveva fatto la scelta dell’ateismo. Quando nel 2004 fu chiamato negli Stati Uniti in un grande teatro per confrontarsi come ateo con tre teologi, prima di cominciare il dialogo dichiarò di aver cambiato idea. Successivamente ha giustificato il suo cammino razionale. In realtà Flew è giunto alla credenza in Dio attraverso la riflessione filosofica, ma non è giunto alla fede in Dio, cioè a considerare Dio come riferimento delle proprie decisioni, per giungere a conoscere e ad amare in un modo nuovo. Se non scopri che è un Dio che ti ama e che ti consente di giungere ad una forma nuova di vita, un Dio che salva a che ti serve? Anche il Cardinale Ruini, nel dicembre 2009 dopo aver proposto diversi argomenti per dimostrare l’esistenza di Dio, ha detto: “La difficoltà dell’approccio metafisico nel contesto culturale contemporaneo, aggiungendosi all’aporia derivante dall’esistenza del male nel mondo, sono le ragioni di fondo di quella «strana penombra (sono parole di Ratzinger che egli cita) che grava sulla questione delle realtà eterne». Perciò l’esistenza di un Dio personale, pur solidamente argomentabile, non è oggetto di una dimostrazione apodittica, ma rimane (e qui cita ancora Ratzinger) «l’ipotesi migliore, che esige da parte nostra di rinunciare ad una posizione di dominio e di rischiare quella dell’ascolto umile»”. L’atteggiamento dell’umile ascolto serve appunto per creare il silenzio interiore, per pervenire al ‘fondo dell’anima’ dove la forza creatrice sta alimentando il nostro cammino. Questa è l’esperienza da compiere in ordine alla fede. Per questo il Dio della ragione non è sufficiente.
2. Non credo nel Dio che opera nella creazione e nella storia inter-venendo, modificando le situazioni, completando le creature, rimettendo in funzione i meccanismi della creazione e della storia quando si inceppano. L’azione di Dio è un’azione creatrice che offre possibilità, che alimenta il processo, ma che non si sostituisce mai alle creature, proprio perché fa esistere ed operare le creature. La storia umana è fatta solo di azioni umane, come il processo cosmico è costituito solo da meccanismi di creature fisiche, biologiche, alimentate e sostenute dalla potenza divina. Siccome Dio molti praticanti pensano ancora che Dio intervenga all’interno dei processi, credo sia urgente chiarire l’inconsistenza di un tale modo di immaginare Dio. È un passaggio difficile ma necessario. Dobbiamo diffondere una immagine libera da queste ipoteche della ‘provvidenza’. Dio è provvidente non nel senso che risolve tutti i problemi, ma nel senso che, ovunque l’uomo si venga a trovare, il suo amore è tale che può condurlo al suo compimento. Dio perché non può risolvere alcun problema storico se non ci sono creature che aprendosi alla sua azione indicano e realizzano la soluzione. Il “dio tappabuchi” non può essere il Dio della fede.
3. Non credo nel Dio che punisce i peccati, che manda le pestilenze per far ravvedere gli uomini. Per moltissimo tempo si è pensato così. San Carlo Borromeo, in occasione di una pestilenza a Milano, organizzò una grande processione. Il santo portava la pesante croce di legno col sacro chiodo davanti a tutti invocando la misericordia di Dio. Scrisse poi al cardinale di Bologna esprimendo la sua gioia perché le chiese non erano mai state piene come in quei giorni. La peste, a suo giudizio, era stata lo strumento di Dio per il ravvedimento del popolo. Il segno chiaro che questa interpretazione era giusta stava nel fatto che “nonostante l’assembramento numeroso della gente che si era raccolta a pregare, non si era verificato nessun altro caso di peste”.
4. Non credo nel Dio che cambia atteggiamento per la preghiera degli uomini. Come se noi pregando sollecitassimo Dio a fare qualcosa di nuovo. È una pretesa insensata, un modello antropomorfico. La preghiera ha un grande valore perché mette in moto in noi dinamiche di novità e di cambiamento, non perché modifica l’atteggiamento di Dio. Noi pregando acquistiamo la capacità di vedere in modo più profondo il reale, e di amare in modo inedito. Quando giungiamo a sperimentare attraverso la preghiera le qualità nuove che fioriscono in noi, comprendiamo che la forza della vita contiene ricchezze ancora non espresse, qualità umane che possono fiorire e che domani avranno forme per noi ora non immaginabili. Il silenzio interiore, l’atteggiamento di ascolto e di accoglienza sono essenziali per l’efficacia della preghiera. Ma non perché diciamo a Dio di fare qualcosa di nuovo, ma perché noi accogliamo la sua azione in modo molto più profondo e ricco.
5. Non credo in un Dio che può fare le cose perfette dall’inizio, perché la creatura è tempo e può accogliere il dono solo a frammenti, nella successione. Dio è eterno, è pienezza di vita, è perfezione compiuta, ma la creatura è tempo e non può accogliere l’offerta divina tutta in un solo istante. Non ci può essere una creatura perfetta all’inizio. Nella prospettiva evolutiva si capisce bene che Dio alimenta il processo continuamente, cioè la creazione continua tuttora. Il compimento è il traguardo del cammino, la perfezione piena è solo alla fine.
6. Non credo nel Dio che vuole la riparazione del male attraverso la croce di Cristo o per mezzo di coloro che si uniscono alla sua sofferenza. Dio non vuole che gli uomini siano nel dolore, e quando qualcuno soffre Dio è dalla sua parte per sostenerlo nel suo cammino, perché possa giungere ad amare anche in quella condizione. I santi che hanno attraversato grandi sofferenze si sono santificati per l’amore a cui sono pervenuti. Lo stesso Gesù è giunto ad un amore supremo sulla croce e per questo è risorto. Amando Gesù ci ha salvato: è redentore non perché ha sofferto, ma perché la sofferenza è stata l’ambito in cui l’amore è fiorito in forme sublimi.
7. Non credo al Dio che parla all’uomo con parole umane. Dio parla nel silenzio perché non pronuncia parole umane, bensì divine, per noi silenziose. La sua Parola però alimenta la nostra vita come forza creatrice. Il contatto con Lui ci rigenera. Ma questo contatto non diventa parola, non diventa idea, non diventa immagine, bensì diventa esperienza vitale, evento di storia. Certo, l’esperienza può essere narrata, ma quando viene tradotta in parole umane viene anche in parte tradita, modificata, confusa, per cui la Parola divina è sempre da cercare oltre le parole umane. Quando diciamo che la Scrittura è ‘parola di Dio’ dobbiamo intendere la formula in senso analogico cioè di relazione. La Parola è quella forza di vita che ha suscitato gli eventi di salvezza, narrati dagli uomini secondo i modelli con cui li hanno vissuti e interpretati, e trascritta secondo i modelli culturali del tempo. Il processo che ci consente di cogliere il senso della Parola è rivivere le esperienze di fede che hanno caratterizzato l’evento narrato, coglierne la trama divina, e percepire nel silenzio la presenza che le ha rese possibili.
8. Non credo nel Dio del Progetto intelligente (Intelligent Design), come lo presentano i gruppi statunitensi che si battono per introdurre nelle scuole l’insegnamento alternativo all’evoluzionismo neo-darwinista. Dio della fede non è semplicemente il Dio delle origini ma del processo nella sua interezza. Le cause dei processi cosmici sono imperfette e il male accompagna sempre lo sviluppo della vita sulla terra. Il caos e la complessità caratterizzano molti eventi, perché Dio non interviene con azioni puntuali nelle situazioni della storia. L’azione divina in ogni circostanza offre molte possibilità per cui la casualità ha una parte importante nel divenire cosmico e negli eventi della storia. Il progetto salvifico si può realizzare anche attraverso fallimenti, vicoli ciechi, eventi casuali e imprevedibili che costellano il cammino evolutivo.




il dio nel quale è bene non credere

IL DIO IN CUI NON CREDO

di don Carlo Molari

Molari
1. Non credo nel Dio della “pura ragione”: non merita fiducia e non è sufficiente. Si può credere in Dio attraverso la riflessione filosofica, ma non giungere alla FEDE in Dio, cioè a considerare Dio come riferimento delle proprie decisioni, per giungere a conoscere e ad amare in un modo nuovo. Se non scopri che c’è un Dio che ti ama e che ti consente di giungere a una forma nuova di vita a che ti serve?

2. Non credo nel Dio che opera nella creazione e nella storia intervenendo, modificando le situazioni, completando le creature, rimettendo in funzione i meccanismi della creazione e della storia quando si inceppano. L’azione di Dio è un’azione creatrice che offre possibilità, che alimenta il processo, ma che non si sostituisce mai alle creature, proprio perché fa esistere ed operare le creature. […] Dio è provvidente non nel senso che risolve tutti i problemi, ma nel senso che, ovunque l’uomo si venga a trovare, il suo amore è tale che può condurlo al suo compimento. Dio non può risolvere alcun problema storico se non ci sono creature che, aprendosi alla sua azione, indicano e realizzano la soluzione. Il “dio tappabuchi” non può essere il Dio della fede.

3. Non credo nel Dio che punisce i peccati, che manda le pestilenze per far ravvedere gli uomini. Per moltissimo tempo si è pensato così.

4. Non credo nel Dio che cambia atteggiamento per la preghiera degli uomini. Come se noi pregando sollecitassimo Dio a fare qualcosa di nuovo. È una pretesa insensata, un modello antropomorfico. La preghiera ha un grande valore perché mette in moto in noi dinamiche di novità e di cambiamento, non perché modifica l’atteggiamento di Dio […] ma perché noi accogliamo la sua azione in modo molto più profondo e ricco.

5. Non credo in un Dio che può fare le cose perfette dall’inizio perché la creatura è tempo e può accogliere il dono solo a frammenti, nella successione. Dio è eterno, è pienezza di vita, è perfezione compiuta, ma la creatura è tempo e non può accogliere l’offerta divina tutta in un solo istante. Non ci può essere una creatura perfetta all’inizio. Nella prospettiva evolutiva si capisce bene che Dio alimenta il processo continuamente, cioè la creazione continua tuttora. Il compimento è il traguardo del cammino, la perfezione piena è solo alla fine.

6. Non credo nel Dio che vuole la riparazione del male attraverso la croce di Cristo o per mezzo di coloro che si uniscono alla sua sofferenza. Dio non vuole che gli uomini siano nel dolore, e quando qualcuno soffre Dio è dalla sua parte per sostenerlo nel suo cammino, perché possa giungere ad amare anche in quella condizione. I santi che hanno attraversato grandi sofferenze si sono santificati per l’amore a cui sono pervenuti. Lo stesso Gesù è giunto ad un amore supremo sulla croce e per questo è risorto. Amando Gesù ci ha salvato: è redentore non perché ha sofferto, ma perché la sofferenza è stata l’ambito in cui l’amore è fiorito in forme sublimi.

7. Non credo al Dio che parla all’uomo con parole umane. Dio parla nel silenzio perché non pronuncia parole umane, bensì divine, per noi silenziose. La sua Parola però alimenta la nostra vita come forza creatrice. Il contatto con Lui ci rigenera. Ma questo contatto non diventa parola, non diventa idea, non diventa immagine, bensì diventa esperienza vitale, evento di storia. Quando diciamo che la Scrittura è “parola di Dio” dobbiamo intendere la formula in senso analogico cioè di relazione. La Parola è quella forza di vita che ha suscitato gli eventi di salvezza, narrati dagli uomini secondo i modelli con cui li hanno vissuti e interpretati, e trascritta secondo i modelli culturali del tempo. Il processo che ci consente di cogliere il senso della Parola è rivivere le esperienze di fede che hanno caratterizzato l’evento narrato, coglierne la trama divina, e percepire nel silenzio la presenza che le ha rese possibili.

8. Non credo nel Dio del Progetto intelligente (Intelligent Design) come lo presentano i gruppi statunitensi che si battono per introdurre nelle scuole l’insegnamento alternativo all’evoluzionismo neo-darwinista. Il Dio della fede non è semplicemente il Dio delle origini ma del processo nella sua interezza. Le cause dei processi cosmici sono imperfette e il male accompagna sempre lo sviluppo della vita sulla terra. Il caos e la complessità caratterizzano molti eventi, perché Dio non interviene con azioni puntuali nelle situazioni della storia. L’azione divina in ogni circostanza offre molte possibilità per cui la casualità ha una parte importante nel divenire cosmico e negli eventi della storia. Il progetto salvifico si può realizzare anche attraverso fallimenti, vicoli ciechi, eventi casuali e imprevedibili che costellano il cammino evolutivo

(Carlo Molari).




a proposito di evoluzionismo e fede in Dio creatore

LA CREAZIONE NON È FINITA

DIALOGO TRA SCIENZA E FEDE

una bella analisi di C. Molari:

molari

 

 

 

 

di Carlo Molari

Evoluzionismo e fede in Dio creatore 
Proprio per queste discussioni è importante precisare i concetti relativi all’azione creatrice di Dio e mostrare che l’evoluzione corrisponde alla condizione delle creature non ancora compiute. La creazione infatti è ancora in corso. Per chiarire il problema, occorre evitare diverse ambiguità.
a) La prima confusione riguarda i termini. S’identifica spesso creazionismo con la dottrina della fede in Dio creatore. Occorre inoltre distinguere bene tra la convinzione che il mondo sia creato da Dio e l’interpretazione letterale del racconto del libro della Genesi, oggi esclusiva dei fondamentalisti tra cui i creazionisti. Costoro ripudiano ogni evoluzione e interpretano i racconti della Genesi senza tenere in alcun conto le attuali acquisizioni delle scienze bibliche. Il loro principale errore riguarda l’uso delle Scritture. Essi pensano che il libro della Genesi contenga notizie comunicate miracolosamente da Dio agli uomini circa l’origine del mondo e la storia degli uomini. I racconti della creazione che si trovano nella Genesi, invece, non intendono descrivere le modalità dell’origine dell’universo né le tappe della sua evoluzione. Essi vogliono piuttosto trasmettere un messaggio religioso, cioè spiegare il senso della condizione creata. Che questa fosse l’intenzione dei redattori appare con chiarezza dal fatto che nello stesso libro sono posti, uno di seguito all’altro, due racconti completamente diversi. Nel cap. 1 è descritta la creazione come realizzata da una Parola divina, pronunciata in sette giorni e l’uomo, maschio e femmina, è presentato come ultima creatura. Nel cap. 2, invece, più antico, l’uomo è creato dal fango all’inizio di tutte le cose e solo alla fine di tutto il processo gli viene data come compagna la donna. Nessuno dei due racconti intende descrivere come di fatto sia avvenuta l’origine delle cose che i redattori non conoscevano.
La fede in Dio creatore non nasce dalle acquisizioni della scienza, ma si sviluppa dall’esperienza della ricchezza di vita che fiorisce nella creatura quando essa si affida senza riserve a quella forza più grande che sostiene il processo della storia e che si esprime come Amore. La stragrande maggioranza dei cristiani, perciò, pur professando la fede nella creazione divina, non ha difficoltà alcuna ad accettare i dati relativi all’età del nostro universo, all’evoluzione della vita sulla terra e alle leggi che la regolano secondo le convinzioni diffuse tra gli scienziati del nostro tempo. Occorre quindi distinguere chiaramente tra la fede in Dio creatore e il creazionismo.

b) La seconda ambiguità riguarda il concetto di azione divina e creazione. Per chiarire questo punto, mi richiamo alle riflessioni di Teilhard de Chardin che ha esercitato un influsso notevole nella teologia recente.
Teilhard parte dalla constatazione che la concezione scolastica dell’azione divina «si scontra con molte inverosimiglianze storiche e con antipatie intellettuali». Per questo, accanto alle due categorie della tradizione scolastica – la creazione dal nulla (creatio ex nihilo) e l’attuazione delle potenzialità delle creature o trasformazione (eductio ex potentia subiecti) – Teilhard introduce una terza modalità di azione divina che chiama trasformazione creatrice. Con questa formula Teilhard indica l’energia divina che opera in «una creatura già esistente, la trasforma in un essere del tutto nuovo ». Teilhard considera l’energia divina sempre identica nel suo operare, anche se gli effetti sono diversi nello sviluppo evolutivo della realtà. Scriveva nel 1920: «Non c’è un momento in cui Dio crea e un momento nel quale le cause seconde si sviluppano. C’è sempre un’unica azione creatrice che solleva continuamente le creature verso un “più essere” in favore della loro attività seconda e dei loro perfezionamenti anteriori. La creazione così intesa non è una intrusione periodica della Causa prima: è un atto coestensivo a tutta la durata dell’universo. Dio crea dall’origine dei tempi, e vista dal di dentro la sua creazione ha la figura di una trasformazione. L’essere partecipato non è posto per blocchi che si differenziano ulteriormente grazie a una modificazione non creatrice: Dio immette continuamente in noi dell’essere nuovo».
Teilhard in questo modo applica l’idea di creazione continua, già nota in teologia dal medioevo, ad un contesto culturale caratterizzato dall’orizzonte dinamico ed evolutivo. L’azione divina, pur restando sempre creatrice, trova possibilità diverse di esprimersi secondo l’ambito più o meno complesso nel quale si esercita e quindi secondo il tempo trascorso. San Tommaso affermava che la creazione è costituita dalla relazione delle cose al primo principio e «non è altro che tale relazione».
Non esistono atti successivi di creazione dato che una sola e medesima azione divina crea e conserva nell’essere le creature che esistono solo in forza del loro rapporto costante con Dio.
In questa prospettiva l’azione divina non deve essere intesa in senso predicamentale, cioè come l’azione delle creature che si svolge nella superficie del tempo, bensì come quella forza continua che dal di dentro della realtà fa in modo che essa sia e operi. Dio infatti agisce sempre e solo come creatore e rende possibile l’esistere e il divenire delle creature. Perciò Teilhard osserva: «Là dove Dio opera, a noi è sempre possibile (restando a un certo livello) di cogliere solo l’opera della natura. Così, dunque, a volte per eccesso di estensione, a volte per eccesso di profondità, il punto di applicazione della forza divina è, per natura sua, extrafenomenale. La causa prima non si mescola agli effetti: egli opera sulle nature individuali e sul movimento d’insieme. Dio propriamente parlando non fa, ma fa che si facciano le cose».
Se Dio operasse come le creature, opererebbe fratture nelle dinamiche create, mentre la rete delle causalità mondana e storica resta intatta. La sua azione non è causalità efficiente o finale, ma creatrice: non fa le cose ma concede ad esse di svilupparsi; non impone leggi ma suscita movimenti che si strutturano secondo regole costanti; non costringe all’azione ma offre varie possibilità alle creature.
E dove questa offerta, come nell’uomo, trova spazi adeguati, diventa libertà.
A livello categoriale o predicamentale (rilevabile dalla scienza) l’azione divina è inattingibile per cui nell’esame dei fenomeni è sempre necessario ricercare l’azione di creature. L’azione creatrice resta trascendente rispetto alle realizzazioni create e anche rispetto alle capacità percettive dell’uomo, che possono cogliere solo le dinamiche limitate e imperfette delle creature. Lo scienziato è in grado di esaminare solo le dinamiche interne dei fenomeni anche quando giunge al loro inizio o alla loro fine: «Per l’universo essere creato vuol dire trovarsi, rispetto a Dio, in quella relazione trascendentale che lo rende secondario, partecipato, sospeso al divino per le fibre stesse del suo essere. Noi abbiamo preso l’abitudine (malgrado le nostre affermazioni reiterate che la creazione non è un atto nel tempo), di collegare tale condizione di essere “partecipato” all’esistenza di uno zero sperimentale nella durata, cioè di un inizio temporale registrabile. Ma questa pretesa esigenza dell’ortodossia si spiega solo attraverso una illegittima contaminazione del piano fenomenico con quello metafisico».
Nel processo evolutivo non è l’azione divina in sé a specificare i salti qualitativi, bensì la capacità di accoglienza delle creature, che grazie alla maggiore complessità delle strutture sono in grado di accogliere ed esprimere l’energia creatrice in modo più ricco e profondo. L’azione di Dio viene quindi concepita come energia fondante (anche se il senso pieno di questa formula analogica ci sfugge) e non come atto singolo o puntuale. Vi sono però delle situazioni nelle quali essa appare dominante rispetto all’azione delle creature coinvolte nel processo in quanto la novità emergente non può essere prevista dalle semplici condizioni precedenti. Anche in questo caso tuttavia, essa «si appoggia su un soggetto, su qualcosa in un soggetto». Potremmo dire che l’azione divina per essere efficace deve diventare azione delle creature stesse in modo che la novità fiorisca dal di dentro delle loro strutture. In questa prospettiva, affermare che Dio è creatore non significa esigere particolari interventi divini per spiegare le sue diverse tappe. Significa bensì affermare la dipendenza continua delle creature da una Forza più grande, da un Amore che avvolge la storia, da una Presenza che abita l’interiorità umana. Non è esatto perciò opporre creazione ed evoluzione quasi fossero incompatibili.
L’atto creativo divino nel tempo appare come la «faticosa» azione – in se stessa sempre uguale e piena, ma varia e limitata nelle sue manifestazioni dalle strutture create – con la quale i molti frammenti, che esplodono quando il nulla è investito dall’energia divina, pervengono ad unità e attraverso la quale la realtà materiale è condotta in tappe successive dallo stato uniforme e disperso delle origini a forme elevate e distinte di perfezione, fino ad un compimento spirituale, che non ci è dato conoscere se non in parziali anticipazioni.

Un’altra ambiguità legata al concetto di creazione deriva dal legame con l’origine. Si pensa spesso che creare voglia dire dare origine alla realtà e quindi che essere creati significhi avere avuto un inizio. In realtà il senso proprio del termine è un altro. Creare significa costituire e alimentare continuamente un essere nella sua esistenza e nella sua azione. Essere creato conseguentemente significa dipendere totalmente nel proprio essere e nel proprio operare. Di per sé quindi è possibile pensare ad un universo da sempre esistente. Se Dio infatti è eterno, nulla vieta che egli possa sempre creare. In senso proprio la creazione non è l’origine delle cose, (che potrebbero anche essere sempre esistite in una certa modalità) ma il loro divenire: l’attività creatrice fonda e alimenta tutto il processo. Già san Tommaso affermava che di per sé uno potrebbe sostenere, pur affermando la fede in Dio creatore, che le creature sono da sempre. Infatti, se Dio è creatore da sempre, perché la creazione non può essere da sempre?
L’esperienza di essere creature è l’esperienza del nostro divenire dipendenti da cause che non possiamo dominare. Siamo creature non perché siamo nati e prima non esistevamo, ma per il fatto che dipendiamo totalmente, continuamente dalle forze che ci sostengono e che alimentano il nostro processo. Coloro che ammettono l’evoluzione non debbono ricorrere a Dio per spiegare i salti qualitativi, perché nello sviluppo dell’evoluzione tutti i fenomeni della creazione e dell’evoluzione hanno delle cause create. Esse sono all’interno dei processi che la scienza deve indagare nel loro divenire.
L’esperienza di essere creature poi, vissuta in un orizzonte di fede, conduce alla scoperta di Dio Creatore. In tale prospettiva acquista una grande importanza il tempo, il fatto cioè che la creatura è strutturata temporalmente. Il secolo scorso è stato un secolo di analisi profonda sul tempo. Il fattore tempo è apparso come componente essenziale delle creature, ragione della loro progressiva diversificazione. Oggi lo comprendiamo molto meglio: noi siamo tempo, non solo siamo nel tempo. Il tempo cioè non è qualcosa che si svolge fuori di noi nel quale noi siamo immersi. No, noi siamo strutturalmente tempo. Non siamo in grado di accogliere la ricchezza che ci investe, la forza creatrice che ci attraversa, la ricchezza della vita che ci viene consegnata in un solo istante completamente, ma sempre solo a piccoli frammenti in una lunga successione di eventi.
Spesso percepiamo questa condizione come una maledizione, perché vorremmo uscire dal tempo, essere come Dio. La prima tentazione che viene presentata nella Scrittura è diventare come Dio. Concretamente significa che desideriamo essere tutto subito, la pienezza nell’istante, mentre come creature possiamo accogliere il dono solo a piccoli frammenti, nella lunga successione di esperienze, che costituiscono la trama della nostra esistenza. (La creazione non è finita)

CASUALITÀ E FEDE IN DIO

Un ultimo ambito di confusione dottrinale è relativo alla casualità di alcuni processi. Si pensa spesso che se la realtà è frutto di una causa trascendente, tutto debba procedere secondo un ordine già prefissato e secondo regole assolute. Il male, perciò, e il caos non dovrebbero esistere nel mondo. Questo è uno dei punti su cui maggiormente si è fermato il card. Schönborn nel già citato articolo del 7 luglio 2005. Certamente la casualità riflette un certo disordine, una incompletezza delle creature, per cui una causa può avere effetti diversi e molti fenomeni non possono essere previsti con certezza. Non esamino l’aspetto scientifico della casualità, ma vorrei indicare i riflessi sulla dottrina della fede. Nella prospettiva di fede la casualità non è l’espressione di una carenza da parte della Causa, bensì l’espressione di una sovrabbondanza di offerte nei confronti di creature ancora incompiute, incapaci di accogliere tutto il dono in un istante e quindi ancora imperfette. Dalla inadeguatezza della creatura investita da un forza sovrabbondante consegue che le offerte sono molteplici. Per cui la casualità non è l’espressione di una debolezza della forza creatrice, ma di una sua ricchezza. Essa offre infatti molte possibilità, per cui in alcune situazioni fiorisce in un particolare modo, in altre circostanze si esprime in modo diverso. I credenti difensori della casualità non negano perciò la causalità creatrice, ma si richiamano invece alla sovrabbondanza della medesima in quanto offre molteplici possibilità e si esprime nel gioco imperfetto e casuale delle dinamiche create. Quello che per noi è importante, da un punto di vista della fede, è che la casualità non si deve spiegare necessariamente con la nostra ignoranza dei fenomeni. In realtà l’azione creatrice, nella pienezza della sua perfezione, offre molte possibilità e non ne impone una sola. La creatura, d’altra parte, non può accogliere l’offerta divina completamente in un istante solo, ma solo a frammenti in una lunga serie di eventi. Ne consegue che il processo evolutivo è sempre accompagnato dalla imperfezione e dal male finché non perviene a conclusione. Il processo si svolge perciò attraverso tentativi spesso fallimentari e con involuzioni ed errori. Il caso non dipende dalle insufficienze della causa creante, o dalle sue scelte, bensì dalla sovrabbondanza delle offerte e dai limiti della creatura, che di fronte alla molteplici possibilità offerte non è in grado di scegliere sempre in modo coerente e perfetto. La fede in Dio creatore perciò non esclude processi casuali in molti eventi del creato, anzi li esige. Lo stato incompiuto e imperfetto delle creature, infatti, implica una causalità parziale e inadeguata, per cui la ricchezza delle offerte contenute nell’energia creatrice si esprime in una varietà di effetti anche quando parte dalle stesse condizioni. Dio non è ingegnere o architetto, bensì creatore. La sua causalità è sovrabbondante: nella complessità e nell’intreccio delle cause offre molte possibilità.
Gli eventi casuali perciò non sono espressione di Causa debole e incerta bensì ricca e sovrabbondante. Il punto in questione non è tanto la presenza o meno di un progetto intelligente, quanto la modalità della sua eventuale attuazione. Il problema non è se esista o meno una finalità intrinseca all’evoluzione dei viventi, bensì in che modo, per quali vie e con quali mezzi esso venga realizzato. Per il credente ciò che è in gioco non è tanto la fede in Dio creatore quanto il compito che Egli affida alle creature nel processo evolutivo. Esse debbono solo seguire un percorso già segnato nei minimi dettagli, oppure devono invece aprirsi varchi nuovi nella struttura complessa della realtà? Nella concezione tradizionale che il card. Schönborn difende e in nome della quale respinge la visione neodarwiniana, il progetto divino sarebbe già formulato nei minimi particolari e i mezzi sarebbero predisposti secondo dati già iscritti in modo deterministico, nelle strutture embrionali dei viventi. Sostenere invece la casualità dei processi e l’imprevedibilità dei loro sviluppi nelle varie tappe dell’evoluzione significherebbe negare la causalità di Dio e togliere ogni fondamento alla Sua provvidenza. Questa convinzione spiega il tono apodittico delle affermazioni di Schönborn. Il neodarwinismo, invece, pur ammettendo l’evidente progettualità nelle funzioni e nelle dinamiche dei viventi, sostiene che essa non è stata fissata e si evolve anche attraverso eventi casuali. Con un termine introdotto da Jacques Monod tale progettualità, per evitare i termini connessi alle cause finali, viene chiamata teleonomia.
Anche i credenti che accettano la prospettiva neodarwiniana sostengono che l’azione di Dio non si sviluppa secondo le modalità delle creature. Dio cioè non opera con azioni create modificando le opere degli esseri viventi e adattandole alle diverse circostanze. Egli è sempre e solo creatore, offre cioè con la propria presenza l’energia necessaria al processo facendo sì che le cose siano in grado di
essere e di operare. L’azione creatrice, perciò, non traccia la strada dell’evoluzione, bensì conferisce ai viventi la forza perché loro stessi siano in grado di aprirsi un varco attraverso le strutture spesso resistenti e ostili della natura. Ad essi, secondo le circostanze e le varie influenze ambientali, spetta il compito di trovare la strada della propria evoluzione e di creare i mezzi per percorrerla. L’azione creatrice accompagna sempre il processo evolutivo nel senso che ne alimenta lo sviluppo offrendo possibilità, ma non determinando le forme che esso dovrà assumere di volta in volta. La tensione, ad esempio, verso il rapporto necessario con altre creature che abita ogni vivente, può avere numerosissimi sbocchi anche partendo dagli stessi presupposti. Che questa esigenza giunga ad esprimersi con organi visivi o uditivi o tattili o di altro genere dipende a volta da circostanze fortuite e imprevedibili. In alcune specie viventi questa necessità ha assunto una forma assai diversa da altre. La natura, una volta scoperta una strada, la sviluppa adattandola a situazioni molto varie.
Per chiarire l’idea, porto un esempio ipotetico che mette in luce la differenza fondamentale di prospettiva tra le due visioni all’interno della stessa fede in Dio creatore e provvidente. Nel caso in cui i dinosauri non fossero stati eliminati da eventi esterni (come la caduta di un grosso meteorite sessanta milioni circa di anni or sono o fenomeni di altro tipo secondo le varie ipotesi), e se quindi i mammiferi non avessero avuto la possibilità di quella libera evoluzione di cui hanno di fatto goduto successivamente, come si sarebbe realizzata la volontà divina di creare una immagine terrena della sua perfezione? Che forma avrebbe assunto l’ambito della intelligenza e della libertà? Che modalità avrebbe acquistato l’eventuale figliolanza divina sulla terra? Che tipo di umanità (se vogliamo usare questo termine in senso generico) sarebbe sorta? Molto diversa dall’attuale.
La tensione che la forza creatrice induce nei processi evolutivi verso le forme più elevate avrebbe aperto nuove vie attraverso i dinosauri i cui discendenti dopo diversi milioni di anni avrebbero espresso quella complessità cerebrale che invece è emersa nell’evoluzione dei mammiferi ed è giunta ad esprimersi nella straordinaria complessità del cervello umano. Il principio antropico avrebbe avuto un nome diverso, ma avrebbe ugualmente riconosciuto l’importanza delle condizioni iniziali per il futuro di quella particolare forma di vita intelligente che è stata impedita ai successori dei dinosauri da un evento fortuito, mentre invece è stata resa possibile ai mammiferi, divenuti padroni della terra.
Per la nostra sensibilità, sviluppata nella illusione millenaria di essere il centro dell’universo, una riflessione di questo tipo è sconvolgente, ma rispetta tutti i dati della fede in Dio creatore. Il risultato risponde infatti ad un progetto di Dio nel senso che la forza creatrice introduce nel processo la tensione verso una figliolanza divina. Ma che essa assuma una forma o l’altra è secondario, anche perché importante è solo la modalità definitiva che la figliolanza divina assumerà quando Dio sarà tutto in tutti. Modalità certamente molto diversa da quella raggiunta sulla terra dagli umani.
Anche il disordine della creazione in questa luce è comprensibile: l’azione creatrice non riesce ad esprimersi adeguatamente essendo le realtà incompiuta ed il processo ancora in corso. Solo al termine l’ordine sarà stabilito e la perfezione sarà realizzata in uno stato definitivo. Il teologo quindi pensa che l’esistenza umana in quanto ordinata ad una dimensione spirituale, che ha una carattere superiore, possa essere ragione sufficiente di tutto il disordine dei processi in corso. Vale la pena portare una situazione caotica imperfetta se essa consente l’emergere di una dimensione definitiva e compiuta, quale è quella dei figli di Dio.
Questa acquisizione della fede può diventare luce per vedere il mondo in una prospettiva diversa, ma non può mai interferire con il lavoro degli scienziati il cui sguardo resta a livello dei fenomeni.
È quindi opportuno che il teologo utilizzi il linguaggio dello scienziato quando descrive i fenomeni della natura. Il caos, infatti, e il disordine caratterizzano tutti i processi, anche quelli orientati verso un qualche traguardo loro fissato dalla acquisizioni accumulate nel lungo processo evolutivo e registrate nelle memorie della natura. La tensione a forme più complesse non si esprime sempre in processi ordinati e compiuti, bensì in fenomeni a volte imperfetti e caotici. L’uomo tuttavia è in grado di vivere tutte le situazioni in modo da conferire loro una ragione superiore. In tale modo egli introduce un ordine nuovo nel corso dei processi storici e ne può rivelare l’intelligenza profonda che li ispira. L’uomo diventa così componente attiva, strumento dell’amore che «muove il sole e l’altre stelle».

ONNIPOTENZA DIVINA, PREGHIERA E MIRACOLO

Poiché l’azione creatrice non appare mai distinta dall’azione delle creature, non si aggiunge e non si sovrappone, ma la rende possibile alimentandola dal di dentro, si possono analizzare tutti i processi della vita e della storia senza mai cogliere un’azione diversa da quella delle creature. Anche i salti qualitativi dei processi evolutivi, a livello dei fenomeni, non richiedono altre forze che quelle delle creature in azione. L’azione creatrice contiene da sempre le ricchezze vitali che emergono nella successione del tempo, ma esse possono essere accolte solo a frammenti secondo la complessità delle strutture create. Ne consegue che l’azione divina nella creatura è sempre limitata.
Dio non è onnipotente nella creatura. Dio è onnipotente in sé perché tutta la perfezione divina viene comunicata e accolta nelle dinamiche della Trinità santa. Dio esprimerà la sua onnipotenza nel compimento della storia umana «quando sarà tutto in tutti» (1 Cor 15,28). Ma nella fase attuale Egli non può esprimere tutta la sua perfezione nelle creature e nella storia.
In questa prospettiva anche la preghiera acquista nuova luce Dio. Pregando non diciamo a Dio quello che deve fare, ma consentiamo a Lui di realizzare in noi ciò che possiamo compiere per gli altri. La preghiera così è l’anelito dello Spirito o della Vita, che in noi si esprime in stati d’animo, in attese, in tensioni interiori. Non sono le formule umane a costituire la preghiera cristiana, bensì la Parola di Dio e l’azione dello Spirito, che in noi fioriscono. Da parte dell’orante, quindi, la preghiera è sintonia vitale, ascolto, accoglienza della Potenza divina che nelle persone assume forma creata.
È un atteggiamento interiore ed è coinvolgimento corporale.
La prima condizione della preghiera è il silenzio. Il nostro spirito infatti, se è invaso dai rumori degli eventi transitori o dal rimbombo alienante delle cose, non può percepire il leggero soffio dell’azione divina che si insinua nelle fibre più profonde della nostra realtà. Dio non si pone di fronte alla creatura dall’esterno, come le altre persone e le cose, bensì traspare dall’interno della nostra struttura creata come la sorgente e la fonte indefettibile della vita. Pregare non è quindi recitare formule, né compiere riti sacri, ma è fare silenzio per sintonizzarsi con la parola creatrice e armonizzarsi con le dinamiche profonde della vita. Per giungere al silenzio può essere utile anche recitare formule o compiere gesti, e a volte, anzi, è necessario, ma la preghiera come tale consiste in atteggiamenti che consentono la sintonia con la parola di Dio e fioriscono soprattutto nel silenzio interiore. Pregando, perciò non dobbiamo pensare che Dio stia di fronte a noi in ascolto delle nostre lodi, dei nostri ringraziamenti e delle nostre richieste. Egli è alla radice di tutto ciò che desideriamo e pensiamo. Egli è il termine verso cui siamo irresistibilmente attratti. Non possiamo, però, ritenere di essere capaci di ascoltare parole divine nella loro forma trascendente. Noi ascoltiamo sempre e solo parole umane. Non possiamo dire che cosa sia Dio e neppure pretendere di chiuderlo nei nostri concetti, come quello di persona. Solo nel rapporto vissuto cogliamo la sua presenza in noi, presenza che trascende la nostra possibilità di comprensione e di espressione. Il rapporto che si stabilizza e si sviluppa nella preghiera è di carattere eminentemente personale perché termina alla Realtà suprema e alla fonte della nostra struttura di creature. Non c’è alcun rischio di confusione: la creatura non è Dio. Nella preghiera Dio è colto eminentemente più eccelso e grande di tutte le sue creature. Rientrare nel tempio interiore per cogliere la realtà di Dio, però, non significa chiudersi in se stessi. Dio incontrato nella preghiera apre a tutta la creazione e alla storia intera. Soprattutto per il cristiano, che si riferisce a Dio rivelato da Cristo, nella preghiera risuona il pianto dei sofferenti e l’invocazione dei poveri, le gioie, gli amori e le speranze di cui gli uomini sono soggetti.
La preghiera, in questa prospettiva, è l’esercizio quotidiano per aprirsi alle forme nuove di esistenza, per accogliere la forza creatrice in modo da esserne sempre pieni. Gli altri, le esperienze e i rapporti sono l’ambito di questa rivelazione e di questa offerta. La crescita della dimensione spirituale dell’uomo è resa possibile dalle offerte continue di vita che gli altri ci fanno ed è condizionata dall’atteggiamento di accoglienza, di cui la preghiera è un continuo alimento.
In questa luce si comprende anche il significato del miracolo. Il miracolo è comunemente pensato come un intervento straordinario di Dio. In realtà il miracolo è sempre un’azione di creature: «La tua fede ti ha salvato», dice di solito Gesù a chi viene guarito. Il miracolo è una più perfetta accoglienza e interiorizzazione dell’azione creatrice attraverso la quale Dio fa operare la creatura. È la fede che consente il miracolo, è la preghiera che mette la persona in sintonia con Dio in modo che essa permetta all’azione creatrice di dispiegarsi più pienamente. Ci sono giorni in cui si è più disposti a fare un buon lavoro, e altri giorni in cui tutto sembra essere obnubilato e non si riesce a fare nulla. L’umore può limitare le nostre capacità e possibilità. Allo stesso modo l’azione di Dio può essere limitata dalle nostre cattive disposizioni. Quando invece ci trova completamente disponibili, essa è in grado di esprimersi anche in forme straordinarie.

 

 




gioia e fatica di vivere

 

 

bellezza e difficoltà del vivere umano

… e Dio?

la vita e il vivere sono cosa bella e buona: lo senti d’istinto, almeno in condizioni di normalità
la vita offre anche le sue difficoltà: non è decisamente sempre facile vivere, le difficoltà sembrano costituire un ostacolo alla fede e l’esistenza del male sembra negare l’influenza di Dio nella storia
il teologo C. Molari con l’acutezza che lo contraddistingue riflette opportunamente su questo: “per capire come vivere le situazioni di disagio e come attraversare in modo positivo le sofferenze è opportuno analizzare quali sono le loro radici e perché sono componenti essenziali del cammino. Esistono varie cause che rendono difficile la vita dell’uomo: il limite di tutte le creature, la incompiutezza della condizione umana, la casualità e la complessità degli eventi, il male e il peccato” :
Molari
LA BONTÀ DI DIO E LA DIFFICOLTÀ DI VIVERE
di Carlo Molari
La prima domanda che ci poniamo è se le difficoltà del vivere sono uno stimolo o
un impedimento alla fede in Dio. Nella pietà popolare molte ricorrenze religiose, a volte con larga partecipazione di popolo, si richiamano a situazioni tragiche della
storia passata: terremoti, incendi, pestilenze, guerre. Non pochi santuari sono legati a eventi ritenuti miracolosi quali la salvezza dalla peste, la fine di una carestia o della siccità, la sopravvivenza dopo guerre sanguinose ed eventi simili. Sembrerebbe che situazioni di sofferenza o di rischio estremo abbiano stimolato l’esercizio della fede in Dio. Oggi però ci chiediamo se questo tipo di fede sia ancora praticabile e da favorire. I processi culturali che stiamo vivendo portano infatti a considerare il problema in modo diverso. Le difficoltà del vivere sembrano costituire un ostacolo alla fede in Dio. L’esistenza del male resta uno degli argomenti più frequenti e gravi a cui gli atei ricorrono per negare Dio o almeno per contestare la sua influenza nella storia. La vita sulla terra è passata attraverso immani tragedie, il 90% delle specie viventi apparse sono scomparse per eventi catastrofici. Se Dio è creatore buono e misericordioso, come mai la creazione procede attraverso sofferenze, contrasti, tragedie, fallimenti? Per capire come vivere le situazioni di disagio e come attraversare in modo positivo le sofferenze è opportuno analizzare quali sono le loro radici e perché sono componenti essenziali del cammino. Esistono varie cause che rendono difficile la vita dell’uomo: il limite di tutte le creature, la incompiutezza della condizione umana, la casualità e la complessità degli eventi, il male e il peccato.
Il limite della creatura.
Spesso noi pensiamo che essendo Dio perfetto anche le creature debbano esserlo. La deduzione è completamente errata, perché le creature non sono Dio. Esse sono tempo e hanno spazi di accoglienza limitati. Possono perciò interiorizzare la perfezione solo a frammenti, lungo i complessi sviluppi dell’evoluzione. Tutti i processi creati, cosmici e storici, sono imperfetti perché si sviluppano nel tempo. Ciò vale a maggior ragione per la creatura umana, che essendo la più complessa della terra, è giunta a consapevolezza e avverte l’esigenza di perfezione. Spesso noi pretendiamo dagli altri e da noi stessi la perfezione: vorremmo che l’amore che esercitiamo fosse totalmente gratuito, che i nostri pensieri fossero adeguati alla realtà, che le nostre parole corrispondessero a quello che sentiamo. Invece cozziamo costantemente contro la durezza del reale e dobbiamo fare i conti con i suoi limiti. Essere consapevoli di questa condizione è fondamentale per capire la nostra situazione e per viverla bene. La condizione di incompiutezza. Appunto perché limitate, tutte le creature sono relative ad altre creature e hanno bisogno di essere completate. Il pensiero classico partiva dal presupposto che la realtà avesse una consistenza in sé e considerava la relazione come atto conseguente ad una perfezione già costituita. La scienza moderna invece constata che tutto è costituito in relazione e che le cose non sussistono in se stesse ma per il rapporto che hanno con altre. Più la creatura è complessa, come la nostra specie, più è intimamente connessa ad altre realtà e può svilupparsi soltanto alimentando relazioni con loro. Questa modalità di pensiero sconcerta le generazioni adulte, abituate al modello statico e al concetto di natura, ma è una mutazione oggi necessaria. Finché non si vivrà nella consapevolezza della rete vitale nella quale siamo strutturalmente inseriti e non si assumeranno gli atteggiamenti corrispondenti, si troveranno sempre difficoltà a vivere. Anche la fede in Dio può contribuire alla realizzazione di questa mutazione spirituale. Il caos. Caos in greco significa spazio vuoto, massa originaria informe. In fisica caos indica un sistema complesso ipersensibile nel quale fattori iniziali minimi lungo il processo generano grandi conseguenze non prevedibili. I fisici hanno appurato e cominciato a studiare i processi non lineari, nei quali cioè gli effetti influiscono sulla causa stessa modificando la prosecuzione dei processi in corso. Indica quindi un sistema nel quale le cause non appaiono regolari, le conseguenze non sono accertabili fin dall’inizio per cui le previsioni degli eventi possono essere fatte solo a breve termine come avviene per es. nei fenomeni atmosferici. Il determinismo scientifico – la convinzione che ad ogni causa corrisponda un dato effetto che possa essere previsto – è superato proprio dall’instabilità dei sistemi meccanici non lineari, nei quali a una determinata causalità corrisponde uno spettro probabile di effetti, senza poter determinare quale fra i tanti si realizzerà. Di qui deriva l’interesse attuale per i fenomeni caotici, ma insieme la constatazione dei limiti che derivano dalle conoscenze solo probabili e non certe. Prima si pensava che il limite fosse nella nostra conoscenza delle cause, oggi si è convinti che le stesse dinamiche sono aperte a soluzioni probabili diverse. Tutte le scienze sono coinvolte in questo cambiamento. Tutte le esperienze che compiamo sono ambito di processi caotici: le parole che diciamo, i gesti che compiamo, le decisioni che prendiamo hanno aloni di ambiguità. Dobbiamo accettare che molte azioni abbiano effetti diversi da quelli che prevediamo. Tutto questo non può essere evitato. La difficoltà del vivere dunque è al di là delle nostre responsabilità: la vita stessa crea difficoltà. Accettare il limite e l’ambiguità dell’esistenza è la condizione fondamentale per imparare a vivere. La fede in Dio ci consente di vivere tutte le situazioni in modo salvifico. Partendo da questo dato essa conduce all’esercizio della misericordia, della pazienza del tempo, alla capacità di accoglienza di tutti. Virtù che spesso, altrimenti non saremmo in grado di esercitare.
La casualità.
Ai processi non lineari e caotici si devono aggiungere gli eventi casuali. Sono eventi che non hanno una finalità in ordine al processo in cui si inseriscono. Essi hanno una causa efficiente ma non sono ordinati alla finalità per cui noi stiamo operando. Nell’evoluzione della vita e del cosmo spesso accadono eventi che non favoriscono anzi possono impedire e bloccare il processo in corso. Se per esempio cade un meteorite che provoca sconvolgimenti atmosferici e ambientali per cui scompaiono specie viventi. In ordine alla vita che si svolgeva sulla terra l’evento è casuale, non ha alcuna finalità in ordine alla vita. Può darsi che la vita si riprenda ma quell’evento come tale è contrario alle sue dinamiche. In questo senso casuale è l’evento che non si inserisce nei processi che sviluppano le dinamiche vitali, sul piano biologico, storico, personale. Alcuni sono stati educati a una visione provvidenziale, per cui pensano che tutto quello che capita sia voluto da Dio e che quindi abbia una finalità nascosta, favorevole alla vita alla crescita delle persone. Nei secoli scorsi non si considerava questa possibilità e si pensava che tutto ciò che accadeva fosse fissato e determinato. Si pensava di poter conoscere il passato e di poter prevedere il futuro quando fossero noti tutti i fattori in gioco, perché tutto sarebbe avvenuto con meccanismi fissi e determinati. Questa visione oggi è superata. Comprendiamo in modo radicalmente diverso la nostra condizione.
La complessità.
Un’altra componente della difficoltà nel vivere è la complessità. Essa connota due fattori diversi, uno oggettivo e l’altro soggettivo. L’aspetto oggettivo è la scoperta della condizione caotica di molte realtà che non hanno ancora raggiunto un ordine interno seppure vi potranno pervenire. Indica il vettore dell’evoluzione, la direzione assunta dal processo evolutivo che passa da forme elementari a forme sempre più organizzate, da legami forti e relativamente rigidi ad altri più deboli e flessibili. La relazione che intercorre tra complessità e energia dei legami tra le diverse componenti si colloca lungo una continuità e una sequenza logica, nella superficie dell’universo come nel nostro piccolo pianeta (Laslow). L’aspetto soggettivo della complessità indica la consapevolezza dell’impossibilità di gestire tutte le componenti del processo: non siamo in grado di gestire tutti i fenomeni nei quali siamo coinvolti. È caduta l’illusione di poter ridurre tutto a idee chiare e la realtà alle sue componenti elementari. Questa è una delle caratteristiche di quella che è chiamata la post-modernità. Il male. La sofferenza, il dolore, è una delle esperienze più sconcertanti per noi umani, anche in ordine alla fede in Dio: come mai la sofferenza? Quando poi si scopre che molta parte della sofferenza umana deriva dalla violenza, dall’incomprensione, dall’aggressività, dall’incapacità di comunione delle altre persone, diventa molto più concreta e quasi insopportabile la difficoltà di vivere. Nella concezione di Dio qualcuno ha parlato del Dio sofferente, io penso che sia un modo errato di proiettare la nostra condizione, però fa capire fino a che punto queste situazioni hanno sconvolto e hanno fatto pensare. Giovanni Battista Metz, teologo tedesco, ha sentito fortemente questa componente nel suo pensiero, soprattutto riferendosi a Auschwitz. Chi vuole riflettere su Dio non può dimenticare la sofferenza umana, il male della nostra vita. Metz si chiede: “è del tutto casuale che nella teologia si parli così tanto, in modo quasi euforico, di un Dio sofferente e compassionevole, proprio in un periodo in cui l’estetica e l’estetizzazione hanno assunto un ruolo chiave nella nostra cultura intellettuale? Parlando del Dio sofferente non si insinua forse nel nostro discorso qualcosa che può essere definita estetizzazione di ogni sofferenza? Soffrire è un mistero negativo che non può essere consegnato ad altri. Mi chiedo se non sottovalutiamo la negatività della sofferenza. La sofferenza nella sua radice è tutt’altro che compassione solidale, forte persino trionfante. Non è neanche espressione dell’amore, ma un indizio davvero terrificante che non siamo più capaci di amare. Soffrire porta al nulla se non è soffrire per Dio. Questo per me è uno dei motivi per cui esito a parlare di un Dio sofferente”. Io credo che abbia ragione. La sofferenza non può essere attribuita a Dio. In sé non è voluta da Dio ma è una conseguenza della nostra condizione incompiuta, imperfetta e transitoria. Quando le sofferenze sono causate da eventi naturali, come alluvioni o terremoti, sono occasioni per vivere la solidarietà. Spesso però la sofferenza è frutto della passione degli uomini e della loro violenza. Siamo noi stessi a provocare la sofferenza, la più insensata. Io credo che, tra qualche decennio o secolo, questa sarà considerata la deviazione più grave della nostra generazione: non ci rendiamo conto del male enorme che introduciamo nella storia attraverso le nostre scelte di guerra. Cominciamo dagli stati d’animo nei confronti degli altri: giudizi malevoli, aggressività, calunnie, atteggiamenti che introducono il male pensando di fare il bene. Noi troviamo sempre buone ragioni per fare il male. È la nostra condizione di imperfezione di cui dobbiamo prendere coscienza: stiamo facendo male, non trasmettiamo vita. Il nostro compito è sublime ma lo tradiamo continuamente.
Vivere la fede in Dio
Che cosa vuol dire vivere la fede in Dio in queste condizioni? Prima di tutto significa ritenere che esista la Vita in pienezza. Esiste il Bene, esiste la Verità, non siamo sospesi nel vuoto, c’è una realtà che non possiamo cogliere se non a piccoli frammenti ma è la roccia su cui siamo fondati. La fede è un percorso di accoglienza dei frammenti di vita che nelle diverse situazioni siamo in grado di interiorizzare. Il dato fondamentale della fede in Dio è la certezza che Dio è dalla nostra parte e non contro di noi. Non è là per vedere come noi ci comportiamo, ma dal di dentro ci sta alimentando e sostenendo perché possiamo pervenire alla vita piena. L’atteggiamento di fede, è appunto l’abbandono fiducioso alla forza che alimenta tutte le forme di vita, a quell’Amore “per cui tutti vivono” (cfr Lc. 20,38). Il secondo elemento concreto della fede è la convinzione che nessuna creatura ci può impedire di accogliere la forza di vita che in tutte le situazioni ci è offerta. Questo è fondamentale perché non troveremo mai condizioni di vita perfette quali noi desideriamo. A volte, anzi, proprio le situazioni più difficili e di maggiore sofferenza possono consentirci di accogliere più in profondità l’azione di Dio. In questo senso si capisce il significato che qualcuno attribuisce alla sofferenza. È possibile infatti in alcune esperienze dolorose, scoprire in modo nuovo la forza dell’azione di Dio. Ci possono essere situazioni di sofferenza che rendono possibile un’accoglienza straordinaria dell’amore di Dio, non perché si soffre, ma perché una forza di vita ci attraversa. La ragione della forza vitale non è la sofferenza che come tale è negativa, ma l’Amore che essa rende possibile. La conclusione è che in tutte le situazioni nelle quali ci veniamo a trovare possiamo esprimere potenza di vita, non solo accoglierla ma anche donarla. In questo flusso siamo costituiti viventi e siamo condotti alla pienezza. Noi siamo realmente in processo, per cui esistere non è semplicemente sviluppare ciò che siamo ma diventare ciò che ancora non siamo mai stati, per cui la difficoltà del vivere è il volto negativo della grandezza della vita. Proprio perché la vita è grande ci richiede di passare attraverso situazioni difficili. Questo è possibile affermarlo nella prospettiva di Dio: l’amore di Dio è così efficace e continuo che in tutte le situazioni ci offre vita: noi possiamo accoglierlo e donarlo, nessuna situazione ci può impedire di amare, cioè di accogliere l’amore di Dio e integrarlo nella nostra vita. Questo è il senso immediato e concreto della fede in Dio nelle situazioni difficili del vivere. Possiamo attraversare tutte le situazioni senza esserne schiacciati dal punto di vista spirituale, ma emergendo come figli di Dio. Questa è la nostra chiamata e il segreto della nostra gioia.

ad integrazione di queste riflessioni mi piace aggiungere anche quelle pronunciate nella Relazione tenuta a Cattolica al convegno “Amare e lasciarsi amare”, 2-6 gennaio 2010:

 

La forza della vita

rosa rossa bella

ABBANDONARSI ALL’AMORE

E’ questo atteggiamento che ora vorrei illustrare brevemente. Lo chiamiamo abbandono in Dio, fiducia, affidamento. Ho già detto che esso implica la convinzione che esista una Vita piena, una Verità assoluta, un Bene senza imperfezioni, un’energia creatrice. È un punto però da chiarire, perché parlando di forza arcana, si corre il rischio di pensare a un’energia impersonale che ci avvolge e rende possibile il nostro sviluppo. Certo per noi che crediamo in Cristo la cosa è molto più facile, perché in Gesù la forza creatrice si è rivelata come amore gratuito, radicale e universale. E l’amore suppone la dimensione personale: se il principio ama e suscita amore è certamente persona. Questa conclusione la condividono anche molti altri credenti. Quando possiamo sperimentare che l’azione creatrice, la forza della vita, può far fiorire l’amore in forme straordinarie, possiamo capire che essa ha un carattere personale. Per noi cristiani Gesù è icona di Dio, perché Egli è giunto ad una espressione di amore che ancora appare straordinario. Anche quelli che non riconoscono la messianicità di Gesù affermano che la sua proposta di amare i nemici e la testimonianza radicale che ne ha dato contraddice fondamentalmente l’istinto dell’uomo ed è impraticabile dalla totalità della gente. Questa posizione è continuamente contraddetta dalla presenza dei santi, quelle persone autentiche che mostrano la possibilità di pervenire a traguardi nuovi di amore e di dedizione al bene comune.
Questa è la convinzione di fondo della fede in Dio: esiste già il Bene che rende possibile l’amore umano anche nelle sue forme nuove e radicalmente innovatrici. Ma il punto è che non basta questa convinzione perché il cammino venga compiuto. È necessario che ci siano luoghi, ambiti, comunità, famiglie, dove i rapporti vengono vissuti in questo orizzonte, così da diffondere nel mondo modalità nuove di convivenza. È necessario, cioè, che molte persone vivano insieme nella consapevolezza che una forza più grande può far fiorire qualità nuove e possano incontrarsi capaci di offrirsi reciprocamente doni di vita.
Questa convinzione e l’atteggiamento corrispondente suppongono la legge della incarnazione: che cioè solo creature possono introdurre nella storia modalità nuove di vita. Molti credenti di fronte alla constatazione del degrado morale della società, dell’inquinamento fisico e biologico provocato dai comportamenti umani, affermano: è vero, ma alla fine Dio provvede. Questo modo di ragionare è errato e corrisponde a un’immagine di Dio insensata. Si è detto più volte in questi giorni che l’immagine di Dio deve continuamente cambiare, perché deve corrispondere ai modelli culturali e alle esperienze che gli uomini compiono. Ora nella prospettiva dinamico-evolutiva che ho cercato di richiamare, l’azione di Dio non sostituisce mai le creature, perché è un’azione che le alimenta e le costituisce. Dio crea perché le creature siano e operino secondo la loro propria natura. Dio non creerebbe se dovesse sempre operare al loro posto. La perfezione eterna creando si esprime sempre e solo nei limiti della creatura. Non c’è un amore sulla terra che non sia amore umano, non c’è pensiero che circola tra gli uomini che non abbia forma umana, non c’è azione che non sia compiuta da creature. Tutto ciò che esiste è sostenuto dall’azione divina ma ha una sua propria consistenza, distinta dalla realtà divina.
Se Dio nella creazione e nella storia opera sempre attraverso creature occorre rivedere il concetto di onnipotenza. Dio può essere detto onnipotente in sé, perché tutta la perfezione è offerta e accolta nelle relazioni e nelle dinamiche trinitarie. Ma Dio non è onnipotente nella creazione e nella storia. Spesso si dice “Dio può tutto”. Se ci riferisce ai processi della creazione e della storia, questa formula non è esatta. Dio è sempre legato al tempo e quindi al limite della creatura. In questo senso noi sì, chiamiamo Dio onnipotente nel Credo, ma Dio è onnipotente in sé, non nella storia, non nelle creature, perché nelle creature assume la modalità della creatura.
Affidarsi a Dio quindi vuol dire ritenere che la sua azione in noi diventa nostra capacità di agire, diventa nostro amore. Se non diventasse nostro amore, l’amore non esisterebbe sulla terra. L’azione divina come tale riguarda le persone ma non può intessere rapporti fra persone. L’amore di Dio quindi nelle creature deve diventare amore di creatura per esprimersi e l’amore delle creature è segnato sempre dal loro limite.
Questa è la legge dell’incarnazione. Gesù, che consideriamo incarnazione di Dio, non è un essere divino calato sulla terra che ha vissuto una perfezione divina. È la realtà umana fiorita all’interno di una comunità, il piccolo resto di Israele, che aprendosi con fiducia all’azione divina ha reso possibile una rivelazione inedita di Dio. Dal tronco di Jesse, è germinata una nuova umanità. Attraverso l’amore di coloro hanno fatto crescere Gesù, Dio ha potuto aprire un varco nuovo alla corrente di vita che nasce dal flusso del processo trinitario. Per questo amore Gesù “cresceva in sapienza, età e grazia” (Lc 2, 52). Egli è nato che non sapeva parlare, non sapeva amare, non sapeva camminare, non sapeva pregare. Giuseppe e Maria gli hanno insegnato a pregare, gli hanno insegnato a leggere le Scritture, gli hanno insegnato ad amare. L’ambiente in cui è cresciuto – un ambiente ristretto, ma qualitativamente molto ricco dal punto di vista spirituale – ha reso possibile la crescita di un uomo che è giunto ad un’espressione estrema di amore. Così ha introdotto una qualità nuova nella storia umana, ha aperto una strada inedita per il cammino degli uomini.
Questa avventura continua ancora e l’esperienza di Gesù resta il nostro riferimento. Non possiamo pensare che Dio possa fare qualcosa al nostro posto. Noi possiamo affidarci talmente, aprirci così all’azione di Dio in noi, alla forza della vita, a quell’energia che alimenta la storia, da diventare noi capaci di esprimere un amore inedito e da far crescer figli di Dio attorno a noi. È questa possibilità che richiede quell’affidamento totale, quell’apertura senza riserve di cui stiamo parlando.
Quando ci affidiamo all’Amore intendiamo consentire che l’energia creatrice diventi in noi azione nuova. Dio non può amare al nostro posto o aggiungere dall’esterno una qualità nuova alla nostra vita, o far piovere dal cielo una persona inedita. L’azione creatrice fa crescere l’umanità dal di dentro. È necessario perciò che vi siano ambiti in cui i rapporti sono vissuti nell’orizzonte teologale, nella convinzione, cioè che ciascuno possa offrire ad altri una forza di vita per la crescita definitiva. Posso vivere ogni rapporto nella consapevolezza che la persona che mi sta dinnanzi con il suo gesto, il suo pensiero, la sua esperienza offre doni di Vita per crescere. Anche se la persona è diversa da me, anche se pensa in modo opposto, al limite, anche se mi odia, posso vivere quella situazione in modo positivo, se mi affido, cioè se mi apro all’azione di Dio, che anche lì è presente. Non perché Dio voglia l’odio o il disprezzo, ma perché il suo amore è più forte dell’odio degli uomini. La sua azione perciò può farmi pervenire doni di vita anche in una situazione negativa o che io considero tale. Gesù è pervenuto ad un atto supremo di amore proprio in una situazione di violenza e di odio. Gesù è pervenuto a una forma radicale di amore perché la situazione di violenza e di odio esigeva una qualità d’amore, in altre circostanze forse mai richiesta. Credo si possa dire che il tipo di amore che Gesù ha esercitato sulla croce prima non l’aveva mai esercitato in quella profondità e in quella misura. Era una situazione che richiedeva e quindi rendeva possibile una fedeltà all’Amore, un’accoglienza dell’azione di Dio così profonda e radicale, da esprimersi in una misericordia straordinariamente efficace.
In questo senso la Croce è simbolo di un affidamento a Dio senza riserve, senza ipoteche, senza ricatti. Simbolo di gratuità pura. Quando l’amore giunge ad essere radicalmente gratuito esprime la piena maturità della persona.
Doppiamo però renderci conto che anche nella maturità il nostro cammino resta segnato dal limite, dalla debolezza e quindi dalla progressività. Non possiamo illuderci di potere realizzare progetti assoluti. Possiamo indicare qual è il traguardo verso il quale andiamo, ma consapevoli che i passi possibili sono passi compiuti nei ritmi del tempo, giorno dopo giorno. Il cammino implica quindi la fatica quindi di apprendere ad amare ogni giorno, per non venir meno al compito che ci è stato affidato. Non possiamo dire “ora ci sono, ora so, ora sono capace”. No, sono sempre in cammino, non posso mai fermarmi, né so quello che mi sarà chiesto il giorno dopo. Dovrò essere così aperto alla forza della vita, alla sua azione, da poter ogni giorno rispondere: “Eccomi, io vengo”. E questa risposta costituirà la struttura della nostra esistenza di creature. Accoglieremo il tempo e vedremo nella successione dei nostri giorni quell’opportunità straordinaria che la Vita ci offre, che Dio ci rinnova continuamente: la possibilità di diventare figli suoi.
 




il dio in cui non credo C.Molari

anemoni rossi
1. 1. IL DIO DELLA PURA RAGIONE: IN QUESTO DIO NON CREDO, NON MERITA FEDE, NON MERITA FIDUCIA, NON È SUFFICIENTE. C’è un ateo convertito, morto nell’aprile scorso, un filosofo molto noto, Anthony Flew, che a quindici anni aveva fatto la scelta dell’ateismo. Quando nel 2004 fu chiamato negli Stati Uniti in un grande teatro per confrontarsi come ateo con tre teologi, prima di cominciare il dialogo dichiarò di aver cambiato idea. Successivamente ha giustificato il suo cammino razionale. In realtà Flew è giunto alla credenza in Dio attraverso la riflessione filosofica, ma non è giunto alla fede in Dio, cioè a considerare Dio come riferimento delle proprie decisioni, per giungere a conoscere e ad amare in un modo nuovo. Se non scopri che è un Dio che ti ama e che ti consente di giungere ad una forma nuova di vita, un Dio che salva a che ti serve? […]

2. NON CREDO NEL DIO CHE OPERA NELLA CREAZIONE E NELLA STORIA INTERVENENDO, MODIFICANDO LE SITUAZIONI, COMPLETANDO LE CREATURE, RIMETTENDO IN FUNZIONE I MECCANISMI DELLA CREAZIONE E DELLA STORIA QUANDO SI INCEPPANO. L’azione di Dio è un’azione creatrice che offre possibilità, che alimenta il processo, ma che non si sostituisce mai alle creature, proprio perché fa esistere ed operare le creature. […] Dio è provvidente non nel senso che risolve tutti i problemi, ma nel senso che, ovunque l’uomo si venga a trovare, il suo amore è tale che può condurlo al suo compimento. Dio non può risolvere alcun problema storico se non ci sono creature che aprendosi alla sua azione indicano e realizzano la soluzione. Il «dio tappabuchi» non può essere il Dio della fede.

3. NON CREDO NEL DIO CHE PUNISCE I PECCATI CHE MANDA LE PESTILENZE PER FAR RAVVEDERE GLI UOMINI. Per moltissimo tempo si è pensato così. San Carlo Borromeo, in occasione di una pestilenza a Milano, organizzò una grande processione. Il santo portava la pesante croce di legno col sacro chiodo davanti a tutti invocando la misericordia di Dio. Scrisse poi al cardinale di Bologna esprimendo la sua gioia perché le chiese non erano mai state piene come in quei giorni. La peste, a suo giudizio, era stata lo strumento di Dio per il ravvedimento del popolo. Il segno chiaro che questa interpretazione era giusta stava nel fatto che «nonostante l’assembramento numeroso della gente che si era raccolta a pregare, non si era verificato nessun altro caso di peste».

4. NON CREDO NEL DIO CHE CAMBIA ATTEGGIAMENTO PER LA PREGHIERA DEGLI UOMINI. Come se noi pregando sollecitassimo Dio a fare qualcosa di nuovo. È una pretesa insensata, un modello antropomorfico. La preghiera ha un grande valore perché mette in moto in noi dinamiche di novità e di cambiamento, non perché modifica l’atteggiamento di Dio […] ma perché noi accogliamo la sua azione in modo molto più profondo e ricco.

5. NON CREDO IN UN DIO CHE PUÒ FARE LE COSE PERFETTE DALL’INIZIO PERCHÉ LA CREATURA È TEMPO E PUÒ ACCOGLIERE IL DONO SOLO A FRAMMENTI, NELLA SUCCESSIONE. Dio è eterno, è pienezza di vita, è perfezione compiuta, ma la creatura è tempo e non può accogliere l’offerta divina tutta in un solo istante. Non ci può essere una creatura perfetta all’inizio. Nella prospettiva evolutiva si capisce bene che Dio alimenta il processo continuamente, cioè la creazione continua tuttora. Il compimento è il traguardo del cammino, la perfezione piena è solo alla fine.

6. NON CREDO NEL DIO CHE VUOLE LA RIPARAZIONE DEL MALE ATTRAVERSO LA CROCE DI CRISTO O PER MEZZO DI COLORO CHE SI UNISCONO ALLA SUA SOFFERENZA. Dio non vuole che gli uomini siano nel dolore, e quando qualcuno soffre Dio è dalla sua parte per sostenerlo nel suo cammino, perché possa giungere ad amare anche in quella condizione. I santi che hanno attraversato grandi sofferenze si sono santificati per l’amore a cui sono pervenuti. Lo stesso Gesù è giunto ad un amore supremo sulla croce e per questo è risorto. Amando Gesù ci ha salvato: è redentore non perché ha sofferto, ma perché la sofferenza è stata l’ambito in cui l’amore è fiorito in forme sublimi.

7. NON CREDO AL DIO CHE PARLA ALL’UOMO CON PAROLE UMANE. Dio parla nel silenzio perché non pronuncia parole umane, bensì divine, per noi silenziose. La sua Parola però alimenta la nostra vita come forza creatrice. Il contatto con Lui ci rigenera. Ma questo contatto non diventa parola, non diventa idea, non diventa immagine, bensì diventa esperienza vitale, evento di storia. Quando diciamo che la Scrittura è “parola di Dio” dobbiamo intendere la formula in senso analogico cioè di relazione. La Parola è quella forza di vita che ha suscitato gli eventi di salvezza, narrati dagli uomini secondo i modelli con cui li hanno vissuti e interpretati, e trascritta secondo i modelli culturali del tempo. Il processo che ci consente di cogliere il senso della Parola è rivivere le esperienze di fede che hanno caratterizzato l’evento narrato, coglierne la trama divina, e percepire nel silenzio la presenza che le ha rese possibili.

8. NON CREDO NEL DIO DEL PROGETTO INTELLIGENTE (intelligent design) COME LO PRESENTANO I GRUPPI STATUNITENSI CHE SI BATTONO PER INTRODURRE NELLE SCUOLE L’INSEGNAMENTO ALTERNATIVO ALL’EVOLUZIONISMO NEO-DARWINISTA. Dio della fede non è semplicemente il Dio delle origini ma del processo nella sua interezza. Le cause dei processi cosmici sono imperfette e il male accompagna sempre lo sviluppo della vita sulla terra. Il caos e la complessità caratterizzano molti eventi, perché Dio non interviene con azioni puntuali nelle situazioni della storia. L’azione divina in ogni circostanza offre molte possibilità per cui la casualità ha una parte importante nel divenire cosmico e negli eventi della storia. Il progetto salvifico si può realizzare anche attraverso fallimenti, vicoli ciechi, eventi casuali e imprevedibili che costellano il cammino evolutivo.




il ‘proprio’ della fede cristiana

crocifisso

altre religioni hanno carismi diversi, quella cristiana è definita dalla croce: essa è diventata nel mondo il simbolo di una solidarietà che non teme la condivisione della morte, di una compassione che sa portare il male altrui fino all’estremo della sofferenza, di una misericordia che sa esprimere perdono in tutte le situazioni   C.Molari